Schopenhauer

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Schopenhauer

LA MORTE DI DIO E L’OSPITE INQUIETANTE
(Schopenhauer, Nietzsche)
Questo capitolo propone un tratto del volto della filosofia post-hegeliana attraverso la lettura di due grandi filosofi: Schopenhauer e Nietzsche. I due filosofi hanno, ovviamente, notevoli punti di diver-genza e personale originalità, ma ciò che qui interessa è come entrambi si muovano nel disegno di una riflessione filosofica che si qualifica, schematicamente, attorno ad alcuni punti notevolissimi:
• il Lógos, che la tradizione filosofica ci ha consegnato come strumentazione capace di cogliere la verità delle cose, è incapace di cogliere la verità dell’essere, la verità del mondo;
• il reale, il mondo ha una struttura essenzialmente irrazionale, caotica, insensata e perciò stesso non ha nessun fine e non c’è spazio alcuno per le "magnifiche sorti e progressive” (Leopardi);
• lo stesso concetto di verità (alétheia) non è altro che una menzogna il cui unico scopo è di porci al riparo dal caos del mondo; dalla paura del nulla che ci annichilisce;
• la metafisica, come la religione si sono rivelati peggiore del male cui intendevano essere rimedio;
• Dio è morto! Dio è definitivamente morto e nel mondo si presenta il più inquietante fra gli ospiti: il nichilismo!
Se il marxismo rimaneva all’interno della tradizione razionale occidentale, con l’elaborazione filosofi-ca di Schopenhauer e poi di Nietzsche si inaugura una riflessione potentemente irrazionale tesa a ‘di-struggere’ il Lógos: antitetica pur essendone il frutto più intimo!
Questo tratto del volto della filosofia è caratterizzato, inoltre, dall’idea - già feuerbachiana e marxiana - di una riflessione che si curvi risolutamente verso l’uomo concreto, versus le ubbie oltremondane della speculazione hegeliana. Al mondo, al mondo! Bisogna essere fedeli alla terra!
Infine è il caso di dire che il nichilismo – come sarà formulato da Nietzsche - ci porta a respirare la no-stra aria: è l’ambiente culturale in cui viviamo, lo sfondo in cui prende figura l’era della tecnica.

~ SCHOPENHAUER
~ La vita e le opere
~ L’eclettismo schopenhaueriano
~ Il “Velo di maya”
~ Il mondo come volontà
~ La vita oscilla tra il dolore e la noia
~ Il significato dell’amore
~ Filosofia e religione
~ Il rifiuto dell’ottimismo o la critica all’Occidente
~ La liberazione dal dolore
~ CONCLUSIONI
SCHOPENHAUER
La riflessione filosofica di Schopenhauer è completamente estranea e critica nei confronti dell’idealismo e del panlogismo hegeliano. Basti pensare che Schopenhauer contrappone all’Idea hege-liana, al suo Lógos che si muoveva con quell’incedere rigido e persuasivo nelle triade dialettiche, la Volontà che, al contrario, si muove senza ragione e senza scopo. La storia, che in Hegel era un conti-nuo progresso nella misura in cui era un continuo conoscersi fino allo Spirito assoluto, diventa eterna ripetizione di un identico dramma del dolore.
La vita e le opere
Arthur Schopenhauer nacque il 22 febbraio 1788 a Danzica. Nel 1793, in seguito all’annessione di Danzica all’impero Prussiano, si trasferì ad Amburgo per sfuggire ad un ambiente divenuto antilibera-le.
Si laureò a Jena nel 1813 discutendo una tesi intitolata Sulla quadruplice radice del principio di ra-gion sufficiente, dopo aver seguito anche, a partire dal 1811, le lezioni dell’idealista Fichte a Berlino.
Tra il 1814 e il 1818 visse a Dresda, dove si dedicò alla stesura dello scritto Sulla vista e i colori, ispi-rato dal pensiero scientifico di Wolfgang Goethe, conosciuto a Weimar, e di quella che è considerata la sua opera principale: Il mondo come volontà e rappresentazione.
A Berlino ottenne, nel 1820, l’abilitazione alla libera docenza in quell’Università dove Hegel spadro-neggiava. Il contrasto con Hegel lo portò a fissare le sue lezioni nelle stesse ore di quelle di Hegel: il risultato fu la sospensione dei corsi per mancanza di studenti.
Nel 1836 Schopenhauer pubblicò il suo Sulla volontà nella natura, mentre nel 1841 I due problemi fondamentali dell’etica. Le sue opere ebbero sostanzialmente uno scarso successo fino al 1848, anno nel quale si diffuse la corrente pessimista in Europa, che era in linea con il suo pensiero tenebroso e anti-idealistico.
Nel 1851 pubblicò la sua ultima opera, Parerga e Paralipomena, scritta con un linguaggio brillante e leggero, quasi vicino alla narrativa, che contribuirà in maniera fondamentale alla diffusione della sua filosofia.
Schopenhauer morì il 21 settembre 1860.
L’eclettismo schopenhaueriano
Schopenhauer si mostra decisamente eclettico nel prendere spunto da ideologie precedenti per elabora-re il proprio sistema filosofico. Il suo pensiero, infatti, è influenzato parimenti dai grandi filosofi occi-dentali (in primo luogo Platone e Kant) e dalla spiritualità indiana; non mancano poi riferimenti impor-tanti al Romanticismo, così come all’Illuminismo e all’Idealismo.
Egli è affascinato dalla teoria platonica delle idee, che sono da lui considerate delle entità astratte ed eterne, “fortunate” in quanto esentate dal dolore che domina il mondo.
L’impostazione soggettivistica della gnoseologia schopenhaueriana, deriva, senza dubbio, dall’influenza di Kant, che considera grande maestro.
Dalla sapienza orientale, invece, Schopenhauer riprende una serie di immagini suggestive come il “ve-lo di Maya”. E’ proprio questo forte interesse per la cultura indiana che lo distingue dagli altri pensato-ri del suo tempo: se infatti fino ad ora i filosofi occidentali l’hanno accantonata perché “la cultura orientale non crea Savi, ma Santi”, adesso essa dimora all’interno della riflessione schopenhaueriana, base di un pensiero moderno, filosofico nel senso proprio del termine. Si ricordi che Hegel aveva tra l’altro trattato della conoscenza Orientale, specificatamente cinese e indiana, “soltanto per rendere ra-gione del fatto che non ce ne occuperemo […] Ciò che chiamiamo filosofia orientale è piuttosto la rappresentazione religiosa che gli Orientali si fanno della realtà, la loro intuizione generale del mondo, ch’è facile scambiare per filosofia” (Lezioni sulla storia della filosofia, p. 133).
L’influenza romantica si fa sentire per quanto riguarda la propensione all’irrazionalismo e al tema dell’infinito, idea per la quale Schopenhauer viene comunemente collegato alla figura di Giacomo Leopardi, con cui ha in comune anche la forte vena pessimistica; dalla corrente ottocentesca deriva poi la grande importanza attribuita alla musica e alle arti visive.
Ma lo spunto principale è sicuramente il tema del dolore, che pervade la visione schopenhaueriana del mondo.
Dall’Illuminismo derivano la tendenza demistificatrice nei confronti delle credenze passate e la consi-derazione della psiche come pura manifestazione del sistema nervoso umano.
L’Idealismo, infine, è “paradossalmente” fondamentale in quanto Schopenhauer lo affronta per pren-derne apertamente le distanze: Hegel viene da lui definito un “sicario della verità”, accusato di irrigidi-re e cristallizzare la filosofia con la divinizzazione delle istituzioni e della storia, considerate mere ma-nifestazioni dello Spirito. Il pensiero hegeliano è una “buffonata filosofica”!
