Immanuel Maurice Wallerstein

Immanuel Maurice Wallerstein

 

 

 

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Immanuel Maurice Wallerstein

 

Immanuel Maurice Wallerstein 1930

1. Il metodo e la sua validità in ripresa e revisione applicata: il quadro storico.
2. Il processo di accumulazione i soggetti politici e sociali attivi.
3. Il sistema-mondo in dinamiche strutturali per la comprensione del presente.
4. Spunti per una teoria critica dell’economia politica in applicazione.

Wallerstein Immanuel 1974, 1980, 1989Il sistema mondiale dell'economia moderna, Bologna, Il Mulino, 1978; 1986; 1995.
Wallerstein Immanuel 1983 Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1985
Wallerstein Immanuel Alla scoperta del sistema mondo, manifestolibri, Roma 2003.
Wallerstein Immanuel Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistema-mondo, Asterios editore, Trieste 2006

1. Il metodo e la sua validità in ripresa e revisione applicata: il quadro storico.
1.1. un metodo è sempre in fase di rinnovamento e di produzione (magari per differenza).
La vita e la vitalità di una teoria e soprattutto del suo metodo consistono nella loro ripresa, con variazioni. A questa caratteristica è legato lo sviluppo del pensiero scientifico, filosofico e comune. Si tratta di un dato che determina e spiega la lunga fortuna di autori considerati classici come Platone, Aristotele, Kant, Hegel e… Marx.
1.1.1. « Mi sia concesso, infine, di dire una parola su Karl Marx. Egli è stato una figura monumentale nella storia intellettuale e politica contemporanea. Ci ha lasciato una grande eredità, che è concettualmente ricca e moralmente ispirata. Tuttavia, laddove sostiene di non essere, lui, un marxista, dovremmo prenderlo più sul serio, senza scrollarci di dosso questa affermazione come se si trattasse di un bon mot.
Egli sapeva, a differenza di molti di quelli che si sono spesso autoproclamati suoi discepoli, di essere un uomo del secolo XIX, la cui visione era inevitabilmente circoscritta da quella realtà sociale. Sapeva, a differenza di molti, che una formulazione teorica è comprensibile e utilizzabile solo in rapporto alla formulazione alternativa che essa sta esplicitamente o implicitamente attaccando, mentre è del tutto irrilevante rispetto a formulazioni che riguardano altri problemi o che si basano su altre premesse. Sapeva, a differenza di molti, che vi era una tensione, nella presentazione del suo lavoro, tra la descrizione del capitalismo come un sistema perfetto (mai esistito nei fatti storicamente) e l’analisi della concreta realtà quotidiana del mondo capitalistico.» (Wallerstein Immanuel 1983 Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1985, VIII)
1.1.2. «Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che sono stati o che devono essere costruiti o ricostruiti, e non da descrizioni ripetitive. Il marxismo non fa certo eccezione. Non e né una branca dell’economia (teoria dei rapporti di produzione), né della sociologia (descrizione oggettiva della «realtà sociale»), né una filosofia (pensiero dialettico delle contraddizioni). Rappresenta, lo ripetiamo, la conoscenza organizzata dei mezzi politici atti a smantellare la società esistente e a sviluppare una figura egualitaria e razionale di organizzazione collettiva, la quale prende il nome di “comunismo”.» (Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore Milano 2012, 14-15)
1.1.3. «Prendiamo per esempio, per quello che riguarda il divenire del Capitale, tutte le categorie predittive di Marx e vedremo che è solo oggi che esse si sono confermate in tutta la loro evidenza. Marx non ha forse parlato di «mercato mondiale»? Ma cos’era il mercato mondiale nel 1860 in rapporto a quello che è oggi, quello che si è voluto inutilmente rinominare «globalizzazione»? Marx non aveva forse pensato il carattere ineluttabile della concentrazione del capitale? Che cos’era questa concentrazione, quali erano le dimensioni delle imprese e delle istituzioni finanziarie all’epoca di questa previsione, in rapporto ai mostri che ogni giorno nuove fusioni fanno sorgere? A Marx è stato a lungo obiettato che l’agricoltura sarebbe rimasta ferma a un regime di sfruttamento familiare, mentre lui prevedeva che la concentrazione avrebbe di sicuro vinto sulla proprietà fondiaria. Sappiamo oggi che l’effettiva percentuale della popolazione che nei paesi cosiddetti sviluppati (quelli cioè dove il capitalismo imperialista si è insediato senza trovare alcun ostacolo) vive di agricoltura, è, per così dire, insignificante. E qual è oggi l’estensione media delle proprietà fondiarie, rispetto a quello che erano al tempo in cui i contadini rappresentavano, in Francia, il 40% della popolazione totale? Marx ha analizzato in modo rigoroso il carattere inevitabile delle crisi cicliche, le quali attestano, oltre tutto, la sostanziale irrazionalità del capitalismo e il carattere necessariamente consequenziale delle sue attività imperialistiche e belliche. A provare, mentre ancora era vivo, queste analisi sono intervenute alcune gravissime crisi, e le guerre coloniali e inter-imperialistiche ne hanno completato la dimostrazione. Comunque, se guardiamo la quantità di beni andati in fumo, tutto questo non è ancora nulla in confronto alla crisi degli anni Trenta o alla crisi attuale, o in confronto alle due guerre mondiali del XX secolo, alle feroci guerre coloniali e agli «interventi» occidentali di oggi e di domani. Se consideriamo la situazione del mondo intero e non solo di una sua parte, non sarà necessario arrivare alla pauperizzazione di enormi masse di popolazione per ammetterne l’evidenza sempre più lampante.
In fondo, il mondo attuale è esattamente quello che, con una geniale opera di anticipazione, con una specie di fantascienza realistica, Marx aveva annunciato in quanto dispiegamento integrale delle virtualità irrazionali e, a dire il vero, mostruose del capitalismo. […]
Lo spettacolo di Stati messi miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo comico e molto inquietante.» Badiou Alain 2011 Il risveglio della storia, Adriano Salani Editore Milano 2012, 17-18)
1.1.4. Alla radice, due impostazioni, apparentemente antitetiche, delle scienze sociali e in particolare della scienza economica, e il loro collegamento possibile: «a patto di intendere le relazioni tra le grandezze misurabili come funzioni di azioni guidate da massime».
«Mentre i «teorici» sostenevano che l’economia, inquadrata in un sistema di proposizioni assiomatico-deduttive, poteva ricavare delle ipotesi sulla connessione funzionale delle quantità disponibili di beni di consumo e di moneta ed esser così fondata come teoria matematica applicata all’economia, gli «storici» consideravano il processo economico come un effettivo processo vitale della società, che doveva essere interpretato descrittivamente in base alle istituzioni dell’agire economico. E mentre la teoria matematica applicata all’economia non può portare che a creazioni di modelli empiricamente privi di contenuto, così sostenevano gli storici, una economia sociale fondata sull’intendimento storico deve capire i fatti concreti. Il controargomento della scuola storica si fonda su un suggestivo legame tra due tesi. La prima afferma che l’economia ha che fare non con funzioni relative alla quantità dei beni, ma con l’interdipendenza delle azioni economiche; la seconda tesi sembra derivare da questo fatto: dal momento che un agire intenzionale può esser capito soltanto intendendo, non possono esserci teorie economiche puramente matematiche. […]
Le espressioni matematiche, che si riferiscono direttamente alle relazioni tra quantità dei beni e prezzi, rappresentano indirettamente le funzioni decisionali dei soggetti agenti. La teoria economica di cui entrano a far parte è cioè un sistema di proposizioni basato su ipotesi fondamentali relative a un agire economico razionale. Essa presume che i soggetti economici agiscano secondo massime; normalmente questo avviene sotto forma di misure atte a creare delle massime. Le teorie economiche formalizzate rendono comprensibile sistematicamente l’agire intenzionale, ma a patto di intendere le relazioni tra le grandezze misurabili come funzioni di azioni guidate da massime. La comprensibilità si riferisce alla struttura di una scelta razionale tra applicazioni di mezzi alternative, la quale avvenga in base a determinate preferenze; si riferisce dunque a un agire strategico.» (Habermas Jürgen 1967 Logica delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1970, 70, 71)

1.2. la ripresa e la revisione: “il capitalismo storico” (Wallerstein)
Wallerstein accumula un vastissimo bagaglio di riflessioni storiche, conoscenze teoretiche, osservazioni analitiche, indagini economiche e socio-politiche, prese di posizioni critiche nei tre volumi dell’opera Il sistema mondiale dell'economia moderna ( 3 voll. 1974, 1980, 1989, Bologna, Il Mulino, 1978; 1982; 1995) ove ricostruisce il formarsi ed espone gli aspetti strutturali della moderna economia e società capitalistica. Una sintesi densa e vivace (e graffiante) è esposta nell’opera Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema-mondo, del 1983 (ed. Einaudi, Torino 1985).
1.2.1. il richiamo alla storicità: « Il capitalismo è prima di tutto e essenzialmente un sistema sociale storicamente determinato.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 3)
«Il compito che mi sembra urgente, e a cui ho dedicato in un certo senso l’intero mio lavoro più recente, è di vedere il capitalismo come un sistema storico, nella sua storia complessiva e nella sua concreta realtà unitaria. Mi pongo perciò lo scopo di descrivere questa realtà, e di delineare in modo esatto ciò che in essa è continuamente cambiato e ciò che non è cambiato per nulla, cosicché noi possiamo connotarla nel complesso con un nome solo.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, VII) E, in termini più generali e fondamentali, di metodo, di ricerca e di sfida: «… va sottolineato che, per gli studiosi dei sistemi-mondo, spazio e tempo — o piuttosto il composto combinato SpazioTempo — non sono realtà esterne immutabili che sono in qualche modo just there, e all’interno delle cui cornici esiste la realtà sociale. Gli SpazioTempo sono realtà costruite in continua trasformazione, la cui costruzione è parte integrante della realtà sociale che si sta analizzando. I sistemi storici all’interno dei quali viviamo sono certo sistemici, ma sono anche storici. Rimangono gli stessi nel tempo, eppure non sono mai gli stessi da un minuto all’altro. È un paradosso, ma non una contraddizione. L’abilità nel confrontarsi con questo paradosso, che non possiamo eludere, è il compito principale delle scienze sociali storiche. E non è un enigma, ma una sfida.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 45)
1.2.2. la precisazione in termini di definizione storica specifica: quando possiamo parlare di capitalismo storico; in altri termini: le condizioni perché ci si trovi in situazione capitalistica o i tratti che definiscono, gli elementi costituenti la situazione economica detta capitalismo. Sono definiti applicando la tecnica indicata da Marx della astrazione specifica: i concetti diventano lettori e spinte alla conoscenza e all’azione se dalla loro astrazione “salgono” al concreto (concetti determinati, astrazioni specifiche). I tratti della situazione storica detta “capitalismo storico” indicati e richiamati da Wallerstein sono, prevalentemente, i seguenti:
1.2.2.1. autoespansione: la presenza dell’«obiettivo e l’intento primario della sua autoespansione.»
e delle condizioni storiche che rendono possibile questo obiettivo, cioè “il circuito del capitale”
1.2.2.2. mercato e mercificazione: il processo di autoespansione può e deve «essere condotto per il tramite di un «mercato». Ma mercato non inteso solo in termini di domanda e offerta di merci e spazio di scambio, ma inteso come processo generale di “mercificazione”. Il capitalismo storico ha comportato perciò la «mercificazione» generalizzata di processi — non solo di scambio, ma di produzione, di distribuzione e di investimento... […] E, una volta preso l’avvio, i capitalisti, nel corso dei loro tentativi di accumulare sempre più capitale, hanno cercato di mercificare una parte sempre maggiore dei processi sociali in tutte le sfere della vita economica. Dal momento che il capitalismo è un processo autocentrato, ne deriva che nessuna transazione sociale è stata di per sé esente da un possibile coinvolgimento. Ed è perciò che noi possiamo dire che lo sviluppo storico del capitalismo ha comportato la spinta alla mercificazione di ogni cosa.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 5-6) Programmatico il titolo del primo capitolo: «La mercificazione di ogni cosa: la produzione di capitale.»: la produzione di capitale passa attraverso la mercificazione progressiva di ogni cosa.
1.2.2.3. concorrenza: «Il tasso di accumulazione per i singoli capitalisti… era funzione di un processo di «competizione» tra loro.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 6) e la serie estremamente varia di vincoli storici, economici, politici, oggettivi o derivanti da decisioni che permettono la gestione con profitto delle relazioni e dei poteri di vincolo. «Egli farà ciò, tuttavia, tenendo conto di una serie di vincoli economici che esistono, come si dice, «nel mercato ». La sua produzione totale è necessariamente limitata dalla disponibilità (relativamente immediata) di cose come le materie prime, la forza-lavoro, gli acquirenti, e l'accesso al denaro per espandere la sua base di investimento. […] Tutti questi sono vincoli oggettivi, vale a dire che esistono anche in assenza di qualunque tipo particolare di decisioni da parte dell’imprenditore dato o di altri suoi concorrenti attivi nel mercato. Questi vincoli sono la conseguenza della somma degli effetti del processo sociale complessivo, così come esso si svolge in quel concreto momento e in quel determinato luogo. Vi sono sempre, naturalmente, altri vincoli aggiuntivi, più esposti alla manipolazione. I governi possono adottare, o avere già adottato, varie regole che in qualche misura trasformano le opzioni economiche e quindi il calcolo del profitto.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 10)
In conclusione: «Quando perciò diciamo che stiamo descrivendo il capitalismo storico, stiamo descrivendo quel concreto luogo integrato di attività produttive, limitato nel tempo e nello spazio, entro il quale l’indefinita accumulazione di capitale ha costituito di fatto l'obiettivo economico o la «legge» che ha governato o ha prevalso nell’attività economica fondamentale. Si tratta di quel sistema sociale in cui quelli che hanno operato secondo queste regole hanno avuto un così grande influsso su tutto il resto, da creare le condizioni entro le quali gli altri sono stati costretti o ad adeguarsi a quei modelli, o a subirne le conseguenze.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 8)
1.2.3. Ma i termini del sistema, in quanto strumento di analisi di processi storici sempre in mutamento, devono essere in grado di avviare e sostenere un’analisi che ne ridefinisca l’effetto conoscitivo di comprensione, teoria e gestione. In questo obiettivo (e più esemplificativamente) si possono riprendere tre termini (ambiti, temi e tesi) centrali nella riflessione di Marx per mostrare come Wallerstein ne attua una ridefinizione e un conseguente rilancio, proprio mentre ne indica un mutamento di senso in atto (o registra un mutamento nella realtà storica concreta indicata da questi termini): lavoro, mercato, crisi. In forza di questa strategia, la riflessione sul capitalismo storico diventa analisi di processi contemporanei.
1.2.3.1. lavoro e proletarizzazione. Marx ha già illustrati la natura specifica che il lavoro assume in contesto capitalistico: sul mercato è forza-lavoro (salariato) che esplica lavoro (e pluslavoro, quindi plusvalore) in termini di lavoro dipendente, tendenzialmente in termini di durata (lavoro quantitativo o astratto, ma concreto nella sua astrattezza storica); il termine è “proletariato”. «Nel cercare l’accumulazione, l’imprenditore ha avuto due differenti preoccupazioni a proposito della forza-lavoro: la sua disponibilità e il suo costo. […] Si definisce questo processo come la costituzione di un mercato del lavoro, e le persone che vendono il proprio lavoro come proletari … vi è stata una crescente proletarizzazione della forza-lavoro.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 11,12)
Ma, osserva Wallerstein: «I vantaggi per gli imprenditori del processo di proletarizzazione sono stati ampiamente documentati. Ciò che è sorprendente non è che ci sia stata tanta proletarizzazione, ma che ce ne sia stata così poca. Dopo quattrocento anni almeno, da che esiste questo sistema storico-sociale, la quota di lavoro pienamente proletarizzato nell’economia-mondo del capitalismo non si può dire abbia toccato neanche il 50 per cento.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 12-13) E decolla la riflessione sul modo con cui viene gestita la forza lavoro perché il capitale possa disporre del numero, del basso costo, di ampliare la proletarizzazione in nuovi settori, ma anche di processi di esclusione che non impediscano il contemporaneo utilizzo della manodopera. In sostanza il massimo profitto non può mai associarsi alla massima occupazione ed è bene che sia così; la strategia di gestione della forza-lavoro dà vita ad un processo altalenante, per lo meno ambiguo, certo denso di “alienazione” (alla Marx).
1.2.3.1.1. Una prima modalità e strategia. Il sistema conta sull’appoggio e sulla produttività non riconosciuta delle relazioni sociali, soprattutto di quelle presente nell’ambito famigliare; sistema che garantisce un utilizzo della forza-lavoro dipendente nei tempi e nei modi utili al profitto industriale capitalistico, altrimenti impossibile senza la collocazione integrata del lavoratore nell’ambito domestico famigliare. «Sotto il capitalismo storico, esattamente allo stesso modo che sotto i precedenti sistemi storici, gli individui hanno avuto la tendenza a vivere le loro vite entro la cornice di strutture relativamente stabili che distribuiscono un fondo comune di entrate correnti e di capitale accumulato, e che noi possiamo chiamare aggregati domestici (households). Il fatto che i confini di questi aggregati domestici siano in costante evoluzione, per l'ingresso e l’uscita degli individui, non toglie nulla al fatto che questi aggregati costituiscano l’unità di calcolo razionale in termini di remunerazione e di spesa.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 13) «…le forze-lavoro mondiali. Esse hanno capito, spesso meglio dei loro sedicenti portavoci intellettuali, quanto maggiore sia lo sfruttamento negli aggregati domestici semiproletari che non in quelli interamente proletarizzati.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 26) «Il sistema capitalistico non si fonda solo sull’antinomia capitale-lavoro, che è permanente e fondamentale, ma su una complessa gerarchia all’interno dell’elemento lavoro, la quale consente che, benché tutta la forza lavoro sia sfruttata perché crea plusvalore trasferito ad altri, alcuni lavoratori “perdano” rispetto ad altri una porzione maggiore del plusvalore creato. L’istituzione chiave che permette ciò è l’aggregato domestico, nel quale i lavoratori sono salariati solo in parte e per parte della loro vita.» Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, saggio: 1968, rivoluzione del sistema mondo, manifestolibri, Roma 2003)
1.2.3.1.2. Una seconda modalità e strategia. Il profitto è anche tendenza alla proletarizzazione della forza-lavoro in ambiti nuovi finora estranei all’economia di profitto, tradizionalmente consegnati alla iniziativa individuale o famigliare (ad es. settori dell’abbigliamento, della cucina, della assistenza, dei viaggi); in questi ambiti “scarsi” dal punto di vista della mercificazione (della produzione di merci o della sostituzione del prodotto, manufatto, con la marca) e con nuove invenzioni tecnologiche per tutte le operazioni possibili, si possono guadagnare alla produzione industriale (e alla mercificazione di prodotto e lavoro) ambiti sempre nuovi, estendendo la proletarizzazione. «… in parte credendo che i cambiamenti strutturali nei rapporti di produzione li avrebbero avvantaggiati contro altri proprietari-imprenditori concorrenti, hanno unito le forze, sia sul terreno produttivo che su quello politico, per spingere verso una ulteriore proletarizzazione di un segmento limitato della forza lavoro, in questo o quel luogo. È questo processo che ci fornisce il maggior indizio per capire perché abbia potuto verificarsi una qualche crescita della proletarizzazione, dato che, sul lungo periodo, la proletarizzazione ha ridotto i livelli di profitto nell’economia-mondo capitalistica.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 26)
1.2.3.2. mercato e integrazione, polarizzazione. « … dobbiamo tornare al problema delle reti di merci nelle quali le molteplici, specifiche attività produttive sono situate.»
1.2.3.2.1. Un primo aspetto. «Dobbiamo liberarci dall’immagine semplicistica per cui il «mercato» è luogo dove si incontrano il produttore iniziale e il consumatore finale. Senza dubbio vi sono e vi sono sempre stati simili luoghi di mercato. Ma nel capitalismo storico simile transazione nel luogo di mercato ha costituito una percentuale trascurabile dell’insieme. La maggior parte delle transazioni hanno comportato lo scambio tra due imprenditori intermedi situati su una lunga catena di merci. L’acquirente comprava un «input» per il suo processo di produzione. Il venditore vendeva un «prodotto semifinito», cioè non compiuto dal punto di vista del suo uso finale nel consumo diretto individuale. La lotta sul prezzo, in questi «mercati intermedi», era costituita dal tentativo, da parte del compratore, di strappare al venditore in questa transazione una porzione del profitto realizzato da tutti i precedenti processi di lavoro realizzati, lungo tutta la catena di merci.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 18-19) Il grande tema delle relazioni commerciali nel sistema-mondo e delle lunghe filiere, sede di strani profitti non diretti a incentivare la produzione, né a migliorarne la qualità e a renderne equa la destinazione sociale.
1.2.3.2.2. Un secondo aspetto: la formazione (indicata come tratto delle seconda rivoluzione industriale a partire dalla fine dell’Ottocento) di monopoli orizzontali (cartelli) e monopoli verticali (trust). Il mercato qui cambia volto e natura e non si può più genericamente chiamare mercato, in senso neutro, come fosse il luogo in cui incontrandosi domanda e offerta si regolano reciprocamente arrivando a definire il “giusto prezzo” di mercato. In questi ambiti «… il prezzo poteva essere arbitrariamente manipolato in vista di considerazioni fiscali o di altro tipo; ma in nessun modo questo prezzo rappresentava l’interazione di offerta e domanda.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 19)
1.2.3.2.3. Un terzo aspetto è data dalla «Polarizzazione e scambio ineguale» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 20). Un doppio parallelo processo: il diffondersi del sistema capitalistico a livello mondiale senza l’attenuazione di monopoli centrali (la dinamica centro-periferia); il progressivo accentuarsi delle differenze negli scambi commerciali (“scambio ineguale”) e di quelle sociali (in termini di accesso ai beni naturali o merci) con il diffondersi dell’economia industriale capitalistica. Prima direzione, dalla periferia al centro: «Ora, le catene di merci non hanno scelto casualmente le loro direzioni geografiche. Se fossero tutte cartografate, potremmo notare che esse hanno assunto una forma centripeta. I loro punti di origine sono stati molteplici, ma i punti di arrivo hanno teso a convergere in poche aree. Come dire, nel nostro linguaggio abituale, che hanno espresso la tendenza a muoversi dalle periferie dell’economia-mondo capitalistica verso i centri.[…] …il suo spazio geografico [del capitalismo storico] si è costantemente espanso nel tempo.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 19-20,27) Seconda direzione, dal centro alla periferia: «… una diffusa divisione sociale del lavoro che, nel corso dello sviluppo del capitalismo storico, è diventata sempre più funzionalmente e geograficamente estesa, e contemporaneamente sempre più gerarchica. La gerarchizzazione dello spazio nella struttura dei processi produttivi ha portato a una sempre maggiore polarizzazione tra le zone centrali e le zone periferiche dell’economia-mondo, non solo per ciò che concerne i criteri distributivi (livelli dei redditi reali, qualità della vita) ma anche, in modo persino più significativo, per ciò che riguarda i luoghi dell’accumulazione di capitale.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 20)
Con una avvertenza: « Centro-periferia è un concetto relazionale. Ciò che si intende per centro-periferia è il livello di remuneratività dei processi di produzione.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 53) «Vi è dunque una conseguenza geografica della relazione centro-periferia. I processi centrali tendono a concentrarsi in pochi stati e a costituire la gran parte dell’attività di produzione in tali stati. I processi periferici tendono a disperdersi tra un grande numero di stati e a costituire la gran parte delle attività di produzione in questi stati. Dunque, per esigenze di brevità possiamo parlare di stati centrali e stati periferici, purché si tenga presente che si sta in realtà parlando di una relazione tra processi di produzione. Alcuni stati hanno una combinazione relativamente bilanciata di prodotti centrali e periferici. Possiamo definirli stati semiperiferici. Essi hanno, come vedremo, particolari caratteristiche politiche. Non ha tuttavia senso parlare di processi produttivi semiperiferici.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 54)
1.2.3.2.4. La distinzione centro-periferia è funzionale al sistema-mondo e per esercitarsi si accompagna a due specificazioni collaterali e conseguenti: [1] l’antinomia tra universalismo e anti-universalismo; [2] la prassi e la teorizzazione dell’ “scambio ineguale”.
[1] Per universalismo Wallerstein intende il principio della garanzia e difesa di diritti universali senza discriminazioni; per razzismo e sessismo intende le discriminazioni sociali sulla base del sesso e della appartenenza etnica o a gerarchie sociali e status sociale (con l’artificiosità delle etnie e delle gerarchie, fatte ad hoc); processi che appaiono contraddittori ma si caratterizzano per una compresenza funzionale, in ambiti diversi. Sul tema sessismo e razzismo: «… il sessismo, il razzismo e le altre norme anti-universalistiche assolvono a compiti ugualmente importanti nella distribuzione del lavoro, del potere e del privilegio all’interno del sistema-mondo moderno. Sembrano implicare esclusioni dalla sfera sociale. Di fatto, sono vere e proprie modalità di inclusione, ma di inclusione in posizioni inferiori. Queste norme esistono per giustificare le posizioni più basse della gerarchia, per imporle, e, in modo perverso, anche per renderle gradite a chi le occupa. Le norme anti-universalistiche vengono presentate come codificazioni di verità naturali, eterne, non soggette a cambiamenti sociali. […] Il risultato è che il sistema-mondo moderno ha fatto della simultanea esistenza, diffusione e pratica di universalismo e anti-universalismo una caratteristica essenziale e centrale della sua struttura. Questo binomio antinomico è, per il sistema, altrettanto fondamentale della divisione assiale del lavoro centro-periferia.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 70,71)
[2] Un’altra fondamentale conseguenza è indicata nella formula “scambio ineguale”. «Entro il sistema capitalistico, tuttavia, tutte le differenze esistenti (fossero dovute a ragioni ambientali o storiche) sono state accentuate, rafforzate e solidificate. L’elemento cruciale di questo processo è stato l’intromissione della forza nella determinazione del prezzo. Certo, è un fatto che l’uso della forza da parte di uno dei soggetti di una transazione di mercato per aumentare il prezzo non fosse un’invenzione del capitalismo. Lo scambio ineguale è una vecchia pratica. Ciò che è da notare, a proposito del capitalismo come sistema storico, è il modo in cui questo scambio ineguale poté essere nascosto; nascosto in verità così bene, che gli stessi oppositori espliciti del sistema hanno cominciato a rilevarne sistematicamente l’esistenza solo dopo cinquecento anni dalla sua entrata in vigore.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 20)
Si tratta di uno “scambio ineguale” in cui l’ineguaglianza non risulta evidente in quanto debitamente occultata attraverso una ufficiale e giuridica distinzione di ruoli e di competenze tra Stato e mercati; quello scambio ineguale rientra così nel campo dello scambio normale, storicamente giusto e genericamente “di mercato”. La strategia adottata per questo occultamento dell’impiego della forza nella determinazione del prezzo (e dello scambio ineguale) deriva dalla divisione di competenze tra economia e politica: all’economia il mercato e lo scambio, alla politica la forza militare e la sicurezza; divisione di compiti che convince nelle opinioni perché accompagnata da professioni ufficiali di pieno liberismo e “laicità” economica: lo Stato non fa economia, crea le condizioni per il libero commercio e la libera iniziativa; l’apparente scambio mercantile, in teoria paritetico, nasconde quindi la presenza di uno scambio ineguale imposto con la forza, esterna (e anche interna: da parte di compiacenti e serventi governi locali e giurisdizione ad hoc). « È possibile così riconoscere senza difficoltà molti meccanismi che storicamente hanno accresciuto la disparità. […] Questa, appunto, è la relazione tra centro e periferia. Per estensione, possiamo perciò definire la zona che ci perde una «periferia» e quella che ci guadagna un «centro».» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 21)
1.2.3.3. crisi e “instabilità proficua” Considerato il numero delle variabili che concorrono a definire il processo economico capitalistico e la sua destinazione “solitaria” all’obiettivo del massimo profitto, «…in queste circostanze, è evidente che nessun fattore specifico che collegasse i processi produttivi poteva essere stabile. Tutto al contrario, sarebbe stato sempre nell’interesse di un gran numero degli imprenditori…» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 23)
Una precisazione necessaria (e indicazione d’uso): «Molto spesso, il termine crisi viene utilizzato in modo impreciso, semplicemente ad indicare un periodo di difficoltà nella vita di un sistema. Ma tutte le volte che la difficoltà può essere in qualche modo risolta, non si tratta allora di una vera crisi ma semplicemente di una difficoltà sorta nel sistema. Le vere crisi sono quelle difficoltà che non possono essere risolte nel quadro del sistema, ma possono invece essere superate solo uscendo dal sistema storico di cui le difficoltà sono parte, e andando oltre tale sistema. Per usare il linguaggio tecnico della scienza naturale, ciò che accade è che il sistema biforca, trova cioè che le sue equazioni di base possono essere risolte in due modi ben diversi. Tradotto nel linguaggio corrente, il sistema è di fronte a due soluzioni alternative alla sua crisi, entrambe intrinsecamente possibili. Di fatto, i membri del sistema sono collettivamente chiamati a compiere una scelta storica su quale dei percorsi alternativi seguire, ossia quale tipo di nuovo sistema sarà costruito. Dal momento che il sistema esistente non può più funzionare adeguatamente all’interno dei parametri stabiliti, scegliere come uscirne, e scegliere il sistema futuro (o i sistemi futuri) da costruire, è inevitabile. Ma prevedere quale sarà la scelta della collettività dei partecipanti è intrinsecamente impossibile.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 117-118)
1.2.3.3.1. Non si tratta di fluttuazioni accidentali ma intrinseche: «… il risultato, ancora una volta alla luce della osservazione empirica, è sembrato essere un ciclo alterno di espansione e stagnazione del sistema nel suo complesso. Questi cicli hanno comportato fluttuazioni di tale significato e regolarità che è difficile credere che non fossero intrinseche al funzionamento del sistema. Esse somigliano, se è consentito il paragone, al sistema respiratorio dell’organismo capitalistico, che inspira l’ossigeno purificatore ed espira i rifiuti velenosi. Le analogie sono sempre un po’ pericolose, ma questa sembra particolarmente calzante. I rifiuti accumulati erano le inefficienze economiche, che in modo ricorrente si trasformavano in sedimenti politici, attraverso il processo di scambio ineguale sopra descritto. L’ossigeno purificatore era una più efficiente allocazione di risorse (più efficiente nel senso di permettere ulteriore accumulazione di capitale), che una sistematica ristrutturazione delle catene di merci rendeva possibile. Ciò che sembra sia successo ogni cinquant’anni è che, a causa degli sforzi di una quantità crescente di imprenditori per accaparrarsi i nessi più remunerativi delle catene di merci, si sono verificate sproporzioni di investimento tali da farci parlare, in modo un po’ fuorviante, di sovrapproduzione. La sola soluzione a queste sproporzioni è stata una caduta del sistema produttivo tale da consentire una ulteriore distribuzione.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 24)
1.2.3.3.2. Gli effetti di sviluppo in termini, apparentemente antitetici, di concentrazione (polarizzazione, in termini di controllo e profitto) e estensione (espansione, redistribuzione, trasloco): «…le conseguenze sono state assai vaste. Si è verificata una concentrazione di volta in volta maggiore delle operazioni in determinati legami della catena di merci, che sono divenuti così sempre più intasati. Ciò ha comportato l'eliminazione da un lato di alcuni imprenditori e dall’altro di alcuni lavoratori … […] Il motivo di maggiore interesse in una simile redistribuzione geografica è consistito nella possibilità di spostarsi verso un’area a più basso costo del lavoro…» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 24,25)
1.2.3.3.3. Rivedere il termine “sovrapproduzione”, è un lettore semplificato delle situazioni di crisi e della loro ciclicità endemica, ne nasconde la complessità, ha il pregio di segnalare uno scompenso irrisolto e attivo nella relazione tra produzione, mercato e consumo: «Il termine «sovraproduzione», per quanto fuorviante, richiama l’attenzione sul fatto che, il dilemma immediato è sempre consistito nell’assenza di una sufficiente domanda mondiale effettiva per alcuni prodotti chiave del sistema.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 26)
1.2.4. un bilancio (provvisorio) del capitalismo storico formulato in critica al ricorrente uso di concetti (anche marxiani) quali: sviluppo, progresso. «Abbiamo dedicato molto tempo a descrivere come il capitalismo storico abbia agito nel campo strettamente economico. Ma ora siamo finalmente in grado di spiegare perché il capitalismo è emerso come sistema sociale storicamente determinato. Non è un problema facile come in genere si pensa. Innanzitutto, lungi dall’essere un sistema «naturale» come certi apologeti hanno cercato di sostenere, il capitalismo storico è un sistema palesemente assurdo: si accumula capitale per accumulare maggiore capitale. I capitalisti sono come dei topolini su una ruota dentata, che corrono sempre più veloce, per poter correre ancora di più. All’interno di questo processo, senza dubbio, alcuni vivono bene, ma altri vivono in condizioni assai misere; e anche quelli che vivono bene, pagano un prezzo elevato, nel senso che è sempre minore la quota di vita durante la quale possono godere dei frutti che hanno acquisito la possibilità finanziaria di ottenere.
Più ho riflettuto su questa cosa, più mi è sembrata assurda. Non solo credo che la grande maggioranza dei popoli del mondo stia oggettivamente e soggettivamente peggio, dal punto di vista materiale, rispetto ai precedenti sistemi storici, ma — come vedremo — penso che si possa dimostrare che anche dal punto di vista politico essi stiano peggio che nelle fasi precedenti. Siamo tutti così intrisi dall’ideologia autogiustificatrice del progresso, creata da questo sistema storico, che troviamo difficile persino riconoscere i grandi caratteri storici negativi del sistema. Persino un accusatore risoluto del capitalismo storico, come Karl Marx, ha posto un forte accento sulla sua funzione storica progressiva. Io non credo per nulla a questo carattere, a meno che «progressivo» voglia semplicemente dire ciò che storicamente viene dopo, e le cui origini possano essere spiegate da qualcosa che è venuta prima. Il bilancio del capitalismo storico, su cui ritornerò, è forse complesso, ma un primo calcolo in termini di distribuzione materiale dei beni e di allocazione delle energie è, secondo me, davvero molto negativo.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 29-30)

