Umberto Galimberti vita e scritti

Umberto Galimberti vita e scritti

 

 

 

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Umberto Galimberti vita e scritti

 



~ GALIMBERTI
~ La vita e le opere
~ Psiche e techne
~ L’uomo e la tecnica
~ La tecnica è il nostro mondo
~ La tecnica è l’essenza dell’uomo
~ La genesi ‘strumentale della tecnica
~ La trasformazione della tecnica da ‘mezzo’ in ‘fine’
~ La revisione degli scenari storici
~ La soppressione di tutti i fini nell’universo dei mezzi
~ La fine della dialettica servo-padrone
~ La revisione delle categorie umanistiche
~ La tecnica e il nichilismo
~ L’inadeguatezza della comprensione umana
~ Il nichilismo e i giovani
~ CONCLUSIONI
GALIMBERTI
La vita e le opere
Nato a Monza nel 1942, Umberto Galimberti conosce e frequenta regolarmente K. Jasper. Allievo di E. Severino è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore as-sociato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario all’università Ca’ Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia e Psicologia dinamica.
Membro ordinario dell’International Association Analytical Psychology è, inoltre, vicepresidente dell’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica “Phronesis”. Editorialista di Repubblica.
Opere importanti: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente (1975), Psichiatria e Fenomenolo-gia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo (1984), e Psiche e techne. (1999), La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, (2005); L’ospite inquie-tante. Il nichilismo e i giovani (2007).
Psiche e techne
U. Galimberti è uno dei più autorevoli filosofi italiani che ha ampiamente studiato l’epoca della tecnica e i cambiamenti epocali che la connotano mappandola a partire da varie angolazioni e sfaccettature.
Psiche e techne. L’uomo nella età della tecnica, del 1999, è un ampio saggio che descrive la tecnica in tutti i suoi aspetti: partendo da una definizione chiara ed esaustiva della tecnica, spiega, poi, come essa sia cambiata, dalla grecità fino ai giorni nostri, e ridefinisce tutta quella costellazione concettuale umanista che ancora ci attardiamo ad usare - uomo, individuo, politica, verità, bellezza - alla luce di questo nuovo ambiente che è la tecnica.
L’uomo e la tecnica
Già Heidegger aveva notato come la tecnica nasconda in se stessa il pericolo che l’uomo perda i suoi connotati umani e divenga sempre più un ente tra gli enti, una cosa tra le cose, in un processo che spesso non è percepito dall’uomo stesso. Nonostante Heidegger veda nell’Esserci qualcosa di diverso da una semplice presenza, anzi, una posizione privilegiata dell’uomo rispetto all’ente, nel senso in cui egli è ascoltante e pastore dell’essere e unico capace di profferire la domanda: Che cos’è l’essere? L’uomo non può scavalcare l’essere. Come un uomo non è capace di saltare la sua ombra così l’Esserci non è capace di saltare l’epoca tecnica che si configura, dunque, come un dominio completo dell’essere, vale a dire della tecnica, sull’uomo, privato della sua possibilità di progettarsi nella libertà.
Galimberti, con Heidegger, afferma che l’uomo non è ancora in grado di comprendere l’ambiente tecnico in cui vive tant’è che ancora malamente fa uso di categorie ormai vetuste, rinsecchite che più non riescono a cogliere sensatamente alcunché. L’uomo in questa impreparazione complessiva, a cogliere l’ambiente in cui viviamo - difetto di pensiero meditante come direbbe Heidegger - si attarda ancora in figurazioni concettuali classiche e classicheggianti, frutto di lunghissime radici storiche, e non s’accorge di camminare con morti: morte figurazioni concettuali umanistiche.