Il “Velo di maya”
Schopenhauer pone come punto di partenza della propria filosofia la distinzione tra la realtà fenome-nica e quella noumenica già operata da Kant nella Critica della Ragion Pura, ma curva al massimo grado il significato del fenomeno traducendolo come illusorietà: fenomenico = illusorio!
Se per l’illuminista il fenomeno, la cosa come ci appare, è reale, per Schopenhauer esso è pura illusio-ne, sogno, ovvero ciò che, appunto, nella sapienza indiana veniva definito “Velo di Maya” dietro il quale si nasconde il noumeno, che va appunto svelato dal filosofo con la sua ricerca.
E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a ter-ra che egli prende per un serpente. (Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 3)
Per Schopenhauer, inoltre, il fenomeno è solamente interno alla coscienza ed è pura rappresentazione soggettiva: “Il mondo è la mia rappresentazione”.
La rappresentazione consta di due parti, che sono come due inscindibili facce della stessa medaglia: il soggetto e l’oggetto. Ai materialisti precedenti, quindi, Schopenhauer rimprovera l’aver preso in consi-derazione solo quest’ultimo, sminuendo o negando del tutto il soggetto, mentre agli idealisti rimprovera il procedimento opposto.
Schopenhauer crede che la mente dell’uomo sia corredata da forme a priori e che il merito di questa scoperta tocchi al grande Kant. La rappresentazione si origina, dunque, dalle forme a priori della men-te umana, ma le dodici categorie kantiane possono essere ridotte alle forme di spazio, tempo e causali-tà.
Quest’ultima, come affermato nel trattato Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, si snoda attraverso quattro diverse forme:
1. “Principium rationis sufficientis fiendi”, il principio di ragion sufficiente del divenire, che rego-la i rapporti tra gli oggetti naturali;
2. “Principium rationis sufficientis cognoscendi”, il principio di ragion sufficiente del conoscere, che regola i rapporti tra le premesse e le conseguenze;
3. “Principium rationis sufficientis essendi”, il principio di ragion sufficiente dell’essere, che re-gola i rapporti tra aritmetica e geometria così come tra lo spazio e il tempo;
4. “Principium rationis sufficientis agendi”, il principio di ragion sufficiente dell’agire, che regola i rapporti tra un’azione e i suoi motivi.
Le forme a priori sono considerate delle lenti sfaccettate, la realtà viene deformata inevitabilmente di-ventando ingannevole. I Veda, Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare e Calderón de la Barca sono so-lo alcuni predecessori che hanno intuito questa grande verità. La realtà è pura esperienza onirica: “La vita è sogno”!
In Schopenhauer, dunque, il fenomeno kantiano diventa una pura rappresentazione ingannevole, sog-gettiva, cosicché la vita stessa non diventa altro che una rappresentazione, una sorta d’incantesimo, un sogno.
Viene ripresa quindi, dal filosofo tedesco, tutta quella tradizione letteraria e poetica da Shakespeare a Calderòn che aveva identificato la vita umana con un lungo e articolato sogno, lo portarono ad affer-mare la celebre frase: “la vita e i sogni son pagine dello stesso libro”.
L’atteggiamento di Schopenhauer è duplice: rigore filosofico e dimensione poetico-letteraria. La dimo-strazione della illusorietà del mondo è un percorso razionale, poiché la vita è immersa in cose sola-mente “rappresentate”, ma anche risultato di un’intuizione estetico-poetica.
Il mondo come volontà
Schopenhauer si presenta, oltre che come una sorta di continuatore kantiano, anche come un riparatore kantiano: egli pensa, infatti, di aver individuato la via d’accesso al noumeno kantiano che nella Critica della ragion pura rimaneva inconoscibile e inaccessibile.
La domanda fondamentale è: se il mondo è rappresentazione, cioè illusione, come si fa a rompere questo ‘velo di Maya’ per inoltrarsi nella regione della verità, della conoscenza della cosa in sé, dell’assoluto?
La cosa in sé, la sostanza unica del mondo – se così ci si può esprimere – per Schopenhauer è la “vo-lontà”. Come si fa a rendersene conto?
Attraverso una riflessione su noi stessi: quando ci pensiamo corpo e coscienza, possiamo fare a meno dei primordiali principi a priori e, in una sorta d’intuizione, ci rendiamo conto che ciò che ci accomuna e percorre tutto l’universo è questa “volontà di vivere” (Wille zum Leben), indistinta, che penetra tutte le cose.
Schopenhauer afferma, dunque, che il fenomeno è illusione che vela la realtà delle cose nella loro es-senza autenticamente originaria, essenza che è conoscibile come volontà. Tramite il corpo, che ognuno sente come “brama” di vivere e di autoconservazione, si riesce a comprendere che si vive immersi come parte integrante di un’unica volontà, di un “cieco ed irresistibile impeto” che si identifica con il nostro esistere e agire.
Già Hobbes aveva utilizzato il termine “brama”, ma in tutt’altra accezione: quando pensava allo stadio di natura, egli riconosceva la “bramosia” che rendeva l’uomo “egoista”.
In Schopenhauer, invece, la “brama” di vivere è un’energia, un impulso indistinto che ci fa muovere e che è al di là di tutto, spazio e tempo compresi.
La volontà di vivere va intesa quindi non solo poeticamente: sembra, infatti, assumere i connotati dell’ “istinto” che Darwin metterà in ordine nella sua costruzione di tipo evoluzionistica.
Per esprimere il concetto di questa lotta tra corpo e coscienza, tra volontà e razionalità, Schopenhauer si serve di immagini eloquenti. Il rapporto tra volontà e intelletto è simile a quello tra il padrone e il servo, tra il fabbro e il martello, tra il cavaliere e il cavallo. Secondo questa prospettiva, che verrà ri-presa da Nietzsche, chi padroneggia le azioni umane non è l’elemento razionale, ma questa “voglia di vivere” inconscia che muove l’uomo. La voglia di vivere sembra essere una forza interna, quasi di stampo freudiano, che segretamente ci agita e ci guida.
Solo questa autoriflessione, questo piegarci su noi stessi, ci permette di squarciare il ‘velo di Maya’ – il velo del fenomeno – e di intuire che la cosa in sé del nostro essere è la brama di vivere. Noi, più che intelletto, siamo volontà di vivere. Il nostro corpo è la manifestazione, l’oggettivazione, la rappresenta-zione delle nostre brame; l’apparato sessuale è la forma fenomenica dei nostri appetiti sessuali. Il mondo intero è il modo in cui si manifesta la nostra volontà nello spazio e nel tempo.
La volontà di vivere non è però solo la verità dell’uomo nel suo aspetto noumenico, ma anche l’essenza di tutte le cose dell’universo. Non è soltanto l’uomo che si muove grazie alla volontà di vive-re, ma tutto l’universo: dall’inorganico all’organico, dai minerali alle piante, dai pesci all’uomo. La vo-lontà informa la stessa costruzione cosmica!
La prima caratteristica della volontà primordiale è quella di essere inconscia. La volontà è un’energia, un impulso, inconscio che muove il cosmo.
La volontà è poi unica ed esiste al di fuori dello spazio e del tempo.
Ma proprio perché è al di fuori del tempo essa è anche eterna e indistruttibile: un principio senza ini-zio né fine.
Ma se la volontà è superiore allo stesso principio di causa, essa è una forza libera e cieca, un’energia incausata, senza un perché e senza uno scopo. Non c’è, dunque, nessuna struttura finalistica nel co-smo!