2. Il processo di accumulazione i soggetti politici e sociali attivi.
Stati sovrani, relazioni tra Stati, lotte e conflitti, movimenti antisistema
2.1. Gli Stati. Sovrani in quali settori? «Dalla sovranità statale alle politiche commerciali.
L’importanza fondamentale del potere statale nei processi economici, anche quando parliamo di processi economici nel senso più stretto del termine, risulta impressionante… […] Il primo e più elementare oggetto del potere statale è stato la giurisdizione territoriale. [ …] Il secondo elemento del potere statale di fondamentale interesse per le attività del capitalismo storico è stato il potere legale degli stati nel determinare regole che governassero i rapporti sociali di produzione entro la loro giurisdizione territoriale. Le moderne strutture statali si sono arrogate questo diritto a revocare o modificare un qualunque insieme di rapporti consuetudinari. In materia di legge, gli stati non riconoscevano alcun vincolo al loro campo d'azione, che non fosse autoimposto.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 34-35) Gli effetti di questa sovranità:
2.1.1. la protezione e la garanzia monopolistica territoriale contro la concorrenza estera o l’espansione militare per nuove aree e mercati.
2.1.2. il tema del diritto del lavoro: « … diritto a legiferare circa le modalità di controllo del lavoro» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico,37)
2.1.3. il diritto di imposizione fiscale e le spese statali. Ciò che storicamente emerge in progressione: [a.] «una regolare imposizione fiscale… fonte principale … di entrate fiscali…[ b.] un fenomeno in costante espansione lungo il corso dello sviluppo storico dell’economia-mondo capitalistica… [c.] I poteri redistributivi dello stato sono stati trattati quasi sempre con riferimento al loro potenziale egualizzatore. È questo il tema del «Welfare state». Ma la redistribuzione è stata usata molto più largamente come meccanismo per polarizzare la distribuzione che non come strumento per far convergere le entrate effettive. Tre sono stati i principali meccanismi che hanno accresciuto la polarizzazione delle ricompense: [aa.] … hanno redistribuito a persone o a gruppi già largamente possessori di capitali, attraverso la concessione di sussidi statali [bb.] … una grande quantità di sottrazione di fondi pubblici; sottrazioni illegittime, ma di fatto incontrastate [cc.]… i governi hanno ridistribuito in direzione dei ricchi utilizzando il principio della individualizzazione del profitto e della socializzazione del rischio. […] Mentre queste pratiche di redistribuzione antiegualitaria sono state il lato di cui il potere statale si vergognava (nel senso che i governi erano in una qualche misura imbarazzati per queste attività e cercavano di tenerle nascoste) la costituzione di un capitale sociale generale da parte dei governi è stata invece motivo di vanto, ed è anzi stata presentata come un compito essenziale dello stato nel mantenimento del capitalismo storico.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 38-40) (qui il mantenimento non è inteso nel senso di contenimento, ma di appoggio e sovvenzione).
«Vi sono dunque molti modi differenti con cui lo stato ha costituito un meccanismo fondamentale per massimizzare l’accumulazione di capitale. Secondo la sua ideologia, il capitalismo avrebbe dovuto comportare un’attività degli imprenditori privati libera da ogni interferenza delle macchine statali. Ma in pratica questo non è mai stato vero. È del tutto inutile chiedersi se il capitalismo avrebbe potuto prosperare senza un ruolo attivo dello stato moderno. Nel capitalismo storico, infatti, i capitalisti hanno fatto affidamento proprio sulla capacità di utilizzare a proprio vantaggio le macchine statali, nei vari modi che abbiamo analizzato.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 42)

2.2. Le relazioni tra stati e i limiti, di fatto, della sovranità come autonomia.
«Un secondo mito ideologico è Stato quello della sovranità. Lo stato moderno non è mai stato un’entità politica completamente autonoma. Gli stati si sono sviluppati e costituiti come parti integranti di un sistema interstatale, che era un insieme di regole entro cui gli stati dovevano operare, e un insieme di legittimazioni senza le quali essi non avrebbero potuto sopravvivere. Dal punto di vista della macchina statale di un qualunque stato preso in esame, il sistema interstatale ha rappresentato una serie di vincoli per la sua volontà. Questi vincoli stavano nelle pratiche della diplomazia, nelle regole formali che presiedevano alle giurisdizioni e ai contratti (diritto internazionale), e nelle limitazioni circa il modo e le circostanze in cui fare la guerra. Tutti questi vincoli contrastavano di fatto con l’ideologia ufficiale della sovranità. La sovranità, tuttavia, non è mai stata intesa nel senso di totale autonomia. Il termine ha voluto piuttosto significare che esistevano limiti nella legittimazione dell’interferenza da parte di una macchina statale su un’altra. (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 42-43 e cfr. Wallerstein, Comprendere il mondo, cap.3)
Forme strategiche di alleanza tra Stati, tra aree e tra parti sociali, a livello sovrastatale, ad opera di soggetti diversi: 1. gli accumulatori di capitali, 2. la lotta tra le classi, 3. i movimenti antisistemici.
La direzione indicata. Lo studio del settore politico non può più ora limitarsi alla sola analisi degli Stati e delle loro alleanze e nemmeno all’analisi degli organismi internazionali, ma deve diventare studio e teoria di sistemi di alleanze internazionali, legali e non legali, organizzate allo scopo e in grado di condizionare le istituzioni politiche legalmente e giuridicamente formalizzate. Ad esempio le organizzazioni religiose (le chiese cristiane, le istituzioni islamiche…nelle loro diversità storiche; le organizzazioni internazionali del commercio illegale; le reti informatiche di spionaggio che, pur presenti nei vari Stati, sfuggono al controllo politico degli Stati che le hanno istituite (come la NSA, National Security Agency, agenzia nazionale di sicurezza, USA).
2.2.1. Una specie di internazionalismo degli accumulatori di capitali; il loro movimento in due forme e direzioni: sulla base e all’interno dell’appoggio degli Stati, in protezione e fuga dal controllo degli Stati.
«Prima di tutto, l’accumulazione di capitale era un gioco che rappresentava un incentivo costante per l’ingresso nella competizione di sempre nuovi soggetti, e dunque vi era sempre qualche dispersione delle attività produttive suscettibili di maggior profitto. Perciò, in ogni momento, erano parecchi gli stati che tendevano ad avere la base economica per essere relativamente forti. Secondariamente, gli accumulatori di capitale in ciascuno stato utilizzavano le proprie strutture statali per essere aiutati e assistiti nell’accumulazione del capitale, ma anch’essi avevano bisogno di un qualche livello di controllo contro le proprie strutture statali. Infatti, se la loro macchina statale diveniva troppo forte, poteva, per ragioni di equilibrio politico interno, sentirsi libera di rispondere alle pressioni interne che si sviluppavano in senso egualitario. Contro questa minaccia, accumulatori di capitale avevano bisogno di agitare l’altra minaccia, di poter raggirare la propria macchina statale, stringendo alleanze con altre macchine statali. […] Queste considerazioni hanno costituito la base oggettiva del cosiddetto equilibrio delle forze; espressione questa che vuole significare che molti stati forti e medio-forti del sistema interstatale in ogni fase hanno teso a stringere alleanze (o se necessario, a sovvertirle) così che nessuno stato potesse riuscire a conquistare tutti gli altri. […]
I tre esempi sono l’egemonia delle Province Unite (Olanda) alla metà del secolo XVII, quella della Gran Bretagna alla metà del secolo XIX, e quella degli Stati Uniti alla metà del secolo XX. In ciascuno di questi casi, l’egemonia arrivò dopo la disfatta di un concorrente che aspirava alla conquista militare (gli Asburgo, la Francia, la Germania). Ciascuna egemonia fu suggellata da una «guerra mondiale» … […] Esse furono rispettivamente la guerra dei trent’anni (1618-48) le guerre napoleoniche (1792-1815), e i conflitti del secolo XX sviluppatisi tra il 1914 e il 1945 che si potrebbero propriamente concepire come una sola, lunga «guerra mondiale». Si deve notare che, in ciascun caso, il vincitore era stato prima di tutto una potenza marittima, già prima della « guerra mondiale » (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 43-44)
E forse esiste anche e soprattutto un internazionalismo finanziario che ha la sua oggettivazione nel flusso mondiale di capitali al di fuori dei canali sottoposti al controllo degli Stati; qui si delinea tutta un’altra mappa del mondo; una geopolitica dei flussi finanziari; a maggior ragione, su tale nota, acquista valenza l’osservazione di Wallerstein: «Perciò, nel valutare la politica di uno stato dato, la distinzione interno/esterno era del tutto formale, e non ci è di grande aiuto per cercare di capire come le lotte politiche che effettivamente si svilupparono.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 46)
2.2.2. La lotta tra le classi e le sue svolte. «Questa lotta si è sviluppata con molti nomi e sotto molte forme. Tutte le volte che sono state tracciate in modo molto chiaro le linee di demarcazione tra coloro che erano gli accumulatori di capitale e coloro che costituivano la loro forza-lavoro in un determinato stato, abbiamo avuto la tendenza a definire questa lotta come una lotta tra capitale e lavoro. Queste lotte di classe hanno avuto luogo in due sedi: nel campo economico (tanto sul luogo effettivo del lavoro, quanto nel più largo e amorfo «mercato »), e nel campo politico.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 46)
2.2.2.1. la lotta tra accumulatori di capitale e la formazione dell’economia-mondo. «Quanto maggiore era la remunerazione della forza-lavoro, tanto minore era il surplus destinato a costituire il «profitto» […] E una maggiore remunerazione della forza-lavoro poteva in certe circostanze ritornare agli accumulatori di capitale sotto la forma di profitto differito, tramite l’accresciuto potere d’acquisto complessivo nell’ambito dell’economia-mondo.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 46)
2.2.2.2. la sede e la forma politica del conflitto: «Tuttavia, dal momento che, come sappiamo, il processo di accumulazione di capitale ha portato a una concentrazione geografica in certe zone, e dal momento che lo scambio ineguale alla base di ciò è stato reso possibile dall’esistenza di un sistema interstatale contenente una gerarchia di stati, e dal momento che le macchine statali hanno qualche potere relativo di alterare il funzionamento del sistema, allora la lotta tra accumulatori mondiali di capitale e il forza-lavoro mondiale ha trovato una espressione importante anche negli sforzi di vari gruppi per arrivare al potere dentro gli stati in questione (in quelli più deboli), per poter poi utilizzare il potere statale contro gli accumulatori di capitale situati negli stati più forti. Dove ciò è successo, abbiamo in genere parlato di lotte antimperialiste (nel linguaggio del secolo XX).» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 47)
2.2.2.2.1. la lotta tra accumulatori dei capitali utilizza schemi di lotta di classe di tipo sociale e nazionale: nazionalismo: «… trovavano un vantaggio di breve periodo nel definire gli esiti politici in termini puramente nazionali piuttosto che in termini di classe-nazione […] … ovunque le circostanze abbiano determinato più acute pressioni di breve periodo in direzione della sopravvivenza, la lotta tra gli accumulatori di capitale e i settori maggiormente oppressi della forza-lavoro ha teso a prendere la forma di conflitti linguistici, razziali e culturali, dal momento che simili connotati avevano un’alta correlazione con l’appartenenza di classe.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 47- 48) [conflitti etnici in spiegazione attraverso i concetti di sovrastruttura e struttura e la riconduzione di quella a questa].
2.2.2.2.2. la sovrastruttura culturale e istituzionale che accompagna e sostiene la lotta tra gli accumulatori di capitali a livello mondiale. «Naturalmente, l’uso di parole d’ordine ideologiche «universalizzanti» a favore del progresso è stato utilizzato politicamente. È stato un modo di associare la mobilitazione della lotta di classe a uno degli schieramenti della lotta tra accumulatori di capitale. […] Queste lotte politiche si possono definire lotte per dar forma alle strutture istituzionali dell’economia mondo capitalistica, così da costruire il tipo di mercato mondiale il cui funzionamento avrebbe favorito in misura più o meno forte, certi particolari attori economici. Il «mercato» capitalistico non è mai stato un dato, e tanto meno una costante. È stata una creazione regolarmente reinventata e riaggiustata.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 49-50)
2.2.2.3. la natura magmatica, volubile e plastica dei confitti, in relazione alle opportunità; fattore che ha facilitato i movimenti di presenza degli accumulatori di capitale e la formazione di una economia-mondo capitalistica. In questa contingenza e in questa lotta tra accumulatori di capitale prendono forma vari passaggi storici e diverse strategie politiche: l’utilizzo gestito dello Stato sulla base delle opportunità (uso ma controllo o fuggo); lo sbandieramento ideologico di universalismi storici quali sviluppo, progresso, civiltà; il riferimento e l’inquadramento delle etnie in forme naturalizzate di forza-lavoro; la relazione variabile e plastica con le proteste antisistema o gli scontri sociali in atto, o provocati. Il criterio “vincente” è questa flessibilità: «Non c’è stato nessun punto di riferimento fisso in questa costellazione di forze istituzionali. Non vi è stata alcuna entità «primordiale» che tendesse a prevalere contro le forze istituzionali sostenute dagli accumulatori di capitale, in associazione o in conflitto con la lotta della forza-lavoro per contrastare l’appropriazione del prodotto economico. I confini di ciascuna variante di una forma istituzionale, i «diritti» che essa era, legalmente o di fatto, in grado di rivendicare, cambiavano da zona a zona nell’economia-mondo e secondo un andamento insieme ciclico e secolare.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 50)
2.2.3. I movimenti antisistemici. L’analisi prende in esame i movimenti antisistemici non solo per definirne i tratti compositivi e le scelte operative, ma anche osservandone la coerenza e paradossalità in relazione alla loro efficacia nel produrre o almeno avviare quel cambiamento o quella rivoluzione per cui si sono dichiaratamente formati. «In particolare, si potranno cominciare ad apprezzare nella loro complessità le posizioni circonlocutorie e spesso paradossali, o contraddittorie, dei movimenti antisistemici che sono emersi dal capitalismo storico.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 51)

