Hans Kelsen vita e opere

Hans Kelsen vita e opere

 

 

 

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Hans Kelsen vita e opere

 

Hans Kelsen (Praga 1881, Berkeley 1973)

1. i passaggi storici cruciali del ‘900 impongono la riflessione sul vivere sociale e sulla politica istituzionale contemporanea
2. le radici e le eredità culturali operative nella definizione di una teoria del diritto puro
3. dottrina pura del diritto e teoria del diritto positivo: Lineamenti di dottrina pura del diritto 1934 Teoria generale delle norme, 1979
4. il progetto nella sua articolazione politica: dottrina del diritto puro, positivismo giuridico e democrazia.
5. per una difesa del relativismo essenza e salvezza della democrazia

Opere
Kelsen Hans, 1934, 1960 Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 2000
Kelsen Hans 1929-1953 I fondamenti della democrazia, il Mulino, Bologna 1966
Kelsen Hans 1979 Teoria generale delle norme, Einaudi Torino 1985

1. i passaggi storici cruciali del ‘900 impongono la riflessione sul vivere sociale e sulla politica istituzionale contemporanea: contesto della teoria del diritto puro
Visti i tragici eventi della storia politica e sociale del ‘900 si impone l’urgenza di garantire la certezza del diritto; si impone quindi una teoria del diritto puro e condiviso; puro per l’autonomia della sua costituzione e per il suo carattere formale (come nel metodo kantiano), condiviso per la scelta di “illuminismo”, di fare affidamento sulla ragione. Con quali modalità e con quali esiti.
«…il problema dell’instaurazione dello Stato, per quanto ciò possa suonare aspro, è risolvibile anche da un popolo di diavoli (purché abbiano intelletto)» (Kant Per la pace perpetua) Se anche un popolo di diavoli (purché dotato di intelligenza) è spinto a costituirsi in uno Stato vale dunque l'assioma che la natura vuole irresistibilmente che il diritto finisca per trionfare.
Se è una società di diavoli che si rispetti, quelle regole non hanno un fondamento morale, né fanno capo a principi assoluti che si debbano rispettare (siamo pur sempre diavoli, che diavolo!); quindi si rispettano perché esistono e esistono perché emanate. Il sito “una società di diavoli” (più tragico, forse, più contemporaneo e meno moderno di una altrettanto ipotetica situazione quale “lo stato di natura”) si rivela, probabilmente, la sede ipotetica ideale per capire cosa sono le regole per se stesse, considerate in se stesse; diventa cioè, quella società di diavoli, una situazione ipotetica astratta ideale per delineare una teoria del diritto puro e la tesi della validità della norma per la norma. Essa incarna, in modo immaginifico, una situazione che sta acquistando evidenza: «Già Max Weber aveva mostrato come il disincanto postmetafisico della modernità avesse disciolto la sostanza etica delle società tradizionali nelle componenti residuali della morale di ragione e del diritto positivo.» (Ceppa Leonardo in introduzione a Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, XI).
Ancor più tragicamente quella “società di diavoli” diventa storicamente e giuridicamente una società reale, anzi (forse) viene superata in peggio, nel periodo della guerra e delle guerre del ‘900 (“guerre civili mondiali”) in cui le regole sono sospese o diversamente formulate e gestite con arbitrio per sopraffazione, distruzione e genocidio; la punta massima di questo superamento verso il male sembra essere raggiunta in quella età “contemporanea” che presenta se stessa come civiltà al massimo della sua potenza e del suo progresso. Se nel contesto della guerra, le norme sono “diversamente gestite” o emanate sull’onda della opportunità, confermano quella natura che potrebbero assumere in una società di diavoli: ci sono, valgono per se stesse, ma in che termini e con quale logica?

1.1. Il problema è questo: la prima guerra mondiale (per sé e per i trattati che da quegli eventi hanno tratto origine) ha segnato la fine della sovranità assoluta e ultima degli Stati nazionali nel campo giuridico. A decretarla è la manifesta incapacità degli Stati stessi a evitare la guerra, gestire la guerra, gestire e garantire la pace e la stabilità, compito principale per cui sono sorti.
«Definizione del problema e questioni di metodo Dopo la prima guerra mondiale Hans Kelsen discusse il problema della sovranità dello Stato (Kelsen Hans 1920 Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Giuffré, Milano 1989) e pose le basi per una concezione monistica del diritto internazionale incentrata sulla superiorità del diritto internazionale rispetto al diritto interno degli Stati. Tra la prima edizione del 1920 e la seconda edizione del 1927 del volume sulla sovranità, Kelsen scrisse un saggio dal titolo Les rapports de systhème entre le droit interne et le droit international public, nel quale approfondì le premesse metodologiche della sua posizione introducendo il concetto di «sistema», ed esplicitò ulteriormente i presupposti politici della sua concezione con l’assunzione di una posizione «pacifista» contro una prospettiva di tipo «imperialistico». […] La prima guerra mondiale segnò la fine dei rapporti di potenza tra gli Stati nazionali e impose la necessità di gettare le basi per la costruzione di un ordinamento internazionale al di sopra degli Stati. Rispetto a questa esigenza, la teoria di Kelsen rappresenta un tentativo straordinario per profondità e coerenza logica di fornire una risposta soddisfacente.» (Gozzi Gustavo 2010 Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, Bologna, p. 167, 168)
1.1.1. La situazione di oscillazione continua e permanente (insuperabile) tra giuspositivismo e giusnaturalismo. Negli eventi della prima metà del Novecento trova sede un ritorno del giusnaturalismo, dopo una stagione giuspositivistica e, soprattutto dopo la crisi del diritto positivo degli Stati nazionali quale si è manifestata nel corso della prima (e poi, soprattutto, della seconda) guerra mondiale. In questa oscillazione, a quanto pare ineliminabile, compare il progetto di Kelsen per una teoria pura del diritto.
«Nel mondo occidentale, dopo l’età delle rivoluzioni di fine Settecento, si ebbe l’età del positivismo giuridico, che respinse la concezione dei diritti naturali in nome della certezza della legge positiva e, infine, si impose definitivamente il fondamento costituzionalistico dei diritti.
Tuttavia la concezione giusnaturalistica riemerse in occasione della formulazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ma durante i lavori preparatori della Dichiarazione si manifestarono profonde divergenze con alcuni esponenti del mondo islamico….» (Gozzi 2010, 245)

1.2. Kelsen: una nuova direzione e il progetto. Nel contesto della profonda crisi che lo Stato e il diritto positivo conoscono nel corso della prima metà del Novecento, per la loro manifesta incapacità di rispettare e salvare l’umanità in quanto tale, nei suoi diritti e nella sua stessa esistenza, Kelsen indica una nuova direzione e delinea un progetto di rifondazione e rilancio del diritto, della politica, della democrazia e quindi della libertà costruito attraverso la connessione ragionata di componenti apparentemente estreme e tradizionalmente poste in reciproca esclusione. Si tratta di delineare la basi e le condizioni dell’autonomia e della certezza del diritto, quindi una teoria del diritto puro: 1. nella forma del diritto positivo (positivismo giuridico) in esclusione e superamento delle tesi dei giusnaturalisti intorno alla esistenza di diritti naturali; 2. abbinandola al tema della sovranità degli Stati e del controllo giuridico delle loro azioni; 3. legandola strettamente al fine e al contesto in cui il diritto (ogni diritto) prende forma, cioè la democrazia e la sua essenza necessariamente e inesorabilmente relativa, condizione unica di libertà sociale degli uomini.
1.2.1. prende forma istituzionale un ordinamento internazionale posto al di sopra degli Stati come sede del diritto internazionale e fuori dalla distinzione / opposizione tra diritto interno e diritto internazionale, diritto positivo e diritto naturale; cioè una teoria monistica del diritto.
«I principi metodologici sono strettamente connessi nella riflessione di Kelsen con la sua decostruzione della dominante teoria dualistica del rapporto tra diritto interno e diritto internazionale e con la sua ricostruzione di una teoria monistica. L’obiettivo polemico della sua critica era la proclamata superiorità dello Stato nazionale che si esprimeva nella prospettiva di tipo dualistico. Kelsen al contrario ritenne di poter dichiarare la crisi irreversibile e, con essa, la fine del sistema degli Stati sovrani che era stato costruito con dalla pace di Westfalia del 1648.» (Gozzi 2010 p.167)
1.2.2. prende forma istituzionale un concetto di sovranità astratto e giuridico, sottratto alle finalità politiche storiche dei singoli Stati. «Dal punto di vista metodologico Kelsen chiarisce subito che con il concetto di sovranità non si è tentato solo di dare una risposta a problemi conoscitivi, ma si è cercato soprattutto di favorire la realizzazione di precisi scopi politici . Così, ad esempio, il principale teorico della sovranità, Jean Bodin, ha mirato essenzialmente ad affermare l’indipendenza politica dei re francesi rispetto all’imperium degli imperatori tedeschi. Kelsen respinge tuttavia una concezione «storicistica» della sovranità, giacché ritiene che, al di là delle sue manifestazioni storiche, se ne possa individuare il “concetto unitario”». (Gozzi 2010 p.168)
1.2.3. prende forma, di conseguenza, una dottrina generale del diritto puro o un sistema del diritto puro. La posizione che rende possibile il progetto di una teoria del diritto puro è la tesi della sovranità della norma, fonte unica di obbligazione e, contemporaneamente o come conseguenza implicita, il diritto viene applicato a se stesso coerentemente con le norme che produce. Questo è lo stretto legame con Kant ed è “doppio”: 1. la sovranità della norma, autonoma e assoluta; 2. La capacità della norma assoluta di essere posta sotto controllo; si tratta di un sistema che fa dell’autocontrollo la sua definizione, specificità, esistenza e validità, come la ragione pura è tribunale a se stessa che decide della legittimità delle proprie pretese o dei propri ruoli e delle proprie funzioni.
In questo secondo caso, ancora una volta il diritto si applica a se stesso, perché attribuisce a sé, per autocontrollo, quelle capacità discorsive che si prefigge di garantire per e in uno Stato di diritto e dei diritti: «esso deve anche garantire la modalità discorsiva nella quale la produzione e l’applicazione di programmi giuridici debbono compiersi nelle condizioni dell’argomentazione.» (Habermas Jürgen 1962, 1990 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Roma-Bari 2011, XXXV).
Qui la radice dello stretto e conseguente incontro tra dottrina del diritto puro e democrazia.
«In questa puntualizzazione emergono con grande chiarezza i principi della dottrina pura del diritto di Kelsen. Egli infatti, criticando ogni approccio di tipo induttivo, accentra la sua riflessione sul rapporto normativo per rilevare che in esso, contrariamente alle relazioni di tipo causale, non si esprime un rapporto di sovraordinazione e di subordinazione tra individui, bensì una relazione di obbligazione rispetto ad una norma. Conclude Kelsen: «“Sovrana” è dunque solo la norma, “sovrano” è quest’uomo che comanda solo nella misura in cui si presuppone la norma come “suprema”». […] Ma soprattutto egli osserva che non si tratta tanto di sapere se lo Stato in generale o un certo Stato particolare sia sovrano, ma «se la teoria dello Stato può o deve ammettere la sovranità dell’ordinamento statale o, al contrario, la sovranità del solo ordinamento internazionale».» (Gozzi 2010 p. 168-169)
«La dottrina pura del diritto relativizza lo Stato, lo concepisce come un grado giuridico intermedio e giunge così a riconoscere una serie continua e graduale di istituzioni giuridiche che passano l’una nell’altra e che va dalla comunità internazionale universale comprendente tutti gli Stati fino alle comunità giuridiche comprese nel singolo Stato. In questo senso si può dire che la teoria pura del diritto, mentre assicura dal punto di vista conoscitivo l’unità di tutto il diritto per mezzo della relativizzazione del concetto di Stato, fornisce un presupposto importante per l’organizzazione unitaria d’un ordinamento giuridico accentrato.» (Kelsen Hans 1979 Teoria generale delle norme, Einaudi Torino 1985, 168-169)
1.2.4. prende forma il sistema del diritto positivo: la norma è in quanto posta o emanata (una norma non emanata è una contraddizione o meglio un non-senso; se non è emanata non esiste); quindi ogni norma appartiene al diritto positivo. Occorre indicarne la logica, articolarne il sistema, indicarne la funzione e gli ambiti di validità. In questa impostazione si impongono nuove urgenze: [1] superare i dualismi ricordati propri della tradizione giuridica moderna (diritto interno / diritto esterno; [2] articolare una teoria monistica del diritto ispirata dalla pacificazione e contesto attivo per la pacificazione realizzata; [3] fornire una nuova definizione (organica) al tema della sovranità dello Stato.
1.2.4.1. A quest’ultimo proposito Kelsen osserva: se uno Stato è indipendente lo è in forza delle relazioni definite con gli altri Stati, ma ciò è possibile in forza della partecipazione ad un ordinamento definito e condiviso. «Kelsen enuncia con precisione lo sviluppo argomentativo della sua riflessione. Ammettere la sovranità dello Stato significa sostenere che lo Stato non sarà subordinato agli altri Stati, bensì sarà ad essi uguale e, rispetto ad essi, del tutto indipendente. Ma l’indipendenza reciproca degli Stati - osserva Kelsen – può darsi solo rispetto ad un ordinamento che determini i rapporti reciproci tra gli Stati assegnando a ciascuno di essi il proprio posto nel quadro di un unico sistema. Appare così evidente che all’origine del problema della sovranità vi è il problema dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale. La relazione tra due sistemi di norme è il paradigma che consente a Kelsen di interpretare il rapporto tra il sistema del diritto internazionale e il sistema del diritto statale.» (Gozzi 2010, p.169)
1.2.4.2. Allo stesso proposito Kelsen ricorda come risultino giuridicamente inammissibili due sistemi di norme differenti, entrambi obbligatori. «Un insieme di norme dà vita ad un sistema quando esse sono le conseguenze di una norma fondamentale e, pertanto, due sistemi sono differenti quando si basano su norme fondamentali diverse. Tuttavia, precisa Kelsen, il postulato dell’unità della conoscenza implica il fatto che non si possa ammettere che un solo ordinamento obbligatorio e che non si possa riconoscere la validità simultanea di due sistemi di norme differenti.» (Gozzi 2010, p. 169) Sistemi diversi entrambi operanti e obbligatori sono fonte di contraddizione; contraddizione che pone il diritto nella situazione dell’autoannullamento; contraddizione e annullamento da cui si può uscire, come accade, solo facendo riferimento al principio della territorialità come limite di applicazione ma anche come fonte di valore e validità giuridica della norma stessa. La territorialità come fonte del diritto diventa anche il criterio di isolamento e chiusura, di ammissione e gestione dei flussi culturali che, ormai, interessano il territorio (ogni territorio, a meno di opporvi barriere fisiche o mentali militari), e quindi anche (e soprattutto o in primis) di esclusione; gestione che si considera legittimata ad attivare un processo autonomo e sovrano di controllo ed esclusione di quanto viene considerato non proprio.
Più in generale, la tesi della supremazia dello Stato nazionale e l’affermazione del suo ordinamento giuridico come sistema di norme supremo, cioè non ulteriormente derivabile (tesi dell’età moderna, efficace per por fine all’impero, che trova la sua sistematica formulazione nella filosofia del diritto di Hegel) finisce col negare, nel corso dell’Ottocento, la possibilità di un ordinamento giuridico internazionale, nonostante gli sforzi, in tal senso, della filosofia politica di Kant. Kelsen compie una scelta opposta avviando il cammino a partire dalla teorie pura del diritto, al di fuori e prima dei vari dualismi: natura / storia, naturale / positivo, esterno / interno (Stato / Stato), guerra / pace.
1.2.4.3. In generale va segnalato l’errore di metodo logico dei dualismi e l’inganno dottrinale che generano deriva dal loro doppio volto: si tratta di situazioni di carattere storico, frutto di scelte di campo accompagnate da ragioni parziali, si presentano come dati a priori e naturali della realtà rivendicanti per sé lo stesso rispetto che si suole tributare a principi evidenti, necessari e indubitabili.
1.2.4.4. L’insolvenza e il rischio, per il funzionamento del diritto, che deriva, in particolare, dalla diffusa distinzione interno/esterno (interno / estero o internazionale): «… la centralità della sovranità statale riduce il diritto internazionale a «diritto statale esterno» ed ammette solo la guerra come strumento per la soluzione dei conflitti.» (Gozzi 2010 p.172) Situazione che evidenzia tutta la sua debolezza e gravità soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Occorre riformulare il rapporto tra ordinamento giuridico dello Stato nazionale e quello internazionale al di fuori dell’implicito, dato per scontato e non riflesso, presupposto storico che si tratti di un rapporto tra soggetti estranei; il conflitto o il non funzionamento derivante da un simile dualismo si può risolvere solo partendo da un concetto e da un sistema di diritto puro, unitario e universale.