La volontà non ha “telos”, non ha alcuna meta oltre se stessa. E’ possibile scorgere in questa interpre-tazione anti-finalistica ciò che accomuna Schopenhauer, Leopardi e Nietzsche, all’orizzonte del “ni-chilismo”, in cui, non c’è più uno scopo, non c’è un fine e i valori si svalorizzano. Hegel ne morireb-be!
Tutti gli esseri, quindi, vivono per vivere e per continuare a vivere. La crudele verità del mondo che Schopenhauer scopre è proprio questa: gli uomini, attraverso la creazione di un Dio, non hanno fatto che “mascherare” questa verità, cercando di trovare un significato alle loro azioni e alla loro stessa vi-ta. Ma per Schopenhauer Dio non esiste. L’unica cosa assoluta è la volontà stessa, le cui caratteristiche non a caso sono le stesse che invece una lunga tradizione aveva attribuito a Dio.
Schopenhauer pensa che la volontà di vivere si manifesti attraverso due fasi: la prima, in cui la volontà si oggettiva in un sistema di forme immutabili, archetipi del mondo; la seconda, in cui la volontà si og-gettiva nelle realtà naturali, dalle forze generali della natura all’uomo.
Schopenhauer crede inoltre in una struttura gerarchica in cui si articola il mondo delle realtà naturali: più si sale nella scala gerarchica più si raggiunge un “grado” di maggiore “coscienza”. Dalle forze ge-nerali della natura si passa quindi alle piante, agli animali e, infine, “la piramide” culmina nella figura umana, in cui la volontà è pienamente consapevole.
Da questo punto di vista l’uomo è il vertice della piramide, il massimo grado raggiunto dalla coscienza; ma ciò si risolve, paradossalmente nel suo più grande difetto: quanto più acquista in coscienza, tanto più perde in sicurezza. La ragione è meno efficace dell’istinto come guida per la vita: l’uomo non è al-tro che un “animale malaticcio”.
L’uomo ha una capacità intellettuale, razionale e coscienziale che lo porta ad essere superiore a qual-siasi altro animale, come ad un cane, ma proprio questo oltrepassamento del corredo istintuale lo sguarnisce completamente come organismo animale rispetto al caos del mondo.
Con Schopenhauer si ha una prima risposta, precisa, a un interrogativo che già Kant aveva proposto nella Critica. La risposta di Schopenhauer è secca: è esattamente la dimensione razionale dell’uomo che, sganciandosi dal mondo animale, ci rende vulnerabili. Questa non è la nostra forza, ma il nostro ‘tallone d’Achille’. Contro il caos esistenziale, contro il buio dell’esistenza, noi ripariamo creandoci dei miti, delle religioni, delle ideologie, che ci possono far sopportare la nostra vita perché a tutta una serie di elementi noi non abbiamo risposta. Un cane non ha tentennamenti, risponde attraverso il suo corredo istintuale. Ciò che ci ha reso propriamente umani ci ha reso anche deboli rispetto agli altri animali. La creazione di religioni, ideologie, credenze, superstizioni è dettata proprio da questa man-canza istintuale. Se fossimo tutto istinto, non avremmo bisogno della religione! La riflessione di Scho-penhauer sull’”animale malaticcio” sarà estremamente feconda con Nietzsche, che parlerà dell’uomo come di “animale non stabilizzato” (Al di là del bene e del male, § 62).
La vita oscilla tra il dolore e la noia
La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia (Il mondo … par. 57)
Ecco, in una delle frasi celebri, il cosiddetto il pessimismo schopenhaueriano.
Il termine ‘pessimismo’ è, per molti versi, riduttivo e, per certi, fuorviante: quella di Schopenhauer può essere considerata semplicemente un’analisi profonda della realtà che lo porta a vedere il mondo in maniera ‘iper-realistica’. Il cosiddetto pessimismo non è una semplice inclinazione caratteriale, ma una struttura ideologica profondissima che si erge contro una concezione razionalistica e positivistica in cui l’elemento concettuale dominante sono le “umane sorti e progressive” (Leopardi).
Quando si parla di Schopenhauer, così come di Leopardi, la predisposizione ideologica “pessimistica” non è il frutto di un’inclinazione caratteriale personale, ma è una profonda critica all’Occidente che si sta industrializzando e che vede nella modalità dell’organizzazione industriale la sua potenza e nella scienza il suo strumento. Il ‘pessimismo’ di Schopenhauer è una critica feroce di “disvelamento” e di “demistificazione” dei concetti positivi che fanno da guardia pretoriana alle umani sorti progressive!
Innanzitutto, è davvero incredibile come la vita individuale sia priva di significato:
Gli uomini somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è l’orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. […] La vita d’ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti signifi-canti, è sempre invero una tragedia; ma esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia (Il mon-do… par.58)
La vita ha tutti i mali della tragedia ma siamo, piuttosto, goffi tipi da commedia!
Secondo Schopenhauer il principio universale è il dolore; il piacere non è altro che un momento tran-seunte che qualifica l’assenza del dolore, che è invece la sostanza, l’essenza della natura cosmica. L’uomo soffre, perennemente tormentato dai suoi desideri che non riesce mai a soddisfare in modo definitivo.
La felicità è impossibile come elemento stabile, essa è solo passeggera e altro non fa che segnare l’assenza del dolore.
Se non c’è il dolore, che è direttamente legato alla volontà di godere le cose, c’è allora un ristagno dei desideri: la noia. La vita è o dolore, brama di volere, tensione spasmodica verso determinati obiettivi, o noia, flessione del desiderio, ristagno. La noia è esperienza dolorosissima e insopportabile perché ci catapulta in una dimensione di involontario disinteresse per tutto: “nel vuoto spaventoso”. In questa oscillazione il piacere e la felicità non rappresentano che un momento fugace.
Solo la sofferenza è universale e colpisce e affligge tutto, indistintamente: dal fiore che appassisce all’animale ferito, al bimbo inerme e all’uomo malvagio.
La sofferenza cresce anche al crescere dell’intelletto: “più intelligenza avrai, più soffrirai”, “chi au-menta il sapere moltiplica il dolore” dice più volte Schopenhauer riprendendo l’Ecclesiaste. Il sapere non è un ‘sapere-sapore’ che addolcisce l’esistenza ma, in quanto coscienza dell’esserci nel mondo, è un’esperienza dolorosa perché ci porta sul ciglio rovinoso dell’insensatezza.
Il dolore si avverte anche nella lotta crudele di tutte le cose:
dietro le celebrate meraviglie del creato si cela un’arena di esseri tormentati e angosciati, i quali esisto-no solo a patto di divorarsi l’un l’altro, dove perciò ogni animale carnivoro è il sepolcro vitale di mille al-tri e la propria autoconservazione è una catena di morti strazianti. (Il mondo… )
L’espressione, molto forte e decisa, taglia un’eccessiva antropomorfizzazione della natura, non c’è più anima, ma una legge spietata per cui “ogni carnivoro è il sepolcro di mille altri”.
Ogni visione edulcorata ed edulcorante della natura non trova quindi assolutamente spazio nella visio-ne schopenhaueriana, a vantaggio di una visione rigidamente iper-realistica.