2.3. I movimenti antisistemici (a proposito dell’XI delle Tesi su Feuerbach di Marx) Ossia «le organizzazioni che ambivano a determinare mutamenti fondamentali nell’organizzazione sociale.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 106) (esemplificando i movimenti degli operai, femministi, etnici, nazionalisti…)
2.3.1. Una premessa di contesto fondata sulla distinzione tra economia-mondo e stato-mondo. «Cominciamo dal problema più elementare. Il capitalismo storico ha operato all’interno di un’economia-mondo, ma non all’interno di uno stato-mondo. Tutto al contrario. Come abbiamo visto, le pressioni strutturali hanno giocato contro ogni costruzione di uno stato-mondo. All’interno di questo sistema, abbiamo posto in evidenza il ruolo cruciale dei vari stati — allo stesso tempo delle strutture politiche dotate di maggiore potere, come di quelle a potere più limitato. Perciò ristrutturare gli stati in questione ha rappresentato per le forze-lavoro la via più promettente per migliorare la propria posizione, ma insieme e allo stesso tempo una via di valore limitato.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 51) Quindi due constatazione: l’ambito ideale e concreto di programmazione e di intervento dei movimenti antisistema è l’economia-mondo non uno stato-mondo (che non esiste, vista la sostanziale volontà di autonomia dei cosiddetti stati sovrani e l’assenza di un governo mondiale unico stile impero); quindi è in riferimento allo Stato di tipo nazionale che i movimenti antisistema progettano concretamente il loro esser movimento; qui prende infatti sede e si spiega il lungo e irrisolto dibattito interno ai movimenti se tendere o no ad assumere il potere politico (o invece semplicemente abbatterlo; ed è lo scontro tra una impostazione socialista [socialdemocratica], comunista, anarchica) allo scopo di attuare il mutamento. Le prospettive e i progetti di cambiamento si collocano e si impostano, cioè, all’interno di strutture politiche borghesi, quelle stesse che, economicamente e politicamente costruiscono e gestiscono un sistema che genera diseguaglianze, gerarchie, sfruttamento… di qui l’ambiguità, l’ambivalenza e il rischio dell’azione antisistema… aspetto su cui Wallerstein insiste con particolare intenzione problematica e critica (che necessita di una ripresa).
2.3.2. Una definizione generale e generica sul nome, sulla presenza e sugli obiettivi: «Dobbiamo cominciare col precisare che cosa può voler dire l’espressione «movimento antisistemico». La parola movimento implica una qualche fiducia collettiva in un obiettivo che non sia solo di natura passeggera. Di fatto, naturalmente, proteste in qualche modo spontanee, o sommosse di lavoratori, sono accadute in tutti i sistemi storici conosciuti. Esse sono servite da valvole di sicurezza nei confronti della collera repressa; o talvolta, più verosimilmente, da meccanismi che hanno posto un minimo di limiti ai processi di sfruttamento. Ma, in generale, la ribellione come tecnica ha funzionato solo ai margini dell’autorità centrale, e in particolare allorché le burocrazie centrali erano in fase di disgregazione.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 51-52) [in quest’ultimo caso il riferimento va in particolare alla rivoluzione sovietica.]
2.3.3. la specificità dei movimenti attuali, cioè nel sistema del capitalismo storico: « … vogliono essere capaci di fronteggiare, di controbattere più concretamente, le strutture del capitalismo storico, la cui crisi è il punto di partenza di ogni attività.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 76) Per coglierne la natura e le scelte occorre tener presenti sia i propositi che le relazioni sociali in cui i movimenti sono operativamente coinvolti, consapevolmente o no, coerentemente o no. Wallerstein mette dunque in evidenza alcuni dati di cui occorre tener conto:
[1.] la coalizione tra stati contro di loro per paura del “contagio”: «La struttura del capitalismo storico ha però modificato alcuni di questi dati. Il fatto che gli stati fossero situati in un sistema interstatale ha significato che le ripercussioni delle ribellioni o delle sommosse fossero avvertite, spesso assai rapidamente, oltre i confini della specifica giurisdizione politica in cui si verificavano. Le cosiddette «forze esterne» avevano perciò forti motivi per venire in aiuto delle macchine statali assaltate. Ciò ha reso le ribellioni più difficili.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 52)
[2.] l’organizzazione produttiva capitalistica incide in modo decisivo sulla loro forma, obiettivi e strategie: « D’altro canto, l’influenza degli accumulatori di capitale, e quindi delle macchine statali, nella vita quotidiana dei lavoratori è stata di gran lunga più pesante nel capitalismo storico che nei precedenti sistemi storici. L’incessante accumulazione di capitale ha portato a continue pressioni per ristrutturare l’organizzazione (e la dislocazione) del lavoro, per accrescere la quota di lavoro assoluto, e per determinare la ricostruzione psico-sociale della forza-lavoro. In questo senso, per la maggior parte delle forze-lavoro mondiali, la disgregazione, il disorientamento, e lo sfruttamento sono stati via via maggiori.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 52)
[3.] devono fare i conti con la contestuale disgregazione sociale dei precedenti legami “comunitari”: «Allo stesso tempo, la disgregazione sociale metteva in crisi i modi rappacificanti della socializzazione. Complessivamente, perciò, le motivazioni a sostegno della ribellione divenivano più forti, nonostante il fatto che le possibilità di successo fossero forse oggettivamente più basse.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 52)
2.3.4. tratti costitutivi nuovi dei movimenti antisistema contestuali al capitalismo storico.
[1.] si costituiscono come strutture permanenti e organizzate: «Fu questa straordinaria tensione a portare alla grande innovazione nella tecnica della ribellione che si sviluppò nel capitalismo storico. È solo nel secolo XIX che cominciamo ad assistere alla creazione di strutture persistenti e burocratizzate, nelle due grandi varianti storiche dei movimenti antisistemici: i movimenti operai-socialisti, e i movimenti nazionalisti.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 52)
[2.] si dotano dello stesso linguaggio; linguaggio doppio (e qui l’ambivalenza): quello della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fraternità; quello dell’illuminismo: progresso e sua inevitabilità, futuro contro il passato, nuovo vs vecchio cfr. fede nell’universalismo e nella modernità: «Entrambi i tipi di movimenti parlavano un linguaggio universale — essenzialmente quello della Rivoluzione francese: libertà, eguaglianza e fraternità. Entrambi i movimenti si vestivano dell’ideologia dell’Illuminismo — l’inevitabilità del progresso, intendendo con ciò l’emancipazione umana giustificata dagli intrinseci diritti dell’uomo. Entrambi si rivolgevano al futuro contro il passato, al nuovo contro il vecchio. Anche quando veniva invocata una tradizione, essa veniva invocata come base di una rinascita. Ciascun tipo di movimento aveva, è vero, un nucleo differente, e di conseguenza un differente luogo d’origine.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 51-52)
[3.] devono gestire e conservare in movimento l’eterogeneità determinata dall’area di formazione che incide sulla diversità degli obiettivi o almeno delle loro priorità: «Alla fine del diciannovesimo secolo e per gran parte del ventesimo, uno dei maggiori problemi dei movimenti antisistemici è stata la loro incapacità di individuare un significativo terreno comune. L’atteggiamento prevalente in ciascuna varietà di movimento antisistemico fu quello di considerare le rivendicazioni dei propri membri come le sole di importanza fondamentale, e quelle delle altre varietà di movimenti come secondarie e fuorvianti. Ciascuna variante sosteneva che le proprie istanze dovessero essere affrontate per prime. Ciascuna argomentava che affrontare con successo le proprie rivendicazioni avrebbe creato una situazione in cui le altre avrebbero potuto essere risolte successivamente e conseguentemente.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 110)
E l’eterogeneità determinata dalla sede strategica di azione del movimento antisistema «Ciascun tipo di movimento aveva, è vero, un nucleo differente, e di conseguenza un differente luogo d’origine.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico,53): al centro o alla periferia.
[3.1.] al centro: «I movimenti operai-socialisti ponevano al centro della loro attenzione i conflitti tra i lavoratori salariati urbani, privi di terra (i proletari) e i proprietari delle strutture economiche in cui essi lavoravano (la borghesia). Questi movimenti insistevano sul fatto che la distribuzione della ricompensa o del lavoro era fondamentalmente diseguale, oppressiva e ingiusta. Era naturale che tali movimenti emergessero dapprima in quelle parti dell’economia-mondo che avevano una forza-lavoro industriale consistente — in particolare, nell’Europa occidentale.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 53)
[3.2.] alla semiperiferia, i movimenti di indipendenza nazionale dei “popoli oppressi”: «I movimenti nazionalisti ponevano invece al centro dell'attenzione i conflitti tra i numerosi «popoli oppressi» (definiti a partire da caratteristiche linguistiche e/o religiose) e specifici «popoli» dominanti entro una certa giurisdizione politica: i primi erano dotati di diritti politici, opportunità economiche e forme legittime di espressione culturale di gran lunga minori dei secondi. Questi movimenti insistevano sul fatto che la distribuzione dei «diritti» fosse fondamentalmente diseguale, oppressiva e ingiusta. Era naturale che questi movimenti emergessero in primo luogo in quelle zone semiperiferiche dell’economia-mondo, come l’Impero austro-ungarico, in cui la distribuzione diseguale dei gruppi etnico-nazionali nella gerarchia della dislocazione della forza-lavoro era del tutto evidente.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 53)
[3.3.] il non facile accordo: «In generale, fino a una fase molto recente, questi due tipi di movimenti si sono considerati assai diversi, talvolta finanche tra loro antagonisti. Le alleanze tra di essi erano concepite come tattiche e temporanee; tuttavia, fin dall’inizio, è impressionante il grado con cui entrambi i tipi di movimenti hanno condiviso certe somiglianze strutturali. In primo luogo, dopo una considerevole discussione, sia i movimenti operai-socialisti che quelli nazionalisti hanno preso la decisione fondamentale di strutturarsi in forme organizzate, e la decisione concomitante che il loro obiettivo politico più importante fosse la conquista del potere statale (anche quando, come nel caso di certi movimenti nazionalisti, ciò comportava la creazione di nuovi confini statali). In secondo luogo, la decisione circa la strategia — la conquista del potere statale — richiedeva che questi movimenti mobilitassero forze popolari sulla base di una ideologia antisistemica, cioè a dire rivoluzionaria. Erano contro il sistema esistente, e il sistema esistente era in effetti il capitalismo storico, che era costruito sulle diseguaglianze basilari, tra capitale e lavoro e tra centro e periferia, che quei movimenti cercavano di superare e sconfiggere.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 53-54)
[3.4.] una componente “inevitabile” o per lo meno ricorrente e di natura “ambigua”: «cercare di spostarsi in una condizione più alta all’interno della distribuzione ineguale … possedere una «mobilità verso l'alto» all’interno della gerarchia esistente». «Naturalmente, in un sistema ineguale, vi sono sempre due vie attraverso le quali un gruppo situato in basso può cercare di uscire dalla sua condizione. Esso può cercare di ristrutturare il sistema, così che tutti abbiano eguali condizioni; o può, semplicemente, cercare di spostarsi in una condizione più alta all’interno della distribuzione ineguale. Come sappiamo, i movimenti antisistemici, a prescindere dal fatto di avere posto al centro della propria attenzione obiettivi egualitari, hanno sempre avuto al loro interno elementi il cui obiettivo, all’inizio o alla fine, è stato solo quello di possedere una «mobilità verso l'alto» all’interno della gerarchia esistente. I movimenti stessi sono sempre stati consapevoli di ciò. Essi hanno tuttavia teso a impostare questo problema in termini di motivazioni individuali: la purezza di cuore contrapposta ai traditori della causa. Ma quando, analizzando le cose, i «traditori della causa» appaiono onnipresenti in ogni momento particolare dei movimenti in questione, così come essi si sono storicamente sviluppati, allora si è portati a cercare una spiegazione in termini di strutture piuttosto che di motivazioni. La chiave del problema può essere in effetti nella decisione strategica fondamentale di fare della conquista del potere statale il fulcro delle attività del movimento. Questa strategia ha avuto due conseguenze essenziali. Nella fase di mobilitazione, ha spinto ciascun movimento ad addentrarsi in una serie di alleanze tattiche con gruppi che non erano in alcun modo «antisistemici», al fine di rafforzare il proprio obiettivo strategico. Queste alleanze hanno modificato la struttura dei movimenti antisistemici stessi, anche allo stadio della mobilitazione. Cosa ancor più importante, la strategia ha alla fine avuto successo, in molti casi. Molti di questi movimenti hanno conquistato in parte, o anche completamente, il potere statale. Questi movimenti vittoriosi si sono allora confrontati con la realtà delle limitazioni del potere di tutti gli stati interni all’economia-mondo capitalistica. E hanno scoperto che erano costretti dal funzionamento del sistema interstatale a esercitare il loro potere in forme che modificavano gli obiettivi «antisistemici» che erano stati la loro ragion d'essere.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 55-56)
[3.5.] ambiguità accentuata dal progetto (infinitamente discusso all’interno dei movimenti antisistema) di una “strategia a due tempi”: «Si può affermare che, agli inizi del ventesimo secolo, non solo l’opzione politica aveva prevalso in questo dibattito relativo alla strategia, ma che i movimenti antisistemici avevano concordato — ciascuna variante individualmente, ma in modo parallelo — un’agenda d’azione in due tempi: prima ottenere potere nello stato; poi trasformare il mondo/ lo stato/ la società. Rimaneva naturalmente un grosso margine di ambiguità in questa strategia in due tempi. La questione principale era cosa significasse ottenere potere nello stato e, in ogni caso, come fosse possibile riuscirvi. (Il problema di come trasformare il mondo/lo stato/la società fu discusso meno di frequente, forse perché percepito come un problema del futuro piuttosto che del presente.)» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 108)
2.3.5. l’ambivalenza dei movimenti antisistemici e la loro pulsione autodistruttiva. «Tutto ciò sembra così ovvio che c'è da chiedersi con stupore perché i movimenti abbiano basato la loro strategia su un obiettivo così evidentemente autodistruttivo. La risposta è semplicissima. Data la struttura politica del capitalismo storico, essi avevano poco da scegliere. Non sembrava vi fosse alcuna strategia alternativa più promettente. La conquista del potere statale prometteva almeno di cambiare in qualche modo i rapporti di forza tra i gruppi contendenti. Come a dire che la conquista del potere rappresentava una riforma del sistema. Le riforme in effetti miglioravano la situazione, ma al prezzo di rafforzare il sistema in quanto tale.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 56)
O il rischio dei movimenti antisistema sembra essere una endemica pulsione autodistruttiva. Viste le ipotesi formulate da Wallerstein si può comprendere ulteriormente perché Marx (magari intuitivamente) non pensa a forma di governo o stati socialisti come esito dell’azione rivoluzionaria presa in considerazione.
2.3.5.1. Le articolazioni di una trappola autodistruttiva per i movimenti antisistema.
[1.] Il razzismo sociale contemporaneo nella differenziazione etnica della forza-lavoro.
«Dal punto di vista di coloro che volevano facilitare l’accumulazione di capitale, uno degli obiettivi chiave era la creazione di forza-lavoro ai posti giusti e ai livelli di remunerazione più bassi possibili. […] Quelli che definiamo «gruppi etnici» sono gruppi di persone di dimensioni piuttosto grandi a cui sono state riservate certe funzioni lavorative/economiche, rispetto ad altri gruppi analoghi che vivevano nella stessa area geografica. La simbolizzazione esterna di tale distribuzione della forza-lavoro era costituita dalla specifica «cultura» del gruppo etnico — la sua religione, la sua lingua, i suoi «valori», il suo particolare insieme di modi quotidiani di comportamento.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 60) Ma si tratta di tradizioni inventate ad hoc e post factum, o attraverso una enfatizzazione culturale di alcuni aspetti che si prestano al caso e funzionano se isolati e resi unici o centrali; esempio le tradizioni contadine, le tradizioni commerciali... Attenti dunque alle tradizioni costruite… sono artifici che servono a dar valore a scelte e obiettivi attuali; rischiano di vincolare una persona ad una professione su basi etniche e su esigenza di una divisione delle mansioni professionali a costi utili, stabili e controllati. «Sostengo ancora che non vi è quasi nessuna correlazione tra l’attuale distribuzione etnica della forza-lavoro e i modelli dei presunti antenati degli attuali gruppi etnici, relativi a periodi precedenti il capitalismo storico […] la divisione etnica ha posto in essere un continuo meccanismo di addestramento della forza-lavoro, garantendo che una larga parte della socializzazione delle mansioni professionali….» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 61) «… la convinzione che certi gruppi fossero «superiori» ad altri, in certi connotati importanti al fine di avere successo in campo economico, si è sempre concretizzata dopo che questi gruppi avevano assunto un posto all’interno della forza-lavoro, e non prima. Il razzismo è sempre venuto post hoc. Quelli che sono stati economicamente e politicamente oppressi sono stati dichiarati culturalmente «inferiori».» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 62) «Il razzismo, proprio come il sessismo, ha funzionato come una ideologia autorepressiva, modellando le aspettative e limitandole.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 63)
[2.] la forza di un mito storico contemporaneo. Parole come: universalismo e modernità, progresso e sviluppo, la conoscenza, la scienza e la verità … si rivelano come “oppio” in funzione del binomio “razionalità e razionalizzazione”.
[2.1.] «Universalismo e modernità. L’universalismo è un’epistemologia. È un insieme di convinzioni circa ciò che è conoscibile e il modo in cui lo si può conoscere. […] La fede nell’universalismo è stata la chiave di volta dell’edificio ideologico del capitalismo storico. L’universalismo è infatti una fede, oltre che un’epistemologia. […] La verità come ideale culturale ha funzionato da oppio, forse l’unico vero oppio del mondo moderno. […] Il concetto di una cultura neutra «universale», a cui i quadri della divisione mondiale del lavoro fossero «assimilati» (la forma passiva è importante, in questo caso) ha cominciato perciò a funzionare come uno dei pilastri del sistema-mondo, così come si è storicamente sviluppato.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 64-67 passim)
[2.2.] «L’esaltazione del progresso, e più tardi della «modernizzazione», ha riassunto questo insieme di idee, che non è servito tanto come effettivo sistema di norme per l’azione sociale, quanto come status-symbol di obbedienza e di partecipazione tra gli strati superiori a livello mondiale. Il passaggio brusco dalle basi religiose considerate culturalmente anguste, alle basi scientifiche, considerate metaculturali, della conoscenza, è servito da autogiustificazione ad una forma particolarmente perniciosa di imperialismo culturale, che ha dominato in nome della liberazione intellettuale, e si è imposta in nome dello scetticismo. » (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 67) «La cultura scientifica è divenuta così il codice di riconoscimento su scala mondiale degli accumulatori di capitale. Essa è servita innanzitutto a giustificare le loro attività, ma anche a giustificare le diverse ricompense di cui godevano. Ha promosso l’innovazione tecnologica. Ha legittimato l’impietosa eliminazione di ogni barriera all’espansione delle efficienze produttive. Ha dato vita a una forma di progresso, che sarebbe di beneficio, si vorrebbe far credere, per tutti — se non nell’immediato, sul lungo periodo.
Tuttavia la cultura scientifica è stata qualcosa di più che una mera razionalizzazione. È stata una forma di socializzazione dei diversi elementi che costituivano i quadri delle strutture istituzionali di cui c’era bisogno. Come linguaggio comune ai quadri, ma non direttamente accessibile da parte della forza-lavoro, ha assunto anche un significato di coesione di classe per lo strato superiore, e ha costituito così un limite posto ai progetti o alle pratiche di ribellione da parte dei quadri che potevano avere simili tentazioni.
Inoltre è stato un meccanismo flessibile per la riproduzione di questi quadri. Ha favorito il sorgere del concetto che oggi chiamiamo «meritocrazia», e che prima si definiva «la carrière ouverte aux talents». La cultura scientifica ha creato una cornice in cui la mobilità individuale era possibile senza minacce per la disposizione gerarchica della forza-lavoro. Al contrario, la meritocrazia ha rafforzato la gerarchia. […] C’è una trappola nell’universalismo. Esso non si è fatto strada come una ideologia libera, ma è stato propagato da coloro che detenevano il potere economico e politico nel sistema-mondo del capitalismo storico.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 68,69) [ricorda la massima di Marx: la cultura dominante è la cultura della classe dominante]
[2.3.] «L’ambivalenza dei movimenti antisistemici. Si potrebbe pensare che le forze-lavoro mondiali siano state immuni da questa ambivalenza, non essendo mai state invitate a «mangiare alla tavola del signore». Di fatto, tuttavia, le espressioni politiche delle forze-lavoro mondiali, i movimenti antisistemici, sono state fortemente caratterizzate dalla stessa ambivalenza. I movimenti antisistemici, come abbiamo già notato, si sono ricoperti dell’ideologia dell'Illuminismo, che è stato esso stesso un prodotto diretto dell’ideologia universalistica. Essi perciò hanno preparato per sé la trappola culturale in cui si dibattono da sempre: cercare di scalzare le basi del capitalismo storico, proponendosi strategie e obiettivi di medio termine che derivano esattamente dalle «idee delle classi dominanti» che essi cercano di distruggere.
La variante socialista dei movimenti antisistemici ha sempre avuto a che fare, fin dall’inizio, con l’idea del progresso scientifico. Marx, volendo distinguersi dagli altri socialisti che definiva «utopisti», affermava di volere il «socialismo scientifico». I suoi scritti ponevano l’accento sui modi in cui il capitalismo era «progressivo» rispetto a ciò che lo aveva preceduto. Il concetto per cui il socialismo sarebbe arrivato prima nei paesi più «avanzati» suggeriva un processo per cui il socialismo sarebbe scaturito da (e come reazione a) un’ulteriore avanzata del capitalismo. La rivoluzione socialista avrebbe così tratto ispirazione dalla «rivoluzione borghese», e sarebbe venuta dopo di essa. […] Nella misura in cui questi movimenti, una volta al potere — fossero socialdemocratici o comunisti — hanno realizzato le parole d’ordine staliniane del «socialismo in un paese solo» essi si sono concentrati tutti, di conseguenza, nel proseguire il processo di mercificazione di ogni cosa che è stato così connaturato all’accumulazione generale del capitale. Nella misura in cui essi sono rimasti tutti all’interno del sistema interstatale — anzi hanno lottato per rimanervi, contro tutti i tentativi di espellerli —, tutti hanno accettato e rafforzato la realtà del dominio su scala mondiale della legge del valore. «L’uomo socialista» è sembrato sospettosamente simile a quello di un taylorismo che intanto dilagava. » (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 70, 71)
[2.4.] Un incontro che pare anomalo (ma ha la sua storica ragion d’essere). «Non c’è da stupirsi che i liberali credessero nel progresso. L’idea di progresso giustificava l’intera transizione dal feudalesimo al capitalismo. L’idea di progresso legittimava la rottura dell'opposizione persistente nei confronti della mercificazione di ogni cosa. L’idea di progresso tendeva a spazzar via tutti gli aspetti negativi del capitalismo sulla base della convinzione che i benefici sopravanzassero, e di gran lunga i danni. Dunque non c’è proprio da stupirsi che i liberali credessero in questa idea. Ciò che stupisce è che i suoi grandi oppositori ideologici, i marxisti — gli antiliberali, i portavoce delle classi lavoratrici oppresse — credessero nel progresso con una passione almeno altrettanto accesa dei liberali. Senza dubbio, questa fede era a sua volta a servizio di un importante scopo ideologico. Giustificava le attività del movimento socialista mondiale sulla base del fatto che esso incarnava il corso inevitabile dello sviluppo storico. […] Il fatto di avere abbracciato da parte marxista un modello evolutivo di progresso è stato una enorme trappola, di cui i socialisti hanno cominciato ad accorgersi solo di recente; ed è questo uno degli elementi della crisi ideologica che è stata parte della generale crisi strutturale dell’economia-mondo capitalistica.
È semplicemente falso che il capitalismo come sistema storico abbia rappresentato un progresso rispetto ai precedenti sistemi storici che distrusse o trasformò. Mentre scrivo queste cose, sento già il tremore che accompagna il senso della bestemmia, e temo la collera degli dei, perché anch’io sono stato forgiato nello stesso calderone ideologico dei miei compagni, e anch’io ho pregato agli stessi altari.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 78-79 [si va forse già verso le tesi dello sviluppo come decrescita? è questa riflessione a fornire o indicare l’alternativa dei e ai movimenti cercata da Wallerstein?])
[2.5.] Anche il versante nazionalistico presente nei movimenti antisistema ha contribuito alla loro ambivalenza e a allestire la trappola di una loro autodistruzione; per due tratti: «… il primo è consistito nel fatto che l’unità scelta come contenitore della cultura tendeva ad essere lo stato, che era a sua volta una componente del sistema interstatale. […] In secondo luogo, uno sguardo comparato alle riaffermazioni culturali tra tutti questi stati chiarisce che mentre esse sono state diverse nella forma, sono stata tendenzialmente identiche nel contenuto. I morfemi di ciascuna lingua erano differenti, ma il vocabolario cominciava a convergere. […] In questo senso i movimenti antisistemici hanno spesso funzionato da intermediari culturali dal potente verso il debole, alterandone, piuttosto che rafforzarne, le fonti di resistenza più radicate.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 72)
2.3.5.2. L’ambivalenza dei movimenti antisistemici e la trappola in bilancio storico. «Possiamo perciò riassumere il lavoro svolto dai movimenti antisistemici nel mondo lungo l'arco di centocinquant’anni come un puro e semplice rafforzamento del capitalismo storico tramite il riformismo? No, perché la politica del capitalismo storico è stata qualcosa di più della politica dei vari stati. È stata soprattutto la politica del sistema interstatale. I movimenti antisistemici sono esistiti fin dall’inizio non solo come entità individuali, ma come un insieme collettivo, anche se mai organizzato burocraticamente (le varie internazionali non hanno mai incluso la totalità di questi movimenti). Un fattore chiave nel determinare la forza di un qualunque movimento è stato sempre costituito dall’esistenza di altri movimenti. Gli altri movimenti hanno fornito al movimento in questione tre tipi di supporti. Il più ovvio è stato il supporto materiale, forma d’aiuto utile ma forse tra le meno significative. Una seconda forma è stata quella di un supporto diversivo [lo Stato è occupato in altre più impegnative scadenze]… Il terzo e più importante supporto si è verificato a livello di mentalità collettive. […] Nella misura in cui i movimenti aumentavano di numero e accrescevano i propri successi tattici, essi sembravano più forti, come fenomeno collettivo; e siccome sembravano più forti, lo erano davvero.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 55-56)