1.3. Ordinamento giuridico internazionale, ordinamento giuridico nazionale
1.3.01. Contesto teorico primo: il progetto di una teoria monistica: «In conclusione Kelsen ribadisce l’unità della conoscenza normativa che si esprime nell’unità e unicità di un sistema di norme. Questo risultato implica necessariamente che tra due ordinamenti normativi possa darsi solo un rapporto di coordinazione e subordinazione: ciò si verifica quando un sistema di norme trae la sua forza obbligante da un sistema che si considera ad esso superiore. È questo paradigma che Kelsen utilizza per definire le relazioni tra diritto internazionale e diritto statale misurandosi con le tre opzioni possibili: a) il dualismo tra diritto internazionale e diritto statale; b) il monismo caratterizzato b.1) dalla supremazia del diritto interno, oppure b.2) dal primato del diritto internazionale.» (Gozzi 2010 p.169,170)
1.3.02. Contesto teorico secondo: il metodo e il fine. L’obiettivo di formulare una teoria pura e quindi unitaria del diritto si realizza procedendo con una impostazione (un metodo) di carattere trascendentale (a priori e non storica), garantita quindi nella sua coerenza “scientifica”, nella sua universalità e unitarietà. È infatti questa base, razionale trascendentale, a rendere possibile una teoria monistica del diritto. Teoria unitaria e unica che attribuisce al diritto la funzione di controllo formale del diritto positivo e della sua coerenza.
1.3.03. Una avvertenza di bilancio: le scelte storiche contemporanee adottate vanno in altra direzione. «L’evoluzione contemporanea del diritto internazionale non consente tuttavia di accettare la soluzione proposta da Kelsen, in quanto la concezione del monismo non corrisponde all’odierna situazione del diritto internazionale. Si è imposta piuttosto – dopo la costituzione dell’Onu, dell’Ue, della molteplicità degli organismi internazionali – la realtà del pluralismo degli ordinamenti: attualmente l’«immagine del diritto internazionale espressa dal pluralismo degli ordinamenti che lo compongono è […] quella di una rete complessa e variamente integrata di istituzioni e di sistemi giuridici articolati su più livelli normativi» (L. Ferrajoli)» (Gozzi 2010, 178 n.41) L’intenzione e l’urgenza unitaria (ad evitare la contraddizione e quindi l’annullamento del diritto), pur restando in questa direzione e in questo contesto, può essere raggiunta attraverso lo sforzo di trovare un’altra formulazione di metodo e un’altra, non secondaria, finalità: lo studio e la definizione delle relazioni tra diritto internazionale e diritto statale alla luce di una finalità politica ed etica dell’idea comune di umanità e delle condizioni di pace che la salvaguardano.
1.3.04. Un’altra avvertenza relativa ad un persistente (non necessariamente negativo) vincolo storico. L’elemento che entra in gioco per favorire o impedire il riconoscimento culturale e giuridico di una struttura sovrastatale è (anche) il riaffiorare o il persistere della coincidenza moderna (ottocentesca) tra Stato e nazione, tra Stato e popolo. Se lo Stato è espressione del popolo e perciò nazione, non può esistere uno Stato mondiale, poiché non vi è nessun popolo-nazione che vi corrisponda o che lo legittimi. È necessario allora, seguendo Kelsen, collocarsi nell’ambito del diritto puro e fondare la concezione dello Stato su diversa base: il diritto puro, l’idea universale di umanità (ius gentium), il consenso universale (Hedley Bull), una “moralità positiva internazionale”. Del resto, l’assenza di un sovrano nella società internazionale impone di staccare il diritto dalla sovranità (non è emanazione di un sovrano o traduzione giuridica della sua volontà) e individuare per il diritto internazionale un’altra fonte; per questo motivo J. Austin sostiene che il diritto internazionale non è diritto, bensì solo «moralità positiva internazionale». (Gozzi 2010, 217 liberamente)
1.3.1. la tesi: «primato dell’ordinamento giuridico internazionale»
1.3.1.1. Non si tratta di una innovazione radicale, è la ripresa di una tradizione giuridica e una rilettura del ruolo del giusnaturalismo espresso nella forma dello ius gentium. «La fondazione giusnaturalistica dello ius gentium appare decisiva a Kelsen per sostenere la superiorità dell’ordinamento giuridico internazionale rispetto a quello statale. Non solo Wolff, ma anche Grozio aveva posto, accanto allo ius gentium voluntarium, uno ius gentium naturale al quale aveva assegnato il carattere di un diritto immutabile che nessuno aveva posto e al quale nessuno Stato poteva sottrarsi.
Kelsen trasforma l’essenza del «diritto naturale dei popoli» nell’idea di una comunità di Stati dotati di uguali diritti. Questa uguaglianza giuridica viene considerata da Kelsen come un’idea etica che fonda la concezione di un ordinamento giuridico universale di cui i singoli Stati sono parti componenti e dal quale derivano diritti e obbligazioni indipendentemente dalla loro volontà.
Al contrario la prospettiva che sostiene la superiorità dell’ordinamento del diritto statale proclama l’affermazione del proprio Stato come unico ordinamento supremo. Il confronto tra le due concezioni si risolve così nell’opposizione irriducibile tra l’uguaglianza giuridica degli Stati e la dichiarazione della sovranità dei singoli Stati. Nella prima prospettiva il diritto diventa «organizzazione dell’umanità e perciò tutt’uno con l’idea etica suprema». Questa idea etica è la riformulazione kelseniana del diritto naturale dei popoli di Grozio e di Wolff: «Presumere un tale diritto “naturale” cioè indipendente dalla discrezione e dalla volontà dei singoli Stati, è inevitabile». Esso corrisponde ad una norma fondamentale che Kelsen identifica con il principio del rispetto dei trattati – pacta sunt servanda; essa è il fondamento del diritto internazionale positivo. Ciò significa altresì, nella prospettiva kelseniana, concepire il diritto internazionale non come contratto, ma come legge, ossia come normazione indipendente dalla volontà degli Stati.» (Gozzi 2010 p.178-179)
1.3.2. La teoria unica e monistica del diritto non esclude dunque affatto il diritto positivo degli stati sovrani e la caratterizzazione storica propria per definizione del diritto positivo, anzi ne presuppone l’esistenza e ne rafforza la funzione: la funzione di controllo della coerenza del diritto positivo, svolta da una teoria pura del diritto, attribuisce al diritto positivo la sua efficacia; una contraddizione nel diritto, come nella logica, determina altrimenti il suo annullamento (autoannullamento). Nel contesto del diritto unico (formale) internazionale trova nuova definizione (organica) il tema della sovranità dello Stato; uno Stato che è indipendente in forza delle relazioni definite con gli altri Stati nel contesto della teoria e del sistema del diritto puro. Risultano, del resto, come già richiamato, giuridicamente inammissibili due sistemi di norme differenti, entrambi obbligatori.

1.4. Nella tesi del primato dell’ordinamento giuridico internazionale l’ipotesi e il progetto per il pacifismo di carattere giuridico e non solo etico
1.4.01. La prospettiva: ogni teoria politica è dominata da un postulato, che è in funzione anche se non viene esplicitato; l’intero lavoro è dominato dall’opzione pacifista (è ancora la prospettiva e l’impostazione di Kant). Cioè un sistema della sovranità che si costituisce allo scopo di porre le condizioni e le garanzie della pace e che non è metodologicamente costruito come se prendesse forma operando a rimorchio dei fatti storici e degli eventi bellici che vi ricorrono. È lo ius pacis, non lo ius belli ac pacis, non il si vis pacem para bellum dove il mezzo (la guerra) rischia di diventare il fine.
1.4.02. l’incontro con Kant: 1. nel metodo: Kelsen avvia, kantianamente, una fondazione trascendentale del diritto puro come compito preliminare per ogni altra declinazione positiva del diritto (come la critica della ragione, svolta indipendentemente da ogni esperienza, è condizione preliminare per la costruzione di teorie scientifiche determinate); 2. nell’impostazione e nella prospettiva cosmopolita: «l’approccio “normativistico” rappresenta un’importante tradizione, di derivazione kantiana, nell’analisi del diritto internazionale… che si pone nel solco della tradizione del cosmopolitismo kantiano» (Gozzi 2010, 193, 211); 3. nel fine: si tratta di una fondazione astratta (pura) che permette di costruire una teoria del diritto finalizzata alla pace, o che ha nella pace il suo presupposto finalistico ultimo (il “pacifismo giuridico”).
1.4.1. il “pacifismo giuridico” sulla base di una coscienza universale della comune umanità.
«Nell’epoca in cui scriveva, dopo la prima guerra mondiale, lo stato insoddisfacente del diritto internazionale dipendeva a suo giudizio dal fatto che la coscienza sociale non aveva ancora infranto i confini delle nazioni e non aveva ancora abbattuto lo Stato nazionale per evolversi fino a diventare coscienza dell’umanità. Solo allora avrebbe potuto affermarsi uno Stato universale, la civitas maxima composta di Stati non più concepiti come soggetti sovrani, ma come enti coordinati e dotati di uguali diritti. Solo allora le invasioni e le occupazioni espansionistiche dettate da una politica di potenza sarebbero apparse antigiuridiche. L’orizzonte di Kelsen si apriva qui in una prospettiva storica suggestiva dove l’analisi delle dottrine si coniugava con la considerazione dell’evoluzione storica.
L’organizzazione dell’umanità in Stati sovrani, formatisi in modo più o meno arbitrario, era solo temporanea — affermava Kelsen. L’ordinamento giuridico internazionale poteva infatti diventare una «comunità organizzata» (e non più una comunità primitiva), dotata di un potere coercitivo capace di riconoscere le violazioni giuridiche e di applicare le corrispondenti sanzioni. Questa idea, dichiarava Kelsen, era stata viva nel concetto di imperium romanum che aveva attraversato tutto il Medioevo ed era giunto fino agli inizi dell’età moderna. La scienza del diritto internazionale stava cominciando, dopo il primo conflitto mondiale, a ricostruirne l’idea per fondare la concezione di un ordine giuridico o Stato universale.
L’ideologia che si esprimeva in questa prospettiva era quella del pacifismo contro l’ideologia dell’imperialismo, di cui era invece portatrice la dottrina della sovranità degli Stati nazionali.
Proclamare il primato della sovranità statale significava dichiarare che uno Stato straniero poteva esistere solo se era riconosciuto dallo Stato nazionale; significava altresì ammettere che non esistevano limiti giuridici oggettivi alla sua espansione territoriale e ad ogni altra sua rivendicazione: era questa la concezione propria dell’imperialismo. Al contrario l’ammissione di un diritto egualmente superiore a tutti gli Stati rappresentava la condizione oggettiva che delimitava giuridicamente i diversi Stati e fondava la possibilità del pacifismo giuridico.» (Gozzi 2010, 180-181)
1.4.2. Ipotesi per le istituzioni di uno Stato universale. «Kelsen si spingeva fino a tratteggiare la realtà istituzionale del futuro Stato universale, che avrebbe dovuto comprendere una Corte di giustizia internazionale alla quale tutti gli Stati dovevano sottoporsi; un parlamento mondiale e la sostituzione della guerra con sanzioni internazionalmente regolate e affidate ad organi speciali. Gli scritti successivi avrebbero perfezionato queste riflessioni.» (Gozzi 2010, 182)
«La riflessione di Kelsen approfondì progressivamente gli elementi istituzionali di un futuro «Stato mondiale» e sviluppò sempre più ampiamente l’analisi delle condizioni per una possibile pace sul fondamento del diritto internazionale. Così nel noto volume dedicato alla pace attraverso il diritto (H. Kelsen 1944 La pace attraverso il diritto), Kelsen formulò l’idea di uno Stato federale mondiale che tuttavia avrebbe potuto essere solo l’esito finale di un lungo processo segnato soprattutto dal superamento delle differenze culturali tra gli Stati. Ma il primo passo di questo sviluppo avrebbe potuto essere solo un’Unione internazionale di Stati. Questa forma Stato rappresenta l’aspetto istituzionale di un ordinamento giuridico posto a garanzia di una pace durevole.» (Gozzi 2010, 183)
1.4.2.1. Da Kant a Kelsen: «Mentre Kant, alla fine del XVIII secolo di fronte alla durezza insuperabile della sovranità degli Stati, aveva definito la pace perpetua un’idea «impraticabile», Kelsen, nella prima metà del XX secolo, riteneva invece di intravedere la possibilità della realizzazione di istituzioni di tipo federale, ossia di un potere al di sopra degli Stati, il cui conseguimento sarebbe stato tuttavia preceduto da soluzioni intermedie e imperfette rappresentate da unioni tra gli Stati. Conseguentemente anche il problema della pace e le interpretazioni della guerra sarebbero dipesi da queste differenti forme istituzionali.» (Gozzi 2010, 183)
1.4.3. Il problema della guerra nel diritto internazionale. «Il problema della guerra e della pace è un tema centrale del diritto internazionale che ritorna costantemente nella riflessione di Kelsen. La tesi della superiorità dell’ordinamento giuridico internazionale pone la prospettiva all’interno della quale egli affronta il problema della guerra. Fin dallo scritto dedicato al problema della sovranità, la guerra venne infatti considerata come lo strumento coercitivo introdotto dall’ordinamento internazionale per imporsi contro chi lo violi. Nel volume dedicato alla Pace attraverso il diritto, Kelsen formulò poi con precisione le sue tesi sul rapporto dell’ordinamento giuridico internazionale con la pace e con la guerra…. Questa teoria ritiene che, in base al diritto internazionale generale, la guerra sia proibita in linea di principio e che «essa sia permessa solo come reazione contro un illecito, un delitto, ossia come reazione contro una precisa condotta da parte degli Stati» (Kelsen, Principles of International Law)» (Gozzi 2010, 183, 184)
1.4.4. I mutamenti, in prospettiva, per definire le antitesi: pace / guerra, amico / nemico (Schmitt): «La prospettiva …sviluppata …sulla scorta della prospettiva kantiana e kelseniana, esprime invece la concezione di un diritto della pace che racchiuda i seguenti elementi: 1) la trasformazione del sistema degli Stati verso il tendenziale riconoscimento di un ordine giuridico sovrastatale; 2) il diritto internazionale come diritto della pace, che escluda la legittimità dello ius ad bellum e si basi sulla distinzione tra 3) coloro che legittimano guerre offensive e coloro che escludono questa legittimazione; 4) la legittimità delle sole guerre difensive e la criminalizzazione delle guerre offensive.» (Gozzi 2010, 204)

2. le radici e le eredità culturali operative nella definizione di una teoria del diritto puro.
2.1. il metodo del positivismo nella sua evoluzione.
2.1.1. Esiste un positivismo giuridico già nelle riflessione politiche di Thomas Hobbes: lo Stato, in quanto assoluto, è fonte unica del diritto: ha il monopolio del diritto e non esiste alcun diritto se non quello emanato, cioè il diritto positivo (ed è la posizione del positivismo giuridico o giuspositivismo; auctoritas non veritas facit legem). La recta ratio della dottrina del diritto naturale si muta nella ratio civitatis, ossia nella ragion di Stato (si potrebbe dire che si assiste, attraverso il contratto di rinuncia, unione e sottomissione al passaggio dal giusnaturalismo al giuspositivismo) Ma nella stessa età moderna, in particolare ad opera di Montesquieu, il principio della voluntas come fonte di legge legittima dovrà essere sostituito dal principio della ratio, fino al rovesciamento del principio del potere assoluto formulato da Hobbes; quindi la frase che ne riassume la teoria viene rovesciata: veritas non auctoritas facit legem.
«La dottrina del diritto naturale è caratterizzata da un fondamentale dualismo tra diritto positivo e naturale. Al disopra della imperfetta legge positiva creata dall'uomo, esiste una legge naturale perfetta (perché assolutamente giusta) posta da un’autorità divina. Di conseguenza la legge positiva è giustificata e valida solo nel limiti in cui corrisponde alla legge naturale. Se, tuttavia, la legge positiva è valida solo in quanto corrisponde a quella naturale; se è possibile, come asserisce il giusnaturalismo, trovare le norme del diritto naturale mediante una analisi della natura; se, come taluni scrittori affermano, la legge della natura si evidenzia perfino da sé, la legge positiva è allora del tutto superflua. Di fronte all’esistenza di un giusto ordinamento della società, intelligibile nella natura, l’attività dei creatori del diritto positivo equivale ad uno stupido sforzo di fornire luce artificiale in pieno sole. Questa è un’altra conseguenza della dottrina del diritto naturale; ma nessuno dei seguaci di questa teoria ha avuto il coraggio di essere coerente. Nessuno di loro ha dichiarato che l’esistenza del diritto naturale rende superflua l’istituzione del diritto positivo. Al contrario tutti insistono sulla necessità del diritto positivo. Infatti una delle funzioni essenziali di tutte le dottrine del diritto naturale è quella di giustificare l’istituzione del diritto positivo o la esistenza dello Stato competente ad istituire il diritto positivo. Nell’adempiere siffatto compito la maggior parte di esse si perde in una contraddizione assai caratteristica. Da una parte affermano che la natura umana è la fonte del diritto naturale, il che implica che la natura umana deve essere fondamentalmente buona; dall’altra possono giustificare la necessità del diritto positivo ed il suo meccanismo coercitivo solo con la cattiveria dell’uomo. Il solo filosofo che evita tale contraddizione è Hobbes, il quale parte dall’assunto che l’uomo è cattivo per natura. Di conseguenza il diritto naturale che egli deduce da questa natura è praticamente niente altro che il principio che è necessario uno Stato dotato del potere illimitato di stabilire il diritto positivo e che, per legge naturale, gli uomini sono obbligati a ubbidire senza riserve al diritto positivo stabilito dallo Stato; argomento che comporta la negazione del diritto naturale da parte del diritto naturale. Se, tuttavia, si considera il diritto naturale come un sistema di norme sostanziali, e non come un’autorizzazione formalistica di qualunque legge positiva, è allora inevitabile la contraddizione fra natura umana, dalla quale questo diritto naturale è dedotto e una natura umana che rende necessario il diritto positivo. […] Per cui la natura umana conduce necessariamente allo stabilimento dello Stato, il che significa al diritto positivo. […] È la ragione dello Stato, della comunità, che secondo Hobbes determina il contenuto del diritto e questo diritto è ad un tempo positivo e naturale. […]
Qui [in Hobbes] è evidente che la teoria giusnaturalistica non ha altra funzione che quella di giustificare il diritto positivo, qualunque diritto positivo stabilito da un governo effettivo. […]
[quindi in Hobbes] identificazione del diritto positivo con quello naturale.» (Kelsen 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 242-349 passim in Kelsen Hans 1929-1955 I fondamenti della democrazia, il Mulino, Bologna 1966)
In questo contesto Kelsen ricorda ciò che è evidente dalla varietà delle teorie: «non vi è una sola dottrina di diritto naturale, ma ve ne sono molte e sostengono principi del tutto contraddittori.» (Kelsen 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 357)