Eccellente in tal senso è l’esempio della formica gigante che dimostra, appunto, l’autolacerazione dell’unica volontà in una molteplicità di parti e di individui reciprocamente ostili:
quando la si taglia, comincia una lotta fra la parte del corpo e quella della coda; quella ghermisce questa col morso, questa si difende validamente col pungere quella. La battaglia dura di solito una mezz’ora, finché le due parti muoiono, o vengono trascinate via da altre formiche. (Il mondo … par. 27)
Il significato dell’amore
Schopenhauer rifugge completamente una visione romantica dell’amore:
dietro le lusinghe di Cupido e il suo incanto sta in realtà il freddo Genio della Specie che mira alla perpe-tuazione della vita. (Il mondo … Supplementi)
Per Schopenhauer, l’innamoramento e tutte le “smancerie” ad esso legate si riducono in ultima analisi a “puro desiderio sessuale”, accoppiamento a strumento di organizzazione della specie. La prospettiva schopenhaueriana anticipa, per certi versi, l’evoluzionismo darwiniano. Infatti, una massa di tiepidi, melensi concetti sull’innamoramento vengono ricondotti al loro nesso reale: la mera continuazione del-la specie.
Per lo stesso motivo, l’innamorato diventa “zimbello” della natura. L’uomo, proprio mentre crede di essere se stesso, nell’innamoramento, è mosso da altro! La natura illude l’individuo facendogli credere di perseguire scopi personalissimi, quando in realtà lavora per la specie; per la natura l’individuo è nul-la: essa è solo per la conservazione della specie. Schopenhauer descrive questo fatale inganno: “Perciò dunque ogni innamorato si ritrova, dopo il compimento finale della grande opera, infinocchiato: per-ché è svanita l’illusione per la quale l’individuo era lo zimbello della specie.” (Supplementi). L’amore non è che un’astuzia della specie!
Anche in questa occasione la visione schopenhaueriana non è semplicemente pessimistica: è uno sca-vare all’interno di concetti elaborati, sofisticati, romantici, per riportarli ad una realtà completamente diversa da quella raccontata dalla narrativa e dalla letteratura, che pure ha la sua giustificazione nel fat-to che attraverso di essa passa l’istinto sessuale.
“l’istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più forte affermazione della vita. […] In conseguenza di tutto ciò i genitali sono il vero e proprio fuoco della volontà […] e in tal qualità furon dai Greci vene-rati nel Phallus, dagli Indiani nel Limgam”. (Il mondo…., par. 60)
Schopenhauer non nega che possa esserci un atteggiamento di tipo sentimentale, ma esso è solo una “guaina”, una “protezione”, un “velo” che cela il puro desiderio:
Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda le sue radici nell’istinto sessuale; se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito. (Supplementi)
Questa impostazione penetrante, pre-freudiana, pre-psicanalitica, si manifesta anche nel celebre afori-sma:
l’amore è nient’altro che due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano e una terza in-felicità che si prepara. (Il mondo …)
La stessa procreazione si riduce a pura creazione di ulteriore dolore, venendo quindi inconsapevol-mente etichettata come “peccato” o “vergogna”.
L’unico amore da lodare non è, quindi, quello dell’eros, ma quel sentimento disinteressato della pie-tas.
Filosofia e religione
La riflessione di Schopenhauer sul rapporto tra filosofia e religione è estremamente interessante non solo nella demistificazione di una menzogna quanto nella miriade di spunti che innervano le sue ar-gomentazioni e che avranno feconde ricadute sugli sviluppi successivi del fare filosofico e in primo luogo su Nietzsche.
Innanzitutto Schopenhauer distingue nettamente l’origine della filosofia dall’origine della religione.
L’origine della religione è la paura, il terrore. Terrore esistenziale e di una natura soverchiante e scono-sciuta nei suoi nessi causali. L’origine della religione è “nella angoscia” degli uomini di fronte ad una natura che non riescono a dominare. La filosofia, al contrario, sgorga dalla pura sete di conoscenza dell’uomo: è, aristotelicamente, il sapere per il sapere. Anche in un mondo felice gli uomini arrivereb-bero alla riflessione filosofica.
Non solo religione e filosofia hanno radici diverse, ma sono l’una contro l’altra armata. La religione è un credere. La filosofia, al contrario, un pensare!
Nessuno che sia veramente filosofo è religioso: cammina senza dande, pericolosamente ma libero. (O si crede o si pensa)
Chi crede non è filosofo!
O si crede o si pensa!
La filosofia è scienza e non doxa, opinare, credere; “il suo oggetto è ciò che si può sapere”. La filoso-fia non ha assolutamente niente a che vedere con la religione; sono cose diversissime ed è bene che stiano separate. Pensare significa dimostrare incontrovertibilmente.
La filosofia, diversamente dalla religione, è una scienza e, come tale, non ha nessun articolo di fede; in essa, quindi, non si deve assumere come esistente se non ciò che è o chiaramente accertato come dato empirico o dimostrato per via di deduzioni incontrovertibili.
Con ogni evidenza il mondo basta a se stesso! Il mondo è materia. La materia ha in sé forza per il mo-vimento – come direbbero Democrito, Epicuro, Lucrezio, ecc. L’ipotesi di un Dio personale ed ester-no al mondo è un’ipotesi superflua e “non dimostrabile in alcun modo”.
Il teismo si deve riconoscere in una di queste tre accezioni:
1) Dio ha fatto il mondo dal nulla: questo fa a pugni con l’assoluta certezza che dal nulla non si crea nulla.
2) Egli ha creato il mondo da se stesso: allora o c’è rimasto dentro anche lui stesso (panteismo), o la parte di se stesso, che è diventata mondo, si è staccata da lui (emanazione).
3) Egli ha formato la materia che ha trovata: allora questa è eterna come lui ed egli è soltanto un demiurgo.
La religione per 1800 anni “ha messo la museruola alla filosofia”! Dopo una lunga stagione che ha vi-sto la filosofia portata a forza nei monasteri e ridotta ad ancilla theologiae, a vergognosa valletta delle Sacre scritture sotto la patristica e la scolastica, eccola, pian piano, uscire dal buio del Medioevo e pro-rompere con la ricerca in mille rivoli e scoperte: l’astronomia, le scienze naturali... La filosofia può ri-prendere la parola. La libera ricerca si allontana dai conventi. La filosofia rialza la testa!
Le religioni sono come le lucciole: per brillare hanno bisogno dell’oscurità. Ciò che occorre a tutte le re-ligioni è un certo grado di diffusa ignoranza; quello che è il solo elemento in cui possano vivere. Non ap-pena, invece, è consentito all’astronomia, alle scienze naturali, alla storia, alla geografia, all’etnologia, di diffondere ovunque la loro luce, e può finalmente prendere la parola anche la filosofia, ogni religione fondata sui miracoli e sulla rivelazione è destinata a tramontare; e allora è la filosofia a prendere il suo posto. Verso la fine del quindicesimo secolo, spuntò, in Europa, il giorno della conoscenza e della scien-za; quel sole continuò a salire, sempre più in alto, nel 1500 e nel 1600, due secoli così fecondi, e dissipò le nebbie del Medioevo. Parallelamente si ebbe, a poco a poco, il declino della Chiesa e della religione, tanto che, nel 18° secolo, alcuni filosofi inglesi e francesi potevano già insorgere, contro l’una e l’altra, direttamente, finché, sotto Federico il Grande, venne Kant, che sottrasse alla fede religiosa il sostegno della filosofia di cui aveva goduto fino ad allora, e, affrontando la questione con scrupolosità e pacatezza tutta tedesca, emancipò l’ancilla theologiae. (O si crede o si pensa)
Con la Critica della ragion pura Kant assesta, dal punto di vista teoretico, il colpo mortale alla religio-ne: come con un rosario, sgrana, ad una ad una, le prove dell’esistenza di Dio e le confuta, ad una ad una! Non rimane che la doxa, la fede! Kant sottrae alla religione il sostegno della filosofia e giunge, definitivamente, ad espungere la religione dal consesso scientifico: la teologia è definitivamente ridotta ad un articolo di fede. Il meglio della secolare elaborazione mistico-metafisica, la prova ontologica, la prova cosmologica, la prova fisico-teologica cadono sotto il peso della ragione. Tutte le dimostrazioni della teologia speculativa sono insostenibili! La Critica impietosa ricaccia la religione fuori dal conses-so scientifico!