2.4. Il tema dell’alternativa. La questione centrale, ricorrente, il quesito assillante: esiste realmente un’alternativa al sistema-mondo e al modello del capitalismo storico?
Vista la capacità di assimilazione dei movimenti antisistema nel sistema, la domanda diventa anche: esiste una alternativa ai movimenti antisistema così storicamente costituiti e segnati?
«Il «progetto delle civiltà» ha riaperto la domanda se esistano davvero verità metastoriche. Una forma di verità, che rifletteva le realtà del potere e imperativi economici del capitalismo storico, si è sviluppata e ha pervaso il globo. È vero, e lo abbiamo visto. Ma quanta luce getta questa forma di verità sul processo di declino di questo sistema storico, e ancor più sull’esistenza di effettive alternative storiche ad un sistema storico basato sulla incessante accumulazione di capitale? Qui sta la questione.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 73)
2.4.1. Un bilancio del capitalismo storico considerati gli effetti generali. «All'inizio abbiamo rinviato la risposta alle domande: quali sono stati i benefici reali del capitalismo storico? Quanto è cambiata la qualità della vita? Dovrebbe essere chiaro, adesso, che non vi è una risposta univoca. Dobbiamo chiederci «per chi?». Il capitalismo storico ha comportato una gigantesca costituzione di beni materiali, ma anche una gigantesca polarizzazione delle ricompense. Molti ne hanno beneficiato enormemente, ma molti di più hanno conosciuto una sostanziale riduzione del reddito reale complessivo e della qualità della vita. […] Ma nell’intera realtà del tempo-spazio attraversato dal capitalismo storico, l’incessante accumulazione di capitale ha voluto significare l’incessante crescita del divario reale.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 57-58)
In forma più analitica il bilancio: «Mito e realtà del progresso. Lasciatemi dire che, come minimo, non è per nulla evidente che vi sia più libertà, più eguaglianza e più fraternità nel mondo d’oggi di quanta ve ne fosse mille anni fa. Si potrebbe ragionevolmente sostenere che è vero il contrario. Non cerco di dipingere in modo idilliaco i mondi che hanno preceduto il capitalismo storico. Erano mondi di piccola libertà, di poca eguaglianza, di scarsa fraternità. L’unica questione è se il capitalismo storico abbia rappresentato in questo senso un progresso o un regresso.
Non sto parlando di paragoni tra le crudeltà relative. Sarebbero difficili da stabilire, e lugubri al tempo stesso, anche se non v’è ragione di essere ottimisti circa il possibile primato del capitalismo storico in questo campo. Il mondo del secolo XX può menar vanto di aver esibito alcuni talenti di straordinaria raffinatezza in questa antica arte. Né mi riferisco allo spreco sociale crescente e davvero incredibile che è stato la conseguenza della gara per l’incessante accumulazione di capitale: uno spreco che può cominciare a rasentare la soglia dell’irreparabile.
Voglio piuttosto limitare il mio ragionamento ad alcune considerazioni materiali, e non riferite al futuro della società, ma al periodo effettivamente vissuto dall'economia- mondo capitalistica. Il ragionamento è semplice quanto audace. Voglio difendere l’unica proposizione marxista che anche i marxisti ortodossi tendono a seppellire con vergogna: la tesi dell’immiserimento assoluto (non relativo) del proletariato.
Sento gli amichevoli rimbrotti: «Di sicuro non stai dicendo sul serio; certamente vuoi dire immiserimento relativo. Forse che l’operaio industriale non sta mille volte meglio adesso che nel 1800?» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico,81-82) Alcuni aspetti analitici.
2.4.1.1. risposta o aspetto 1.: le condizioni materiali di vita di sopravvivenza e lavoro. «L’operaio industriale, sì, o almeno molti operai industriali. Ma gli operai industriali rappresentano ancora una parte relativamente piccola della popolazione mondiale. La parte preponderante delle forze-lavoro mondiali, che vive nelle zone rurali o si sposta tra queste ultime e le «bidonvilles» ai margini delle città, sta peggio dei suoi antenati di cinquecento anni fa. Mangia meno bene, e certamente in modo meno equilibrato. Anche se ha maggiore probabilità di sopravvivere al primo anno di vita (a causa dell'effetto dell’igiene sociale, intrapresa per proteggere i privilegiati), dubito che le aspettative di vita della maggioranza della popolazione mondiale a un anno siano maggiori di quanto lo fossero prima.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 82)
2.4.1.2. risposta o aspetto 2.: le condizioni politiche e delle relazioni sociali: di controllo e sottomissione o lo stato delle libertà personali. «Anche laddove le precedenti, più lasche, strutture di controllo comunitario non furono sostituite da una di queste forme di controllo diretto e autoritario dell’attività agricola che abbiamo appena compreso sotto la definizione di «piantagioni», la disintegrazione delle strutture comunitarie nelle zone rurali non fu percepita come una forma di «liberazione», perché era inevitabilmente accompagnata, e spesso direttamente causata, da un controllo sempre più forte da parte delle strutture statali emergenti, le quali si sono rivelate sempre meno disposte a concedere autonomia al produttore diretto circa i processi di decisione locale.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 83)
2.4.1.3. risposta o aspetto 3.: accentuarsi di sessimo e razzismo in forme costituenti ordini e gerarchie sociali. «Il sessismo in questo caso ha significato relegare le donne nella sfera del lavoro non produttivo, doppiamente umiliante, perché il lavoro effettivo loro richiesto veniva se possibile intensificato, mentre il lavoro produttivo diveniva nell’economia-mondo capitalistica, per la prima volta nella storia umana, la base delle legittimazione del privilegio. Ciò ha costituito un «doppio legame» che non era possibile sciogliere all’interno del sistema.
Allo stesso modo, il razzismo non è stato in questo caso l’odio o l’oppressione verso lo straniero, verso qualcuno che stesse fuori dal sistema storico. Tutto al contrario, il razzismo è stato la stratificazione della forza-lavoro dentro il sistema storico; e il suo obiettivo è stato di trattenere i gruppi oppressi all’interno del sistema, non di espellerli fuori di esso. Esso ha costituito la giustificazione per la bassa remunerazione del lavoro produttivo, nonostante il primato che veniva riconosciuto a parole a questo tipo di lavoro nella determinazione del diritto a una ricompensa. Si è ottenuto questo scopo identificando il lavoro a più bassa remunerazione con il lavoro di più bassa qualità. E dal momento che ciò era dato per definizione, nessun cambiamento della qualità del lavoro ha mai potuto sortire altro effetto che quello di cambiare la forma dell'accusa, anche se l’ideologia dichiarava di offrire la ricompensa di una mobilità individuale come corrispettivo di uno sforzo individuale. E anche questo era un «doppio legame» impossibile da sciogliere.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 83-84) Dunque, per il sessismo e per il razzismo “fatto in casa” una esclusione attraverso l’inclusione; una esclusione che legittima una maggior inclusione in termini di integrazione nello sfruttamento, con consacrazione ideologica della qualità: si tratta di lavori di minor qualità.
2.4.2. Un bilancio del potenziale storico dei movimenti antisistema, condotto su basi descrittive empiriche. Ambivalenti i movimenti antisistemici, ambivalente il bilancio storico che Wallerstein abbozza nei loro confronti.
2.4.2.1. riportabile al tema della ambivalenza, ambiguità e conseguente pulsione autodistruttiva, per lo più inconscia (forse) degli antisistema, osserva, un po’ fatalisticamente, Wallerstein: «La prima cosa da ricordare in questo ambito di considerazioni è che il movimento socialista mondiale, anzi ogni forma di movimento antisistemico, così come ogni rivoluzione e ogni stato socialista, sono stati prodotti in tutto e per tutto dal capitalismo storico. Non erano strutture esterne al sistema storico, ma la secrezione di processi interni al sistema. Perciò riflettevano tutte le contraddizioni e tutti i vincoli del sistema. Non potevano e non possono fare altrimenti.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 88)
2.4.2.2. riportabile al percorso storico in osservazione: «Questa nuova forma fondamentale di resistenza culturale ha una base materiale. La progressiva mobilitazione dei movimenti antisistemici su scala mondiale ha con il tempo reclutato un numero sempre maggiore di elementi che sono economicamente e politicamente marginali rispetto al funzionamento del sistema e poco adatti a trarre profitto, anche alla distanza, dal surplus accumulato. Allo stesso tempo, la progressiva demitizzazione di questi stessi movimenti ha indebolito la riproduzione dell’ideologia universalistica al loro interno e i movimenti hanno perciò cominciato ad aprirsi sempre più a quegli elementi che ne hanno messo in discussione le fondamenta. Raffrontato con il profilo degli appartenenti ai movimenti antisistemici degli anni tra il 1850 e il 1950, quello degli anni dal 1950 ad oggi contiene un maggior numero di appartenenti a zone periferiche, un maggior numero di donne, un maggior numero di «minoranze», comunque definite, un maggior numero di lavoratori della fascia meno specializzata e peggio retribuita. Ciò è vero sia in tutto il mondo che nei singoli stati, sia tra i militanti che tra i dirigenti. Un simile cambiamento della base sociale non può che alterare le predilezioni ideologiche e culturali dei movimenti antisistemici mondiali.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 73-74)
2.4.3. Unendo i due bilanci (del capitalismo storico, dei movimenti antisistema), torna il tema (marxiano) della “crisi del sistema storico”.
2.4.3.1. Dalla storicità del sistema capitalistico e dalle contraddizioni interne agli obiettivi strutturali di sistema. «Abbiamo cercato fin qui di descrivere il modo in cui il capitalismo ha di fatto funzionato come sistema storico. Ma i sistemi storici sono, per l’appunto, storici. Vengono al mondo e poi cessano di esistere, come conseguenza di processi interni nei quali l’esasperazione delle contraddizioni interne conduce a una crisi strutturale. Le crisi strutturali sono vaste e di lunga durata. Ci vuole tempo perché si manifestino. Il capitalismo storico è entrato in questa crisi strutturale all’inizio del secolo XX e conoscerà la propria fine come sistema storico in qualche momento del secolo prossimo venturo. È azzardato predire cosa verrà dopo. Ciò che possiamo fare ora è analizzare le dimensioni della crisi strutturale e percepire le direzioni verso cui questa crisi di sistema ci sta portando.
Il primo, e forse più importante, aspetto di questa crisi sta nel fatto che stiamo per arrivare davvero alla mercificazione di ogni cosa. Cioè, il capitalismo storico è in crisi esattamente perché, nel perseguire l'incessante accumulazione di capitale, sta cominciando ad avvicinarsi a quello stato che Adam Smith sosteneva fosse «naturale» per l’uomo ma che non è mai storicamente esistito, nemmeno sotto il capitalismo sviluppatosi fino a questo momento. […] Gli accumulatori di capitale, lungi dal cercare di accelerare la proletarizzazione, cercano di rallentarla. Ma non possono farlo del tutto, a causa delle contraddizioni tra i propri interessi, tra quelli di ciascuno come imprenditore singolo e quelli di tutti loro come appartenenti a una classe.
È un processo sistematico, incessante, impossibile da contenere, fin quando l’economia è spinta dal motore dell’accumulazione continua di capitale. Il sistema può allungarsi la vita rallentando alcune delle attività che lo stanno consumando, ma la morte si profila all’orizzonte, in tutti i modi che la nostra mitologia non ha cessato di ricordarci.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 74-75)
2.4.3.2. Dalla fondazione ideologica mitica e dalla trappola plurima che l’ideologia ha teso al capitalismo e al socialismo. «Capitalismo e socialismo. È essenziale analizzare le realtà che hanno accompagnato l’ideologia del progresso perché, se non lo facciamo, non possiamo accostarci in modo intelligente all’analisi delle transizioni da un sistema all'altro. La teoria del progresso evolutivo comportava non soltanto l’affermazione per cui il sistema che veniva dopo dovesse essere migliore del precedente, ma anche l’affermazione per cui qualche nuovo gruppo dominante avrebbe sostituito il gruppo dominante precedente, Perciò, non solo il capitalismo costituiva un progresso sul feudalesimo, ma questo progresso era ottenuto essenzialmente tramite il trionfo, il trionfo rivoluzionario, della «borghesia» sulla «aristocrazia terriera» (o sugli «elementi feudali»). Ma se il capitalismo non era progressista, qual è il significato del concetto di rivoluzione borghese? C’è stata una rivoluzione borghese, e se sì, ve n’è stata una o tante? Abbiamo già sostenuto che l’immagine di un capitalismo storico scaturito dal rovesciamento di una aristocrazia arretrata da parte di una borghesia progressista è sbagliata. Al contrario, l’immagine sostanzialmente corretta è quella per cui il capitalismo storico è stato messo in vita dagli esponenti di una aristocrazia terriera che trasformò se stessa in borghesia, perché il vecchio sistema si stava disgregando. […]
Se tuttavia questa nuova immagine è giusta, essa modifica radicalmente la nostra percezione dell’attuale transizione dal capitalismo al socialismo, da un’economia-mondo capitalistica a un ordine-mondo socialista. Fino ad ora, la «rivoluzione proletaria» è stata modellata, più o meno, sulla «rivoluzione borghese». Così come la borghesia rovesciò l’aristocrazia, allo stesso modo il proletariato avrebbe rovesciato la borghesia. Questa analogia è stata il pilastro fondamentale dell’azione strategica del movimento socialista mondiale.
Ma se non vi è stata nessuna rivoluzione borghese, ciò vuol dire che non c’è stata o non ci sarà nessuna rivoluzione proletaria? Nient’affatto, né dal punto di vista logico, né da quello empirico. Vuol dire però che dobbiamo accostarci al tema della transizione in modo differente.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 86-87)