2.1.2. Nel corso della seconda metà del 1800 è un positivismo metodologico epistemologico e come filosofia generale che si afferma; trova espressione sistematica, teorica e applicativa, nelle opere di Auguste Comte (Corso di filosofia positiva, 1830) «Avendo spontaneamente constatato l’inanità radicale delle spiegazioni vaghe e arbitrarie proprie della filosofia iniziale, sia teologiche che metafisiche, lo spirito umano rinunzia ormai alle ricerche assolute che convenivano solo alla sua infanzia e circoscrive i suoi sforzi nell’ambito, perciò rapidamente progressivo, della vera osservazione, sola base possibile delle conoscenze veramente accessibili, sagacemente adattate ai nostri bisogni reali. La logica speculativa era fino ad allora consistita nel ragionare in modo più o meno sottile, secondo principi confusi che, non comportando nessuna prova sufficiente, suscitavano sempre dibattiti senza esito. Essa riconosce ormai, come regola fondamentale, che ogni proposizione che non è strettamente riducibile alla semplice enunciazione di un fatto, particolare o generale, non può presentare nessun senso reale e intelligibile.» Comte Auguste 1844 Discorso sullo spirito positivo, Laterza Bari 1985, 15)
2.1.2.1. Viene negata ogni ricerca di carattere metafisico che si prefigga di indagare e conoscere la realtà in sé, posta oltre o dietro il dato empirico o fenomenico. La realtà accade; è ciò che accade nei fatti; il dato o il fatto è la realtà, ciò che non accade non esiste e non può pensarsi in alcun modo reale. Lo stesso deve valer per i concetti di causa, fondamento, sostanza (sostrato), principio, legge, fine: la causa (come gli altri elementi che ricorrono in un processo di spiegazione: principio, fondamento, fine…) esiste ontologicamente nel fatto, è nei suoi effetti, non ha esistenza o persistenza in sé oltre i fatti della realtà in un metafisico mondo di enti ideali, permanenti, immutabili ma rigorosamente non dati all’esperienza (anche per Kant solo pensabili ma non conoscibili; tuttavia, per Kant, pensabili come esistenti [e qui si dà il via a un avvitamento del pensiero su se stesso: “pensabili come esistenti di una esistenza solo pensata o pensata come reale?” e via all’infinito]).
2.1.2.2. Lo stesso accade per la legge e per la norma. Quando si tratta della norma o legge fisica essa accade nei fatti empirici, ha la propria realtà nei fatti positivi dell’esperienza; la sua enunciazione scientifica è risultato di una connessione tra fatti o della constatazione del fatto della connessione. Quando si tratta della norma giuridica essa esiste in quanto emanata; non esiste alcuna norma (o principio o valore o fine o diritto …) detta “naturale”, pensata come esistente (e magari anche vincolante) prima della sua formulazione. Il diritto detto naturale e le leggi proclamate, in ambito etico e giuridico, esistono solo nel fatto positivo della loro proclamazione; il diritto naturale non ha altra sede possibile di esistenza che il diritto positivo, il diritto emanato, magari (come più volte Norberto Bobbio ricorda) un diritto positivo che emana un enunciazione dichiarando di considerarla naturale. Il termine naturale non ha più un significato di carattere metafisico ma rimanda al sistema globale del diritto e ai livelli in cui quel sistema si articola (così come accade nel campo della logica: si articola e si costituisce in sistema secondo diversi livelli interni e, per giunta, in determinati momenti della storia; e non è questione di ontologia).
(Ricorda Norberto Bobbio: «Dal punto di vista teorico ho sempre sostenuto, e continuo a sostenere, confortato da nuovi argomenti, che i diritti dell’uomo, per fondamentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre. Il problema, su cui sembra che i filosofi siano chiamati a dare la loro sentenza, del fondamento, addirittura del fondamento assoluto, irresistibile, inoppugnabile, dei diritti dell’uomo, è un problema mal posto: la libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione, le libertà civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti…» Bobbio Norberto 1990 L’età dei diritti, Einaudi, Torino XIII-XIV)

2.1.3. Il positivismo come canone della scienza contemporanea nel neo-positivismo o empirismo logico (Circolo di Vienna). La riflessione filosofica sulla natura del pensiero scientifico trova un forte impulso nel corso del 1900 ad opera del Circolo di Vienna, il cui manifesto, La concezione scientifica del mondo, scritto da H. Hahn, O. Neurat, R. Carnap nel 1929 (da cui sono tratte le citazioni a seguire; Laterza, Bari 1979), indica le coordinate del spere scientifico rilanciando e rinnovando profondamente la posizione del positivismo.
2.1.3.1. «La concezione scientifica del mondo respinge la metafisica.» «Nella scienza non si dà «profondità» alcuna; ovunque è superficie: tutta l’esperienza costituisce un’intricata rete, talvolta imperscrutabile e spesso intellegibile solo in parte. […] La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili.»
2.1.3.2. La filosofia ha un compito di chiarificazione e non dispone di propri contenuti empirici: «non si dà alcuna filosofia quale scienza basilare o universale, accanto o sopra i vari rami della scienza empirica»
2.1.3.3. Il metodo con cui attua tale compito appartiene al campo logico e al campo empirico.
Il progetto di unificazione delle scienze, delineato dai sostenitori della concezione scientifica del mondo, si basa sull’applicazione del metodo dell’analisi logica al materiale empirico. Alla realizzazione del progetto concorrono due elementi: la creazione linguaggio simbolico, «libero dalle scorie delle lingue storiche» e l’individuazione di un procedimento di traduzione dei concetti e delle osservazioni scientifiche in dati d’esperienza. Il linguaggio simbolico, una nuova logica formale, controlla la correttezza logica di ogni enunciato; la riduzione all’esperienza delle asserzioni scientifiche ne garantisce la verificabilità empirica. Un procedimento che combina esperienza e logica. «Abbiamo caratterizzato la concezione scientifica del mondo essenzialmente con due attributi. Primo, essa è empiristica e positivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati. In ciò si ravvisa il limite dei contenuti della scienza genuina. Secondo, la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dall’applicazione di un preciso metodo, quello, cioè, dell’analisi logica.»
2.1.3.4. Logica ed empiria, aspetto formale e contenuto positivo rivendicano criteri autonomi di formulazione e origine ma si connettono nella produzione di controllo e libertà. Procedendo per analogia: una teoria sistematica del diritto puro (come l’analisi logica che si avvale di un simbolismo formale) permette il controllo della coerenza e esprimibilità degli enunciati empirici o applicativi che nascono all’interno di un sistema democratico aperto, libero e relativo (come i dati di esperienza formulabili in enunciati empirici sono materialmente senza limiti). Formalismo giuridico e positivismo giuridico, apparentemente antitetici come ciò che è formale e ciò che è materiale, non si escludono, ma si implicano necessariamente per svolgere la propria specifica funzione.

2.1.4. il positivismo del diritto puro o il giuspositivismo (che cos’è Il positivismo giuridico e la dottrina pura del diritto di Kelsen), quali caratteristiche generali (e per lo più condivise) nella ricostruzione di Dworkin Ronald 1977 I diritti presi sul serio, il Mulino, Bologna 2010.
«La struttura del positivismo giuridico si compone di poche proposizioni fondamentali che ne determinano l’organizzazione, anche se non tutti i filosofi che si considerano giuspositivisti sarebbero disposti a sottoscriverle nel modo in cui le presenterò qui di seguito [e all’interno di questa tradizione richiama le diverse posizioni; in particolare riporta le tesi di J. Austin, H.L.A. Hart]. Tali principi chiave possono essere fissati nel modo seguente.
a) Il diritto di una comunità è un insieme di regole particolari utilizzate direttamente o indirettamente dalla stessa allo scopo di determinare quali comportamenti punire o imporre con l’uso della forza pubblica. […]
b) L’insieme di queste norme giuridiche valide esaurisce il «diritto», così che, se un determinato caso non può essere facilmente ricondotto a tali regole (perché nessuna sembra appropriata o perché quelle che lo sono risultano vaghe o per altre ragioni ancora), allora esso non può essere risolto «applicando il diritto». Dovrà essere deciso da un qualche funzionario, per esempio un giudice, che «esercita la propria discrezionalità»: il che significa andare al di là del diritto per cercare altri standard che lo guidino nella creazione di una nuova norma giuridica o nell’integrazione di quella vecchia.
c) Dire che qualcuno «ha un obbligo giuridico», equivale a dire che il suo caso ricade nell’ambito di una norma giuridica valida che gli chiede di fare o di astenersi dal fare qualcosa. […] In assenza di una norma giuridica valida di questo tipo non si ha obbligo giuridico.» (Dworkin 1977, 41)

2.2. l’eredità di Kant: il formalismo, la legge positiva, l’universalismo e la pace
2.2.1. La natura formale della teoria pura del diritto. Come la filosofia trascendentale di Kant, volta a studiare le possibilità e i limiti della facoltà dell’uomo, non ha natura contenutistica (non ci indica cosa dobbiamo pensare, volere o desiderare, ma cosa possiamo con correttezza ed efficacia, non a vuoto, conoscere, volere e desiderare) ha natura formale, così, per lo stesso motivo e per le stesse direzioni, ha natura formale una teoria del diritto puro.
Ancora a sostegno della autonomia del diritto è utile sottolineare un accostamento tra Kant e Kelsen con una specie di proporzione: come la ragione è tribunale a se stessa; definisce secondo forme i dati d’esperienza (= diritto positivo) ma definisce preliminarmente l’intero campo delle proprie possibilità portando a chiarezza le forme pure che la definiscono come facoltà conoscitiva (= diritto puro, formale), così la legge (diritto positivo, il secondo livello del diritto) è valida se redatta in ossequio alle forme pure, alla caratteristiche formali del diritto (diritto puro, o primo livello del diritto o metadiritto). E come la conoscenza è tribunale a se stessa, non vi può essere un tribunale esterno perché questo dovrebbe essere conosciuto dalla mente e cadrebbe quindi nel campo della conoscenza, così la legge è tribunale a se stessa, non vi può essere un controllo della legge fuori dalla legge, sarebbe illegale (fuori dalla legge).
2.2.2. Logica e empiria, forma e materia. Come nell’impostazione logica e pratica di Kant, le forme a priori non operano se non in funzione di un materiale; nessun materiale trova definizione ed esistenza senza una definizione formale, analogamente una dottrina del diritto puro esercita la propria funzione all’interno di un diritto emanato e quindi di un diritto positivo; diritto che ha nella propria natura di diritto positivo la caratteristica di essere espressione storica, aperta e relativa di un sistema che è perciò democratico. Su questo sfondo trovano comprensione e collegamento le due direzioni di impegno di Kelsen: la teoria generale del diritto puro, la definizione e difesa della democrazia; i titoli delle opere sono già da sé indicativi: Lineamenti di dottrina pura del diritto 1934, Teoria generale delle norme 1979, I fondamenti della democrazia 1929-1953.
2.2.2.1. Dal giunaturalismo al giuspositivismo. «Nella Metafisica dei costumi Kant affronta il problema del fondamento, ossia dell’origine e della giustificazione dei diritti. Mi ha sempre colpito il modo in cui Kant ha posto il problema, in quanto è facile riscontrare il passaggio da un ordine del discorso ad un altro. Scrive infatti Kant: «Il diritto innato è uno solo. La libertà (indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui, in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale, è quest’unico diritto originario spettante ad ogni uomo in forza della sua umanità» (I, Suddivisione generale del diritto, B).
Dopo l’affermazione di Kant secondo cui il diritto innato è uno solo, ci aspetteremmo l’enunciazione di questo diritto. Ma Kant scrive: «La libertà», invece del «diritto alla libertà». Che rapporto sussiste tra la libertà «innata», ossia originaria, e il «diritto» alla libertà?
Kant lo esplicita nell’articolazione della frase: la libertà intesa come «indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui» deve coesistere con la libertà di ogni altro uomo in forza di una legge universale.
È questa legge positiva universale l’origine del diritto alla libertà di ogni uomo. La riflessione kantiana segna, come è noto, la fine del giusnaturalismo e stabilisce la centralità della legge positiva - il «diritto perentorio» di cui parla nella Metafisica dei costumi - che limita l’originaria libertà naturale e fonda i diritti alla libertà individuale. Non vi è dunque, nella prospettiva kantiana alcun diritto di natura, bensì solo una libertà naturale dell’uomo che può coesistere con la libertà di ogni altro uomo solo traducendosi in diritto alla libertà del cittadini sulla base di una legge coattiva universale, ossia accettata da tutti.» (Gozzi 2010, 324) Sono indicate le condizioni di sostegno per il diritto universale di una umanità democratica e pacificata.

3. Dottrina pura del diritto e teoria del diritto positivo:
Lineamenti di dottrina pura del diritto 1934 Teoria generale delle norme, 1979.
«In effetti il diritto dispone di una sua forza di legittimazione che è intrinseca alla forma giuridica in quanto tale.» (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e associati, Milano 1997, 61)
Una recensione e prima presentazione a Lineamenti di dottrina pura del diritto: «Kelsen si propone di tracciare in questo libro i confini della disciplina giuridica e insieme di conferirle uno statuto di scienza autonoma. A tal fine egli cerca di sviluppare una teoria "pura" del diritto, da cui sia espunta ogni ideologia politica, ogni interferenza sociologica e ogni incrostazione naturalistica. Oggetto di tale teoria è la realtà giuridica presente così come essa è e non come dovrebbe essere per conformarsi a un'idea trascendente di giustizia o a un ipotetico diritto naturale. Muovendo da questo presupposto anti-ideologico essa rifiuta, in quanto scienza, di distribuire patenti di equità o iniquità, di legittimità o illegittimità al diritto. Questa visione della scienza giuridica, elaborata da Kelsen nella fase dell'avvento del nazismo al potere, è il fondamento del pensiero, ancor oggi vivissimo, di uno dei massimi giuristi di questo secolo.»
In varia intitolazione possibile: dottrina pura, in senso kantiano (nell’ambito del neokantismo), del diritto: indagine sulla struttura logica e formale del diritto, «elaborazione sistematica delle strutture spirituali che danno il senso del diritto agli atti naturali che li portano»(Teoria generale delle norme, 1979, § 16); formalismo del diritto: ricerca delle condizioni formali dell’esperienza giuridica; positivismo giuridico in forma di scienza; il contemporaneo positivismo giuridico, contesto di fondazione autonoma del diritto; validità e autonomia del diritto: la validità del diritto è legata alla sua autonomia, l’autonomia è condizione di validità.
Con riferimento soprattutto all’opera (postuma) di Hans Kelsen, Teoria generale delle norme, 1979, Einaudi Torino 1985
L’obiettivo: «ho intrapreso a svolgere una dottrina pura del diritto, cioè una dottrina depurata da ogni ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico, una dottrina giuridica, coscien¬te del suo carattere particolare dovuto alla autonomia del suo oggetto.»
Un richiamo autorevole: Baruch Spinoza: «per legge intendiamo il diritto civile, che trae vigore e garanzia da se stesso» (Spinoza Baruch 1677 Trattato politico, edizioni ETS, Pisa 1999, 77).
Una centralità: «Il tema centrale che domina incontrastato tutta la vasta opera di Hans Kelsen é, certo, la delucidazione delle condizioni che permettono alla scienza giuridica di costruirsi come scienza rigorosa. A questo fine egli è partito da una duplice esigenza: svincolare, da un lato, la scienza giuridica dalle scienze naturali, e liberarla, dall’altro, da ogni ideologia politica e da ogni motivo etico capace di viziare con elementi psicologici ed emozionali l’oggettività logica del discorso scientifico.» (Democrazia e cultura in Hans Kelsen, Saggio di Appendice, postfazione,
di Matteucci Nicola, 1955, in Kelsen1979, Teoria generale delle norme, 437)

3.1. distinzioni e precisazioni preliminari per una dottrina pura del diritto come teoria formale
3.1.1. una distinzione fondante: occorre distinguere tra i campi dell’indagine giuridica, quelli dell’esercizio della giustizia e quelli dell’indagine sociologica, politica, etica e morale.
Come direzione può valere l’avvertenza di Thomas Nagel. «Le idee di giusto e sbagliato sono differenti dalle idee di quello che è e non è contro le norme. Altrimenti non potrebbero essere usate nella valutazione di norme e di azioni.» (Nagel Thomas 1987 Una brevissima introduzione alla filosofia, il Saggiatore, Milano 1996, 73-74)
3.1.1.1. Per l’indagine giuridica, una teoria generale del diritto (perciò formale, essa vuole prescindere dalla sua dinamica e storica concretezza), ha come oggetto le norme (è una scienza normativa, del dover essere) e ne indica le condizioni: di origine, di validità o legittimità e di sistema: tende ad essere un ordinamento sistematico delle norme giuridiche valide. Essa non indica quindi le condizioni di efficacia (a tale scopo mira la sociologia e la politica del diritto), di giustizia (occorre infatti distinguere tra diritto e giustizia), di valore (occorre distinguere tra validità e valore / valutazione), aspetti che, se attribuiti al diritto di per sé ne misconoscono il carattere normativo e lo riducono ad aspetti empirici e storici della realtà. «Per Kelsen il diritto non appartiene al mondo della natura, dell’essere (sein), ma a uno speciale mondo normativo, del dover essere (sollen); esso si compone di enti, le norme, dotati di una propria esistenza specifica non empirica, che spetta alla scienza giuridica descrivere.» (La nuova enciclopedia del diritto e dell’economia, Garzanti, Milano 1987, 738)
3.1.1.2. Per la sede giudiziaria, occorre, allo scopo, distinguere tra teoria pura del diritto (legalità, nel campo del diritto emanato o positivo) e esercizio della giustizia. «Kelsen distingue la legalità dalla giustizia, i «valori di diritto» dai «valori di giustizia»: nel primo caso il giudizio verte sulla conformità o non conformità di un determinato comportamento facendo riferimento alle norme positive; nel secondo caso il giudizio afferma il valore o il non valore di un determinato ordinamento facendo riferimento a un ideale di giustizia soggettivo e irrazionale. Abbiamo così da un lato un «giudizio oggettivo» e cioè verificabile oggettivamente con l’aiuto dei fatti; dall'altro un «giudizio soggettivo» dovuto unicamente a un valore la cui esistenza e il cui contenuto non può essere verificato perché deriva dalla particolare ideologia del suo autore. La legalità e la giustizia sono così valori che si dispongono su piani diversi, logico il primo, volitivo il secondo; inoltre la legalità non riguarda il contenuto dell’ordinamento, ma solo la sua applicazione. E così, proprio perché vuole impedire il tentativo di dare una giustificazione morale del diritto, il Kelsen opera fra esse una radicale distinzione.» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 440)
3.1.1.3. Per la sede sociologica, politica ed etica: l’indagine sociologica (della sociologia del diritto) studia l’efficacia del diritto come dato di fatto; l’indagine politica studia della legislazione nel suo aspetto storico e nelle componenti che concorrono a definirla nella specifica concretezza (come l’ideologia, i programmi); l’indagine etica studia le condizioni e l’utilità di una trasformazione della norma giuridica in sentire civile condiviso; l’impostazione morale intende giudicare il diritto secondo le categorie del giusto e dell’ingiusto (come quando parla di diritti naturali o trasforma il diritto positivo in diritto naturale).
(Questa distinzione è stata presa come contesto delle critiche, rivolte a Kelsen, di insensibilità morale e politica, di formalismo / legalismo eccessivo, di incauto giustificazionismo anche dei sistemi giuridici delle dittature totalitarie.)