Kant – sostiene Schopenhauer -, al pari di Hume, deve però cercare di mitigare gli effetti delle sue conclusioni, sconvolgenti e dirompenti per i suoi tempi, e così si piega alla ragion pratica. Viene fondata una fede senza conoscenza giusto perché la gente abbia in mano qualcosa di concreto. Kant dà così vita “a una creatura mostruosa quale una dottrina teologica valida soltanto praticamente”. In-somma, Kant riporta l’esistenza di Dio nella sola sfera morale, senza fondamenta teoretiche.
Per attenuare quanto poteva esservi di scandaloso nella sua critica di tutta la teologia speculativa, Kant vi aggiunse un’affermazione: anche se l’esistenza di Dio avesse dovuto restare indimostrata, era altrettanto impossibile dimostrare la sua inesistenza. Con ciò, molti si tranquillizzarono, senza accorgersi che Kant, con finta ingenuità, aveva ignorato che affermanti incumbit probatio, e, inoltre, che il numero delle cose di cui non è possibile dimostrare l’inesistenza è infinito. (O si crede o si pensa)
Ecco allora grandi professori e stimati professorini tentare le ultime difese: Kant non ha inteso negare Dio, ma piuttosto mettere in discussione la dimostrabilità razionale della sua esistenza. Kant riterrebbe che la ragione umana non possa dimostrare né l’esistenza di Dio, né la sua non-esistenza. Non s’accorgono che il più, ormai, è fatto. L’onore della prova spetta a chi afferma! La religione è relegata alla fede e questo basta a renderla soggetta ai capricci della doxa! Non solo, sarà difficile senza l’aiuto di una qualche ragione distinguere il grano dalla pula; senza un filtro sarà difficile che non passi qual-siasi cosa!
Certamente la religione, come abbiamo detto, sorge da una esigenza reale. Se vi fosse un uomo senza bisogno alcuno non vi sarebbe neanche la necessità di un Dio. In questo senso le religioni non sono affatto un prodotto naturale ma artificiale.
Il cuore, cioè la volontà, ha bisogno di sperare nell’assistenza di qualcosa di onnipotente e quindi di so-prannaturale, e di invocarla: si ipostatizza un dio perché è necessario pregare, non viceversa [cioè per-ché vi si creda a priori].
Ancora, ogni teismo è antropomorfismo nel senso che Dio è immagine dell’uomo: ha sentimenti uma-ni, ha una volontà fornita di intelletto che fa da guida. Questi tratti sono indispensabili nell’elaborazione del concetto di Dio in quanto un dio che prescinda da queste caratteristiche non sa-rebbe un dio esterno e personale, capace, cioè, di poter intervenire nel tessuto del mondo e modificar-lo attraverso il nostro sacrificio, la supplica, la preghiera. Un Dio che non fosse ‘personale’ sarebbe banalmente una legge di natura!
D’altra parte, sarcasticamente, un dio personale sarebbe davvero un bel ‘tipo’. Sprezzante, Schopen-hauer dice:
Dovrebbe, veramente, essere un dio sconsiderato quello che, per divertirsi, non sapesse trovare niente di meglio che trasformarsi in un mondo come questo. (O si crede o si pensa)
Un mondo imperfetto, pieno di dolore e sofferenza.
Se un dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere quel dio, perché il dolore mi strazierebbe il cuore.
A tratti, in consonanza con Feuerbach, Schopenhauer parla di un processo di ipostatizzazione di Dio. Il concetto di Dio pone all’esterno quanto è all’interno: “dio’ è essenzialmente un oggetto e non il sog-getto: non appena si pone un dio, quindi io non sono niente”.
La religione, secondo Schopenhauer, mina poi le basi per un vero principio etico e con grande acume mette in evidenza il conflitto tra teismo e morale. Il teismo abolisce la libertà morale e l’imputabilità giacchè con “un essere che esiste ed è quello che è in quanto opera di un altro, non si può pensare né a colpe né a meriti”. Insomma, l’imputabilità presuppone in se stessa la causa e il principio del proprio essere: l’aseità!
Certo, la religione risponde ad un bisogno metafisico dell’uomo – “la religione è la metafisica del po-polo” –, ma essa è un semplice, limitato, primitivo stadio di risposta a questo bisogno umano, schema-tismo adattato ai bisogni e alle facoltà intellettuali della massa. La religione è, quindi, una stampella per la patologica debolezza della maggior parte degli uomini.
Ora, lo stesso bisogno metafisico nella religioni viene bloccato, delimitato, paralizzato, irrigidito nei suoi dogmi e non vi trova soddisfazione che il popolo incolto, ad un bassissimo livello di conoscenze.
«Teologia e filosofia» disse, «sono come i due piatti della bilancia. Quanto più si abbassa l’uno, tanto più si alza l’altra. Quanto più nel nostro tempo cresce la miscredenza, tanto più diventa grande il bisogno di filosofia, di metafisica; e allora devono venire da me.» (O si crede o si pensa)
La religione è quella conoscenza adatta all’infanzia dell’umanità. Le religioni sono necessarie per il popolo ma quando pretendono di conoscere la verità bisogna assolutamente fermarle in questo loro delirio.
Le conoscenze che, in ogni campo, aumentano di giorno in giorno e si estendono sempre più in tutte le direzioni, allargano l’orizzonte di ogni individuo nell’ambito dei suoi particolari interessi, e lo allargano a tal punto che, fatalmente, esso finirà per raggiungere un’ampiezza tale che al suo contatto i miti che co-stituiscono l’ossatura del cristianesimo rinsecchiranno, e non offriranno più appiglio alla fede. La religio-ne è come il vestito di un bambino quando il bambino è cresciuto: non gli va più bene, e non c’è niente da fare: il vestito si squarcia. Fede e conoscenza rinchiuse nella medesima testa non vanno d’accordo; ci stanno come un lupo e una pecora chiusi nella medesima gabbia: e la conoscenza è il lupo che minaccia di divorare la vicina. (O si crede o si pensa)
Ma, ancora oggi, sedicenti filosofi e professori che non conoscono l’ABC della filosofia e del metodo filosofico, la riducono costantemente a insulsa teologia, a spaccio della mitologia ebraico-cristiana, e si attardano ancora su Dio e i suoi attributi e su come abbia ‘concepito’ tutta questa ‘valle di lacrime’. Continuano la litania che l’argomento della filosofia è l’Assoluto. Ebbene, essi non sono che asini! Il mondo è il problema della filosofia!
I filosofi da strapazzo non conoscono neppure il problema della filosofia. Pensano che esso sia Dio. Da lui partono, come se fosse un dato certo, con lui hanno sempre a che fare: se egli sia nel mondo o fuori del mondo, se abbia una coscienza propria o se si debba servire di quella degli uomini, e simili buffonate a non finire.