3. Il sistema-mondo in dinamiche strutturali per la comprensione del presente e l’iniziativa (studio teorico, strumento politico).
Voce Spazio economico, in Enciclopedia Einaudi, XIII, Torino 1981, pp. 304-313 (in Wallerstein 1983, Il capitalismo storico)
Wallerstein Immanuel Alla scoperta del sistema mondo, manifestolibri, Roma 2003.
Wallerstein Immanuel Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistema-mondo, Asterios editore, Trieste 2006 «Io stesso mi sono dedicato all’analisi dei sistemi-mondo, e ho scritto su questo argomento, per oltre trent’anni. Me ne sono servito per descrivere la storia e i meccanismi del sistema-mondo moderno. Per delineare le strutture del sapere. Ne ho dibattuto come metodo e come punto di vista.» (p. 15)
Wallerstein si serve e riprende (citandoli) concetti già espressi dallo storico francese Fernad Braudel e dall'economista /antropologo Karl Polanyi. Da Fernand Braudel, verranno ripresi concetti relativi al capitalismo nonché l'approccio metodologico della longue durée. A partire, invece, dalla divisione compiuta da Karl Polanyi in relazione ai modi in cui l'economia si integra alla società, svilupperà parallelamente la teoria del sistema-mondo. (fonte Wikipedia)
3.01. Un breve passaggio di carattere storico e storiografico sui modi con cui il sistema-mondo ha preso forma e valenza di studio teorico e di strumento politico. Riassunto in due tappe.
3.01.1. la situazione dalla seconda metà dell’‘800 alla seconda metà del ‘900.
«Gli antropologi-etnografi, nello studiare le popolazioni primitive, e gli Orientalisti, nello studiare le civiltà avanzate, avevano un denominatore epistemologico comune. Entrambi mettevano in evidenza le particolarità dei gruppi che studiavano, piuttosto che analizzarne le caratteristiche umane generiche.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 28) Insomma: quando l’area di studio o l’Oriente (non meglio specificato) o le popolazioni primitive (ancora non meglio specificate, in realtà ben specificate in questa genericità, in quanto funzionale a obiettivi colonialistici), allora l’oggetto di studio dello storico è la tribù (i gruppi…); quando l’area di studio è l’Occidente (cioè l’Europa e il Nord America) allora oggetto di studio storico è la persona (e i suoi diritti).
«Si consideri prima di tutto l’impatto dell’egemonia statunitense e dell’autoaffermazione del Terzo Mondo. Verificandosi insieme fecero sì che la divisione del lavoro all’interno delle scienze sociali — storia, economia, sociologia e scienza politica per lo studio dell’Occidente; antropologia e orientalismo per il resto del mondo — risultasse a dir poco inutile agli attori politici statunitensi.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 29)
3.01.2. il mutamento nel corso del ‘900 e la situazione attuale o verso il sistema-mondo.
Due processi convergenti e di diversa natura cambiano lo scenario degli studi, la divisione delle competenze e il metodo di analisi del sociale in Europa nel corso del secondo ‘900; uno è esterno e l’altro interno.
All’esterno: l’affermarsi dell’egemonia americana sugli equilibri mondiali nella seconda metà del ‘900 e contemporanea, i rapidi processi di decolonizzazione che giungono a formale compimento intorno al 1960. All’interno dell’area ad economia capitalistica “avanzata”: la “rivoluzione mondiale del 1968” (Wallerstein, Comprendere il mondo,116, 127 e ss). L’uno segna la fine del pan-europeismo, l’altro la fine (culturale) di una società chiusa incentrata su tradizioni e famiglia e l’attenzione al tema delle minoranze, delle diversità delle esclusioni… e, dagli anni Settanta, si inizia a parlare dei sistemi-mondo.
In questo contesto agli studi sociali (e a quelli di carattere antropologico e etnografico) si chiede altro. «Gli Stati Uniti avevano bisogno di studiosi in grado di analizzare l’ascesa del Partito Comunista Cinese più che di studiosi che sapessero decifrare i testi del Taoismo; di studiosi che potessero interpretare la forza dei movimenti nazionalisti africani o la crescita di una forza lavoro urbana più che di studiosi che sapessero ricostruire i modelli di parentela delle popolazioni Bantu. E in questo né gli Orientalisti né gli etnografi potevano essere di grande aiuto. Una soluzione c’era: formare storici, economisti, sociologi e scienziati della politica che studiassero ciò che stava accadendo in queste altre parti del mondo.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 29-30)
3.01.3. Lo stratagemma adottato per comporre in sequenza quegli studi e permetterne una lettura cogliendone una linearità utile (doppiamente utile, per capire e gestire quelle aree e quegli studi e per giustificare come fatto di merito e di civiltà un intervento politico economico e militare in quelle aree da parte dei paesi “avanzati”, che commissionano quegli studi) fu il concetto di “sviluppo”.
«Ciò fu all’origine di una invenzione statunitense - gli "area studies" — che ebbe un enorme impatto sul sistema universitario statunitense (e quindi mondiale). Ma come era possibile riconciliare ciò che sembrava essere per sua natura relativamente "idiografico" — lo studio di un’"area" geografica o culturale — e le pretese "nomotetiche" di economisti, sociologi, scienziati della politica e ora perfino di alcuni storici? Un’ingegnosa soluzione intellettuale a questo dilemma venne alla luce: il concetto di "sviluppo".
Il concetto di sviluppo, nell’uso che si affermò dopo il 1945, si fondava su un meccanismo esplicativo già noto, la teoria degli stadi. Chi si serviva di questo concetto assumeva che le singole unità — le "società nazionali" — si sviluppassero tutte fondamentalmente nello stesso modo (soddisfacendo in questo modo l’esigenza nomotetica) ma con ritmi differenti (riconoscendo così le differenze che sembravano esserci tra gli stati in quel momento). Oplà! Si sarebbero così potuti introdurre concetti specifici per studiare gli "altri" nel presente, sostenendo intanto che, alla fine, tutti gli stati sarebbero diventati più o meno uguali. Questo gioco di prestigio aveva anche un risvolto concreto. Implicava che gli stati "più sviluppati" potessero offrirsi come modello per quelli "meno sviluppati", incitandoli a impegnarsi in una sorta di imitazione, e promettendo all’orizzonte tenori di vita più elevati e forme di governo più liberali ("sviluppo politico").» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 30) Corollario al concetto di sviluppo, e altrettanto importante per l’emergere dell’analisi dei sistemi-mondo, fu la distinzione tra centro e periferia: «concetto di centro-periferia elaborato dalla Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’America Latina (ECLA) e la susseguente formulazione della “teoria della dipendenza”) (Wallerstein, Comprendere il mondo, 31)
3.01.4. Sotto l’impulso di questi processi storici, l’antropologia (e le scienze affini) smette di occuparsi dei “selvaggi” (di inventarsi i selvaggi o i primitivi) e si occupa delle relazioni sociali del mondo “civile”, entrando in contatto e collisione con le già presenti scienze sociali e avviando di fatto uno studio intorno agli stessi temi sociali condotto ora a partire da un numero imprecisato di discipline e competenze plurime diversificantesi in molti (sotto-)specialismi (sociologia, antropologia, psicologia, psichiatria, etnografia… Si spostano così a livello indistintamente mondiale o globale i termini sistema-mondo, centro-periferia e giocano un altro ruolo analitico e teorico; vengono contemporaneamente messi in crisi dominanti stereotipi ideologico sia circa le teorie del sottosviluppo di stampo capitalistico («… la discussione sull’inevitabilità degli stadi di sviluppo e dunque sullo sviluppismo come cornice analitica e indirizzo politico.» Wallerstein, Comprendere il mondo, 34) sia circa la logica dei processi rivoluzionari di stampo socialista-comunista. «Andre Gunder Frank coniò l’espressione "lo sviluppo del sottosviluppo" per descrivere gli effetti delle politiche delle grandi corporation, degli stati più importanti delle aree centrali e delle agenzie interstatali che promuovevano il “libero commercio” nell’economia-mondo. Il sottosviluppo era considerato non come una condizione originaria, la cui responsabilità era imputabile ai paesi che erano sottosviluppati, ma come una conseguenza del capitalismo storico.
Ma le teorie della dipendenza criticavano anche, e forse in misura ancora maggiore, i partiti comunisti dell’America Latina. Questi partiti avevano sposato una teoria degli stadi dello sviluppo che sosteneva che i paesi dell’America Latina erano ancora feudali o "semi-feudali", e dunque non avevano ancora sperimentato una “rivoluzione borghese”, che si riteneva dovesse precedere una "rivoluzione proletaria". Ne facevano derivare che le forze radicali dell’America Latina dovessero collaborare con la cosiddetta borghesia progressista per giungere alla rivoluzione borghese, in modo tale che successivamente il paese avrebbe potuto procedere verso il socialismo. I dependistas, ispirati come molti altri dalla rivoluzione cubana, sostenevano che la linea ufficiale dei comunisti fosse una mera variante di quella ufficiale del governo statunitense (costruire innanzitutto stati liberali borghesi e una classe media). Essi si opposero alla linea dei partiti comunisti teoreticamente, argomentando che gli stati latino-americani fossero già parte integrante del sistema capitalista e che dunque ciò di cui vi era bisogno era la rivoluzione socialista subito.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 33-34)

3.1. Il concetto di «spazio economico» e di «sistema mondo»
3.1.01. in premessa 1: per definire il concetto di “sistema-mondo” il tema dello spazio viene utilizzato non tanto per definire uno spazio economico di controllo produttivo da parte degli imprenditori o da parte delle strutture politiche territoriali definite di un’area, magari di carattere nazionale, quanto per mettere in evidenza la dinamica spaziale e temporale di un sistema produttivo industriale a gestione capitalistica; in questo ambito prende forma il concetto storico di “sistema-mondo” come concetto capace o teso a descrivere la situazione economica attuale a dimensione tendenzialmente mondiale.
3.1.02. in premessa 2: ovvia ma generale e necessaria: «Parlando di attività economiche ci si riferisce normalmente alla produzione, alla distribuzione e al consumo di beni.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 95)
3.1.03. in premessa 3: la composizione del sistema-mondo rimanda, come metodo costruttivo, alla logica della complessità come è illustrata da Marx nel Capitale e evidenziata in particolare in Per la critica dell’economia politica e ricostruita da Wallerstein con i termini di “sistema di minisistemi”; ad indicare che i minisistemi (le economie di area locale e per lo più a destinazione di sopravvivenza o volte alla produzione di beni d’uso) hanno nel sistema (sistema-mondo) la loro conservazione e modifica, il loro riposizionamento funzionale e produttivo contestuale alla loro possibile riconduzione e subordinazione alla logica del sistema; si ottiene così anche il contenimento delle loro tentazioni autonomistiche (antisistemiche) sia di carattere economico che di carattere politico: «La conoscenza sociale di tali minisistemi è accidentale e ipotetica, dal momento che essi si palesano storicamente solo quando abbiano cessato di esistere come sistemi sociali autonomi. Fu infatti possibile «osservarli» solo dopo che furono incorporati in più vasti sistemi sociali, nel momento in cui conservarono solo il guscio esteriore del loro precedente modo di esistenza. In analogia con il principio di indeterminazione di Heisenberg si deve perciò notare che, per tali minisistemi, lo stesso processo di osservazione presuppone un’anteriore trasformazione radicale del sistema osservato.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 97)
3.1.04. premessa 4: una definizione di economia-mondo, di economia capitalistica e della impossibilità (e pericolo) di far coincidere economia-mondo e stato-mondo. «Ciò che si intende per economia-mondo (l’économie-monde di Braudel) è una estesa area geografica al cui interno esiste una divisione del lavoro e dunque un significativo scambio interno di prodotti di base o essenziali, così come flussi di capitali e di lavoro. Una caratteristica distintiva di un’economia-mondo è che essa non è delimitata da una struttura politica unitaria. Piuttosto, all’interno dell’economia-mondo vi sono molteplici unità politiche, tenute insieme nel nostro sistema-mondo moderno in un sistema interstatale a maglie larghe. E un’economia-mondo include molte culture e gruppi — che praticano molte religioni, parlano molte lingue, e si differenziano nei loro modelli quotidiani. Ciò non significa che questi non sviluppino alcuni modelli culturali comuni, ciò che definiremo una geocultura. Significa invece che, in un’economia-mondo, non c’è da aspettarsi, e non si riscontrerà, omogeneità né politica né culturale. Ciò che più di tutto unifica la struttura è la divisione del lavoro che si costituisce al suo interno.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 47)
«Siamo in un sistema capitalistico solo quando il sistema accorda priorità all’incessante accumulazione di capitale. Adottando questa definizione, solo il sistema-mondo moderno è stato un sistema capitalistico. Il concetto di incessante accumulazione è assai semplice: significa che individui e aziende accumulano capitale al fine di accumulare ancor più capitale, un processo che è continuo e incessante. … un sistema capitalistico non può esistere se non nel contesto di un’economia-mondo.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 48)
«I capitalisti necessitano di un ampio mercato (per loro i minisistemi sono dunque troppo angusti), ma necessitano anche di una molteplicità di stati, così da poter ottenere i vantaggi del lavorare con gli stati, ma anche in modo da potersi sottrarre agli stati ostili ai loro interessi in favore di quelli ben disposti nei loro confronti. Solo l’esistenza di una molteplicità di stati all’interno di una divisione del lavoro complessiva assicura questa possibilità.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 48-49)
Non è possibile dunque sovrapporre l’unità della economia-mondo con l’unità culturale e politica di stato-mondo; non è possibile e non è nemmeno auspicabile, anzi è controproducente per gli interessi e le finalità del sistema economia-mondo.
In altri termini, il sistema-mondo è definito con riferimento ad altre due direzioni di sistema (cioè di gestione unitaria o di unificazione) interne ad esso, l’uno politico e l’altro economico (per esigenze di distinzioni analitiche): il sistema impero-mondo, il sistema economia-mondo. Il sistema-mondo unisce e lega o coordina tra loro (almeno nei propositi e nell’obiettivo) quei due elementi (impero-mondo, economia-mondo) avvertendone e conservandone la diversità, la non sovrapponibilità, l’impossibilità di una loro coincidenza. Parlare di sistema-mondo significa infatti parlare di un sistema non di una unità; in esso convergono (se si vuole, dialetticamente) le diverse direzioni e le diverse logiche dei due sistemi interni (quello economico e quello politico), destinati a diverse fortune quanto alla loro realizzazione, e i diversi elementi su cui essi poggiano: aree geografiche, sistemi gestionali, dinamiche specifiche, partecipazioni e presenze sociali in diverse forme organizzative… La divisione e l’organizzazione sono le componenti della logica del sistema-mondo e costituiscono la base e il contesto per comprenderne la dinamica evolutiva. Siamo nella logica dei sistemi complessi.
3.1.1. il sistema mondo: il lettore, comprensore (in senso conoscitivo e pratico) e convertitore generale dei processi produttivi (anche di quelli storici che si sono presentati come minisistemi) è il sistema-mondo; è questo a presentarsi all’osservazione contemporanea come soggetto e realtà economica: « Di fatto, si ha conoscenza diretta soltanto dei più vasti sistemi (divisioni del lavoro) che si potrebbero denominare «sistemi mondo» (world systems), dove il termine ‘mondo’ indica ogni divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di gruppi sociali discriminabili sia verticalmente (culturalmente, etnicamente, per nazionalità), sia orizzontalmente (in termini di classi sociali). Tali sistemi mondo furono di due tipi:… » (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 98)
3.1.1.1. sistemi mondo in forma di un unico sistema politico (impero-mondo) il cui modo di produrre è definibile con i termini «ridistributivo-tributario»; «alcuni sono stati organizzati all’interno di un unico sistema politico (un imperium) dove gerarchia militare e sociale spesso coincidevano. In tal caso la gerarchia poteva continuare a sopravvivere solo grazie alla continua estrazione di un’eccedenza raccolta nella forma di una specie di sistema di tributi imposti ai produttori diretti, raggiungibili nell’ambito dell’autorità proclamata (confini spaziali) di questo impero come «mondo». […] I tributi dovevano essere convogliati verso il vertice della piramide per essere poi ridistribuiti; nel loro cammino verso l’alto essi subivano diversi passaggi di mano. Una delle principali preoccupazioni dei ceti dominanti degli imperi mondo fu sempre quella di assicurarsi la lealtà dei funzionari addetti all’esazione dei tributi. […] …un sovraccarico di tributi avrebbe portato anche alla ribellione dei produttori diretti. Limitare il drenaggio di surplus era quindi una necessità politica per i ceti dominanti, una volta raggiunto il livello più conveniente. […] … un illimitato sviluppo tecnologico era politicamente improbabile negli imperi mondo.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 98-99)
3.1.1.2. sistemi mondo in forma di un unico sistema economico (economia-mondo) il cui modo di produrre è definibile con i termini «accumulativo-capitalistico»; «Il modo di produrre descritto, che potrebbe chiamarsi «ridistributivo-tributario», è in netto contrasto con un modo «accumulativo-capitalistico». Nei sistemi mondo che non avevano una struttura politica centrale e che, perciò, distribuivano il potere militare in senso verticale (anche se in maniera sproporzionata), simili costrizioni di natura politica esercitate sull’accumulazione non operavano dovunque, su tutta l'estensione dei confini spazio-temporali dell’economia sociale. I confini di quelle che potrebbero chiamarsi economie mondo erano molto più estesi di quelli di qualunque altra loro unità politica; perciò contenimenti della produzione di surplus nell'ambito di una data unità potevano essere eliminati (come di fatto accadde) mediante l’espansione della produzione di eccedenze all’interno di altre unità politiche della medesima economia mondo.
Tale sistema creava un modo di produrre caratterizzato da un’endemica concorrenza. Chi produceva a costi più bassi era avvantaggiato; tale vantaggio poteva poi tradursi nell’eliminazione dei produttori che non finalizzavano la loro attività all`espansione dell’accumulazione. Lungi dall'impedire l’espansione del surplus, quel modo di produrre era orientato, strutturalmente, nel senso di rimuovere gli ostacoli che si frapponevano al processo di produzione del surplus e al processo di accumulazione. Tale processo, tuttavia, che trovava in sé i germi per la sua espansione, dipendeva dall'ininterrotta assenza di una gerarchia politica totalizzante, che avesse l’interesse, e il potere, di limitare la produzione del surplus. Si è ora in grado di ritornare alla questione posta all'inizio: che cos’è un'economia e dove si colloca? È una particolare divisione del lavoro, interdipendente in termini sociali, che occupa uno spazio-tempo determinato (e in divenire), avente una delle tre seguenti forme storiche (o modi di produrre): 1) minisistemi, con scambi di reciprocità, una condotta politica fondata sul lignaggio, e una produzione di eccedenze ridotta al minimo; 2) imperi mondo, con meccanismi ridistributivi-tributari, una condotta politica imperiale e una produzione di eccedenze cospicua ma socialmente limitata e controllata; 3) economie mondo, con meccanismi capitalistico-accumulativi, senza una struttura politica centrale, e una produzione di eccedenze unicamente limitata da conflitti di classe con livelli produttivi e capacità tecniche comunque in continua espansione.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 99-100)
3.1.2. In sintesi il concetto, il processo e la tesi “sistema mondo”, articolata nelle sue due accezioni storiche: economia-mondo, impero-mondo. «Vi sono tuttavia due modi assai diversi attraverso cui gli stati possono conquistare un predominio. Il primo consiste nel trasformare l’economia-mondo in un impero-mondo. Il secondo consiste nell’ottenere quella che può essere definita egemonia nel sistema-mondo. È importante distinguere le due modalità, e comprendere perché nessuno stato sia riuscito a trasformare il sistema-mondo moderno in un impero-mondo, ma diversi stati abbiano, in momenti differenti, conquistato l’egemonia.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 93)
3.1.2.1. I due concetti: impero-mondo e egemonia (economia-mondo). «Per impero-mondo intendiamo una struttura in cui vi è un’unica autorità politica per l’intero sistema-mondo. Negli ultimi cinquecento anni, vi sono stati diversi seri tentativi di creare un impero-mondo. Il primo fu quello di Carlo V nel sedicesimo secolo (continuato in forma attenuata dai suoi eredi). Il secondo fu quello di Napoleone agli inizi del diciottesimo secolo. Il terzo è stato quello di Hitler alla metà del ventesimo secolo. Tutti hanno generato timori; tutti sono stati alla fine sconfitti e incapaci di raggiungere i loro obiettivi. D’altro canto, tre potenze hanno raggiunto l’egemonia, sebbene solo per periodi relativamente brevi. La prima furono le Province Unite (oggi chiamate Paesi Bassi) alla metà del diciassettesimo secolo. La seconda fu il Regno Unito alla metà del diciannovesimo secolo. E la terza sono stati gli Stati Uniti alla metà del ventesimo secolo. Ciò che ci consente di definirle potenze egemoniche è il fatto che, per un certo periodo, sono state in grado di fissare le regole del gioco nel sistema interstatale, di dominare l’economia-mondo (nella produzione, nel commercio e nella finanza), di imporsi politicamente riducendo al minimo l’uso della forza militare (di cui comunque disponevano in gran quantità) e di formulare il linguaggio culturale con cui si analizzava il mondo.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 93)
3.1.2.2. Perché non è funzionale la coincidenza o la loro sovrapposizione. «Si pongono due questioni. La prima è perché non sia mai stato possibile trasformare l’economia-mondo in un impero-mondo, mentre è stato possibile ottenere l’egemonia al suo interno. La seconda è perché l’egemonia non sia mai durata. In un certo senso, date tutte le precedenti analisi, non è così difficile rispondere a questi enigmi. Abbiamo visto che la struttura peculiare di un’economia-mondo (un’unica divisione del lavoro, molteplici strutture statali sebbene all’interno di un sistema interstatale, e naturalmente una molteplicità di culture sebbene con una geocultura) è particolarmente adatta alle esigenze di un sistema capitalistico. Un impero-mondo, per contro, soffocherebbe di fatto il capitalismo, poiché significherebbe l’esistenza di una struttura politica in grado di ribaltare la priorità accordata all’incessante accumulazione di capitale. Questo è naturalmente ciò che si era verificato ripetutamente in tutti gli imperi-mondo esistiti prima del sistema-mondo moderno. Pertanto, ogniqualvolta un certo stato è apparso deciso a trasformare il sistema in un impero-mondo, si è trovato alla fine a confrontarsi con l’ostilità delle più importanti imprese capitalistiche dell’economia-mondo.» (Wallerstein, Comprendere il mondo,93-94)
3.1.2.3. Il concetto di economia-mondo nel sistema-mondo. La tesi: esistenza di un unico sistema mondo, chiamato “economia-mondo capitalista” i cui confini temporali vanno dal sedicesimo secolo ai giorni nostri, quelli spaziali, a partire dall’Europa interessano l’intero globo. È “sistema” in quanto relativamente autonomo di fronte a forze esterne; è “storico” in quanto ha un inizio, uno sviluppo, un destino di estinzione … ha una sua propria dinamica che ne spiega il mutamento permanente nel tempo. Come sistema ha strutture e meccanismi ciclici, ripetitivi (qui molte teorie); come sistema storico: quelle strutture sono tendenze secolari (non leggi con parvenze o pretese deterministiche o di leggi “naturali”) del sistema.
Il suo modo di produzione è “capitalista” e si afferma poggiandosi su di una inesauribile (in teoria) accumulazione di capitale; ma si tratta di accumulazione “polarizzante”, basata su: divisione sociale assiale del lavoro, tensione centro – periferia, scambio ineguale, sovrastrutture politiche (stati sovrani ma condizionati dall’essere membri di una rete o un sistema interstatale).
È sistema non unità: l’aspetto più interessante dei sistemi è che essi contengono profonde fratture, e quindi potenziali conflitti (contrasti [Smith], contraddizioni [Hegel]); fratture che risultano: ineliminabili, ma ognuna limita gli effetti delle altre e così si delinea un sistema-mondo (elenco ipotetico delle principali fratture: razza, nazione, classe, etnicità, genere: analisi del loro ruolo nel definire la forma storica del sistema-mondo e la loro posizione in una struttura egemonica).
Ne consegue, in termini di struttura e sovrastruttura, che: «La “cultura”, cioè l’idea-sistema dell’economia-mondo capitalista è il prodotto storico dei nostri tentativi collettivi di venire a patti con le contraddizioni, le ambiguità e le complessità della realtà socio-politiche di questo specifico sistema». In questo contesto trova definizione il ruolo della “cultura” e delle teorie: «…misura in cui questo sistema storico ha acquisito consapevolezza di sé e ha incominciato a sviluppare cornici intellettuali e/o ideologiche che lo hanno giustificato e ne hanno favorito il movimento in avanti sostenendone in tal modo la riproduzione»; del resto è nota la posizione marxiana (e di Wallerstein): «le costruzioni della “cultura” non sono affatto neutrali». (Wallerstein Alla scoperta del sistema mondo, 2003)
3.1.3. Una nota applicativa, certo marginale, ma localisticamente utile se non essenziale. La dinamica del doppio sistema-mondo nelle realtà locali.
A sorpresa, ma con utilità di comprensione, si scopre che questi due sistemi di costruzione di spazi sociali organizzati e controllati economicamente e politicamente («tributario-ridistributivo» e «capitalistico-accumulativo») non rimandano né indicano soltanto due forme di sistema-mondo, ma si rivelano essere, più in piccolo, la composizione strutturale degli stati nazionali moderni o delle loro federazioni storiche. Un modello/processo «tributario-ridistributivo», che fa capo alle istituzioni politiche e amministrative di un’area, e un modello «capitalistico-accumulativo», che fa capo alle azioni proprie dell’economia e dei suoi operatori (privati o pubblici): produzione, distribuzione e consumo di beni. Questi due modelli e processi costituiscono in contemporanea le strutture delle moderne società. In teoria procedono in parallelo rivendicando la propria autonomia di comportamento e fondando questa rivendicazione su teorie che attestano la presenza di leggi “naturali” proprie del settore, il cui sviluppo massimo e massima giustizia o correttezza sono legati al loro rigoroso rispetto. In pratica i due processi si intrecciano in molti modi. O perché storicamente, cioè in periodo di crisi, i due settori riconoscono la necessità dell’altro per il proprio funzionamento e sono richiamati così a riflettere sulla loro appartenenza al sociale (l’economia fine a sé non riesce a perseguire l’obiettivo della continua accumulazione; la politica tributaria esaurisce rapidamente e dissangua quel sociale da cui attinge tributi senza riconoscere la logica del produrre). O perché, concorrenzialmente, un processo compie incursioni nell’altro cambiando la propria natura e confondendo/distruggendo il proprio ruolo: la politica diventa il principale soggetto economico, l’economico “scende” o “sale” in politica; ciò che viene così messo in atto è un processo di distruzione del sociale e di autodistruzione sia dell’economico che del politico. Questa doppia soggettività storica strutturale diventa la sfida politica delle società complesse (alla Marx), cioè delle società contemporanee; processi che intrecciati o autonomamente devono fare i conti e assumere in gestione produttiva microsistemi o unità produttive minori destinate a satellitare attorno ai macroprocessi politici (consulenze a appalti pubblici) o economici (unità produttive già artigianali che entrano a far parte del vasto mondo dell’indotto).