3.2. il positivismo giuridico: il diritto si riduce a norma (tutto il diritto è riducibile a norma) e una norma esiste ed è valida (non: “ha valore”, inteso come categoria etica) in quanto emanata. «Il diritto vale soltanto come diritto positivo cioè come diritto posto.» (Teoria generale delle norme, 1979, 96») Ne consegue che: «La dottrina pura del diritto è la teoria del positivismo giuridico.» (Teoria generale delle norme, 1979,76); difficoltà del “diritto naturale”.
La norma è la forma, l’articolazione e il fondamento del diritto. Le norme sono il fondamento del diritto e del valore (validità); la norma è un atto positivo e il diritto che essa emana è diritto positivo.
«Una norma statuita da un atto di volontà che ha luogo nella realtà è una norma positiva. Partendo da un positivismo morale e giuridico vengono prese in considerazione, come oggetto della conoscenza, solo norme positive, cioè norme statuite da atti di volontà e precisamente da atti di volontà umana.» (Kelsen Hans 1979 Teoria generale delle norme, Einaudi Torino 1985, 7)
3.2.1. Condizioni di validità della norma (non “validità di una norma”, ma “condizioni di validità”; la validità, nel campo giuridico equivale ad esistenza; una norma non valida è una norma che non esiste). La validità della norma è la sua esistenza; la sua esistenza è legata all’emanazione; l’emanazione avviene all’interno delle norme.
Una prima condizione: una norma è valida per il fatto di essere emanata, statuita: «Il diritto vale soltanto come diritto positivo cioè come diritto posto» (Teoria generale delle norme, 1979, 96). La validità della norma è condizionata dall’atto di volontà di cui è senso e espressione, in altri termini una norma è valida, «cioè esiste come norma giuridica, solo se è stata prodotta da un organo a ciò autorizzato da una norma superiore» (Garzanti 1987, 738). Una norma non emanata non è una norma; perciò una norma naturale, cioè esistente senza essere emanata, è una contradictio in adjecto; semmai si può sostenere che (come già osservato) i diritti o le norme naturali sono i diritti o le norme positive emanati e dichiarati o considerati come naturali, ma essi prendono esistenza e forma solo nell’atto positivo della loro emanazione. «Una norma per essere valida deve essere statuita. Se non è statuita essa non è valida; ed è valida soltanto quando è statuita; se non è valida, ciò che è statuito non è una norma… il suo senso non esiste.» (Teoria generale delle norme, 1979, 248)
Una seconda condizione: che esista un destinatario. «… non c’è norma senza un’autorità che la statuisca e non c’è norma senza un destinatario (o più destinatari) della norma.» (Teoria generale delle norme, 1979, 55)
Una terza condizione: «una norma è valida solo se può essere osservata o violata […] La condizione nella quale ogni norma, sia generale che individuale, è valida, è data dalla somma delle circostanze nelle quali essa può essere osservata o violata.» (Teoria generale delle norme, 1979, 42)
(se è dunque efficace; e si tratta della possibilità dell’efficacia).
In conclusione (parziale): «Nell’essere statuita da atti umani e nell’efficacia come condizione di validità consiste la positività della morale e del diritto» (Teoria generale delle norme, 1979, 219)
Una quarta condizione, data dal sistema delle norme o dalla loro relazione: soltanto una norma può essere il fondamento della validità di un’altra norma e l’ipotesi di una norma fondamentale è solo fittizia; «l’ordinamento giuridico si compone dunque, per Kelsen, di strati ordinati in modo gerarchico» (Garzanti 1987, 738); ogni caso concreto può e deve essere deciso in base al diritto positivo vigente, cioè emanato secondo norme.
3.2.2. Non è possibile legare / giustificare il diritto vigente attraverso il richiamo al diritto naturale (giusnaturalismo), divino o razionale, considerato assolutamente giusto in sé e indipendentemente dalla sua emanazione; proposto da ideologie conservatrici o da ideologie rivoluzionarie, resta una specie di “in sé” inconoscibile (o citabile a piacimento e variabile strumentalmente secondo il bisogno). Il motivo: in quanto naturale, astorico è del tutto inconoscibile; in quanto non emanato, è inesistente ; (è utile ricordare la nota di N. Bobbio: il diritto naturale è quello che un sistema giuridico positivo considera naturale, ed è dunque positivo; la definizione naturale è una connotazione di validità o rilevanza giuridica). Né è possibile legare il diritto positivo, vigente e puro, al diritto contrattuale (contrattualismo), che a sua volta richiede un principio di autorevolezza normativa definita in modo positivo; quindi il contratto, per essere valido nel proprio ruolo fondante, deve essere giuridicamente definito nella sua funzione e nelle sue condizioni di validità e dipende dunque da un diritto positivo; (è utile ricordare come nello stesso testo di Hobbes il valore del contratto veniva subordinato ad una norma ulteriore: « io autorizzo, e cedo il mio diritto …. a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto»)
Di contro va ribadito che la funzione giurisdizionale ha natura costitutiva: il diritto esiste in quanto emanato, il diritto che esiste è quello emanato. «Non c’è norma senza un’autorità che la statuisca e non c’è norma senza un destinatario (o più destinatari) della norma» (Teoria generale delle norme, 1979, 55); «Il principio che non c’è norma senza un’autorità che la statuisca persiste anche se l’atto di volontà autoritativo, il cui senso è soltanto la norma pensata, è fittizio.» (Teoria generale delle norme, 1979, 9)
3.2.2.1. Le ragioni storiche delle teorie giusnaturalistiche e la loro insolvenza. « La ragione per cui il giusnaturalismo, nonostante i suoi ovvi errori, ha avuto e avrà probabilmente sempre grande influenza sul pensiero sociale, è che esso soddisfa un bisogno profondamente radicato della mente umana, il bisogno di giustificazione. Per giustificare i giudizi soggettivi di valore, che emergono dall’elemento emotivo della sua coscienza, l’uomo cerca di presentarli come principi obiettivi dando anche a loro la veste solenne di verità, per renderli proposizioni dello stesso ordine di quelle fondate sulla realtà. […] Che la dottrina del diritto naturale sia capace, come essa pretende, di determinare in modo obiettivo ciò che è giusto, non è vero; ma quelli che lo stimano utile ne possono fare uso come di una bugia utile.» (Kelsen 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 367,387) «Dal punto di vista di una scienza razionale del diritto, la dottrina del diritto naturale è insostenibile.» (Kelsen 1953 Che cos’è la giustizia? 425-426)
Il problema era già con chiarezza delineato da Spinoza: «Qualsiasi cosa, infatti, che un essere fa secondo le leggi della sua natura, egli la fa per suo sommo diritto, vale a dire perché egli è così determinato ad agire dalla Natura, e perché non potrebbe comportarsi in maniera differente.
Ed è perciò che fra gli uomini, considerati in quanto sottoposti soltanto all’imperio della Natura, tanto vive per sommo suo diritto, secondo le leggi dell’appetito, colui che non conosce ancora la ragione, quanto colui che la sua vita conduce secondo le leggi della ragione.
In altre parole, come il sapiente ha un supremo diritto su tutto ciò che la ragione gli detta, cioè di vivere secondo le leggi della ragione, cosi anche l’ignorante e il violento hanno il supremo diritto su tutto ciò che il desiderio loro consiglia, cioè di vivere secondo le leggi del desiderio. È quanto ci insegna anche l’apostolo Paolo, il quale non riconosce alcun peccato prima della Legge, cioè, fino a tanto che si considerino gli uomini viventi sotto l’imperio della Natura. » (Spinoza Baruch 1670 Trattato teologico politico, Fabbri editore, Milano 2001, 269-270)
3.2.2.2. Utilità (relativa e intenzionale) e danno della teoria del diritto naturale: «…condizionando la validità del diritto a un criterio metagiuridico, ha finito poi sempre nel voler fare apparire giuste le norme positive. Kelsen non è contro il Diritto Naturale inteso come ideologia, come possibilità di un giudizio morale, ma è contro la metafisica propria dei pensatori di questa scuola quando diventa un criterio del discorso scientifico e una giustificazione ideologica dell’ordinamento.» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 440)
3.2.2.3. L’appello al diritto naturale nasce dunque dalla ricerca o dall’esigenza di trovare una norme definitivamente fondante. Ma, osserva Kelsen, se esiste una norma fondamentale che conferisce validità a tutte le norme create o emanata, non è a sua volta una norma prodotta, non è una norma posta (quindi come norma non esiste): si attuerebbe un rimando all’infinito, o il rimando ad autorità esterne al diritto, non fondate sul diritto, non legittimate ad esserne fonte. Questa norma fondamentale o fondante nel sistema del diritto è richiesta, ma per norma fondamentale si intende il sistema del diritto o dell’ordinamento giuridico in quanto complesso ordinato di norme. La vera norma fondante è la totalità del sistema giuridico, totalità resa possibile dalla costruzione formale secondo logica del diritto puro.
3.2.2.4. Non c’è norma fondante in senso contenutistico, questa è la situazione propria della morale (in realtà propria delle morali che Kant chiamerebbe eteronome o fondate su imperativi non categorici ma ipotetici), c’è norma fondante in senso formale, come condizione di sistema e di produzione del diritto. In sequenza: «il diritto regola la sua propria creazione … la norma fondante è la norma responsabile dell’unità del sistema giuridico … la forma in cui deve necessariamente presentarsi tutto il materiale del diritto positivo … la regola fondamentale per la quale sono prodotte le norme dell’ordinamento giuridico» (Teoria generale delle norme, 1979,195-198 passim)
La norma fondamentale è il sistema, e qui il cerchio si chiude a sostegno della totale autonomia del sistema giuridico dal punto di vista formale. La norma è valida in quanto emanata, emanata in coerenza con il sistema delle norme; questo è il suo fondamento o la situazione definibile, nel suo insieme, come norma fondante. La norma fondamentale va dunque intesa in senso formale (formalismo giuridico) e coincide con il sistema del diritto come insieme di norme; si tratta dunque, per ribadire, di una realtà assoluta del dover essere inteso come sistema formale fonte di un ordinamento di norme. Si manifesta qui, ancora una volta la logica circolare del diritto come logica di sistema e della sua autonomia: giustificazione di norme a mezzo di norme e, di conseguenza, autonomia del diritto, dottrina pura del diritto, positivismo giuridico.
«La dottrina pura del diritto conserva la sua tendenza antideologica per il fatto che essa cerca di isolare la rappresentazione del diritto positivo da ogni specie di ideologia giusnaturalistica della giustizia. La possibilità della validità di un ordinamento che sovrasti il diritto positivo rimane per essa al di fuori di ogni discussione. Essa si limita a considerare il diritto positivo e impedisce così che la scienza del diritto lo faccia passare per ordinamento superiore o che attinga da un tale ordinamento la giustificazione del diritto oppure la discrepanza tra un qualsiasi presupposto ideale di giustizia e il diritto positivo venga abusivamente usata come argomento giuridico contro la validità di quest’ultimo. La dottrina pura del diritto è la teoria del positivismo giuridico.» (Teoria generale delle norme, 1979, 76)
3.2.2.5. Può servire per analogia: come la matematica si costituisce in sistema autofondante e non ha fondazione esterna che la legittimi ma si costituisce a partire dagli enti matematici che definisce e così costituisce; analogamente accade al diritto. Non sono per questa autonomia separati dalla realtà che regolamentano. Come la matematica diventa lo strumento per la conoscenza, la messa in teoria e la gestione tecnica dell’esperienza e della realtà naturale, ma non deriva la propria validità teorica e sistematica dall’uso empirico e tecnico che svolge nei confronti della natura, così il sistema del diritto, per il suo formalismo puro, ha la funzione di garantire la gestione del diritto positivo secondo validità e quindi efficienza. Si tratta di invenzioni umane: dell’uomo e per l’uomo.
Osserva Jürgen Habermas (in altro contesto): «Il principio di bivalenza («o vero o falso») continua a essere appropriato nel caso di enunciati empirici che riguardino qualcosa di esistente nel mondo oggettivo. Nel caso tuttavia dell’universo degli oggetti simbolici da noi prodotti, io credo che si abbia piuttosto a che fare con una classe di enunciati i quali hic et nunc non sono né falsi né veri. In altri termini, questi enunciati non diventano decidibili prima che a noi sia riuscito di costruire un procedimento fondativo analogo a ciò che in matematica funge da procedimento dimostrativo.» Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e associati, Milano 1997, 45)

3.3 una distinzione necessaria: separare dover essere (sollen) da essere (sein)
3.3.01. le distinzioni: occorre distinguere tra essere (sein) e dover essere; tra dovere naturale (necessità, müssen), dovere morale (obbligo, sollen); tra dovere morale e dovere giuridico.
3.3.1. Il diritto non appartiene al mondo dell’essere ma al mondo del dover essere. Questa sua collocazione e appartenenza esclude l’esistenza di un diritto naturale (che fa coincidere il dover essere con l’essere o viceversa che attribuisce carattere di essere al dover essere collocandolo al di fuori della norma emanata), così come esclude la derivazione della scienza giuridica del diritto puro dal campo delle scienze sociali (l’analisi del comportamento effettivo degli uomini appartenente alla sfera dell’essere, con gli aspetti psicologici e volontaristici, sociologici e politici che quel comportamento implica ai fini della sua comprensione e determinazione). Il dover essere è il contesto della norma giuridica, condizione necessaria per normatività e condizione necessaria per l’autonomia del diritto come sistema. «Non si può ridurre un dover essere (sollen) a un essere (sein) e un essere a un dover essere; non si può quindi neppure dedurre un essere da un dover essere, né un dover essere da un essere.» (Teoria generale delle norme, 1979, 96) «Questi due piani sono, in realtà, due metodi diversi d’indagare la realtà» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 437)
3.3.2. Se si accetta che il dover essere (sollen) esprime una necessità, occorre ulteriormente distinguere tra una necessità fisica di tipo causale deterministica e la necessità normativa (müssen) di tipo morale o giuridico.
«Una legge naturale è una affermazione che dimostra che se vi e A, vi è B, mentre una norma morale o giuridica è un’affermazione che dimostra che se vi è A, vi deve essere anche B. La differenza tra essere e dover essere è quella fra causalità e normatività (o imputazione).» (Kelsen Hans 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 338)
Nella necessità causale di carattere fisico il dovere (müssen) si riferisce al mezzo e secondo necessità; per esempio: per dilatare un metallo devo scaldarlo; il dovere, necessario (müssen), si riferisce al mezzo: quel comportamento, scaldare, è necessario se si vuole il fine, dilatare. Nella necessità (o dovere) morale o giuridica, o in generale normativa, il riferimento al mezzo non comporta la sua inequivocabile necessità; per esempio: come devo comportarmi con i nemici? amarli? avvelenarli? La volontà di un fine (fare qualcosa con i nemici) non comporta la necessità indiscutibile del mezzo. «Il fatto che un determinato comportamento sia il mezzo idoneo per realizzare un determinato fine non significa assolutamente che questo comportamento sia dovuto e cioè che sia prescritto da una norma corrette della morale o del diritto.» (Teoria generale delle norme, 1979, 24)
3.3.2.1. Pensare di ricavare il diritto dall’essere e il dover essere dall’essere (naturale o sociale) significa bloccare la nascita del diritto puro con le conseguenze che ne derivano: negare l’autonomia del diritto, negare il ruolo di garante formale della correttezza delle norme, impedire la nascita di un diritto positivo libero e coerente a fondamento e sostegno dell’autodeterminazione degli uomini e della democrazia.
3.3.2.2. Far derivare il dover essere (giuridico o anche morale) da un dovere di tipo naturale (cioè far cadere la distinzione tra essere e dover-essere) significa ridurre il diritto alla condizione di mezzo, privo in sé di una propria logica e una propria cogenza, renderlo manipolabile in rapporto ad un fine dichiarato (presentato come assoluto o naturale). Lo stesso motto ricorrente “il fine giustifica i mezzi” è errata logicamente e rischia l’iniquità morale e politica; la frase potrebbe essere giustificata se il raggiungimento del fine, come è formulato, è un assoluto indiscutibile, se il mezzo per raggiungerlo è uno solo, ma anche in questo caso: nessun mezzo è in grado di garantire un fine; mezzo e fine non si sovrappongono, appartengono ad ambito logici e reali diversi: essere (mezzo), dover essere (fine).
3.3.2.3. «Come dice già George Simmel… il “dover essere” è una categoria «originaria» [non derivata, non derivabile] al pari dell’essere [sein]». (Teoria generale delle norme, 1979, 4) «E’ una fallacia ricavare dal fatto che qualcosa di solito effettivamente accade il fatto che esso deve anche accadere. Da un essere non può logicamente scaturire un dover essere.» (Teoria generale delle norme, 1979, 7)
3.3.2.4. La scienza, dottrina pura, del diritto: è una scienza che si occupa della validità (dover essere), non dell’efficacia (essere) delle norme; è una scienza normativa, una scienza del dover essere fondata sul principio di imputazione «la quale cerca di conoscere e di descrivere (con definitiva chiarificazione formale) le disposizioni che indicano il modo con cui gli uomini devono comportarsi e le sanzioni che si debbono imputare ad essi nel caso in cui non si comportino nel modo indicato.» (R. Treves)

3.4. la logica delle asserzioni e la logica delle norme (la logica giuridica)
3.4.1. La logica non è una scienza normativa in senso positivo o in senso etico (di filosofia pratica): non statuisce norme prescrivendo un certo modo di pensare; non descrive norme di pensiero statuite da altra autorità; è il contesto delle asserzioni possibili, che possono essere vere o false (nessuna norma logica vieta di dire il falso, questo divieto è un imperativo pratico).
3.4.2. Una chiarificazione attraverso un confronto tra la logica delle asserzioni e la logica della norma, con una avvertenza: non si tratta di sostenere l’esistenza di una logica specificamente giuridica; la logica giuridica è una delle speciali applicazioni della logica formale. «“La logica giuridica… è la logica formale usata nel ragionamento giuridico. Non costituisce una branca speciale, ma è una delle speciali applicazioni della logica formale” (Ilmar Tammelo)… nella misura in cui la logica sia ad esse applicabile.» (Teoria generale delle norme, 1979, 462). Tuttavia nel capo della filosofia pratica in generale (e quindi anche nel campo del diritto) la logica assume procedimenti adeguati al campo in costruzione; una analoga convinzione espressa da Jürgen Habermas: «Se trascurassimo le differenze esistenti tra le pretese di validità assertiva e quelle di validità normativa, finiremmo per fraintendere le prestazioni offerte dalla ragion pratica.» (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà, 44) e «… gli enunciati normativi hanno un comportamento grammaticale diverso dagli enunciati valutativi (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà, 81)

logica delle asserzioni
(anche asserzioni sulle norme) logica delle norme
indagine sulla struttura formale del diritto
l’asserzione rimanda la propria validità a verità o falsità (deve essere verificabile) la norma rimanda la propria validità all’atto di statuizione del legislatore
alla asserzioni si applica il principio di non contraddizione; si esce dalla contraddizione tra due asserzioni dichiarando la falsità (la non esistenza) di una di esse o di entrambe nel caso di un conflitto di norme, entrambe sono valide, altrimenti non ci sarebbe conflitto; si esce dalla contraddizione solo abrogando (attraverso una norma derogatoria)
la deduzione sillogistica, in campo logico, è teoretica:
-è necessaria (pena la contraddizione)
-il procedimento non incrementa il contenuto è analitico deduttivo
-le proposizioni sono tra loro omogenee e non si procede sulla base della analogia, e nella connessione si procede secondo principio di causalità e di necessità; in forma di sillogismo ipotetico: se è A, è (necessariamente) B.
- la verità di una asserzione generale comprende la verità di una asserzione individuale (dagli uomini a Socrate) la deduzione sillogistica, in campo giuridico, è normativa (è un processo normativo):
-riguarda atti di volontà (non necessari)
-il procedimento produce nuovo diritto non deducibile ma formulato con coerenza
-le proposizioni non sono tra loro omogenee
. norma generale / norma individuale non sono deducibili l’una dall’altra
. risalgono a due diversi atti di volontà (anche a livello istituzionale: legislatore, giudice)
. per applicare una norma generale al caso concreto ricorre il ragionamento analogico, e la relazione tra enunciati è basata sul principio di imputazione; in forma di sillogismo ipotetico: se è A (un illecito), deve essere B (la sanzione).
3.4.3. L’ordinamento giuridico è una concatenazione produttiva che si articola secondo livelli:
3.4.3.1. la costituzione: norme che determinano il procedimento generale della produzione giuridica del legislatore (e può anche determinare la direzione del progredire della legislazione);
3.4.3.2. la legislazione: norme prodotte nel corso del procedimento legislativo (nella forma di legge, regolamento, decreto);
3.4.3.3. la giurisdizione: la norma va individualizzata per raggiungere il suo proprio significato e nell’applicazione concreta è produzione di diritto (la giurisdizione è costitutiva di diritto);
3.4.3.4. l’amministrazione: le leggi amministrative rientrano negli atti coattivi imposti da organi statali e sono dunque produzione di norme. «Ogni atto dello Stato non può che essere giuridico … produzione o esecuzione di norme giuridiche» (Teoria generale delle norme, 1979, 142)