Asini, il mondo, il mondo è il problema della filosofia, il mondo e nient’altro! (O si crede o si pensa)
Il rifiuto dell’ottimismo o la critica all’Occidente
Schopenhauer si pone sulla stessa lunghezza d’onda dei cosiddetti ‘maestri del sospetto’ – Marx, Nie-tzsche e Freud – che cercano di portare a fondo, attraverso la tecnica dello smascheramento, le impo-stazioni ideologiche ingannevoli che proprio il filosofo ha il dovere di rivelare in modo da renderne evidenti le basi.
La critica dell’ottimismo è una critica all’Occidente che, schematicamente, si dipana attraverso il rifiu-to dell’ottimismo cosmico, sociale e storico.
1) Il rifiuto dell’ottimismo cosmico.
La cosa in sé è la Volontà irrazionale e senza scopo. La vita è forza irrazionale, il cosmo teatro del-la a-logicità.
Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirur-giche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, per campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria […] certamente finirebbe anch’egli con l’intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibile. […] A me l’ottimismo, quando non sia per avventura vuoto ciaciar […] sembra non pure un pensare assurdo, ma anche iniquo, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall’umanità. (Il mondo … par. 59)
Il sistema hegeliano, come la religione in generale, non è che un tentativo consolatorio, e perciò falso, di lenire il dolore. Il tentativo hegeliano di riproporre un cosmo razionale e un’armonia che si faccia valere attraverso le mediazioni dialettiche è una menzogna che si inserisce in un puro ten-tativo consolatorio.
Dimensione puramente consolatoria è in definitiva la religione, che non è che “metafisica per il popolo.
Schopenhauer si pone, dunque, contro qualsiasi ottimismo cosmico basato sull’idea di un mondo perfetto regolato da un essere superiore.
Si gettano, così, le basi per un pensiero fortemente ateo. D’altra parte, come sarebbe possibile che un Dio perfetto abbia creato un mondo imperfetto, a tal punto colmo di irrazionalità e dolore?
Se un Dio ha creato questo mondo, io non vorrei essere Dio; l’estrema miseria del mondo mi straziereb-be il cuore. (Il mio oriente)
2) Il rifiuto dell’ottimismo sociale.
Schopenhauer è convinto che l’uomo sia per sua natura conflittuale, nonostante egli abbia cercato di nascondere questa sua inclinazione col progredire della civiltà.
Per questo motivo Schopenhauer è contro quella che egli chiama la menzogna della bontà connatu-rata all’uomo. Gli uomini sono mossi dal desiderio di sopraffarsi reciprocamente, e si ritrovano a vivere insieme non tanto per predisposizione caratteriale quanto per puro bisogno: insomma, si tratta dell’homo homini lupus e della necessità del contratto delineato da Thomas Hobbes.
E lo Stato, icona hegeliana dell’eticità e della razionalità umana, si riduce a pura barriera contro gli istinti dei singoli, sempre pronti ad aggredirsi l’un l’altro.
Vi è dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva che attende solo il momento propizio per scatenarsi e infuriare contro gli altri. […] Come l’uomo si comporti con l’uomo è mostrato, ad es., dalla schiavitù dei neri […] Ma non v’è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o in altre fabbriche all’età di cinque anni, e d’allora in poi sedervi prima per dieci, poi per dodici, infine per quattordici ore al giorno, ed eseguire lo stesso lavoro meccanico, significa pagar caro il piacere di respirare. (Parerga e paralipome-na, II)
3) Il rifiuto dell’ottimismo storico.
Schopenhauer è fortemente polemico nei confronti di qualsiasi tipo di storicismo. Egli è “disertore d’Europa e della sua fede nella storia” (M. Scheler). E’ l’unico, tra i suoi contemporanei, a non condividere la fiducia, per certi versi smodata, nel progresso e, appunto, nella storia. Schopen-hauer è in ciò avvisaglia di una crisi che porterà fino al nichilismo: è l’anima critica della cultura occidentale.
La storia non è una vera scienza, ma piuttosto una mera catalogazione dell’individuale, poiché essa non può poggiarsi su leggi generali o concetti che fungano da “assiomi”. Infine, da qualsiasi punto di vista, essa si rivela, in ultima analisi, poco utile. Se, infatti, si dà per assodato che l’uomo sia mutevole nel tempo (concetto al quale Schopenhauer è avverso), allora non vi è alcuna possibilità di ottenere qualche insegnamento dalle sue azioni passate, poiché il suo modo di pensare e i motivi che lo animano saranno destinati a un continuo cambiamento. Se invece si riescono a cogliere i le-gami di fondo tra le varie fasi della storia, se si riesce cioè a comprendere che l’animo dell’uomo è in qualche modo caratterizzato da tratti immutabili, essa non diventa altro che una continua con-ferma della propria ripetitività, per cui è insensato continuare a tenerla in conto come scienza.
Per Schopenhauer, quindi, la storia può essere considerata mutevole solo in superficie ed essa è, per il resto, nient’altro che una “monotona sonata”. Oltre le apparenze “non vi è nulla di nuovo sotto il sole” (Ecclesiaste, 1, 10); la storia dell’uomo nei suoi tratti salienti presenta sempre la stessa riproposizione di tratti eterni.
Mentre la storia ci insegna che in ogni tempo avviene qualcosa di diverso, la filosofia si sforza di innal-zarci alla concezione che in ogni tempo fu, è sarà sempre la stessa cosa. (Il mondo … Supplementi, cap. 38)
In questo senso, allora, è sufficiente leggere solo Erodoto per addottorarsi in storia!
Bisogna quindi passare dalla storia alla filosofia della storia, il cui compito è offrire all’uomo la coscienza di sé e del proprio destino.
“La vita è dolore e la storia è cieco caso. Il progresso è un’illusione”: la storia non è, come pre-tende Hegel, razionalità e progresso; ogni finalismo e qualsiasi ottimismo sono ingiustificati.
La liberazione dal dolore
Poiché per Schopenhauer la vita è sostanzialmente dolore, egli afferma che la volontà di vivere, la brama, viene poco a poco rifuggita dall’uomo stesso.

Nella vita umana, come in ogni cattiva mercanzia, il lato esterno è mascherato con falso splendore: sem-pre si cela ciò che soffre; mentre ciascuno quanto più interna contentezza gli manca tanto più desidera nell’opinione altrui passare per felice. (Il mondo … par. 59)
Come si può evincere da tale passo, Schopenhauer riprende tutta la tradizione orientale (“Esistere è soffrire”) e platonica (“È meglio non essere nati piuttosto che vivere”).
Il suicidio può essere un mezzo per sfuggire al dolore?
Una plastica rappresentazione di questa impostazione possiamo scorgerla, da una parte, nella visione religiosa, dall’altra, ad es. nello stoico Seneca. Per la religione la vita è un dono di Dio e, dunque, a Lui spetta toglierla. La posizione senecana è cristallina quanto ‘tagliente’: “Dire ciò significa non accorger-si che si chiude la via alla libertà […] Ti piace la vita? Vivi. Non Ti piace? Puoi tornare donde sei ve-nuto”. (Lettere a Lucilio, n. 70)
Schopenhauer bypassa entrambe queste impostazioni ritenendo che il suicidio non è percorribile per due motivi: a) “il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte afferma-zione della volontà stessa” in quanto il suicida “vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate” (Il mondo… par. 69); b) la morte di un singolo uomo è semplicemente l’eliminazione di una manifestazione fenomenica della volontà di vivere, mentre la volontà in sé con-tinuerà a rinascere nell’animo di mille altri uomini, nella specie.