3.2. il sistema mondo e le aree funzionali in intreccio storico sociale e strutturale, considerato e ridefinito da una pluralità di prospettive
La storia come intreccio spazio – temporale di sistemi dalla varia estensione e funzionalità.
In sintesi preliminare macrostorica: 1. Minisistemi (“economie di sussistenza” per il loro limite spaziale e la breve durata) e sistemi mondo; 2. Due sistemi mondo: impero-mondo (dal neolitico al 1500 d.C.; le cosiddette “grandi civiltà”), economia-mondo (dal 1500 d.C. ad oggi.
3.2.1. nella storia. «Il punto di svolta si ebbe nel corso del lungo periodo di stagnazione che l’Europa subì nel XVII secolo. Lungi dall’indebolirsi, il modo di produzione capitalistico-accumulativo si irrobustì grazie al solidificarsi delle relazioni politiche in un sistema di equilibri fra nazioni, grazie all’istituzionalizzazione dei progressi tecnologici (necessario fondamento di un modo di produrre fondato su di un’ininterrotta accumulazione) e grazie, infine, al precisarsi di una gerarchia spaziale (polarizzazione centro-periferia) all’interno dell’economia mondo.
L'economia mondo capitalistica (il moderno sistema / mondo) fu di conseguenza capace di fare ciò che nessun’altra economia mondo era stata in grado di fare. […] Con il 1900 vi era virtualmente un unico spazio economico sulla Terra.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 104-105)
3.2.2. La situazione attuale: ipotesi di lettura (e di futurologia “debole”) «La dinamica interna del capitalismo come sistema mondo è un’altra storia: ci si limiterà qui a rilevarne alcuni aspetti attinenti allo spazio-tempo economico. Se l’imperativo che sta alla base del sistema è la spinta all'accumulazione, la sua contraddizione di fondo sta nel fatto che i processi produttivi sono controllati da imprenditori separati fra loro, mentre l’ineguale distribuzione delle eccedenze, che si traduce nella domanda dei beni, è determinata socialmente e relativamente immobile nel breve periodo. Ciò spiega le costanti difficoltà incontrate dagli imprenditori nella loro opera di accumulazione, vale a dire le stagnazioni cicliche dell’economia mondo. […]
Il succedersi delle stagnazioni cicliche e la costante polarizzazione centro-periferia hanno fatto sorgere due movimenti sociali antisistemici di ampiezza mondiale: da un lato il movimento operaio mondiale, estesosi dal centro alla periferia; dall’altro i movimenti di liberazione nazionale, sviluppatisi in senso contrario, dalla periferia al centro. Uniti e spesso coincidenti, entrambi i tipi di movimento hanno creato un'instabilità politica in tutto il sistema nel corso del XX secolo.
La combinazione della crescita delle limitazioni strutturali ai movimenti ciclici dell’economia mondo capitalistica con lo sviluppo della lotta politica scaturente dai conflitti di classe ha creato in tal modo una situazione di crisi del sistema. Per analogia con la precedente transizione dal feudalesimo al capitalismo, ciò potrebbe chiamarsi la transizione dal capitalismo al socialismo. Ma il processo non è il medesimo. Per un motivo: per il fatto che i parametri dello spazio economico sono diversi. Mentre la prima transizione ebbe luogo in un mondo multiforme, l’attuale processo si manifesta nell'ambito di una economia mondo unica.» (Wallerstein 1983, Il capitalismo storico, 105-106)
3.2.3. Una mappa storica e attuale dell’economia come sistema-mondo: le aree funzionali.
Le tre posizioni strutturali di una economia-mondo: centro, periferia, semiperiferia; già stabilizzate verso il 1640, parti integranti di una complessa divisione del lavoro di “scala mondiale” caratterizzata da fasi di espansione e contrazione. L’unità d’analisi sistema-mondo come contesto di comprensione storica è definibile dall’intreccio interno di quei tre elementi/aree: centro, periferia, semiperiferia. La conoscenza ormai pressoché totale del mondo, a seguito delle scoperte geografiche dell’età moderna, si accompagna cioè, fin dal 1600, alla costruzione (più o meno consapevole) di un sistema del mondo integrato a tre aree, ove le differenze (scoperte, indotte, conservate e rafforzate) vengono gestite in vista di una loro composizione funzionale.
sistema integrato delle differenze: le aree definizione per destino demografico definizione per ruolo economico definizione per modello politico
centro
(Europa nordoccidentale) modello demografico evoluto (BN-BM)* produzione Stati nazionali centralizzati
semiperiferia
(Europa sud e centrorientale) (intermedio tra arcaico e in transizione) (AN-BM) consumo Persistenza di gestioni feudali (del privilegio)
periferia
(le aree della colonizzazione) modello demografico arcaico (AN-AM) materie prime (naturali e sociali) Dipendenze di carattere coloniale
* (A,B alta, bassa; N,M natalità, mortalità)
Le tre posizioni strutturali di una economia-mondo, centro, periferia, semiperiferia, già stabilizzate verso il 1640 come parti integranti di una complessa divisione del lavoro su “scala mondiale”, diventano elementi di composizione e definizione del sistema anche su aree locali (un locale che si intreccia con il mondo globale anche nell’intreccio degli elementi che lo costituiscono.

3.2.4. Il sistema mondo e l’intreccio dinamico tra minisistemi, impero-mondo, economia-mondo.
Le analisi storiche a partire dagli anni Settanta mettono al centro il tema del sistema-mondo costruendo un nuovo intreccio. «Gli studiosi dei sistemi-mondo si mostrarono scettici, mettendo in dubbio che questi oggetti di studio esistessero realmente, e in ogni caso che fossero i più utili come luoghi dell’analisi. Al posto degli stati nazionali come oggetto di studio, introdussero i "sistemi storici" che, si sosteneva, erano esistiti fino a quel momento in sole tre varianti: minisistemi; e "sistemi-mondo" di due tipi — economie-mondo e imperi-mondo. Si osservi il trattino d’unione in sistema-mondo e nelle sue due sottocategorie, economie-mondo e imperi-mondo. Porre questo trattino significava sottolineare che non ci si stava riferendo a sistemi, economie, imperi del mondo (intero), ma a sistemi, economie, imperi che sono un mondo (ma è di certo possibile, e di fatto abituale, che non comprendano l’intero globo). Questo è un primo concetto cruciale da comprendere. Significa che i "sistemi-mondo" si riferiscono a un ambito spaziale/temporale che taglia trasversalmente molte unità politiche e culturali, rappresentando un’area integrata di attività e istituzioni che obbediscono ad alcune regole sistemiche.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 38-39)
L’unità d’analisi sistema-mondo come contesto di comprensione storica è ulteriormente definibile dall’intreccio interno di tre elementi:
elementi intreccio
mini-sistemi: sistemi per la loro fisionomia specifica; mini per il limite di durata ed estensione; incorporati

imperi-mondo: grandi strutture politiche unitarie con varietà di modelli culturali interni (in perenne progetto)
economia-mondo: grandi e irregolari (variabili) strutture integrate di produzione che attraversano l’intero globo assorbendo nel processo i mini-sistemi

3.2.5. La dinamica (l’evoluzione) storica del sistema-mondo all’insegna dell’egemonia variabile di aree; egemonia come vantaggio momentaneo fondato economicamente sulle tre basi materiali: agro-industriale, commerciale, finanziaria
successione storica dell’egemonia condizione di egemonia
1. 1625 – 1672: le Province Unite
(sec. XVII) settore
agro-industriale
commerciale
finanziario
egemonia
tempo

2. 1815 – 1873: il Regno Unito
(sec. XIX)
3. 1945 – 1967: gli Stati Uniti
(sec. XX)

3.2.6. Il sistema mondo intrecciato dai problemi della modernità (lettura problematica della contemporaneità)
3.2.6.1. Occorre riprendere la critica al concetto di modernizzazione come indicatore del destino di società o della storia e il correlato di concetti: sviluppo, progresso, terzo mondo e conseguentemente porre in critica il ruolo di questi termini nella costruzione di una visione della storia in sviluppo progressivo e lineare. Se si dichiara che queste parole finalmente sostituiscono termini liquidatori e spregiativi come nelle espressioni popoli primitivi, selvaggi, barbari, del sottosviluppo, e così danno speranza, sono tuttavia termini di classificazione, giudizio e costruzione di gerarchie; essi indicano un processo- destino di inclusione di tutti i popoli nel modello capitalistico come sinonimo di civiltà; restano termini “colonialistici”. Wallerstein ricorda che la mitica linearità storica civile (mondo feudale→mondo borghese→società capitalistica→società socialista) ed economica (economia chiusa→ economia aperta) risulta astratta, astorica, ideologica.
3.2.6.2. Va ricordato l’equivoco della “modernità”. Si applica al campo delle tecnologia o al campo dei diritti? È difficile pensare che i due campi siano immediatamente coincidenti e che l’affermazione di un obiettivo non comporti la rinuncia (almeno in tempi brevi ma non si conosce la durata di questa brevità, certamente plurigenerazionale) o il ridimensionamento dell’altro. Tecnologia e diritti sono aspetti uniti nella dichiarazione di obiettivi dei progetti liberali, escludentisi nella realtà: la crescita della ricchezza incrementa le aree della esclusione e della disuguaglianza; si infittisce l’area della voce “prezzo da pagare per lo sviluppo”; tendenze attuali rendono precario l’incontro tra progresso della tecnologia e progresso della libertà (a. progressivo esaurirsi del fondo mondiale di manodopera disponibile a basso costo; b. tagli alla classe media la cui crescita e i cui standard di vita stanno diventando un onere troppo pesante da sopportare, sia per le imprese che per le finanze dello Stato; c. la questione ambientale: la sovrautilizzazione delle risorse naturali, l’avvelenamento dell’ambiente, i costi del disinquinamento, il problema di ridurre i consumi energetici; d. il divario demografico Nord Sud, a fronte della disponibilità delle risorse e l’immigrazione clandestina aumenterà in tutti i paesi del Nord a dispetto delle maggiori barriere.)
3.2.7. il sistema mondo e le componenti sociali
3.2.7.1. Un momento storico di consapevolezza Wallerstein Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, saggio: 1968, rivoluzione del sistema mondo, manifestolibri, Roma 2003: la consapevolezza politica dei problemi sociali, economici e politici della contemporaneità a partire dai movimenti del ’68 collocati nella situazione “sistema-mondo”: è una rivoluzione, unica, come fenomeno globale (oltre a fattori e specificità locali), Wallerstein la definisce “rivoluzione mondiale” (Wallerstein, Comprendere il mondo,14); è una rivoluzione terminata: ha cristallizzato tendenze già latenti, ora condivise; la protesta principale era contro l’egemonia americana nel sistema-mondo e contro il tacito consenso sovietico garantito dalla formula “guerra fredda” che era di reciproco vantaggio (stabilizzava l’Unione sovietica nell’area di proprio controllo, bloccava ogni possibile mutamento di equilibrio strategico mondiale nonostante il logorarsi di una forma (politica) del sistema negli anni ’60 (decolonizzazione, destalinizzazione, distensione).
3.2.7.2. Una protesta subordinata, ma più appassionante, fu rivolta contro i movimenti tradizionali “antisistemici” della “vecchia sinistra” (partiti socialisti e comunisti, sindacati operai, movimenti di indipendenza e di liberazione nazionale) e fu una contrapposizione tra movimenti antisistema per la loro diversa logica:
logica dei movimenti antisistemici tradizionali (“vecchia sinistra”) logica dei nuovi movimenti antisistema (“nuova sinistra)
Rappresentano la coscienza rivoluzionaria del proletariato.
Il presupposto: il proletariato industriale è strutturalmente la base rivoluzionaria contro il capitalismo.
Il partito è la naturale forma organizzativa della rivoluzione del proletariato La constatazione/affermazione: il proletariato non è la base ma solo una delle componenti della classe lavoratrice mondiale e progressivamente minoritaria. Vedi la estrema varietà delle forme di lavoro subordinato: a garantire il massimo profitto e spezzare l’eventuale (esistita solo idealmente) unità della classe operaia.
Conseguire il potere statale come indispensabile tappa intermedia verso gli obiettivi finali.
Conquistato lo stato vengono risolti, nella nuova società nata sugli obiettivi della rivoluzione, le residue disuguaglianze o esclusioni (minoranze culturali, legate all’etnia, le discriminazioni riguardanti il sesso, l’età, il reddito ecc.)
Dove i movimenti antisistema (della rivoluzione socialista o di liberazione nazionale) hanno conquistato il potere statale non si sono risolte, anzi si sono incrementate le “altre” disuguaglianze.
I movimenti (del ’68) si muovono con l’intenzione di dare voce a queste altre disuguaglianze in forma diretta, non subordinata o delegata.
«In ogni paese, in ognuna delle tre zone del sistema mondiale, vi furono rivolte d’ogni genere. Una delle caratteristiche comuni a queste rivolte era l’accusa dei rivoluzionari contro la “Vecchia sinistra”; «Avevate promesso trasformazioni sociali quando avete preso il potere. Non avete mantenuto la promessa. Il mondo — dicevano — resta profondamente segnato dalla disuguaglianza, nel nostro paese come nel resto del mondo; i nostri sistemi politici non sono realmente democratici; esiste una casta di privilegiati (una nomenclatura) nei nostri regimi. È cambiato molto meno di quanto avevate promesso». Le varie rivolte del 1968 (in verità 1966-1970) furono tutte represse. Ma la disillusione che le aveva alimentate non sarebbe stata cancellata. I tre decenni seguenti videro la caduta, uno a uno, della maggior parte dei regimi che erano andati al potere nel periodo di maggior vigore dei movimenti antisistema. La caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 fu l’apice simbolico di questo rifiuto verso i regimi della “Vecchia sinistra”.» (Wallerstein Immanuel, I dilemmi dello spazio aperto: il futuro del World Social Forum in Berlinguer Marco, Trotta Mauro 2005 Pratiche costituenti. Spazi, reti, appartenenze: le politiche dei movimenti, Derive Approdi, Roma, 43)
«L’esistenza di una molteplicità di organizzazioni, ciascuna in rappresentanza di un gruppo specifico… è ora considerata, perlomeno da molti, come un bene in sé. Ciò che prima era visto come un ripiego viene ora consacrato come “coalizione arcobaleno”.» In questo contesto si iscrivono i più noti eventi di anticonformismo, non-borghese, dionisiaco, di molti movimenti.
«Dopo il 1968 nessuno degli “altri” gruppi in lotta – né le donne, né le “minoranze” razziali, né le “minoranze” sessuali, né i portatori di handicap, né gli “ecologisti”… – avrebbero mai accettato ancora la legittimità della tesi secondo cui occorreva “servire” qualche altra rivoluzione. E a partire dal 1968 i movimenti della “vecchia sinistra” hanno avuto difficoltà sempre maggiori nell’avanzare le richieste per “posticipare” le rivendicazioni fino all’avvento di una presunta epoca postrivoluzionaria. …non vi è più un dibattito sulle priorità, ma un dibattito sulla strategia di fondo… che i movimenti (o le tendenze) della “vecchia sinistra” non rifiutano più di parteciparvi.»
3.2.7.2.1. Forse la svolta più rilevante determinata dalla “rivoluzione del ‘68” è legata al tema della “libertà delle minoranze”; è qui che si gioca il sentire democratico contemporaneo. Wallerstein invita a ragionare sulla distinzione tra libertà della maggioranza e libertà della minoranza allo scopo di pensare integralmente al senso della democrazia proprio mentre si riflette intorno alla logica e alla possibilità della loro composizione nel sociale, ma non in modo generico: è un’urgenza della società contemporanea sempre più, inesorabilmente, multiculturale.
«La questione della libertà (o della "democrazia") è a tal punto ammantata di retorica nel mondo moderno che è talvolta difficile apprezzare quali siano le questioni sottostanti. Potrebbe rivelarsi utile operare una distinzione fra la libertà della maggioranza e quella della minoranza. La libertà della maggioranza rappresenta il grado in cui le decisioni politiche collettive riflettono di fatto gli orientamenti della maggioranza, rispetto a quelli di gruppi più piccoli che possono di fatto controllare i processi decisionali. Non si tratta solo di una questione di cosiddette libere elezioni, sebbene non vi sia dubbio che elezioni regolari, leali e aperte siano componente necessaria, anche se lontana dall’essere sufficiente, per una struttura democratica. La libertà della maggioranza esige l’attiva partecipazione di questa maggioranza. Esige accesso all’informazione da parte della maggioranza. E modalità che consentano di tradurre le opinioni maggioritarie della popolazione nelle opinioni maggioritarie degli organi legislativi. È dubbio che, in base a queste accezioni, ogni stato esistente nel sistema-mondo moderno sia pienamente democratico.
La libertà della minoranza è una questione del tutto diversa. Rappresenta i diritti di ogni gruppo e di ogni individuo a perseguire le rispettive priorità in tutte le sfere in cui la maggioranza non ha giustificazioni per imporre i propri orientamenti su quelli degli altri. In linea di principio, la gran parte degli stati nel sistema-mondo moderno ha dato un’adesione meramente formale a questi diritti di essere svincolati dalle priorità della maggioranza. Alcuni hanno perfino lodato questo concetto, considerandolo non solo come una tutela negativa, ma come un contributo attivo alla costruzione di un sistema storico dalle molteplici espressioni. I movimenti antisistemici tradizionali accordavano priorità a quella che abbiamo definito la libertà della maggioranza. I protagonisti della rivoluzione mondiale del 1968 posero invece grande enfasi sull’estensione della libertà delle minoranze.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 133)
3.2.7.3. L’analisi e la revisione del concetto di classe all’interno della logica di funzionamento del sistema-mondo. (Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, saggio: La formazione della classe nell’economia-mondo capitalista, manifestolibri, Roma 2003)
[1.] la classe una struttura in evoluzione nel sistema-mondo: «La classe sociale è un concetto inscindibile dall’economia-mondo capitalista, che è stato creato nel contesto di essa, e che forse sarebbe più vantaggioso utilizzare come pertinente specificamente per questo tipo di sistema-mondo. L’analisi di classe perde il suo potere esplicativo se tende a modelli formali e si allontana dalla dinamica dialettica.
Pertanto, occorre in questa sede analizzare le classi come strutture in evoluzione e mutamento, dalla copertura ideologica sempre cangiante, per vedere se sia utile in uno specifico punto del tempo definire le appartenenze di classe in specifici termini concettuali. […] …prima di procedere con l’analisi della natura e delle attività delle classi sociali, e del processo di formazione delle classi, occorre fare un preambolo sul funzionamento di questo sistema-mondo, in quanto struttura in cui vanno a collocarsi le classi. L’economia-mondo capitalista è caratterizzata da tre elementi principali. Il primo elemento è la presenza di un mercato unico, nel quale si fanno i calcoli di massima profittabilità, e che quindi determina, nel lungo periodo, la quantità della produzione il grado di specializzazione e i tipi di remunerazione del lavoro, dei beni, e dei servizi, e l’utilità dell’innovazione tecnologica.
La seconda caratteristica cruciale è l’esistenza di una serie di strutture statali, con diversi gradi di forza (sia all’interno dei loro confini, sia nel rapporto con le altre entità statali del sistema-mondo). Le strutture dello stato servono principalmente a «distorcere» il «libero» operare del mercato capitalista, per allargare gli orizzonti di profitto di uno o più gruppi. Nel breve periodo, lo stato agisce sul mercato utilizzando la sua facoltà legislativa per condizionare le attività economiche interne o al di là dei confini. Nel lungo periodo, invece, agisce sul mercato, cercando di creare comportamenti istituzionali (dalla stabilità della valuta e delle reti commerciali, a propensioni d’acquisto, a barriere di conoscenza di alternative economiche), in modo da indurre «spontaneamente» alcune persone o gruppi a valutare erroneamente le attività economiche in grado di ottimizzare i loro profitti; un fraintendimento, questo, che consente allo stato di avvantaggiare i gruppi che desidera.
La terza fondamentale caratteristica dell’economia-mondo capitalista è che l’appropriazione di surplus da lavoro si concretizza con la formazione, nel processo di sfruttamento, di tre, e non di due, classi. Ciò significa che esiste una classe media, che partecipa allo sfruttamento della classe più bassa, ma è anche sfruttata dalla classe più alta.» (Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, saggio: La formazione della classe nell’economia-mondo capitalista, manifestolibri, Roma 2003, p.346-347)
[2.] Equilibri e destabilizzazioni a tre / a due classi nelle regioni dell’economia-mondo. «Questa struttura a tre classi ha di fatto un effetto stabilizzante, laddove una struttura a due classi sarebbe essenzialmente distruttiva. Ciò non vuol dire che esistano sempre tre classi. Significa che quelli che stanno in alto cercano sempre di assicurare l’esistenza di tre classi per meglio preservare i loro privilegi, laddove, al contrario, quelli che stanno al livello più basso cercano di ridurre le tre classi a due, per meglio distruggere quegli stessi privilegi. Questa lotta sull’esistenza di una classe media va avanti di continuo, sia in termini politici sia in termini di costrutti ideologici di base (pluralisti versus manicheisti). Questa è la questione centrale si cui si concentra lo lotta di classe.
Queste tre classi si ritrovano sempre in tutte le istituzioni dell’economia-mondo capitalista, nel peso economico a tre livelli delle regioni dell’economia-mondo: centro, semiperiferia e periferia; nella struttura organizzativa di base del processo produttivo (l’esistenza di un ruolo di quadro); nei criteri di distribuzione di status e di reddito a tre livelli nei paesi capitalistici del centro; nel criterio di tripartizione delle alleanze politiche (sinistra, centro e destra), sia al livello mondiale che nazionale.
Una volta ancora, sottolineo la mia posizione: non sostengo che le tre classi esistano realmente. Non mi interessano le questioni ontologiche di stampo platonico. Piuttosto, asserisco che la lotta di classe si sviluppa politicamente nel tentativo delle classi dominanti di creare e sostenere una terza classe, contro il tentativo delle classi oppresse di polarizzare sia la realtà che la percezione della realtà. Ciò significa che le classi non hanno una realtà permanente. Piuttosto, si formano, si consolidano, si disintegrano o disaggregano, e si riformano. È un processo di movimento costante. L’ostacolo più grande alla comprensione del loro comportamento è, quindi, la reificazione. Certamente, esistono modelli descrittivi che aiutano a identificare le realtà concrete e a spiegare gli eventi storici. Ma i modelli evolvono nel tempo, anche nel caso specifico dell'economia-mondo capitalista moderna.» (Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, 347-348)
Sul concetto di classe si profila l’ipotesi di una sua rilettura non più consegnata a criteri di appartenenza sulla base del ruolo produttivo svolto in economia, ma ispirata al principio, già marxiano e forse per Marx politicamente più rilevante, della presa di coscienza: la coscienza di classe. Tale criterio permette, nello specifico, di definire in termini formali il concetto o la nozione di classe media; permette anzi di unire una definizione formale, che sembra astratta, con una definizione concreta attenta alla situazione storica contemporanea, considerata dal punto di vista sia politico che economico. Il criterio della coscienza di classe permette infatti di investire sulla definizione formale della classe media (intesa in termini quasi aristotelici, con riferimento al ruolo che la medietas, la mesòtes, svolge nel suo modello etico e politico) individuandola come area della consapevolezza e conseguentemente come area di gestione del cambiamento, dentro il sistema ma senza diventare vittima delle sue sirene e senza cadere in quel destino di autodistruzione che condanna i movimenti antisistemici a diventare elementi organici di sostegno di quel sistema che dichiarano di avversare e di voler abbattere.
[3.] La rilevanza determinante, per la consapevolezza e l’azione, della presa di coscienza (la “coscienza di classe”) «La questione è se la realtà «oggettiva» prende forma «soggettiva» di coscienza di classe o piuttosto di coscienza etnico-nazionale. […] … la coscienza di classe ha anche un significato di lungo periodo. È la via più logica per l'acquisizione di potere in una certa struttura di stato, attraverso un gruppo numericamente più ampio di quello politicamente dominante in quella stessa struttura. Che questa acquisizione di potere abbia teoricamente dinamiche parlamentari o insurrezionali, la spinta di base è la «democratizzazione». (Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, 349)