3.5. diritto e morale: il tema del valore e la differenza del termine valore tra etica e diritto.
3.5.1. nel campo del diritto, il valore si fonda sulla norma (e non viceversa); la norma costituisce il fondamento di un valore (positivismo giuridico) «Per il fatto che la norma costituisce il fondamento di un valore, l’asserzione relativa ad una norma implica l’asserzione sul valore fondato su tale norma.» (Teoria generale delle norme, 1979, 296). «Un valore, nell’accezione specifica di questo termine, cioè un valore oggettivo [non soggettivo], viene creato soltanto dalla norma» (Hans Kelsen 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 339); una eventuale affermazione di valori senza la norma che li fonda non fa sorgere alcun contesto giuridico operativo o dotato di senso. «Senza presupporre una norma generale che prescriva (o proibisca) qualche cosa, non possiamo formulare un giudizio di valore nel significato obiettivo del termine. Il valore attribuito ad un oggetto non è dato dalle proprietà dell’oggetto senza riferimento alcuno ad una norma presupposta. Il valore non è inerente all’oggetto giudicato prezioso, ma è nella relazione di questo oggetto con una norma presupposta. Noi non possiamo trovare il valore di una cosa o di un comportamento analizzandoli. Il valore non è immanente al reale e non lo si può quindi dedurre da esso. Il fatto che qualcosa è, non implica che debba essere o essere fatta oppure che debba non essere o non essere fatta. Il dato sperimentale che i pesci grossi divorano i pesci piccoli non implica che il comportamento dei pesci sia buono né che sia cattivo. Non vi è alcuna illazione logica dall’essere al dover essere, dalla realtà naturale al valore morale o legale.» (Kelsen 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 339).
Si sta lavorando in una doppia direzione: 1. non è possibile confondere il valore nel campo del diritto con il valore morale (questo si presenta solitamente come fonte della norma, quello invece esiste in forza di una norma); 2. va ricordato l’invito a non identificare o non porre in rapporto di derivazione il dover essere dall’essere, né in campo morale, né in campo giuridico. In campo morale, verrebbe negata la sua autonomia; anche l’idea kantiana di un imperativo fondato su di una realtà fine a sé, che sembra rimandare ad una realtà in sé, è tuttavia un enunciato di valore: la realtà di riferimento acquista la caratteristica di essere fine a sé in forza di un enunciato morale, un imperativo categorico, il secondo. In campo giuridico, è la norma fonte del valore; questo è l’errore del giusnaturalismo. «Il giusnaturalismo presuppone che il valore sia immanente nella realtà e che questo valore sia assoluto o, il che è lo stesso, che una volontà divina sia inerente alla natura. Solo con questo presupposto è possibile sostenere la teoria che il diritto può essere dedotto dalla natura e che questo diritto è giustizia assoluta. Poiché l’assunto metafisico della immanenza del valore nella realtà naturale non è accettabile dal punto di vista della scienza, la dottrina del diritto naturale è basata sull’errore logico di un salto dal piano dell’essere a quello del dover essere. Le norme che si adducono come ricavate dalla natura sono, in verità, tacitamente presupposte e si basano su valori soggettivi, che sono presentati come le intenzioni della natura in qualità di legislatore. Identificando le leggi della natura con le norme giuridiche, pretendendo che l’ordinamento della natura è o contiene un giusto ordinamento sociale, la dottrina del diritto naturale, similmente all’animismo primitivo, concepisce la natura come parte della società.» (Kelsen 1949 La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 341)
3.5.2. la particolare situazione di un eventuale conflitto tra morale e diritto (tra norme di due diversi sistemi relative allo stesso comportamento). Osserva Habermas: « Le norme sono o valide o non valide; i valori invece sono sempre in competizione per primeggiare contro altri valori e ogni volta devono essere disposti in un ordine transitivo.» Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e associati, Milano 1997, 79)
3.5.2.1. «Il diritto non prescrive una morale con un certo contenuto; tuttavia, applicando un determinato ordinamento giuridico, può essere giudicato illecito un comportamento conforme a una certa morale, mentre può essere giudicato lecito un comportamento che violi una certa morale.» (Teoria generale delle norme, 1979, 355) (Ad esempio il diritto può giudicare illecito un principio della morale aristocratica come il principio d’onore; può considerare lecito un comportamento condannato da una morale come, ad esempio, quella cattolica che vieta aborto e uso di contraccettivi.) Perché in generale: «Kelsen distacca il concetto giuridico di persona non solo dalla persona morale, ma addirittura dalla persona naturale, dal momento che – autonomizzandosi del tutto – un sistema giuridico deve poter funzionare con le sole finzioni concettuali da esso prodotte.» (Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, 108)
3.5.2.2. «Il diritto non può abolire la validità di una morale in conflitto con esso, così come la morale non può abolire una norma giuridica in conflitto con essa […] il diritto impone all’organo applicante (il giudice) di applicare solo norme di questo ordinamento […] non può applicare una norma morale se in conflitto con la norma giuridica in vigore […] la morale non viene con ciò annullata; lo attesta il fatto che essa può disapprovare sul piano morale una sentenza giudiziaria in conflitto con essa.» (Teoria generale delle norme, 1979, 355-356)
Se sembra che ci sia il rischio che la lontananza del diritto dalla morale affidi la politica all’arbitrio del diritto positivo è altrettanto più concreto (e fatto storico ancora contemporaneo e quotidiano) che la predominanza dell’etica (di un’etica) subordini il diritto ad una ideologia (particolare e di parte); inoltre, si dimentica il ruolo del diritto come garante formale della correttezza del diritto positivo (sottratto perciò formalmente all’arbitrio; la sua sottrazione materiale e positiva all’arbitrio avviene nel contesto della democrazia).
3.5.3. Non è la morale che fonda il diritto, facendo appello all’enunciazione di propri principi e valori; in tal caso vi sarebbe una radice ideologica del diritto e il diritto perderebbe la propria autonomia. Solo il diritto, in forza della propria logica e come dottrina del diritto puro, può rendere giuridicamente efficace una morale in quanto un valore diventa oggettivo se viene creato, affermato dalla norma. Il dover essere del diritto, contenuto nella norma giuridica, non è di tipo morale (cioè non è finalistico, non ha valenze metafisiche assolute come suo fondamento e impulso…) si riconduce al rapporto tra condizione e conseguenza quale si presenta nella proposizione giuridica: cioè in termini non di causalità ma di imputazione.
3.5.4. Se la morale è profondamente soggettiva sia nella attribuzione di atti intenzionali e di responsabilità, sia, secondo l’impostazione kantiana, per il suo fondamento nell’imperativo categorico espressione della ragion pratica (coscienza) del soggetto, il diritto attua la dissoluzione del soggettivo. Il contenuto della norma giuridica non è la persona ma è il comportamento umano (non animale), gli atti quali vengono contemplati e regolati dall’ordinamento giuridico. Non esiste quindi un “diritto soggettivo” ma la collocazione (per definizione, regolamentazione e giudizio) degli atti in un sistema di norme: «dissolvere il così detto diritto soggettivo in tutte le sue forme di manifestazione». (Teoria generale delle norme, 1979, § 26) Vale a dire che se esistono diritti soggettivo o individuali esistono in quanto sono diritti universali e ogni uomo, come tale vi partecipa. Non possono presentarsi come possesso esclusivo, in tal caso si tratterebbe di privilegi che includono ed escludono, non possono attribuirsi l’universalità necessaria per presentarsi come diritti. Lo stesso invito a tener conto delle situazioni particolari o individuali è un principio universale e non crea un diritto soggettivo in senso escludente o riservato.
A ribadire ulteriormente la necessità che il diritto si articoli in forma oggettiva, come diritto oggettivo, concorrono ancora due osservazioni di Kelsen, l’una critica, l’altra propositiva.
3.5.4.1. In critica al concetto di diritto soggettivo (dichiarato da Kelsen inesistente) che tende a rendere giuridica, a far cadere nell’ambito del diritto, la persona (che diventerebbe creatura del diritto) e non i suoi atti, e che si pone in antitesi al “diritto oggettivo”, Kelsen presenta quella tesi come una «concezione avvocatesca che considera il diritto soltanto dal punto di vista dell’interesse di parte, e cioè in considerazione di ciò che significa per ogni singolo, in quanto gli giova, cioè serve ai suoi interessi, o in quanto gli nuoce, cioè lo minaccia con un male.» (Teoria generale delle norme, 1979, 93) La difesa del singolo, in nome di un diritto soggettivo, è in realtà consegna della persona al diritto, come se la sfera giuridica fosse competente a definire la persona in senso personalistico o addirittura metafisico, certamente ideologico. Si tratta di una paurosa deriva “biopolitica” che sottrae al soggetto l’autonomia in campo morale.
3.5.4.2. Di contro, in proposta. «L’atteggiamento della dottrina pura del diritto è viceversa del tutto oggettivistico e universalistico. Essa è rivolta fondamentalmente alla totalità del diritto e cerca solo di comprendere ogni singolo fenomeno nel nesso sistematico con tutti gli altri e di comprendere in ogni parte del diritto la funzione della totalità del diritto.» (Teoria generale delle norme, 1979, 93)
La radice di questa posizione sta nella diversa natura costitutiva della morale e del diritto; osserva Habermas in proposito: «Rispetto alla morale il diritto ha un carattere artificiale, ed è per questo che un ordinamento giuridico viene «costruito» piuttosto che «scoperto». (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e associati, Milano 1997, 62)
È dunque sempre la totalità del diritto ad essere chiamata in causa nella sua coerenza formale di fronte al compito della comprensione e regolamentazione degli atti che si propongono storicamente alla propria attenzione; in tale ruolo la dottrina pura del diritto mostra l’impossibilità del diritto stesso di fare appello in modo definitivo a valori assoluti che provengano ideologicamente da altre sedi (morale, religiosa, consuetudinaria…). Non è escluso che li possa appoggiare nella costituzione del diritto positivo, in quanto formalmente corretti e coerenti, democraticamente e relativisticamente proposti e scelti; valgano le parole di Jürgen Habermas: «La pregnanza etica del diritto non cancella minimamente i suoi contenuti universali.» (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà, 40)
Dunque, il tema del “diritto soggettivo”, che sembra avere le fattezza delle dottrine liberali, in realtà presuppone una implicita attenzione del diritto alla persona e una possibilità che lo Stato si attribuisca la possibilità o il compito di definirne forma e ruoli. Negarne l’esistenza e ricondurre le competenze del diritto agli atti regolamentati da norme (e solo a quelli) significa invece costruire una posizione che salva la persona come soggetto morale, la sottrae al giudizio e alla regolamentazione dello Stato in ambiti esterni alla sfera giuridica, si oppone a ogni forma di “biopolitica”, è a difesa e sostegno della libertà.

3.6. portata culturale generale del positivismo giuridico con riferimento alla contemporaneità:
3.6.1. L’autofondazione del diritto è alla base della sua autonomia. Ciò sembra collocare la teoria pura del diritto in totale isolamento nel confronti di quel vivere sociale di cui è comunque espressione e a cui fa riferimento per la sua utilità ed efficacia. Ma proprio nella sua formulazione come sistema puro delle norme l’autonomia del diritto implica la totale assunzione di responsabilità degli atti di volontà giuridici nei confronti del vivere civile (a controbattere alle accuse di indifferenza morale e politica delle teorie di Kelsen) e sottolinea “l’importanza dell’ideale formale a cui deve tendere il diritto oggetto della dottrina pura del diritto, cioè l’ideale di assicurare la pace su di una base relativamente permanente” (R.Treves).
3.6.2. La norma posta a fondamento del dover essere e del valore è contesto di gestione programmata dei processi evolutivi sociali contemporanei: su tale sfondo le due sezioni dell’opera (Lineamenti di dottrina pura del diritto): La prima, la statica: o la depurazione delle strutture giuridiche formali dai contenuti empirici e metafisici (ideologici, o riferiti a natura, morale, giustizia … ) (capitoli 1-4). La seconda, la dinamica: o “i limiti del formalismo e l’esigenza del suo superamento”; cioè: «Nel trattare numerosi argomenti: la co¬struzione a gradi dell'ordinamento giuridico, la produzio¬ne e l'applicazione del diritto, i rapporti fra stato e diritto e fra diritto statale e diritto internazionale, è infatti co¬stante lo sforzo di porre a contatto il dover essere del di¬ritto con la sfera dell'essere a cui appartengono i compor¬tamenti umani che lo producono e lo applicano. Così, egli spiega come l'ordinamento giuridico positivo trovi nell'ef¬ficacia la condizione della sua validità e della sua stessa esi¬stenza e come esso faccia capo ad una norma fondamenta¬le che può essere intesa, non soltanto come una ipotesi, ma anche come un fatto o come una ideologia. Egli sostie¬ne inoltre che la posizione e la scelta di questa norma fon¬damentale non avviene in base ad un atto di conoscenza, ma di volontà e riconosce che in base ad un atto di volon¬tà è avvenuta, ad esempio, la propria scelta della norma fondamentale del diritto internazionale come norma su¬periore a quella del diritto statale. Egli afferma infine che, dal punto di vista dinamico, non vi è una sostanziale diffe-renza tra produzione e applicazione del diritto. Relativa¬mente al problema dell'interpretazione della legge, Kelsen ritiene poi che si deve respingere la giurisprudenza dei concetti, che è la tipica espressione del formalismo giuri¬dico, e ci si deve avvicinare alle dottrine opposte per le quali il giudice è il creatore del diritto e la giurisdizione non ha soltanto una funzione dichiarativa, ma produttiva e costitutiva»; riemerge così, a superare il formalismo, il contesto della tradizione e della formazione di Kelsen, l’atmosfera della Common Law e la convinzione che la stessa dottrina pura del diritto sia fondamentalmente, al di là del suo specifico formalismo, un fenomeno sociale assai più vasto e complesso.» (R.Treves) (capitoli 5-9).
3.6.3. Vale per il diritto ciò che vale per ogni processo di definizione e chiarificazione: definito l’ambito del definibile secondo logica e autonomia, il resto (e magari di maggior rilevanza da altri punti di vista) rimane all’esterno del diritto (come le asserzioni circa il bene, il bello, il giusto, la verità…). Kelsen parla di «ordinamento giuridico come sistema di norme logicamente chiuso» (Teoria generale delle norme, 1979, 112) (e logicamente chiuso significa autonomamente e formalmente controllato, ma va di pari passo con “materialmente aperto”). La teoria pura del diritto ha chiarito i propri confini come “un’isola” nel campo di un vasto mare di realtà (richiamando così la metafora formulata da Kant quando parlando dell’intelletto definito e descritto nelle sue forme a priori afferma: «questa terra è un’isola, chiusa dalla sua stessa natura entro confini immutabili» Kant Critica della ragion pura, 243) e si tratta, a prima impressione, di un lavoro limitato quanto alla sua rilevanza vista l’ampiezza dell’esperienza possibile e dei problemi dell’uomo.
3.6.4. Ma, la costituzione di un dottrina del diritto puro, nella sua caratterizzazione formale, indica anche i confini e l’ambito di movimento possibile di uno Stato e di una politica fondata sul diritto di cui peraltro è fonte: essa lascia rigorosamente all’esterno di sé tutto il vasto campo della scelta dei contenuti dell’etica, dell’estetica, della verità scientifica, dei valori religiosi… quando questi ambiti non rientrano nella regolamentazione formale della sfera del diritto. Non può dunque esistere uno Stato etico, come non esiste un diritto naturale che prevalgano sul diritto positivo come fonte eterna e intoccabile di norme. Perciò, la costituzione di una teoria pura del diritto impone e rimanda alla democrazia e viceversa, formalismo e positivismo giuridico si rivelano essere condizione e essenza della democrazia; i due contesti si implicano.