Non ci si sottrae al dolore ma lo si accetta “affinchè esso possa contribuire a spegnere la volontà di vivere”. (par. 69) L’uomo ha come unica via d’uscita la liberazione dalla stessa volontà di vivere, che deve farsi noluntas (non-volontà). Quando l’uomo, inabissandosi nel proprio intimo, arriva a capire che la realtà è volontà e che egli stesso è volontà, allora è pronto per la sua redenzione, e questa si po-trà ottenere “solo col cessare di volere”. La volontà può sopprimere se stessa non con la violenza fisi-ca ma con la noluntas!
Ci si può liberare dal dolore e dalla noia, sottrarsi alla catena infinita dei bisogni, attraverso l’arte, la pietà e l’ascesi.
1) L’arte
L’arte, secondo Schopenhauer, è il primo passo del percorso salvifico dell’uomo, in quanto conoscen-za libera e disinteressata, ed è quindi un gradino sopra la scienza, irrigidita nei limiti delle forme di spazio e tempo.
Nell’esperienza estetica, infatti, l’individuo si stacca dalle catene della volontà, si allontana dai suoi desideri, annulla i suoi bisogni: non guarda gli oggetti per la loro utilità nel quotidiano. L’uomo, nell’esperienza estetica, si annienta come volontà e si trasforma in puro occhio del mondo, si immerge nell’oggetto e dimentica se stesso e il suo dolore.
Le arti si occupano, più che delle cose contingenti, delle idee eterne, cogliendo gli aspetti immutabili della realtà in una visione in chiave quasi platonica. La purificazione dell’uomo avviene proprio a par-tire dalla contemplazione di tali idee: l’uomo, contemplando la vita dall’esterno piuttosto che vivendo-la, viene esonerato dal dolore, dal tempo e dallo spazio, dalla sua stessa volontà, diventando non più singolo, ma figura dell’intera umanità, occhio del mondo.
Nell’intuizione estetica, l’intelletto infrange la sua servitù alla volontà, non è più lo strumento che ne procura i mezzi per soddisfarla, ma puro occhio contemplante.
La forma più bassa di arte è l’architettura, che è manifestazione della volontà attraverso la materia inorganica. Vengono poi la scultura, la pittura e la poesia, manifestazioni attraverso idee appartenenti al mondo animale, vegetale e umano. Ai vertici abbiamo la tragedia, che è un’autorappresentazione del dramma della vita, e la musica, considerata vera e propria “metafisica dei suoni”, in quanto stru-mento capace di metterci in contatto, al di là della ragione, con le radici dell’essere.
Bisogna notare come Schopenhauer consideri l’arte come uno strumento che può estraniare l’uomo dall’elemento propriamente naturale: egli vede nell’arte una materializzazione della cultura umana che può sganciarci dal dolore del mondo; una costruzione puramente umana con cui noi possiamo fare a meno degli elementi pratici. L’arte è la dimensione in cui possiamo tentare di essere noi stessi, in cui l’uomo tenta di riappropriarsi della propria umanità.
Diversamente da quella brama di vivere, che è istintiva, c’è l’arte con cui l’uomo riesce ad essere ef-fettivamente animale culturale perché si sgancia in maniera disinteressata dai bisogni quotidiani per in-serirsi in una situazione culturale completamente diversa in cui si cerca l’oscuramento di una coscien-za dolorosa. L’arte, dunque, è liberatrice.
Questi momenti felici della contemplazione estetica in cui ci sentiamo liberati dalla tirannia furiosa della volontà, però, sono istanti brevi e rapidi. L’arte dunque non è una via duratura per la liberazione, ma temporanea, un breve incantesimo: essa è allora semplicemente conforto.
2) L’etica della pietà
L’etica è superiore all’arte in quanto implica un impegno a favore del prossimo. Il suo punto di forza sta nella vittoria sull’egoismo che è insito nell’uomo. Essa nasce da un sentimento di ‘com-passione’, ovvero di empatia verso le sofferenze altrui, che vengono sentite, quindi, come proprie.
Questa ‘compenetrazione’ dell’altro permette di sperimentare l’unità metafisica di tutti gli esseri an-dando a costituire, di fatto, la base della coscienza umana. E’ un’unità totale in quanto tormentati e tormentatori sono in realtà congiunti, poiché anche i malvagi soffrono attraverso il rimorso e l’angoscia per i loro misfatti.
La morale si divide in due fasi distinte, le virtù cardinali di giustizia e carità.
La prima ha carattere negativo di fondo, in quanto non è altro che astensione dal male e riconoscimen-to dell’uguaglianza degli altri con noi stessi. La giustizia, infatti, dà, sì, un colpo all’egoismo, ma fa considerare gli altri come distinti da sé e per questo non abbatte quel principium individuationis che fonda l’egoismo dell’uomo e lo contrappone agli altri. Bisogna oltrepassare la giustizia e avere il co-raggio di eliminare ogni distinzione tra la nostra individualità e quella degli altri, aprendo gli occhi sul fatto che tutti siamo impastati della medesima sventura.
Solo la seconda fase, quindi, ha effettivamente valore positivo, in quanto rappresenta la volontà attiva di compiere il bene, ed è quindi amore autentico verso l’altro; il suo grado più alto consiste nell’assumere su di sé l’intero dolore cosmico, facendosi carico delle sofferenze di ogni essere. Bontà che è, dunque, compassione, un sentire l’altrui dolore attraverso la comprensione del nostro: “ogni amore (agape, charitas) è compassione”. E’ perciò superiore ad ogni forma di eros che è mosso da un principio egoistico.
Ed è proprio la compassione che Schopenhauer pone a fondamento dell’etica. In ogni caso, però, an-che la pietas, cioè il compatire, è pur tuttavia un patire. E la via per sradicare in modo decisivo la vo-lontà di vivere, e quindi il dolore, è la via dell’ascesi, quell’ascesi che fa sentire Schopenhauer vicino ai saggi indiani.
3) L’ascesi
L’ascesi, il grado più alto di liberazione raggiungibile dall’uomo, si presenta migliore dell’etica, poiché quest’ultima, pur rappresentando una vittoria sull’egoismo dell’uomo, è ancora legata alla vita terrena.
L’ascesi nasce dall’orrore dell’uomo per il mondo colmo di dolore e per la sua stessa volontà di vive-re. Egli, infatti, cerca in ogni modo di estirpare quest’ultima da sé stesso tramite “l’astensione del pia-cevole e la ricerca del piacevole, l’espiazione e la macerazione spontaneamente scelta”.
L’ascesi, quindi, è caratterizzata da una serie di tappe: castità, povertà, rinuncia ai piaceri, digiuno, sa-crificio, umiltà... Insomma, da qualunque cosa possa liberare l’uomo dalla sua prorompente voglia di vivere. Con l’atto ascetico, infatti, l’uomo costringe la sua coscienza, la sua natura, a comprimersi af-finché si sganci dall’elemento naturale, che agisce a sua insaputa, per cercare di “redimersi”. Schopen-hauer crede che il primo gradino per arrivare a questa macerazione della coscienza sia proprio la casti-tà perfetta, poiché è , secondo una lunga tradizione, uno degli strumenti con cui si fustiga la coscienza e si cerca di padroneggiarla.
La soppressione della volontà di vivere, di cui l’ascesi è lo strumento, è l’unico atto di libertà possibile per l’uomo, in quanto egli altrimenti non sarebbe altro che un semplice anello della catena della causa-lità. Se invece questi riesce a separare la volontà di vivere da sé stesso, egli può sottrarsi dalla causalità stessa. L’unico momento in cui l’uomo è libero è quello in cui rinnega la sua essenza naturale perché afferma in massima parte la sua potenza soggettiva di essere contro e di essere oltre la natura che lo gestisce.