4. Spunti per una teoria critica dell’economia politica in applicazione.
La fase postmoderna o della seconda modernità, segnalazione di alcuni mutamenti strutturali, le urgenze e le richieste, il sistema mondo nella versione dell’era dell’accesso e della rete (world wide web)… note di metodo e spunti applicativi. La rifondazione delle teorie economiche in vista di nuove sedi dell’economia-mondo e del sistema-mondo.
4.1. La natura storica sia dell’economia come prassi che delle sue definizioni teoretiche in sistema rende non eludibile la richiesta di teorie specifiche; non dunque un impianto teorico che costruisce il sistema deducendo da presunte situazioni naturali originarie, ma una lettura - teoria capace di rispettare gli elementi di situazioni complesse, portarne ad evidenza gli intrecci reali e possibili, rispettare la natura storica ed evolutiva dell’economia posta in contesto sociale e non definita come corpo separato e autoreferenziale.
«Il compito che mi sembra urgente, e a cui ho dedicato in un certo senso l’intero mio lavoro più recente, è di vedere il capitalismo come un sistema storico, nella sua storia complessiva e nella sua concreta realtà unitaria. Mi pongo perciò lo scopo di descrivere questa realtà, e di delineare in modo esatto ciò che in essa è continuamente cambiato e ciò che non è cambiato per nulla, cosicché noi possiamo connotarla nel complesso con un nome solo.» (Wallerstein Immanuel 1983 Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1985, VII)
La storicità dell’economia si traduce in sfida nei confronti delle teorie economiche; da loro ci si attende l’indicazione di categorie di lettura specifiche e non generiche, in grado di cogliere la logica, magari il destino, delle diverse modalità con cui l’economia prende forma nel rispondere al proprio ruolo sociale. Attesa che acquista una particolare urgenza nelle fasi di transizione nelle quali la crisi economica mette a rischio posizioni economiche, progetti e prospettive e colloca il futuro individuale, famigliare e sociale nell’incertezza talora tragica. In questo compito torna al centro della composizione di una teoria economica la sua funzione critica; come nell’impostazione di Marx: Il capitale. Critica dell’economia politica; dunque non teoria dell’economia ma una teoria critica; e, non dell’economia, ma dell’economia politica.
«È compito delle scienze economiche e politiche leggere e spiegare la dinamica in atto nelle economie correnti ma anche ragionare intorno a modelli economici e politici di gestione delle molte variabili in gioco diversi da quelli esistenti in quanto in grado di tener conto dei problemi storici che emergono. Una scienza di settori complessi, che faccia cioè capo a molte variabili tra loro interdipendenti, non può non disporre della capacità compositiva di quelle variabili secondo modelli plurimi. Ad esempio, il problema della crisi economica di questi anni e la domanda contestuale che ha preso forma da tempo e si sta rapidamente diffondendo, possono essere così formulate: «esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. […] Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un'economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell'economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà?» (Ruffolo Giorgio, Sylos Labini Stefano, Se la crescita non basta più, La Repubblica 09.11.2012)
Quindi specificazione storica dell’economia, anche come antropologia sociale, attraverso il metodo dell’analisi e dell’osservazione critica, consegnata ad una doppia strategia: il confronta tra teorie, lo smontaggio degli automatismi presentati come leggi “naturali” (principi) dell’economia e pretesto per sostenere l’autonomia dell’economia, come un assoluto separato dal sociale e magari contrapposto al politico.
4.1.1. Una modalità critica: il confronto tra teorie. «Il dibattito sulla globalizzazione economica si intreccia con quello sui valori e la teoria economica. Un quarto di secolo fa, entrarono in competizione tre grandi scuole di pensiero in ambito economico: il capitalismo nel libero mercato, il comunismo e l’economia di mercato gestita. Con la caduta del muro di Berlino nel 1989, tuttavia, le tre scuole si ridussero a due e oggi resta aperto il dibattito tra chi sostiene l’ideologia del libero mercato e chi invece attribuisce un ruolo importante sia allo Stato sia al settore privato. Naturalmente, queste posizioni sono in parte sovrapponibili. Persino i fautori del libero mercato riconoscono che uno dei problemi dell’Africa è la debolezza dei governi e anche chi è critico nei confronti del capitalismo senza freni non manca di riconoscere l’importanza del mercato. […] I mercati poco sviluppati sono caratterizzati da monopoli e oligopoli; i prezzi elevati in un settore vitale come quello delle telecomunicazioni ostacolano lo sviluppo, quindi i governi devono avere politiche ben chiare che garantiscano le libera concorrenza.» Joseph E. Stiglitz 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006,18-19, 30)
4.1.2. Una modalità critica: mettere sotto esame presunti automatismi e invisibili o recondite armonie attraverso l’analisi del loro carattere ideologico. Si tratta della tesi, per lo più indebitamente attribuita a Smith della “mano invisibile” e dell’armonia del libero mercato
4.1.2.1. le tesi e la lettura tradizionale: “vizi privati = pubbliche virtù”, l’egoismo e la sua incontrollata libertà, vizio per l’etica, diventa per l’economia condizione di massima produttività e benessere e si trasforma quindi automaticamente e autonomamente in virtù, solo però nella situazione in cui sia universalmente esteso e non si leghi a condizioni di privilegio. Se per le sostanze (monadi) Leibniz parlava di “armonia prestabilita” per indicare il «perfetto accordo di tante sostanze che non comunicano affatto tra loro», compare qui la mano invisibile (e poi la lunga storia dell’astuzia della ragione suggerita da Hegel e il tema delle “conseguenze non volute” espresso dalla letteratura etico-politica) che compone in sistema armonico le solitudini che si ignorano. L’individuo è, secondo Smith, «condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni». Si avvia da qui la lunga tradizione del liberismo puro garanzia del massimo profitto e, di conseguenza, del massimo e generalizzato benessere, e se ne attribuisce l’origine a A. Smith ignorando le ampie osservazioni e tesi da lui formulata nella Teoria dei sentimenti morali.
4.1.2.2. La tesi del libero mercato, inteso allo stato puro e come un assoluto è un’ideologia e un mito inapplicabile in quanto controproducente dal punto di vista del profitto capitalistico; la vera richiesta è quella di un mercato “semi-monopolistico”: monopoli garantiti (con brevetti, dogane, sussidi statali, agevolazioni fiscali…), ma relativamente e sempre all’interno di una rivendicazione ideale di liberismo (o di libera recessione da condizioni che si rivelano non funzionali). « Il mercato totalmente libero funge da ideologia, da mito, e da influsso vincolante, ma mai da realtà quotidiana. Una delle ragioni per le quali esso non costituisce una realtà quotidiana è che un mercato completamente libero, qualora dovesse mai esistere, renderebbe impossibile l’incessante accumulazione di capitale. Questo può apparire un paradosso, poiché è senz’altro vero che il capitalismo non può funzionare senza mercati, ed è anche vero che i capitalisti affermano abitualmente di essere a favore di mercati liberi. Ma di fatto i capitalisti hanno bisogno non di mercati totalmente liberi, ma piuttosto di mercati che siano solo parzialmente liberi. La ragione è evidente. Supponiamo che esista realmente un mercato mondiale in cui tutti i fattori di produzione siano completamente liberi, come solitamente definito dai nostri manuali di economia — un mercato, cioè, in cui i fattori si muovano senza restrizioni, in cui vi sia un numero molto grande di compratori e un numero molto grande di venditori, e in cui vi sia informazione perfetta (nel senso che tutti i venditori e tutti i compratori conoscono l’esatta situazione di tutti i costi di produzione). In un mercato perfetto di questo tipo, sarebbe sempre possibile per i compratori contrattare al ribasso con i venditori fino a un livello di profitto assolutamente irrisorio (diciamo nell’ordine di un centesimo), e questo basso livello di profitto renderebbe il gioco capitalistico del tutto privo di interesse per i produttori, eliminando le basi sociali essenziali a un sistema di questo tipo.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 50)
4.1.2.3. in critica e a precisazione circa il liberismo puro e la rivendicazione dei profitti: «L’assunto tacito — e la giustificazione morale dei profitti — è che il produttore ne sostiene tutti i costi. Nella pratica, tuttavia, non è così. Il profitto è una remunerazione non soltanto dell’efficienza ma anche di un più ampio accesso all’assistenza dello stato. Pochi produttori pagano per intero i costi della loro produzione. Vi sono tre differenti costi che vengono generalmente esternalizzati in misura significativa: costi di inquinamento; costi di esaurimento dei materiali; costi di trasporto.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 80) «… vi sono tre costi nascosti che i produttori non sostengono necessariamente. Sono i costi di smaltimento dei rifiuti (in particolare di materie tossiche), i costi di rinnovamento delle materie prime e quelli che sono genericamente detti costi infrastrutturali.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 123-124) Costi costantemente cresciuti negli ultimi cinquant’anni e in crescita. In particolare «È solo nella seconda metà del ventesimo secolo che si è giunti davvero a considerare il potenziale esaurimento delle aree di discarica come un problema sociale.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 124) Dunque il massimo profitto trascura e affida allo stato, alla comunità sociale intera, e in forma quasi totale, le tre voci chiave dell’emergenza attuale: ambiente, risorse, infrastrutture. L’economia e i suoi livelli di profitto dichiarano in tal modo, nei fatti, la stretta connessione e dipendenza con l’intero complesso sociale.
Sulla stessa linea le riflessioni di Joseph E. Stiglitz nella dettagliata analisi in Stiglitz E. Joseph 2012 Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino 2013; una citazione (p. 163): «Industrie come quelle del carbone o del petrolio vogliono mantenere le cose come sono. Non vogliono che alla scarsità delle risorse naturali o al danno all’ambiente venga dato un prezzo e non vogliono che il nostro sistema di calcolo del Pil venga corretto in modo da tener conto della sostenibilità. Ma non caricarle dei costi che impongono all’ambiente equivale in effetti a un sussidio nascosto, poco diverso dagli altri regali che il settore riceve con i trattamenti fiscali di favore e la fornitura di risorse a prezzi inferiori al mercato. […]
Quando l’industria petrolifera spinge per ottenere altri permessi di trivellare in mare aperto e contemporaneamente preme per avere leggi che sollevino le varie compagnie dalla piena responsabilità per le conseguenze di una fuoriuscita di petrolio, sta in effetti chiedendo un sussidio pubblico. E questi sussidi fanno qualcosa di più che concedere una rendita: distorcono anche l’allocazione delle risorse. Il Pil, e più in generale il benessere collettivo, ne viene diminuito, come si è visto nel 2010 con il disastro della BP nel Golfo del Messico.»
4.1.2.4. le riserve nei confronti del liberismo indiscriminato si presentano puntualmente all’emergere di scompensi economici ricorrenti; a partire da quelli, retrospettivamente, si riprendono le tesi di Smith con maggior completezza e coerenza e si scopre come egli attenui la presunta bontà, efficacia e autonomia dell’egoismo e del libero mercato. Amartya Sen (1999 Lo sviluppo è libertà, A. Mondadori, Milano 2003) richiama un noto passo di Smith ne corregge l’unilaterale interpretazione. «Quella che egli considera è la possibilità che una ricerca del guadagno privato, spinta da motivazioni miopi, produca una perdita sociale. È l’esatto opposto della sua osservazione, molto più famosa, secondo la quale “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma la loro egoismo”» (p. 130) «…nessun altro autore (nemmeno Karl Marx) critica in modo così duro l’atteggiamento delle persone economicamente agiate nei confronti degli interessi dei poveri. Nella Teoria dei sentimenti morali, pubblicati nel 1759 (cioè diciassette anni prima della Ricchezza delle nazioni), Smith afferma che molti ricchi si curano, per il loro “naturale egoismo” e la loro “naturale rapacità”, solo di soddisfare i propri “vani e insaziabili desideri”. Ciononostante, in molti casi può accadere che altri individui traggano beneficio dalle loro azioni perché gli atti di persone diverse possono completarsi in modo produttivo. Smith non dà ai ricchi il merito di fare consapevolmente del bene ad altre persone; in lui l’idea di conseguenza non voluta coesiste con uno scetticismo ininterrotto nei confronti dei ricchi. Secondo Smith, gli egoisti e i rapaci sono condotti «da una mano invisibile» a «far progredire l’interesse della società», e a ciò giungono «senza saperlo, senza volerlo». Da queste parole è nata — con un po’ di aiuto da parte di Menger e Hayek — la «teoria delle conseguenze non volute». È nello stesso contesto generale che Smith delinea anche la sua analisi spesso ricordata dei benefici dello scambio economico nella Ricchezza delle nazioni». (p. 255) Ma: «Una conseguenza non voluta non è necessariamente imprevedibile, e da ciò dipendono molte cose; anzi, la stessa fiducia di tutte le parti in causa nella stabilità di queste relazioni di mercato dipende in modo specifico dal fatto che siano o formulate o implicitamente presupposte previsioni di questo tipo. Se viene intesa così (ossia come previsione di conseguenze importanti ma non intenzionali), l’idea di conseguenza non voluta non si contrappone in alcun modo alla possibilità di riforme razionali; anzi, è vero il contrario. Il ragionamento economico e sociale è senz’altro in grado di tener conto di conseguenze che possono essere inintenzionali ma derivano ciononostante da determinati assetti istituzionali, e gli argomenti pro e contro un particolare assetto possono essere meglio valutati prendendo nota della probabilità di una serie di conseguenze non volute.» (p.257) Ironicamente Stiglitz E. Joseph, criticando il cosiddetto «fondamentalismo del mercato» secondo cui i mercati, da soli, sarebbero in grado di condurre all’efficienza economica in forza di un automatismo spontaneo, osserva: «la ragione per cui la mano è invisibile è perché non c’è; … in mancanza di una regolamentazione e di un intervento pubblico adeguato, i mercati non sono assolutamente in grado di condurre all’efficienza economica; lo sviluppo richiede lungimiranza di pensiero e programmazione». (Stiglitz E. Joseph 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006, p. XIV])
4.1.3. Una modalità critica: cogliere la circolarità implicita nell’autoreferenzialità, metterne in evidenza il destino di crisi cui va incontro per isolamento o assenza di alimentazione, rimettere i processi all’interno di una circolarità economica e sociale complessiva e comprensiva, sulla base dell’assunto della natura antropologica e sociale dell’economia. (o spunti per un neoliberismo elaborato nelle riflessioni di economisti del ‘900 come John Maynard Keynes, Piero Sraffa, Federico Caffè… in alcuni passaggi)
4.1.3.1. la direzione: denunciato il meccanismo perverso del «profitto come mezzo per accumulare il capitale e non il capitale come mezzo per consumare il profitto» (Keynes), prende forma la nuova linea dello Stato programmatore in funzione degli interessi generali del sistema, attuata sostenendo la domanda dei consumatori, difendendo e dilatando l’occupazione (Welfare State).
4.1.3.2. il metodo: i fattori del sistema vanno posti in relazione e in circolarità; ma solo da una circolarità non gerarchizzabile il sistema ricava la propria autonomia e insieme trova la propria sede produttiva. Circolarità 1. Considerare la produzione come un processo circolare in cui lo stesso tipo di merci appare sia tra i mezzi di produzione che tra i prodotti, anziché come un processo che comincia con “fattori della produzione” e finisce con beni di consumo. Circolarità 2. Considerare l’economia e i suoi fattori come elementi in un sistema sociale, non astratti dalla sede sociale e politica in cui operano.
4.1.3.3. il contesto generale, etico-politico: «Lo Stato — e i principi di giustizia che esso, se legittimo, incorpora — funge da limite rispetto al perseguimento del bene di ciascuno.» «Esiste infine una, per certi versi sorprendente, analogia tra l’etica di Rawls e quella di colui che può forse essere considerato il suo maggiore antagonista nella filosofia politica anglo-americana, vale a dire il liberal-liberista, il libertario radicale, Robert Nozick. Per entrambi gli autori lo Stato deve essere un framework, una struttura entro la quale gli individui possono perseguire il soddisfacimento dei propri razionali piani di vita (Rawls) o la costruzione della propria personale utopia (Nozick). Lo Stato — e i principi di giustizia che esso, se legittimo, incorpora — funge da limite rispetto al perseguimento del bene di ciascuno. Le differenze di atteggiamento politico-filosofico tra i due autori determinano che il framework di Nozick sia ristretto e libertario, quello di Rawls più esteso, più pervasivo e preoccupato di fornire almeno le basi della comune felicità. Ma le somiglianze sono maggiori delle differenze, ove si introduca, quale terzo termine di paragone, l’utilitarismo, specie se in versioni edonistiche, che concepisce lo Stato come una macchina per massimizzare il benessere sociale, e mai come limite (in termini di giustizia) alla ricerca del benessere stesso. Tutte e tre queste dottrine, neocontrattualismo, libertarismo e utilitarismo, si ritrovano peraltro unite almeno su un principio normativo specifico, oggi nella pratica tanto spesso posto in discussione, quando non apertamente calpestato. «Il giusto pone dei limiti alla ricerca individuale del bene», sostengono neocontrattualisti e libertari; «il giusto si identifica con la ricerca individuale del bene», sostengono (alcuni) utilitaristi. Nessuno di loro sostiene che la giustizia debba prescrivere agli individui qual è il loro bene e come fare a raggiungerlo, nessuno tanto meno sostiene che si debbano in proposito imporre delle regole giuridiche coercitive. Tutte e tre le dottrine, se pur con diversa enfasi, sostengono cioè quello stesso principio normativo, antipaternalistico, che troviamo espresso, in modo incisivo e ancor oggi insuperato, in una splendida pagina di John Stuart Mill, La Libertà, 1859): «Gli atti di qualunque tipo che, senza una causa giustificata, danneggino altri possono, e nei casi più importanti devono assolutamente, essere repressi dai sentimenti ad essi sfavorevoli, e, quando sia necessario, mediante un’attiva interferenza degli altri uomini. La libertà dell’individuo non deve quindi oltrepassare questo limite; l’individuo non deve produrre danni agli altri. Ma se si astiene dal molestare gli altri in ciò che loro pertiene, e si limita ad agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio in ciò che lo riguarda, le stesse ragioni che dimostrano che l’opinione deve essere libera provano anche che gli deve essere permesso, senza molestie, di mettere in pratica le proprie opinioni a proprie spese.» (J.S.Mill On Liberty)» (Paolo Comanducci Il neocontrattualismo nell’etica contemporanea, in Viano, C.A. a cura di (1990), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino, 126-127)
4.1.3.4. il contesto generale antropologico: una strategia di nuova attenzione all’economia, a partire da componenti psicologiche e morali dei soggetti sociali: «L’economia cognitiva è una … disciplina che entra a far parte delle scienze cognitive alla fine degli anni settanta, apportando un proprio patrimonio d’idee e di strumenti in un processo di fertile interscambio.
L’elemento unificante di un così ampio contenitore è lo studio degli stati mentali che sovrintendono ai processi di raccolta ed elaborazione dell’informazione, di creazione della conoscenza, di formazione delle preferenze e, infine, di presa della decisione. In ambito economico, questo fine viene perseguito rimuovendo un’ipotesi metodologica fondamentale della teoria della scelta razionale. Invece di ricavare le preferenze degli individui dalle scelte effettivamente compiute con un processo di induzione all’indietro, l’economia cognitiva si propone di analizzare i processi mentali che danno origine alle preferenze e, sulla base di questa analisi, ricostruire come si determinano le decisioni. Questo vero e proprio capovolgimento metodologico rappresenta la principale differenza tra economia cognitiva ed economia comportamentale. Nell’economia cognitiva i processi attraverso i quali gli individui raccolgono, elaborano e utilizzano l’informazione per formare le preferenze e prendere le decisioni diventano il principale oggetto di analisi. Nell’economia comportamentale, al contrario, i processi che precedono e determinano le scelte sono semplicemente ignorati e l’oggetto d’indagine è rappresentato dalle scelte effettivamente compiute, dalle quali si deducono i sistemi di preferenze che le hanno determinate secondo il principio delle preferenze rivelate.» (Innocenti Alessandro 2009 L’economia cognitiva, Carocci, Roma p.10)
4.1.4. Una modalità critica: la rilevanza, anzi la centralità del consumo nella costruzione del sistema capitalistico storico e, in particolare, nella attuale estensione del capitalismo nel sistema-mondo, economia-mondo: i flussi delle merci e la gestione dei consumi, del loro mutamento, della loro capacità di definire forme sociali e individuali.
4.1.4.1. La relazione di causalità reciproca tra produzione e consumo era già avvertita da Marx: «Ma non è soltanto l’oggetto che la produzione crea al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo fìnish. […] Innanzitutto, l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. […] La produzione crea quindi il consumatore. […] La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo. Allo, stesso modo, il consumo produce la disposizione del produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo della produzione.» (Marx Karl 1859 Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, 178-180 passim)