4. il progetto nella sua articolazione politica: dottrina del diritto puro, positivismo giuridico e democrazia.
Kelsen Hans 1929-1955 I fondamenti della democrazia, il Mulino, Bologna 1966 (una raccolta di studi dal 1929 al 1955. I due principali Essenza e valore della democrazia 1929; I fondamenti della democrazia 1955)
Il passaggio logico e il legame necessario (nel senso della filosofia pratica e del diritto) tra questi tre ambiti: dottrina pura del diritto, positivismo giuridico, democrazia così è posto in chiaro, in generale, in una battuta, da Jürgen Habermas: «dal momento che non possiamo più contare né su convinzioni religiose condivise né sulla validità d’un diritto naturale classico, l’ordinamento giuridico — che nel suo insieme dipende sempre, a prescindere dalle sanzioni dello Stato, da un riconoscimento più o meno libero da parte dei cittadini — può soltanto fondare la sua legittimità sopra un procedimento, e precisamente sopra un procedimento democratico. […] Lo Stato di diritto implica democrazia, giacché come destinatari delle norme giuridiche noi dobbiamo, nello stesso tempo, anche potercene considerate i coautori.» (Habermas Jürgen 1993-1996 Solidarietà tra estranei. Interventi su «Fatti e norme», Guerini e associati, Milano 1997, 143)
E ancora, a fugare da subito timori che la presentazione del diritto come diritto positivo possa accompagnarsi all’arbitrio del legislatore, va richiamato il ruolo della ragione nella vita democratica caratterizzata da autonomia dei processi decisionali: «La positività del diritto si collega alla promessa che il procedimento democratico della produzione giuridica giustifichi la presunzione che le norme statuite siano razionalmente accettabili. La positività del diritto non esprime la fattualità d’una volontà arbitraria e assolutamente contingente, bensì la volontà legittima derivante dall’autolegislazione presuntivamente ragionevole di cittadini politicamente autonomi. Anche in Kant il principio democratico serviva a colmare un deficit: un sistema di egoismo giuridicamente regolato non è mai in grado di riprodursi da solo, ma ha bisogno del consenso di fondo dei cittadini.» (Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, 43-44) «… la positività del diritto non può fondarsi soltanto sulla contingenza di decisioni arbitrarie (cioè sulla pura decisione) senza compromettere immediatamente la sua forza d'integrazione sociale. In realtà il diritto trae la sua forza vincolante dall'alleanza che la positività giuridica stringe con la pretesa di legittimità.» (Habermas 1992, Fatti e Norme, 50)

4.1. La libertà. La metamorfosi dell’idea di libertà: la libertà naturale si trasforma in libertà sociale.
4.1.1.Libertà e uguaglianza e il concetto di “libertà naturale”.
«Nell’idea di democrazia si incontrano due postulati della nostra ragion pratica, reclamano soddisfazione due istinti primordiali dell’essere sociale» (Kelsen 1929 Essenza, 7): libertà e uguaglianza. Non vogliamo essere comandati o costretti, perché siamo tutti uguali. Così idealmente. Ma nella realtà, «se vogliamo essere tutti uguali, dobbiamo lasciarci comandare. […] La libertà naturale si trasforma in libertà sociale o politica. È politicamente libero chi è sottomesso, sì, ma alla volontà propria, non alla volontà esterna.» (Kelsen 1929 Essenza, 8)
4.1.2. Libertà e legge o la libertà sociale.
Dalla concezione naturale alla concezione sociale della libertà nella legalità (e una ambivalenza persistente); libertà nelle regole che la garantiscono.
«In termini di teoria della conoscenza, se la società deve esistere come sistema diverso dalla natura, accanto alla legalità naturale deve esistere una legalità sociale specifica. La norma viene a opporsi alla legge causale.[…] L’ascesa alla società (o alla libertà sociale) significa “libertà dalla legalità naturale”. Questa contraddizione si risolve soltanto allorché la “libertà” diventa l’espressione di una legalità specifica, cioè della legalità sociale (vale a dire etico-politica e giuridico-statale), allorché l’antitesi della natura e della società diviene quella di due legalità diverse e, quindi, di due modi diversi di considerazione.» (Kelsen 1929 Essenza, 8,9)
Processo di «denaturazione a cui viene sottoposto l’originario istinto di libertà, su quella via che porta la coscienza umana dallo stato di natura allo stato di ordine sociale. Questa trasformazione semantica nella nozione di libertà è una caratteristica della meccanica del nostro pensiero sociale. L’importanza davvero enorme dell’idea di libertà nell’ideologia politica sarebbe inesplicabile se essa non provenisse dal profondo dell’anima umana, da dove proviene pure quell’istinto primitivo anti statale che spinge l’individuo contro la società. Pur tuttavia, per un’illusione quasi incomprensibile, quest’idea di libertà non viene che ad esprimere una determinata posizione dell’individuo nella società. Dalla libertà dell’anarchia, si forma la libertà della democrazia.» (Kelsen 1929 Essenza, 9)
«Libertà politica significa accordo tra la volontà individuale e quella collettiva espresse nell’ordinamento sociale.» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 165)
Il concetto in ripresa: «Il simbolo di libertà deve subire un fondamentale mutamento di significato per diventare una categoria sociale. Non deve più significare la negazione di ogni ordinamento sociale, uno stato di natura caratterizzato dall’assenza di ogni forma di governo, e deve assumere il significato di un metodo specifico per stabilire l’ordinamento sociale e uno specifico tipo di governo. […] La libertà naturale si trasforma in libertà sociale o politica. Essere liberi socialmente o politicamente significa, é vero, essere soggetti ad un ordinamento normativo, significa libertà sottoposta alla legge sociale; ma significa essere soggetti non ad un volere estraneo, bensì al proprio, ad un ordinamento normativo, ad una legge alla cui istituzione il soggetto partecipa.» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 151-152)
In sintesi: nella libertà naturale le regole sono vissute come oppressione; nella libertà sociale le regole risultano necessarie perché la libertà venga garantita; tocca al regime di democrazia definire come e quali regole svolgono questo ruolo.
4.1.3. La democrazia: dalla libertà naturale alla libertà sociale.
Il passaggio dalla libertà naturale (ostile a qualsiasi forma di legge e di stato) alla libertà sociale (che vede nella legge una garanzia e una realizzazione di libertà) è possibile nella (ed è la nascita della) democrazia descritta da Rousseau, in termini ideali: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga ogni membro ad essa appartenente e nella quale l’individuo, pur unendosi a tutti gli altri, obbedisca soltanto a se stesso e resti libero come prima.» (Rousseau, Contratto sociale L. I, cap. 6) (citato in Kelsen 1929 Essenza, 10)
«Se definiamo la democrazia come un metodo politico mediante il quale l’ordinamento sociale è creato ed applicato da coloro che sono soggetti all’ordinamento stesso, in modo da assicurare la libertà politica nel senso di autodeterminazione, allora la democrazia serve necessariamente, sempre e ovunque l’ideale della libertà politica.» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 121)
4.1.3.1. È l’utopia (in prospettiva ideale) della democrazia diretta, unita all’unanimità nella volontà generale. Ma si tratta di una unanimità che lo stesso Rousseau vede in azione solo nel contratto iniziale, come atto di nascita dello stato democratico o da intendere (forse) come postulato trascendentale politico.
4.1.3.2. Il realismo dell’utopia (il suo presentarsi come una prospettiva reale) imposto dalla persistenza di due postulati che delineano l’area di conflitto e la trasformazione necessaria per il sorgere di una democrazia funzionale. La distinzione tra libertà naturale e libertà sociale segnala la persistenza di due imprescindibili postulati politici: la libertà individuale, la volontà generale unanime per il sociale. La loro conservazione (situazione antitetica) e la loro conciliazione (situazione sociale) richiede una nuova metamorfosi dell’idea di libertà nella democrazia: che valga il principio di maggioranza, lasciando sullo sfondo l’ideale della unanimità.
4.1.3.2.1. «A questo punto appare chiaramente l’insolubile conflitto che oppone l’idea della libertà individuale a quella di un ordine sociale il quale, per la sua più intima essenza, deve valere obiettivamente, cioè, in ultima analisi, indipendentemente dalla volontà di coloro che sono ad esso sottomessi.» (Kelsen 1929 Essenza, 11) Non può essere condizionato da quella volontà individuale, perderebbe altrimenti «ogni senso sociale». «La democrazia rinuncia, per l’elaborazione di un ulteriore ordine sociale, all’unanimità che, ipoteticamente, si sarebbe applicata alla sua fondazione per contratto e si accontenta delle decisioni prese dalla maggioranza, limitandosi ad avvicinarsi al suo ideale originario. Che si continui a parlare di autonomia e a considerare ognuno come sottomesso alla sua propria volontà, mentre quella che vale è la legge della maggioranza, è un nuovo progresso della metamorfosi dell’idea di libertà.» (Kelsen 1929 Essenza, 11-12)
«Se si accetta il principio della maggioranza per lo sviluppo dell’ordinamento sociale non si può più attuare completamente l’idea di libertà naturale, ma è possibile solo approssimarsi ad essa. Che la democrazia sia ancora considerata come autodeterminazione, che la sua libertà significhi ancora che ognuno è soggetto solo alla propria volontà, sebbene la volontà della maggioranza sia vincolante, è un ulteriore passo avanti nella metamorfosi dell’idea di libertà. Anche l’individuo che vota con la maggioranza non è soggetto solo alla propria volontà. Egli se ne rende immediatamente conto quando muta la volontà che ha espresso col voto. Il fatto che tale mutamento della sua volontà individuale sia legalmente irrilevante mostra appieno che egli è soggetto ad una volontà estranea o, per dirla senza metafora, alla validità oggettiva dell’ordinamento sociale.» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 163)
4.1.3.2.2. Ma questa metamorfosi della democrazia verso la maggioranza, e non il postulato ideale dell’unanimità, costituisce in effetti la vera essenza della democrazia per gli individui e per la politica. Per gli individui realizza il loro confronto con la dimensione sociale e civile; per la sfera politica avverte e conserva la distanza tra le decisioni adottate, nel politico e nel sociale, e la natura infinita delle libertà individuali, sottolinea la contingenza del politico e, mentre ne rende possibile l’attuazione, ne conserva contemporaneamente il relativismo; dà il via dunque al concetto di democrazia come «un ordine avente valore obiettivo», non dipendente dal formarsi delle maggioranze e della loro storica variabilità, nella consapevolezza della loro incapacità, comunque, di dare soddisfazione alle libertà individuali plurime e a loro volta variabili. È cioè (anche) il principio di maggioranza a rendere ben presente la distanza tra interessi individuali, particolaristici e il bene comune; esso ribadisce la non rinunciabilità al bene comune per la ricerca di un bene privato, fa scoprire l’opportunità della distanza tra utile privato e bene comune in quanto una simile differenza può diventare il luogo del confronto sociale e dunque delle realizzazione di sé.
«È molto importante considerare che la trasformazione dell’idea di libertà naturale, come essenza di governo, nell’idea di libertà politica, come partecipazione al governo, non implica un completo abbandono della prima. Ciò che rimane è il principio della restrizione dei poteri governativi, principio fondamentale del liberalismo politico. La democrazia moderna non può essere separata dal liberalismo politico. Il suo principio è che il governo non deve interferire in certe sfere di interessi proprie dell’individuo, che devono venir protette dalla legge come diritti umani fondamentali o diritti di libertà; rispettando i quali le minoranze sono salvaguardate dal dominio arbitrario delle maggioranze.» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 169-170)
4.1.3.2.3. A sostegno della conciliazione tra libertà individuale e libertà politica del soggetto vale la complessiva impostazione della riflessione di Kelsen: la teoria pura del diritto permette di sostenere e appoggiare il «carattere razionalistico della democrazia»: «Il carattere razionalistico della democrazia si manifesta soprattutto nella tendenza a fare dell’ordinamento giuridico dello Stato un sistema di norme generali creato secondo una procedura organizzata proprio a questo scopo. […] Questa dottrina si rifiuta di cercare l’essenza dello Stato in una sfera al di là o al di sopra del reale; essa la trova nella validità e nell’efficacia dell’ordinamento normativo e perciò nelle menti degli esseri umani che sono i soggetti degli obblighi e dei diritti stabiliti da tale ordinamento» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 172, 182) La democrazia si fa così oggettiva e ad un tempo relativa a sostegno e garanzia delle libertà.
4.1.4. Urgenza del concetto di democrazia oggettiva e posta fuori dal contratto (precontrattuale).
Sottrarre la società, lo Stato e la democrazia alle delibere individuali e ad un ipotetico contratto di fondazione del sociale, quale quello teorizzato dai contrattualisti, non ha l’effetto di negare le presunte libertà naturali sottoponendole al vincolo della società e dello Stato nella forma della democrazia (maggioritaria), ma di conservare e realizzare quelle libertà nelle garanzie poste dal sociale. Società, Stato e democrazia si configurano allora come un trascendentale politico, un originario formale in cui trovano sede la dottrina politica del diritto puro autonomo (come norma emanata) e il tema etico umano della libertà; non sono risultato di una pratica sociale, di un accordo o patto preliminare (che peraltro fa presupporre come già esistente quella società politica che il patto dovrebbe far nascere).
«La fondazione dello Stato, la creazione originaria dell’ordine giuridico o della volontà dello Stato, non rientrano nella pratica sociale. Si nasce, per lo più, in un ordine statale preesistente, alla cui creazione non si ha contribuito e che deve, in seguito, apparire come una volontà esterna. Il problema che si presenta è soltanto quello del perfezionamento di quest’ordine, delle modifiche da apportare ad esso. E sotto questo punto di vista, il principio della maggioranza assoluta (e non della maggioranza qualificata) rappresenta l’approssimazione relativamente maggiore dell’idea di libertà.» (Kelsen 1929 Essenza, 13)
«La discordanza fra la volontà dell’individuo, punto di partenza dell’esigenza di libertà, e l’ordine statale, che si presenta all'individuo come una volontà estranea, è inevitabile. E in uno Stato democratico, dove questa discordanza è ridotta ad un minimo approssimativo, si verifica una nuova trasformazione nell’idea di libertà politica. La libertà dell’individuo la quale, in ultima analisi, si rivela come irrealizzabile, finisce per restare in secondo piano, mentre la libertà della collettività le succede in primo. […] La volontà delle singole personalità liberano una misteriosa volontà collettiva ed una persona collettiva addirittura mistica. […] In regime democratico è lo Stato stesso che appare come soggetto del potere. Qua il velo della personificazione dello Stato copre il fatto, insopportabile ad una sensibilità democratica, di un dominio dell’uomo sull’uomo. La personificazione dello Stato diventa la base della teoria del diritto pubblico contemporaneo, ha le sue radici in questa ideologia della democrazia. […] Si afferma anzi con insistenza che l’individuo che crea l’ordine dello Stato, unito organicamente agli altri individui, è libero proprio nel legame di questa unione e in essa soltanto. […] Alla libertà dell’individuo viene a sostituirsi, come esigenza fondamentale, la sovranità popolare o, che è lo stesso, lo Stato autonomo e libero.» (Kelsen 1929 Essenza, 15-17)
Si attua qui una radicale identificazione: la sovranità popolare è lo Stato autonomo e libero. Si porta cioè a chiarezza come con sovranità popolare non si intende un principio che, in forza della presunta delega del voto, legittimi un comportamento qualsiasi delle istituzioni, al di sopra di ogni controllo e norma, ma una sovranità che ribadisce l’autonomia e la forza dello Stato nel suo impianto normativo a più livelli e in contesto di popolo come democrazia realizzata.
«La metamorfosi dell’idea di libertà porta, dall’idea, alla realizzazione della democrazia» (Kelsen 1929 Essenza, 18; si tratta della frase di inizio del capitolo secondo: Il popolo)