Il punto più alto dell’ascesi è rappresentato, coerentemente con la visione atea di Schopenhauer, non dall’unione con un Dio, ma piuttosto dal raggiungimento del nulla, del nirvana di stampo buddhista. Non trova spazio l’insistere sul rapporto con la filosofia indiana che viene, in genere, sopravvalutata. In effetti lo stesso Schopenhauer ha, e a più riprese, smentito un rapporto stretto e ancor più genetico con la filosofia indiana. Il suo è un rapporto che, indubbiamente, insiste sulle somiglianza, ma l’origine, l’elaborazione della filosofia di Schopenhauer è tutta interna al pensiero Occidentale (I. Vec-chiotti). Non è un caso che lo stesso principio buddistico del Nirvana viene descritto anche nei termini dell’estasi di Plotino, di Scoto Euriugena, di Meister Eckhart.
Il rimedio contro il dolore non può essere che la negazione della volontà di vivere, cioè la cosciente, libera autonegazione della volontà; la sua totale assenza.
Come per il fenomeno kantiano Schopenhauer aveva ripreso il “velo di Maya”, così per l’autonegazione della volontà di vivere si rifà al Nirvana, al distaccarsi dal ciclo della vita, al “non bruciar più” nel fuoco della Volontà, dal Samsàra delle Upanishad. Non basta uscire dalla propria in-dividualità attraverso l’amore per gli altri e soffrire del dolore altrui, ma bisogna che nell’uomo sorga l’orrore per l’intimo essere del Tutto, cioè la Volontà da cui sorge il dolore. Bisogna ritirarsi dal Tutto in modo che davanti a noi resti il nulla – non nel senso del nulla in assoluto (nihil negativum), ma del nulla relativamente a qualcosa (nihil privativum cioè “niente come privazione”). E’ l’ascesi che ci por-ta davanti al nulla (relativo).
Il nulla, dunque, non è da considerarsi come un’assenza materiale del mondo, un niente, ma piuttosto una negazione del mondo stesso e della volontà che lo anima, ovvero la completa dissoluzione delle illusioni che compongono la vita dell’uomo, tra le quali vi è l’identità dell’uomo stesso come singolo, come soggetto, come io:
Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla. (Il mondo …par. 71)

CONCLUSIONI
Schopenhauer, come una melagrana ricca di semi, ha influenzato una miriade di pensatori e tratti rile-vanti del pensiero filosofico da Darwin a Freud a Nietzsche. Diventa faticoso ricapitolare complessi-vamente la sua posizione nella cultura contemporanea. La critica ha letto Schopenhauer in vari modi, finanche in chiave religiosa.
Una lettura idealistica ne ha messo in rilievo soprattutto la concezione gnoseologica della rappresenta-zione e dunque ha argomentato soprattutto sul lato puramente soggettivistico della filosofia di Schope-nhauer.
La lettura realista, invece, ha insistito sul concetto di volontà per mettere in rilievo la curvatura ‘mate-rialistica’ della filosofia del filosofo di Danzica ed è, anche, quella che sembra meglio coglierne l’intero edificio filosofico e i fecondi sviluppi.
Il concetto di volontà è certamente dominante, il vero centro propulsore della sua filosofia. Si badi, la volontà è, per Schopenhauer, il divenire delle cose prodotte senza alcuna legge. La Volontà è fuori del dominio del principio di ragione ed è quindi assolutamente senza ragione. La Volontà è fuori dalla ra-gione! Ecco il punto! Ecco il ciglio dell’abisso!
Lungo il tratto, amplissimo, che dai greci porta ad Hegel, noi abbiamo sempre concepito il divenire delle cose come il modo in cui la ragione si manifesta, si oggettiva secondo un ordine. Ora, Schopen-hauer, al contrario, ci mostra che non esiste un ordine! La stessa ragione e verità sono all’interno di un processo senza leggi e, dunque, all’interno di uno sviluppo senza direzione né senso. Ogni legge, e dunque ogni ragione e verità, si da all’interno di una dimensione fenomenica in cui si oggettiva la Vo-lontà.
Insomma, la ragione non può essere neanche il rimedio contro il dolore di un mondo che si muove verso il nulla. La Volontà non può avere alcun fine. La Volontà è impulso cieco, irrazionale, non ha un’origine, né una direzione, né uno scopo.
Schopenhauer ci mostra con ciò la verità che non riusciamo a sopportare: l’idea di un divenire che tut-to fagocita, ingoia e riporta nel nulla insensato! Da questo punto di vista, Schopenhauer, anticipando il nichilismo nietzschiano, apre lo spazio entro cui oggi ci muoviamo. Da Schopenhauer parte in maniera potente ciò che chiamiamo ‘il tramonto della ragione’ come rimedio contro il dolore che il divenire procura continuamente fluendo nel nulla insensato.
Non possiamo però non riportare la lettura che di Schopenhauer fa il filosofo G. Lukács, con l’immagine indelebile dell’Hotel Abisso che inquadra le filosofie irrazionaliste, pessimiste, nulliste fluire in una estetizzante passività reazionaria:
il nulla come prospettiva, il pessimismo come orizzonte di vita, secondo l’etica di Schopenhauer […] non può affatto impedire, e nemmeno rendere difficile all’individuo una condotta di vita piacevole e con-templativa. Anzi l’abisso del nulla, il tetro sfondo dell’assurdità dell’esistenza, non fanno che aggiungere un fascino piccante a questo godimento della vita. Questo fascino viene ulteriormente accresciuto dal fatto che lo spiccato aristocraticismo della filosofia schopenhaueriana innalza i suoi seguaci, nella loro immaginazione, di gran lunga al di sopra di quella plebe miserabile che è così ottusa da lottare e soffrire per un miglioramento delle condizioni sociali. Così il sistema di Schopenhauer, costruito, dal punto di vi-sta architettonico formale, con molto impegno e senso della composizione, si erge come un elegante e moderno hôtel fornito di ogni comodità, sull’orlo dell’abisso, fra piacevoli festini e produzioni artistiche, non può che accrescere il gusto di questo comfort raffinato (La distruzione della ragione, cap. II, 4).
Il pericolo è reale e, forse, Leopardi maggiormente si sottrae a questo destino con un più intenso inte-resse ‘civico’ come testimonia C. Luporini in Leopardi progressivo.
Dentro e dietro i fumi delle promesse della grande industria, di sorti progressive dell’Occidente, Scho-penhauer taglia le menzogne ideologiche e mostra che i fasti, così affascinanti, nascondono miserie, infelicità, orrore. In ciò, Schopenhauer procede ad una vera e propria demistificazione di concetto-menzogna.
In questa prospettiva il pessimismo schopenhaueriano non è altro che l’aver descritto la vita com’è, realisticamente, anche quando la sua penna affonda e fa male:
Noi siamo soltanto concime per futuri meloni.
La stessa storia, come narrazione dotata di senso, si ritrova svuotata.
Infine, è piacevole ricordare uno Schopenhauer sarcastico e affilatissimo: distruttore di dei!
Asini, il mondo, il mondo è il problema della filosofia, il mondo e nient’altro!
BIBLIOGRAFIA
Opere di Schopenhauer
Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, 2009
Schopenhauer, O si pensa o si crede. Scritti sulla religione, Rizzoli, 2011
Opere su Schopenhauer
I. Vecchiotti, Introduzione a Schopenhauer, Laterza, 2005
SITI WEB:
http://www.emsf.rai.it/gadamer/interviste/24_schopen/schopenhauer.htm

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