4.2. il sistema mondo nella versione materiale e virtuale dell’era dell’accesso
Il sistema-mondo ha una nuova sede materiale, il web, la rete (world wide web); una sede materiale e virtuale ad un tempo che ha, nella congiunzione di queste due caratteristiche (reale e virtuale), l’effetto di moltiplicare e mettere a disposizione (rendere possibile l’accesso) spazi, relazioni e possibilità senza limiti tangibili, fino all’assottigliarsi (forse sparire per via delle continue interazioni) della distinzione tra un mondo reale e mondo virtuale.
4.2.1. Nel sistema-mondo virtuale la presenza operativa delle due trame: economia-mondo, impero-mondo. «E quindi, a che punto stiamo? Se Marx ed Engels potevano focalizzare il proprio interesse sulla massa crescente degli operai di fabbrica, al lavoro su macchinari che erano di proprietà dei capitalisti, oggi la maggior parte della popolazione delle regioni nordatlantiche ha a che fare con l’economia soprattutto nel ruolo di consumatore. Agire, in economia, significa prima di tutto avere potere d’acquisto. Nonostante il crollo delle industrie tradizionali, alcuni pensano che i sindacati continuino a rappresentare la migliore speranza di una resistenza strutturata contro la grande impresa. Un tempo il capitalismo nazionale rafforzava la fede generale in una società con sede in un punto geografico preciso, ma oggi Internet mira a una versione più plurale della società, fatta di reti mobili. La massa dei suoi utenti ordinari, come individui o gruppi di pressione, ha un interesse comune: evitare leggi irragionevoli e tenere per sé i benefici economici dei loro equi scambi. Forse le reti virtuali stanno accelerando la crescita di una nuova classe popolare che si oppone ai governi e alle multinazionali. Gli appartenenti a questa classe si aspettano di venir trattati come persone e non come una massa.
Nell’economia politica di Internet le principali parti in causa sono i governi, le grandi società e tutti noi, il popolo. Gli antichi interessi sui terreni si sono trasformati nella capacità coercitiva degli Stati territoriali di esigere tasse e affitti, sotto la minaccia di una punizione, in virtù del diritto di quello che i loro esperti legali chiamano «potere d’espropriazione per pubblica utilità». (Hann Chris, Hart Keith 2011 Antropologia economica. Storia, etnografia, critica, Einaudi, Torino 2011, 41) Sembrerebbe profilarsi, per usare i termini di Wallerstein, la formula del sistema-mondo come impero-mondo di carattere «tributario-ridistributivo» a fronte e intrecciata con l’economia-mondo di carattere «capitalistico-accumulativo» nella complessità della rete.
4.2.2. L’antropologia del mondo virtuale nell’era dell’accesso. «Un nuovo archetipo umano ha fatto la sua apparizione. L’uomo nuovo del ventunesimo secolo è profondamente diverso da coloro che l’hanno preceduto, nonni e genitori borghesi dell’era industriale: si trova a suo agio trascorrendo parte della propria esistenza nei mondi virtuali del ciberspazio, ha familiarità con i meccanismi dell’economia delle reti, è meno interessato ad accumulare cose di quanto lo sia a vivere esperienze divertenti ed eccitanti, cambia maschera con rapidità per adattarsi a qualsiasi nuova situazione (reale o simulata).
Lo psicologo Robert J. Lifton ha definito questa nuova generazione «proteiforme»: uomini e donne cresciuti nei common-interest developments, la cui salute è gestita dal servizio sanitario, che utilizzano automobili in leasing, acquistano online, si aspettano di ottenere software gratuitamente, ma sono disposti a pagare per servizi aggiuntivi e aggiornamenti. Vivono in un mondo di stimoli sonori che durano sette secondi, sono abituati all'accesso rapido alle informazioni, hanno una soglia d’attenzione labile, sono più spontanei che riflessivi. Pensano a se stessi come a giocatori più che a lavoratori e preferiscono essere considerati creativi piuttosto che industriosi. Sono cresciuti in un mondo di occupazione just-in-time e sono abituati a incarichi temporanei. Anzi, le loro vite, in generale, sono segnate da un grado di mobilità e di precarietà maggiore, sono meno radicate di quelle dei loro genitori. Sono più «terapeutici» che ideologici e pensano più in termini di immagini che di parole: sono meno abili nella composizione di frasi, ma superiori nell’elaborazione di dati elettronici. Sono più emotivi che analitici. Ritengono che Disney World e Club Med siano «veri», considerano i centri commerciali pubbliche piazze e non distinguono fra sovranità del consumatore e democrazia. Trascorrono con personaggi di fantasia, nei film, nei programmi televisivi e nel ciberspazio, tanto tempo quanto ne dedicano ai propri simili nella vita reale; anzi, arrivano perfino a inserire tali personaggi nella conversazione e nell’interazione, rendendoli parte della propria storia personale. Il loro mondo è più fluido, segnato da confini più sfumati. Sono cresciuti a ipertesti, link fra siti Web e anelli di feedback, e hanno una percezione della realtà più sistemica e partecipativa che lineare e obiettiva. Non si preoccupano della localizzazione geografica delle persone a cui abitualmente mandano e-mail, delle quali conoscono solo l’indirizzo virtuale. Pensano al mondo come a un palcoscenico e alla propria vita come a una serie di rappresentazioni teatrali. Cambiano in continuazione, a ogni passaggio fondamentale della propria esistenza sperimentando stili di vita sempre nuovi. Questi uomini e queste donne non sono interessati alla storia, bensì ossessionati dalla moda e dallo stile. Provano tutto e amano l’innovazione. D’altra parte, nel loro ambiente in rapido e costante mutamento, costumi, convenzioni e tradizioni sono quasi inesistenti.
Questi uomini nuovi stanno iniziando a lasciarsi alle spalle la proprietà: il loro mondo — un mondo di reti, gatekeepers e connettività — comincia appena a essere dominato da eventi iper-reali e da esperienze istantanee. Per loro ciò che conta è l’accesso: non essere connessi è la morte. Sono i primi esseri umani a vivere in quella che lo storico Arnold Toynbee ha definito età postmoderna. Questa nuova era contrasta decisamente con l’età moderna, in cui i rapporti proprietari e il possesso informavano ogni transazione economica e definivano la quasi totalità delle interazioni sociali: le distinzioni nell'età postmoderna sono relative più all’accesso che al possesso.
Cosa rende l’età postmoderna così diversa dall’età moderna? La risposta, semplice e, nello stesso tempo, complessa, può avere a che fare con la considerazione che l’età postmoderna è legata a una nuova fase del capitalismo, fondata sulla mercificazione del tempo, della cultura e delle esperienze, mentre le epoche precedenti coincisero con fasi basate sulla mercificazione della terra e delle risorse, lo sfruttamento del lavoro, la produzione di merci e servizi di base.» (Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000, 249-251) Prende forma sociale anche un evidente gap generazionale, la realtà virtuale che per le generazioni del secondo ‘900 si presenta come mezzo, per le generazioni presenti è sede e contesto di vita e di relazioni del tutto e sempre più intrecciata al cosiddetto mondo reale fino a condurre alla inefficacia e inutilità di una distinzione tra reale e virtuale.
Jeremy Rifkin definisce l’era dell’accesso come quella che nasce ed è caratterizzata dal passaggio dal dominio della proprietà al dominio dell’accesso; non l’appropriazione genera le relazioni sociali, economiche e politiche, ma l’accesso alla reti (alla rete mondiale ora dominante: world wide web) e la gestione delle condizioni che lo rendono possibile: «un mondo di reti, gatekeepers e connettività». Fanno qui la loro comparsa nuovi professionisti, operatori (gatekeepers, cool hunters), nuove aree di profitto, nuove forme di relazioni, nuovi tipi di comunità, nuovi stili di vita e di consumo; a contrassegnarli è l’apertura, lo spazio aperto di cui parla Wallerstein e che attribuisce politicamente alla capacità di programmazione e alla sensibilità dei movimenti che prendono vita negli ultimi decenni del 1900. (Pur nelle riserve proprie di un bilancio critico cha ha funzioni di rilancio, presenta ad esempio l’esperienza del World Social Forum come quella che «Ha adottato, come modalità principale, il concetto di «spazio aperto» (Wallerstein Immanuel, I dilemmi dello spazio aperto: il futuro del World Social Forum, in Berlinguer Marco, Trotta Mauro 2005, 41); aperto al proprio interno, una democrazia senza gerarchie ma non senza decisionalità, al proprio esterno, nessuna preclusione all’accesso.
4.2.3. Qui prende forma il bivio di fronte a cui si trova il sistema-mondo in termini di potere e di libertà. «È la contraddizione di fondo, e per ora insoluta, fra privacy e trasparenza, fra diritti a sapere e diritto a nascondere. Per la galassia degli "hacktivist”, il libero accesso a tutto è un diritto civile fondamentale che non può essere negato o limitato. […] Naturalmente, i grandi provider di reti wifi e telefoniche, come la Verizon americana, conducono una guerra quotidiana tecnologica, propagandistica e psicologica, contro i gruppi e i singoli che vogliono sfondare i cancelli, quali che siano i cappelli [“bianchi”: intervengono nella rete per togliere blocchi, vincoli e mettere democraticamente a disposizione; “neri” intervengono ‘aprendo le casseforti’ per lucro o con intenzioni criminali] che indossano e le intenzioni che hanno. […] Ma quello che cifre e le statistiche di Verizon non dicono è l’intento e la finalità di quei dati sottratti. Gli hacktivist "ideologicamente motivati" spinti cioè da un'idea di Rete e di libertà, da una lotta che spesso si intreccia con battaglie ecologiste, antinucleari, anticapitaliste, sono cosa ben diversa dai cybercriminali che scassinano le casseforti di banche per utilizzare i risultati per sfruttare le vittime. […] Una soluzione definitiva, un trattato di pace che portino alla convivenza e che risolvano la dialettica universale fra diritti di proprietà e diritti di accesso, fra l’odiato copyright sulle proprietà intellettuali, la pirateria, non è in vista e forse neppure possibile. Ogni tentativo di "legislare" un conflitto fondamentale come questo, eppure liquido e spesso impossibile da definire, ha portato a deformi normative che risultano inapplicabili nella pratica o sfacciatamente liberticide, alla maniera di Cina o Iran. Ma anche l'ideologia della Prateria senza steccati, come quella attraversata da Lewis e Clark nel 1804 è, nel caso degli hactivist, utopica e in parte ingiusta. La difesa dei diritti dei creatori di contenuti non è prepotenza, ma premessa perché la creazione avvenga. Tutto costa, a dispetto del mito della Rete gratis che gratis non è affatto, e dunque tutto deve essere remunerato per sostenere i costi. Ma anche l’istinto opposto è altrettanto forte: dove si chiude una porta, qualcuno cercherà di aprirla. La domanda resta: gli hacker lavorano per noi o contro di noi?» (Zucconi Vittorio, I ribelli della rete. Gli hacktivisti. Come gli indiani e i cowboy. È l’eterna lotta fra chi ha colonizzato Internet e chi intende abbatterne i confini. Ecco chi sono gli attivisti del web, la Repubblica 18.01.2013, 33-35)
4.2.3.1. Gli hacker in azione (gli Hacktivisti) nella logica dei movimenti antisistema (studiati e definiti da Wallerstein) e la costruzione del sistema-mondo in termini di spazio aperto e libertà.
«Insomma, non si può capire la rivoluzione dei computer in cui siamo immersi se non si capisce chi sono davvero gli hacker. Non si può capire, semplicemente perché non ci sarebbe stata. Ventinove anni fa un grande giornalista americano, Steven Levy, pubblicò un librone che ne raccontava le gesta, che risalgono addirittura agli anni ‘50 […] … dei ricercatori capirono per primi che un computer poteva servire a scrivere anche testi e fecero quello che farebbe ogni hacker: scrissero loro stessi, non per soldi ma per il puro piacere di farlo, un programma che consentiva di farlo. […] Ma quello che davvero hanno in comune gli hacker, il dono più importante che ci hanno fatto e che ci fanno mentre involontariamente li denigriamo, non è un modello di computer o un software per lavorare meglio, ma una filosofia. L’etica hacker, ha scritto la giovane antropologa, neozelandese Gabriella Coleman nel suo attualissimo report dal mondo hacker "Coding Freedom", ci parla di valori come condivisione, apertura, delocalizzazione e di un approccio per cui abbiamo il dovere di mettere le mani sui computer per migliorarli e migliorare così il mondo intero. E per far ciò una cosa deve avvenire preliminarmente: l’informazione deve essere libera.» (Luna Riccardo, Condivisione e libertà ecco la loro filosofia, la Repubblica 18.01.2013, 35)
4.2.3.2. Un bilancio per ora non molto confortante, in una situazione ambigua. Il sistema mondo in versione network, mondo del world vide web, non sembra configurarsi come spazio aperto, vista la capacità di controllo e monitoraggio che la rete esercita su chi vi transita, vista la frequentazione abitudinaria e limitata dei luoghi, vista la tendenza al formarsi di nuove comunità, tendenzialmente chiuse, vista la assenza di utili criteri di orientamento proporzionati alla quantità dei dati offerti, vista la natura e finalità commerciale del richiamo in rete (irretimento) degli internauti, vista l’invasione mercantile pubblicitaria dei siti ….Si tratta invece di un’area sorprendente di opportunità perché la logica della sua costituzione è quelle delle relazioni libere e aperte, è area capace di resistere ad ogni blocco e uso restrittivo della comunicazione e dei dati, è area in cui si insediano e si moltiplicano movimenti (sedicenti) antisistema e haker…
Ma, nell’immediato, il dato poco confortante: «… forse abbiamo dimenticato che il prefisso "www” vuol dire world wide web, cioè la rete che abbraccia il mondo intero. Ironia della sorte, di questo vasto mondo la maggior parte degli utenti non se ne fa nulla. È aumentato a dismisura il numero di persone che si muovono online, cresce il loro tempo di connessione, con corrispondente incremento delle forme patologiche di dipendenza, ma l’ampiezza dello spazio battuto nelle cybernavigazioni pare restringersi vieppiù. Sull’oceano galleggiano tanti gusci di noce, tante piccole reti di soggetti assorbiti in modo ombelicale dalle proprie faccende insieme a cerchie ristrette di amici virtuali. …il re dei social prospera sulla tendenza postmoderna a non essere troppo social, ossia aperti a mondi estranei, sconosciuti e dunque potenzialmente minacciosi, bensì a cercare conferme rassicuranti all’interno di nicchie circoscritte e controllabili a partire dalla nostra esperienza. … consolida questa tendenza a riprodurre dinamiche da villaggio, più che da metropoli, o, meglio ancora, da "comunità", almeno come la sognano gli individui dispersi nel gelo di un mondo globalizzato. Nel saggio omonimo del 2001, il sociologo Zygmunt Bauman ha diagnosticato la "voglia di comunità" che tormenta la società postmodema. … ecco allora il successo del "libro delle facce" [Facebook]. Potremmo andare dovunque, incontrare (virtualmente) chiunque, invece andiamo a caccia di ex e compagni di scuola. Coltiviamo amichevoli punti fermi, nicchie dove ritrovarsi, rispecchiarsi, rassicurarsi a vicenda, godere della gratificazione istantanea a costo zero di raccogliere tanti “mi piace”. … Invece che allargare a dismisura gli orizzonti, però, tirano fuori il provinciale un po' spaventato che si annida in ognuno di noi.» Benedetta Tobagi, Siamo sicuri che sia social? (la Repubblica 27.01. 2013) Del resto, non si diventa “mondo” dall’oggi al domani; il sistema-mondo, in senso culturale non è avventura in vendita presso agenzie di viaggio; è un pensare oltre sé per cui occorre gestire il senso di disorientamento che questo passaggio comporta, individualmente e socialmente. Lo sapeva bene Nietzsche, che paga di persona il suo pensiero oltre il limite e che, guardando al sociale, racconta con consapevole amarezza: «Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto — proseguì — non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate.» (Gaia scienza § 125)
4.2.4. Al termine di un sintetico, essenziale e lucido quadro della realtà contemporanea e dei problemi nei quali siamo, volenti o no, impegnati o impigliati (Wallerstein, Comprendere il mondo, 126-135), Wallerstein conclude: « L’opacità genera confusione, e ciò favorisce la causa di chi vuole porre limiti alla libertà. […] Il periodo di transizione da un sistema a un altro è un periodo di grande lotta, di grande incertezza e di grandi interrogativi sulle strutture del sapere. Ciò che dobbiamo fare è innanzi tutto cercare di comprendere lucidamente cosa sta accadendo. E dobbiamo poi compiere le nostre scelte sulle direzioni che vogliamo il mondo prenda. E dobbiamo infine capire come agire nel presente affinché le cose prendano verosimilmente il corso che preferiamo. Possiamo pensare a questi tre compiti rispettivamente come un compito intellettuale, uno morale e uno politico. Sono differenti, ma strettamente intrecciati. Nessuno di noi può sottrarsi anche a uno solo di questi doveri. Se pretendiamo di farlo, stiamo solo operando una scelta senza esplicitarla. I compiti davanti a noi sono eccezionalmente difficili. Ma ci offrono, individualmente e collettivamente, la possibilità di creare, o almeno di contribuire a creare qualcosa che possa meglio soddisfare le nostre possibilità collettive.» (Wallerstein, Comprendere il mondo, 134-135)

 

Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_13-14/dispense/corso3_lez6b.doc

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