4.2. il popolo
4.2.01 una rilevante questione di metodo e di impostazione e l’urgenza di una puntualizzazione di termini ricorrenti (e luoghi comuni): «Molti malintesi, nella discussione del problema, vengono originati dal fatto che c’è chi parla soltanto dell’idea e chi soltanto della realtà del fenomeno mentre bisognerebbe tener raffrontati questi due elementi, considerando la realtà alla luce dell’ideologia che la domina, l’ideologia dal punto di vista della realtà che la sostiene. E questo antagonismo fra idea e realtà non vale soltanto per il principio fondamentale della democrazia: l’idea di libertà. Esso lo si ritrova in tutti gli elementi che costituiscono quest’idea; così, in particolare, nella nozione di popolo.» (Kelsen 1929 Essenza, 18) Applicando: «La portata della transizione dalla nozione ideale a quella reale di «popolo» non è, così, meno profonda della metamorfosi della «libertà» naturale in «libertà» politica. Si deve perciò ammettere che una distanza enorme separa l'ideologia dalla realtà, anzi, l’ideologia dalla sua realizzazione massima possibile.» (Kelsen 1929 Essenza, 32)
4.2.1. in democrazia il popolo è soggetto e oggetto in riferimento alla legislazione e al diritto.
È più oggetto che soggetto vista la a. impossibile unanimità; b. il carattere numericamente ristretto del soggetto legislativo (una specie di aristocrazia / oligarchia in contesto democratico). Si può dire che in contesto ideale (come obiettivo da raggiungere o punto prospettico/ideale) il popolo è soggetto; in contesto reale il popolo è oggetto. È da porre in discussione il concetto non solo di popolo quanto di unità del popolo e definire di che tipo di unità si parla: ideale (come postulato), reale, giuridica… e in quali ambiti (etica, politica, cultura…)
«Non si può negare che il popolo, come massa di individui di differenti livelli economici e culturali, non ha una volontà uniforme, che solo l’individuo possiede un volere reale e che la cosiddetta «volontà popolare» è un modo di dire figurato e non una realtà. Ma la forma di governo definita come «governo del popolo» non presuppone una volontà del popolo volta a realizzare ciò che, secondo l’opinione di questo, costituisce il bene comune. Il termine sta a designare un governo a cui il popolo partecipa direttamente o indirettamente, vale a dire un governo esercitato mediante decisioni prese a maggioranza da un’assemblea popolare o da uno o più gruppi di individui o anche da un solo individuo eletto dal popolo.» (Kelsen 1955, I fondamenti della democrazia, 118)
«…l’unità del popolo rappresenta un postulato etico-politico che l’ideologia politica assume come reale con l’aiuto di una finzione tanto universalmente accettata che ormai non si pensa più di criticare. In verità, il popolo appare uno, in un senso più o meno preciso, dal solo punto di vista giuridico; la sua unità, che è unità normativa, risulta, in realtà, da un dato giuridico: la sottomissione di tutti i suoi membri al medesimo ordine giuridico statale in cui si costituisce […] l’unità dei molteplici atti umani, la quale rappresenta il popolo come elemento dello Stato, di uno specifico ordine sociale.» (Kelsen 1929 Essenza, 19)
4.2.2. popolo soggetto (una minoranza, ma rappresentativa), popolo oggetto (la totalità).
«Ma allora, se l’unità del popolo non è che l’unita degli atti individuali regolati e retti dal diritto dello Stato, allora, in questa sfera normativa in cui il «potere» si presenta come vincolo normativo, come sottomissione a regole obbligatorie, l’unità cercata sarà il popolo, ma come oggetto del potere. Sotto questo punto di vista gli uomini entrano in campo come soggetti del potere, solamente in quanto partecipano alla creazione dell’ordine statale. E proprio in questa funzione, di decisiva importanza per l’idea di democrazia, in quanto il popolo interviene nella creazione delle regole del diritto, risulta l’inevitabile differenza fra questo «popolo» e quello definito come l’insieme degli individui sottoposti a delle norme. […] Il popolo come insieme dei titolari dei diritti politici, anche in una democrazia radicale, rappresenta soltanto una piccola frazione della cerchia degli individui sottoposti all'ordine statale, del popolo come oggetto del potere. Ciò forse perché, in questo caso, certi limiti naturali quali l’età e la salute intellettuale e morale si oppongono all’estensione dei diritti politici e, con ciò, del «popolo» attivo, limiti che non esistono per la nozione di popolo in senso passivo.» (Kelsen 1929 Essenza, 21) Una differenza sulla quale occorre insistere e riflettere se si vuole passare da una nozione ideale a una nozione reale di popolo. Riflessione che pone a tema due realtà politiche: i partiti politici, il Parlamento. Realtà nelle quali, socialmente e istituzionalmente, prende forma il popolo attivo o realtà nella quali i soggetti operano in nome del popolo [di quale popolo? ideale o reale, soggetto o oggetto, formato dal diritto o materialmente esistente nella sua originaria indistinzione…].
«… la libertà è intesa come libertà politica e cioè partecipazione alla creazione delle norme, attraverso però una duplice limitazione: l’istituto della rappresentanza e il principio della maggioranza.» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 449-450)
4.2.2.1. Sul tema del popolo soggetto e attivo in forme di organizzazioni sociali specifiche: i partiti politici. «La democrazia moderna si fonda interamente sui partiti politici la cui importanza è tanto maggiore, quanto maggior applicazione trova il principio democratico.» (Kelsen 1929 Essenza, 23)
4.2.2.1.1. Il principio: «È chiaro che l’individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale… La democrazia può quindi esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà generale verso i loro fini politici, cosicché fra l’individuo e lo Stato, si inseriscono quelle formazioni collettive che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui. […]…ruolo che essi [partiti] esercitano da gran tempo: quello di organi della formazione della volontà dello Stato.» (Kelsen 1929 Essenza, 24) 4.2.2.1.2. La pratica e i rischi in corso di attuazione. Kelsen non esplora in modo tematico ma indica [anche con sorprendente chiaroveggenza]: 1. le trasformazioni dei partiti in direzioni non democratiche, specie quando assumono la forma di cartelli elettorali o espressione di gruppi professionali o di interessi particolaristici (localistici, corporativi…); afferma infatti: «L’ostilità alla formazione dei partiti e quindi, in ultima analisi, alla democrazia, serve – consciamente o inconsciamente – a forze politiche che mirano al dominio assoluto degli interessi di un solo gruppo…» (Kelsen 1929 Essenza, 30); «Presentarli come strumenti dell’interesse generale di una comunione solidale significherebbe, nella migliore delle ipotesi, prendere il dovere per l’essere, vedere l’ideale invece della realtà…» (Kelsen 1929 Essenza, 29); 2. il vasto mondo della sub-politica, i movimenti, le comunità, la loro natura, la loro funzione, gli apporti in termini di opportunità, rischi, cambiamento che essi intrattengono con partiti e istituzioni o, in termini hegeliani, la relazione tra la società civile, la sua eterogeneità, e lo Stato, le sue istituzioni.
4.2.2.2. Sul tema del popolo soggetto e attivo in forme istituzionale: il Parlamento.
«Di tutti gli elementi finora considerati che limitano l’idea della libertà e, con ciò, quella della democrazia, il parlamentarismo è forse il più importante. Esso è l’elemento che bisogna anzitutto comprendere, se si vuole afferrare l’essenza reale di quei gruppi sociali che oggi vengono considerati come democrazie.» (Kelsen 1929 Essenza, 33 e l’intero capitolo terzo; qui 4.3)
4.2.3 una definizione giuridica del popolo, in relazione alla sovranità del diritto (alla teoria del diritto puro)
4.2.3.1. È il caso di controllare gli equivoci creati dalle metafore antropologiche presenti in politica e anche nel linguaggio giuridico, come “volontà dello Stato”, “ volontà generale”, “volontà collettiva”… «Si suppone, a questo proposito, che il fenomeno comunemente chiamato, con una metafora, «volontà» della collettività (in generale) e dello Stato (in particolare) non sia un dato psichico e reale, poiché, in senso psicologico, si hanno solo volontà individuali. La cosiddetta «volontà» dello Staro non è che l’espressione antropomorfa usata per indicare l’ordine ideale della comunità il quale è costituito da una serie di atti individuali di cui esso rappresenta il contenuto.» (Kelsen 1929 Essenza, 41-42)
4.2.3.2. «L’ordine della comunità… è un complesso di norme» «L’ordine della comunità, in quanto è il senso rappresentato da tali atti, è un complesso di norme, di prescrizioni che determinano la condotta degli individui appartenenti alla collettività e che costituiscono perciò appunto la collettività come tale. I membri della collettività debbono comportarsi in una determinata maniera: tale è il contenuto intellettuale in cui consiste l’ordine collettivo… » (Kelsen 1929 Essenza, 42) «La collettività sociale è viva nella loro [gli organi di uno Stato moderno] coscienza non tanto attraverso gli atti collettivi quanto attraverso le norme generali della condotta reciproca degli individui.» (Kelsen 1929 Essenza, 43) In tale contesto e da tale prospettiva diventa disorientante, non coerente o per lo meno di dubbia funzionalità l’appello del legislatore (dei parlamentari) ad una presunta coscienza (obiezione di coscienza) che lo legittimerebbe ad adottare, nello svolgimento della funzione legislativa cui è stato eletto, scelte e comportamenti esterni alla norma o non coerenti con la sua costituzione giuridica.

4.3. Il parlamento. La lotta per la democrazia è lotta per il parlamento
«La lotta condotta contro l’autocrazia verso la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX fu, in essenza, una lotta per il parlamentarismo.» (Kelsen 1929 Essenza, 34)
4.3.1. Sul parlamento come luogo espressione realizzazione della democrazia incombono due esigenze: 1. in entrata: la rappresentatività del “popolo”; 2. in uscita: il «risolvere le questioni sociali del nostro tempo».
4.3.1.1. In entrata: la rappresentatività del “popolo”; quindi l’attenzione va al modo del suo costituirsi «suffragio universale ed egualitario, vale a dire democratico, secondo il principio della maggioranza» (Kelsen 1929 Essenza, 36) (e la legge elettorale che rende possibile questa formazione). Nella consapevolezza che il principio maggioritario (inevitabile vista l’impossibilità e l’astrattezza dell’idea di una volontà generale unica del popolo) rappresenta una restrizione, a volte rilevante, del riferimento al popolo e che la rappresentanza è anche la «finzione della rappresentanza» (Kelsen 1929 Essenza, 37) è un organo assai diverso dal popolo; finzione utile, forse indispensabile ma non trascurabile nel suo aspetto di realtà negativa o come meccanismo di esclusione dei (di parte del) sociale. Su questo tema due questioni: 1. l’utilità, il danno e i vincoli della norma che «rende il Parlamento, nell’esercizio delle sue funzioni, giuridicamente indipendente dal popolo» (Kelsen 1929 Essenza, 38) ; 2. il tema del diritto delle minoranze, in considerazione della loro eterogeneità culturale, del loro incremento numerico, del tipo di progettualità politica transnazionale di cui molte minoranze sono portatrici.
4.3.1.2. In uscita: cogliere interpretare e «risolvere le questioni sociali del nostro tempo» (Kelsen 1929 Essenza, 35).
4.3.2. «la riforma del Parlamento» (Kelsen 1929 Essenza, capitolo quarto)
Il principio e la direzione «La riforma del parlamentarismo potrebbe essere tentata nel senso di un nuovo rinforzamento dell’elemento democratico.» (Kelsen 1929 Essenza, 43)
4.3.2.1. iniziative per rafforzare la funzione democratica del parlamento affiancandola con misure tese a rendere il “popolo” democraticamente attivo (più soggetto e non solo oggetto). « sviluppare, ripensare… l’istituto del referendum; … rilanciare la prassi delle leggi di iniziativa popolare; … rivedere il tema della «irresponsabilità del deputato chiamata “immunità”» [e sul tema della immunità parlamentare, dell’indipendenza e ingiudicabilità del parlamentare:] Che un deputato possa essere perseguito dai tribunali e, particolarmente, arrestato per un reato commesso, soltanto dietro consenso del Parlamento, è un privilegio che risale all’epoca della monarchia feudale, vale a dire all’epoca in cui l’opposizione tra Parlamento e governo regio era la più accanita.» (Kelsen 1929 Essenza, 43-51 passim) [E ancora, sullo stesso tema:] «Se il parlamentarismo, nel corso della sua lunga esistenza, non si è acquistato non soltanto le simpatie delle masse, ma nemmeno quelle delle persone colte, ciò lo si deve in gran parte agli abusi derivati dal privilegio inopportuno dell’immunità. Per quanto riguarda, invece, il principio dell’irresponsabilità dei deputati di fronte ai loro elettori, vi si trova già una deroga in alcune costituzioni recenti che dispongono che i deputati, anche se non sono legati al mandato avuto dai loro elettori, lo perdano non appena lascino il partito per o dal quale essi furono eletti o non appena vengano esclusi da esso. Tale disposizione si presenta come naturale conseguenza del sistema del voto secondo una lista vincolata. Infatti, se l’elettore — come in questo caso — non ha più influenza sulla scelta dei deputati da eleggere, se il suo voto si limita ad un atto di adesione ad un certo partito, se, dunque, dal punto di vista dell'elettore, il candidato ottiene un mandato soltanto in virtù della sua appartenenza al partito dell’elettore, è logico allora che il deputato, quando cessa di appartenere al partito che l’ha inviato in Parlamento, debba perdere il suo mandato.» (Kelsen 1929 Essenza, 52) (segue la ricerca su come tale esclusione o perdita di mandato possa essere attuata e da chi).
4.3.2.2. Il problema delle competenze tecniche per legiferare e programmare. Kelsen imposta una discussione e critica sull’ipotesi di governi tecnici, di professionisti, formati con l’obiettivo di migliorare le competenze del legislatore…( (Kelsen 1929 Essenza, capitolo quinto: La rappresentanza professionale 56-61). È paventata la deriva corporativa del parlamento in preda alla microvisioni dei molti ceti di professionisti; vi viene contrapposta la riflessione sulla tesi che la politica, più che una professione, è un sentire civico generale.
4.3.2.3. rilettura del concetto e del principio di maggioranza (Kelsen 1929 Essenza, capitolo sesto: Il principio della maggioranza).
4.3.2.3.1. il motivo e il significato storico. «Impedire il dominio di classe è ciò che il principio maggioritario — nell’ambito del parlamentarismo — è particolarmente in grado di fare. È già caratteristico che esso, all’atto pratico, si mostri conciliabile con la protezione della minoranza. La maggioranza, infatti, presuppone, per definizione, l’esistenza di una minoranza e, in conseguenza, il diritto della maggioranza presuppone il diritto all’esistenza di una minoranza. Da ciò risulta non tanto la necessità, quanto la possibilità di proteggere la minoranza contro la maggioranza. Questa protezione della minoranza è la funzione essenziale dei cosiddetti diritti fondamentali e libertà fondamentali, o diritti dell’uomo e del cittadino, che vengono garantiti da tutte le moderne Costituzioni delle democrazie parlamentari. » (Kelsen 1929 Essenza, 62)
4.3.2.3.2. la rilettura, distinguendo (anche su questo tema, come regola generale di metodo sopra esposta) tra ideologia (ideale) e realtà.
«Ideologicamente – cioè nel sistema dell’ideologia democratica di libertà – questo principio sta a rappresentare la formazione della volontà generale col più grande accordo possibile fra la medesima e le volontà individuali.» (Kelsen 1929 Essenza, 64)
«Ma in realtà non è così. […] Nella realtà, la maggioranza numerica non è sempre decisiva: può anche avvenire – pur supponendo pienamente riconosciuto il principio maggioritario – che la minoranza numerica domini la maggioranza numerica sia occultamente – in quanto il gruppo dominante è gruppo di maggioranza soltanto in apparenza, in seguito ad artifici della tecnica elettorale – che apertamente, cioè nel caso di un cosiddetto governo di minoranza […]»(Kelsen 1929 Essenza, 64).
Allora la proposta e la rilettura: «L’intera procedura parlamentare infatti, con la sua tecnica dialettico-contraddittoria, basata su discorsi e repliche, su argomenti e contrargomenti, tende a venire ad un compromesso. Questo è il vero significato del principio di maggioranza nella democrazia reale. Tale principio sarebbe comunque meglio chiamarlo principio maggioritario-minoritario in quanto esso organizza l’insieme degli individui in due soli gruppi essenziali, maggioranza e minoranza, offrendo la possibilità di un compromesso nella formazione della volontà generale […] come un principio di compromesso, di accomodamento degli antagonismi politici.» (Kelsen 1929 Essenza, 66)
4.3.2.4. Democrazia e analisi complessiva della funzionalità democratica delle istituzioni. Sulla base della convinzione che solo una totalità organica ed autocontrollata del sistema è garanzia di corretto (formale e oggettivo) funzionamento della democrazia e in essa della libertà e della sovranità giuridica del popolo, Kelsen affronta i temi dell’amministrazione (Kelsen 1929 Essenza, capitolo settimo), della scelta dei capi (capitolo ottavo; un problema che ricorre, in modo complesso e discusso, nelle riflessioni di Max Weber).

4.4. la democrazia: il miglior sistema politico ideale e reale a difesa del diritto come unico contesto e garanzia di libertà.
Kelsen ricorda quanto sia storicamente lunga e persistente la tensione tra democrazia reale e democrazia ideale nella definizione e nella costruzione dei modelli politici e, nello specifico, della democrazia. «Se si tentasse di comprendere la realtà sociale della democrazia soltanto attraverso la sua ideologia, i sospiri pessimistici di Rousseau sarebbero pienamente giustificati.» (Kelsen 1929 Essenza, 87) Sospiri che si traducono progressivamente in obiezioni, riserve, attacchi, rimpianti e controproposte nei confronti del sistema giuridico democratico. Kelsen richiama, attacca e propone.
4.4.1. Contro un governo a nostalgie “aristocratiche”: «Perciò è un’argomentazione assolutamente vuota, priva di significato, anche se usata da sempre, quella che si cerca di utilizzare contro la democrazia, cioè che essa non potrebbe reggere di fronte all’autocrazia perché l’autocrazia difenderebbe il solo principio possibile, vale a dire che il migliore e soltanto il migliore dovrebbe comandare. “Il migliore”, a questo proposito, non può che significare chi stabilisce le norme migliori; e le norme migliori sono precisamente soltanto quelle che debbono venir stabilite. La parola d’ordine del dominio esercitato dal migliore si rivela così come una tautologia meschina. Non ci si chiede se sia il migliore che debba comandare. Su ciò sono d’accordo sia i sostenitori dell’autocrazia che quelli della democrazia. Il problema politico-sociale è soltanto di sapere in qual modo il migliore o i migliori possano arrivare al potere e mantenerlo. Il problema è quello della creazione dei capi. E precisamente sotto questo punto di vista, i paladini dell’ideale autocratico niente possono produrre contro la democrazia. Il sistema autocratico infatti, come si è già detto, non conosce alcun metodo di creazione di capi, ma stende sul più importante problema della politica quel velo mistico-religioso che cela al volgo profano la nascita di quell'eroe divino. Ciò vuol dire, in realtà, abbandonare alla sorte della violenza la soluzione della questione di prima, cioè chi debba esser capo e come lo si diventi.» (Kelsen 1929 Essenza, 97) «Se si afferma che la democrazia porta al potere gli smargiassi e i demagoghi che speculano sui peggiori istinti delle masse, si può d’altro lato far valere che è precisamente il metodo della democrazia che pone la lotta per il potere sulla base più ampia facendone l’oggetto di una concorrenza pubblica che crea così da sola una base, anzi, la più grande base possibile per una selezione, mentre il principio autocratico, soprattutto nella sua organizzazione reale di monarchia burocratica, offre spesso soltanto poche garanzie agli individui capaci che siano meritevoli di farsi strada.» (Kelsen 1929 Essenza, 98)
4.4.2. «Democrazia formale e democrazia sociale» (Kelsen 1929 Essenza, Capitolo nono)
Se la democrazia è sistema di valorizzazione e promozione della libertà sociale, cioè della partecipazione massima dei cittadini alla costruzione sociale dello Stato (democrazia sociale), allora la vera base, impulso e sostegno e fine della democrazia è la libertà, non l’uguaglianza; l’uguaglianza è conseguenza della libertà intesa come massima e crescente partecipazione civile. Nell’obiettivo di una costruzione della democrazia di carattere formale e fondata sul diritto puro, il concetto di uguaglianza, considerato in senso contenutistico e non formale, non rientra nella definizione giuridica di Kelsen se non come espressione della massima libertà possibile nel campo della civile costruzione sociale e quindi della pace.
«È il valore di libertà e non quello di uguaglianza a determinare, in primo luogo, l’idea di democrazia. Certamente anche l’idea di uguaglianza, nell'ideologia democratica, ha la sua parte, quantunque, come già abbiamo visto, in senso del tutto negativo, formale e secondario. Poiché, infatti, tutti debbono essere liberi nella maggior misura possibile, tutti debbono, partecipare alla formazione della volontà dello Stato e, in conseguenza, in grado uguale. La lotta per la democrazia e, storicamente, una lotta per la libertà politica, vale a dire per la partecipazione del popolo alle funzioni legislativa ed esecutiva. L’idea di uguaglianza alquanto diversa dall’idea dell’uguaglianza formale nella libertà, cioè della uguaglianza dei diritti politici, non ha niente a che fare con l’idea di democrazia.» (Kelsen 1929 Essenza, 101)
4.4.2.1. a commento e comprensione di questa posizione di Kelsen: «La libertà è, innanzitutto, autonomia della volontà. Hans Kelsen, filosofo realista che giustifica una metamorfosi assai spinta degli ideali democratici perché (e purché) diventino praticabili, sostiene che anche «il principio maggioritario si può dedurre da tale idea e non, come si è soliti fare, dall’idea di eguaglianza». Tale principio, infatti, sacrifica il minor numero possibile di volontà autonome. La legittimità democratica implica, dunque, che tutti facciano le leggi e che solo alle leggi si debba obbedienza. In altri termini: che il potere appartenga a tutti. Non è questa l’unica forma possibile di legittimità, beninteso, e nemmeno la sola di tipo “legale”. Non è nemmeno detto che sia la preferibile (e meno che mai la più «razionale”. La pretesa di una «razionalità” che vada oltre l’interna coerenza logica, e quindi privilegi un ordinamento politico fra tutti, esprime solo la ricorrente superstizione giusnaturalistica. Qui Kelsen resta davvero insuperato). (Flores D’Arcais Paolo 2006 Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi editore, Roma, 107)
4.4.3. Dal rispetto della libertà e dalla affermazione della sua centralità parte la tesi del valore imprescindibile del relativismo in un sistema democratico fondato sul diritto formale, oggettivo e norma per la definizione del diritto positivo; relativismo essenza e salvezza della democrazia. Quindi: teoria del diritto puro, positivismo giuridico, democrazia e relativismo.

5. per una difesa del relativismo essenza e salvezza della democrazia
Come in un manifesto la difesa del relativismo essenza della democrazia (Kelsen 1929 Essenza, Capitolo decimo Democrazia e concezioni della vita; sul tema ritorna in diversi saggi: Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica, 1933; La dottrina del diritto naturale dinnanzi al tribunale della scienza, 1949; Che cos’è la giustizia?, 1953)
5.01. una premessa di “filosofia prima” o di carattere ontologico: «non è corretto considerare realismo e relativismo come dottrine fra loro contrapposte.» (Rovane Carol, La separazione del relativismo dall’antirealismo, in AA.VV. 2012 Bentornata realtà, Einaudi, Torino, p. 68) Anzi, solo con una posizione relativista è possibile essere realisti in modo accettabile, senza cadere nell’altrimenti inesorabile incontro tra realismo e dogmatismo.
«In effetti, la causa della democrazia risulta disperata se si parte dall’idea che sia possibile la conoscenza della verità assoluta, la comprensione di valori assoluti. Infatti, di fronte all’autorità del bene assoluto che tutto domina, a coloro cui questo bene porta la salute non resta che l’ubbidienza, l’ubbidienza incondizionata e grata a colui che, in possesso del bene assoluto, conosce e vuole tale bene; un'ubbidienza che, senza dubbio, non può poggiare che sulla fiducia che l’autorità del legislatore sia in possesso del bene assoluto, nello stesso modo in cui, in senso inverso, si ammette che la conoscenza di questo bene resti interdetta alla grande massa dei sudditi. […] Chi ritiene inaccessibili alla conoscenza umana la verità assoluta e i valori assoluti, non deve considerare come possibile soltanto la propria opinione, ma anche l’opinione altrui. Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone. La democrazia stima allo stesso modo la volontà politica di ognuno, come rispetta ugualmente ogni credo politico, ogni opinione politica di cui, anzi, la volontà politica è l’espressione. […] Chi, nella propria volontà e azione politiche, può invocare un’ispirazione divina, una luce soprannaturale, può avere il diritto di restar sordo alla voce degli uomini e di far prevalere la propria volontà come volontà del bene assoluto, anche contro un mondo di avversari increduli e ciechi. […] Questo è il senso proprio di questo sistema politico che noi chiamiamo democrazia e che si può opporre all’assolutismo politico soltanto perché è l’espressione di un relativismo politico.» (Kelsen 1929 Essenza, 107-111 passim)
In un contesto più ampio e come da sfondo metafisico la tesi della relazione stretta, non solo possibile ma necessaria, tra relativismo e realismo in un contesto politico ispirato alla democrazia: «…la giusta formulazione dell’idea di realismo non prevede che i disaccordi siano sempre risolvibili, ma che essi presentino sempre le parti coinvolte in un problema da risolvere.» Carol Rovane, La separazione del relativismo dall’antirealismo, in AA.VV. 2012 Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino, 74)
5.1. una fondazione filosofica e quindi politica del relativismo:
«Da quando esiste la filosofia, esiste il tentativo di metterla in relazione con la politica; e questo tentativo ha portato oggi a riconoscere come un luogo comune il concetto che teoria e politica e quella parte della filosofia che chiamiamo etica siano intimamente connesse.» (Kelsen 1933, Assolutismo e relativismo, 319) Applicando questa vicinanza al tema del relativismo: « Se la storia della conoscenza umana ci può mai insegnare qualcosa, è l’inutilità del tentativo di trovare razionalmente una norma per un comportamento giusto la quale abbia valore assoluto, cioè una norma che escluda la possibilità che venga ritenuto giusto anche il comportamento opposto. Se dall’esperienza spirituale del passato ricaviamo una lezione, è che la ragione umana può concepire soltanto valori relativi, cioè che il giudizio mediante il quale una cosa vien dichiarata giusta, mai può pretendere l’esclusione della possibilità di un apprezzamento di valore opposto. La giustizia assoluta è un ideale irrazionale. Dal punto di vista della conoscenza razionale, vi sono soltanto interessi umani e, perciò, conflitti di interessi, per la soluzione dei quali esistono soltanto due possibilità: o quella del soddisfacimento di un interesse a spese dell'altro, o quella di un compromesso. Non è possibile dimostrare che soltanto una di queste soluzioni è giusta. Se come valore più alto si presuppone la pace sociale, la soluzione di compromesso può sembrare giusta. Ma anche la giustizia della pace è soltanto una giustizia relativa per nulla assoluta. Quale è allora la morale di questa filosofia relativista della giustizia? Ha essa una morale? Il relativismo è forse amorale o addirittura immorale, come molti pensano? Io non sono di questa opinione. Il principio morale che è alla base di una dottrina relativista dei valori o che può da essa venir dedotto, è il principio della tolleranza, cioè la esigenza di comprendere benevolmente le opinioni religiose o politiche altrui anche se non condivise, e perciò di non impedire che esse possano pacificamente esternarsi. È di per sé evidente che da una concezione relativista del mondo non risulta alcun diritto ad una tolleranza assoluta. Si può soltanto parlare di una tolleranza nell’ambito di un ordinamento giuridico positivo che, proibendo qualsiasi ricorso alla violenza, garantisca la pace fra coloro che sono soggetti alla legge, senza limitare, però, l’esternamento pacifico delle loro opinioni. Tolleranza significa libertà di pensiero. I più alti ideali morali sono stati compromessi dall’intolleranza di coloro che li hanno difesi. Sul rogo acceso dell’Inquisizione di Spagna per la difesa della religione cristiana non sono stati soltanto bruciati i corpi degli eretici, ma è stato anche sacrificato uno dei massimi insegnamenti di Cristo: «non giudicare affinché anche tu non venga giudicato». (Kelsen 1953 Che cos’è la giustizia? 428-431)
5.1.1. Decisiva la citazione di Pierre Bayle: «Ogni disordine viene non dalla tolleranza, ma dall’intolleranza». (Kelsen 1953 Che cos’è la giustizia? 438)
In altri apporti: «Uno dei paradossi che accompagna questo atteggiamento è che spesso le critiche al relativismo vengono fatte in nome della democrazia, eppure, come scrive Gustavo Zagrebelsky, «la democrazia è relativistica, non assolutistica […]; è relativistica nel senso preciso della parola, cioè nel senso che i fini e i valori sono da considerarsi relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, tutti ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma sono incompatibili [...]. In breve, la critica alla democrazia per i suoi caratteri relativistici non è una forma degenerata di democrazia, ma è tout court il rigetto della democrazia».
La democrazia, per essere tale, deve riconoscere e rispettare le differenze al suo interno, altrimenti è assolutismo.
«Sono contro l’aborto, ma sono favorevole alla sua legalizzazione» diceva Pier Paolo Pasolini. Ecco dove sta la differenza tra un atteggiamento relativista e uno anti-relativista, che non sono affatto simmetrici: essere contro una cosa, non significa per forza essere favorevole al suo opposto. La differenza tra universalisti e relativisti non sta nella spesso banalizzata contrapposizione tra chi ha dei valori e chi non ne ha, tra chi ha forti principi etici e chi, affermando agnosticamente che «tutto è relativo», accetta le usanze «barbariche» degli altri, ma tra coloro che vogliono imporre agli altri la propria forma di vita e quanti invece ritengono che il rispetto dell’altro non permetta di farlo. Un atteggiamento relativista nel caso dell’aborto tutela anche il credente che non vuole praticarlo per motivi religiosi.» (Aime Marco, 2013 Cultura, Bollati Boringhieri, Torino, 105)
5.1.2. « …l’individuo è politicamente libero poiché partecipa alla creazione dell’ordinamento sociale cui si assoggetta, proprio come il soggetto conoscente – in conformità alla epistemologia relativistica – è autonomo nel processo conoscitivo.» (Kelsen 1933 Assolutismo e relativismo, 326)
Dunque relativismo, conoscenza e libertà: «Nella storia si dà solo la conquista di valori relativi e problematici che non coincidono totalmente con la realtà, servendo a controllarla. […] La professione di relativismo filosofico è strettamente connessa alla fede nella democrazia. […] … ci preme di mostrare che, come la concezione relativistica è la democrazia nella conoscenza, così l’atteggiamento scientifico neutrale, proprio della teoria pura, suppone anch’esso una ideologia: quella democratica.» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 454-455)

5.2. una fondazione giuridica del relativismo. Essa passa attraverso il tramonto del diritto naturale per il passaggio necessario, e per coerenza ontologica, al diritto positivo; per metterne in luce il senso e l’ampiezza occorre mettere in luce i rapporti che intercorrono fra teoria pura del diritto, relativismo filosofico, e fede nella democrazia. (cfr. Kelsen 1953 Che cos’è la giustizia? 438) La tesi nel campo giuridico: «Il fallimento del diritto naturale di fronte al tribunale della scienza, rappresenta appunto la vittoria del relativismo che è termine indissolubile con quello della democrazia.» (Kelsen 1929 Essenza, prefazione VIII)
5.2.1. A commento e sviluppo: le ragioni del diritto positivo e del relativismo come valore attraverso un confronto di posizioni filosofiche riportato in sede politico-giuridica: «David Hume, il grande filosofo scozzese settecentesco, scrisse che compito delle leggi è di fare «in modo che gli interessi privati si sottopongano agli interessi pubblici» e che «l’interesse comune e l'utilità producono infallibilmente un criterio per distinguere il giusto e l’ingiusto fra le parti interessate». Una visione ottimistica, cui vale contrapporre la replica di Hans Kelsen, il quale osservò da un lato che l’ideale della giustizia e del bene comune è «indispensabile per la volizione e l’azione degli uomini», dall’altro che esso non è «suscettibile di conoscenza» e che quest’ultima riconosce soltanto la pluralità degli interessi in un conflitto la cui «soluzione può essere determinata da un ordinamento che soddisfi un interesse a spese dell'altro o cerchi di raggiungere un compromesso fra gli interessi opposti». Insomma: gli uomini non possono fare a meno dell’ideale del bene comune, ma la realtà concreta assume il volto o dell’esplosione dei conflitti o della prevaricazione dell’interesse più forte o di una situazione di compromesso. Ci domandiamo: raggiungere tra le parti un buon compromesso non è far scendere, con tutti i suoi inevitabili limiti, l’idea dell’interesse generale dal cielo alla terra?» (Massimo L. Salvadori, L’interesse generale prima di tutto, la Repubblica 29.07.2012) Probabilmente è l’unica situazione possibile per gli umani.

5.3. una coerenza imposta dalle vicende storiche, la convinzione che il relativismo rappresenti la salvezza del diritto, della democrazia e della giustizia e le vicende drammatiche del ‘900, in particolare l’esperienza della seconda guerra mondiale, portano Kelsen a rendere, per alcuni aspetti, relative anche le proprie tesi. In particolare ritorna sulla relazione tra morale e diritto, sulla relazione tra contingenza storica rispettata dal diritto positivo e diritto puro e su come questa relazione possa incidere sulla teoria del diritto puro.
5.3.1. Attenzione a relazioni del diritto con altri ambiti reali che non entrano in contrasto con la teoria del diritto puro, ma la specificano e, in concreto, la rafforzano. Del resto, se è vero che la dottrina pura del diritto attiene nella sua articolazione interna al dover essere, è altrettanto vero che questa dottrina, in quanto fatto storicamente prodotto, si colloca nel campo dell’essere e come tale può e deve essere studiata allo scopo di cogliere il suo legame con la prassi della costituzione del diritto positivo. Un’attenzione che si impone ancor più se si tiene presenta la natura funzionale del diritto: è un mezzo non un fine. Osserva Nicola Matteucci: « Nulla però vieta che questo diritto venga indagato come «essere», come prodotto di quella realtà sociale che controlla e organizza, studiando le norme per mezzo del concetto di causalità, nel loro rapporto con le forze politico-sociali con gli effettivi comportamenti degli individui. […] …(quindi) le due ricerche… la prima tende a una analisi formale del diritto, la seconda a mettere in luce il compromesso fra i vari e opposti interessi su cui si regge ogni ordinamento positivo. Per rispondere alla seconda esigenza il giurista, secondo Hans Kelsen, non deve pronunciarsi sul valore intrinseco dell’ordinamento prendendo posizione nei suoi riguardi, ma solamente conoscerlo nella sua positività. Questa neutralità della scienza è resa possibile dal suo stesso oggetto: il carattere delle norme, infatti, consiste non nel loro contenuto, ma in elementi formali; il diritto non è un fine, un valore, ma un mezzo, una specifica tecnica — propria di ogni evoluta organizzazione politica — che mira a ottenere una determinata condotta mediante la minaccia di misure di coercizione. Il diritto è solo un modo per mantenere l’ordine e la pace sociale caratterizzato dal monopolio della forza da parte dello stato, modo che la scienza può studiare senza entrare in merito alle concrete soluzioni da dare ai conflitti sociali, senza risolvere il problema politico e morale del contenuto delle norme. (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 438-440 passim)
5.3.1.1. Si può ipotizzare una evoluzione (di attenzione e nelle opere di Kelsen): «…se nella prima fase della sua vita il Kelsen tendeva a rispondere alla domanda filosofica: «che cosa è il diritto?», riducendolo a una universale e necessaria struttura logica, in un secondo momento volle solo «fornire i concetti fondamentali con i quali si può descrivere il diritto positivo di una determinata comunità giuridica», (Teoria generale del diritto e della Stato, p. VIII), lasciando impregiudicati altri metodi e altre ricerche. […] … fornire i criteri coi quali è possibile studiare il diritto positivo.» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 441-442)
5.3.2. «Nel saggio dedicato a Il processo di Norimberga e il diritto internazionale del 1947 Kelsen introdusse la dimensione della morale accanto a quella del diritto, mettendo così in discussione la sua stessa prospettiva formalistico normativistica. Egli osservò infatti che l’Accordo di Londra del 1945, stipulato dai governi della Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica, aveva previsto la responsabilità penale individuale per la violazione di quelle regole del diritto internazionale che vietavano il ricorso alla guerra. […] Kelsen si rende conto che la concezione normativistica del diritto entra in urto con una dimensione che è ad essa del tutto estranea: una visione morale contro una concezione positivistica. Kelsen espone il conflitto con la massima chiarezza: «Dal momento […] che atti internazionalmente illeciti, per i quali l’Accordo di Londra ha stabilito una responsabilità individuale erano certamente molto discutibili anche sotto il profilo morale e che le persone che hanno commesso tali atti erano certamente consapevoli del loro carattere immorale, la retroattività della legge loro applicata può difficilmente essere considerata come assolutamente incompatibile con la giustizia. La giustizia richiede la punizione di questi uomini, nonostante che per il diritto positivo essi non fossero punibili nel momento in cui posero in essere gli atti resi poi sanzionabili con forza retroattiva.» Kelsen scopre così «una nuova concezione della giustizia» che la realtà drammatica delle guerra ha finito con l’imporre.» (Gozzi 2010, 190,191)
5.3.3. il tema si allarga in altri autori in una convinzione generale: «… H. Morgenthau (La politica tra le nazioni 1948) ha indagato soprattutto le relazioni internazionali come sistema di rapporti di potenza, ma ha ammesso anche la possibilità del diritto come limite della potenza. […] per Morgenthau «il potere genera una rivolta tanto universale quanto lo è la stessa aspirazione al potere». Questa rivolta si esprime attraverso la morale, i costumi e il diritto, che storicamente hanno mantenuto entro limiti accettabili le aspirazioni al potere.» (Gozzi 2010, 209) Del resto, a favore di tale convinzione storico-politica, si colloca la riflessione di J. Austin (Delimitazione del campo della giurisprudenza) secondo cui «il diritto è espressione di un ordine del sovrano, ma poiché nella società internazionale non vi è un sovrano, il diritto internazionale non è diritto, bensì solo «moralità positiva internazionale». (Gozzi 2010, 217 liberamente)
5.3.4. il tema della relazione tra morale e diritto non cessa di sollevare interrogativi e dibattiti; in essi ricorre una posizione critica nei confronti del giuspositivismo. Le riserve critiche nei confronti del giuspositivismo sono suggerite da una triplice esigenza. 1. Dare alla morale una fondazione oggettiva autonoma per non cadere nei due estremi del dogmatismo fondamentalista e del relativismo scettico. A tale scopo 2. Rilanciare un’etica “oggettiva” attraverso l’incontro con il tema dei diritti; riflettere cioè sul tema etica e diritto e sulla prassi proposta di fondare l’etica contemporanea sui diritti ottenendo l’effetto duplice: 2.1. di far uscire l’etica dalla ristretta cerchia di una coscienza morale intesa come fuga dalle responsabilità civili e dal bene comune; 2.2. di lavorare per l’incontro tra diritto e morale per non consegnare il diritto al giuspositivismo e dunque all’arbitrio delle decisioni politiche.
[si tratta in particolare di tesi espresse da De Monticelli Roberta 2010 La questione morale, Raffaello Cortina editore, Milano, che parla dell’esigenza di «bloccare la deriva ideologica del giuspositivismo, che rende il diritto positivo totalmente indifferente all’etica (e lo affida all’arbitrio delle decisioni politiche)» (p. 160) e cita « il principe dello scetticismo pratico novecentesco di marca liberale, Hans Kelsen» (p. 153)]
Ma è molto dubbio che il giuspositivismo impostato come teoria del diritto puro, così come Kelsen lo articola, coincida o possa portare all’arbitrio delle decisioni politiche. Kelsen unisce il rigore formale del diritto con la salvaguardia della libertà democratica nella formulazione aperta e doverosamente continua del diritto positivo. Si tratta di relativismo e di scetticismo ma intesi nella loro nobile e reale accezione e funzione storico filosofica: scuole e prassi di ricerca critica del vero allo scopo di tenere aperta la strada della libertà, della libera, responsabile e civile realizzazione di sé.
In conclusione: «La teoria formale del diritto è agnostica di fronte ai contenuti, ma suppone il relativismo filosofico (come pure lo suppone l’ammissione di vari tipi d’indagini intorno al diritto). […] la concezione relativistica è la democrazia nella conoscenza. In altre parole Kelsen ci indica solo due metodi, quello del compromesso e quello del dialogo, i quali non impongono con tono mistico una nuova verità assoluta, non rivelano dall’alto agli insipientes una nuova soluzione, ma solo agevolano il compito della ragione diretto a risolvere i problemi della convivenza umana.» (Matteucci Nicola, 1955 postfazione Kelsen 1979, Teoria generale delle norme, 455-457 passim)

 

Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_13-14/dispense/corso3_lez2.doc

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