Portiamo ancora in noi i tratti dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L'età della tecnica ha abolito questo scenario "umanistico", e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande.
Già… le domande di senso rimangono inevase. L’orizzonte di senso è cancellato.
“Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte?” diceva Nietzsche nella Gaia scienza. La tecnica è la spugna che ha cassato l’orizzonte umanistico! L’ambiente è cambiato! Il “bagaglio” cultu-rale di tipo umanistico e pre-tecnologico, non è più capace di dare risposte e neanche di capire dove ci troviamo. Le domande di senso sono poste all’indirizzo sbagliato. La tecnica non è iscritta in nessuna dimensione di senso: la tecnica, semplicemente, funziona, e ciò è il suo fine.
La tecnica non ha uno scopo, non tende ad un fine, non è freccia verso nessun centro. La tecnica non si muove verso nessuna dimensione soteriologica, salvifica. Essa, semplicemente, funziona e deve es-sere efficiente.
La tecnica è il nostro mondo
Siamo portati solitamente a pensare che la tecnica sia un elemento neutrale, che possa essere impiegato dall’uomo nel bene o nel male; ad esempio, una pistola, nell’immaginario comune, possa essere im-piegata al fine di garantire la giustizia, o mezzo per realizzare i più efferati crimini a seconda di chi la utilizza.
Secondo Galimberti invece la tecnica non è neutrale, ma impone direttamente un ambiente. L’idea che la tecnica sia neutrale è un’idea ingenua che intende la tecnica ancora come semplice mezzo. La tecnica, ormai, è il nostro ambiente nel senso che crea un mondo con certe caratteristiche che dettano il nostro modo di stare al mondo. Non siamo occhi puri sul mondo! Essendo la tecnica il nostro ambiente è la condizione del nostro vivere e operare: la condizione della nostra esistenza e la modalità all’interno della quale noi possiamo vivere. Abitiamo la tecnica! Irrimediabilmente e senza scelta. Tale abitare non è mai neutrale giacchè l’abitare è una modalità esperienziale. La televisione, ad esempio, non è semplicemente un mezzo neutro, ma, come aveva intuito P. Pasolini, ci fornisce una modalità comunicativa a-dialettica, unidirezionale, ex-cathedra che è alla base dei processi di omologazione della società di massa.
Non siamo infatti esseri immacolati ed estranei, gente che talvolta si serve della tecnica e talvolta ne pre-scinde. Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per esprimersi.
L’uomo non è un ente generico ma storicamente determinato che trova il mondo che le generazioni precedenti gli hanno lasciato con materiali, tradizioni culturali con cui continua a produrre e riprodurre le condizioni della sua esistenza. (Marx).
La tecnica è l’essenza dell’uomo
La definizione, sintetica e precisa, che ci dà Galimberti del concetto di “tecnica”, offre numerosi spun-ti di riflessione:
Con il termine "tecnica" intendiamo sia l'universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compon-gono l'apparato tecnico, sia la razionalità che presiede il loro impiego in termini di funzionalità ed effi-cienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello "spirito" umano, ma come "ri-medio" alla sua insufficienza biologica.
Quando parliamo di tecnica, dunque, bisogna tener ben presente il duplice carattere, le tecnologie e la razionalità tecnica.
La tecnica è espressione non tanto dello spirito umano, ma della insufficienza biologica. L’istinto ha abbandonato l’uomo e lo ha lasciato solo, innanzi ad una natura che si erge maestosamente contro. E’ proprio questa latitanza dell’istinto, questa debolezza dell’apparato istintuale la forza dell’uomo. Tut-ta la nostra cultura che poi si concentra nella tecnica è un’elaborazione che parte da un’insufficienza biologica; dal momento che non siamo come un qualsiasi altro animale, rispondiamo agli stimoli esterni con azioni più complesse e modi più articolati, che mai possono essere definiti istintuali. L’uomo ha dovuto rispondere alla complessità della natura e al terrore che incute con una sua orga-nizzazione razionale, e proprio grazie alla deficienza dei suoi istinti, è riuscito ad adattarsi ai vari am-bienti, superando, da un punto di vista evolutivo, gli altri animali.
Giuste le tesi di Schopenhauer sull’”animale malaticcio” e di Nietzsche sull’”animale non stabilizzato”, questa insufficienza è stato il punto archimedeo che ha dato all’uomo la tecnica.
In questo senso è possibile dire che la tecnica è l'essenza dell'uomo, non solo perché, a motivo della sua in-sufficiente dotazione istintuale, l'uomo, senza la tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché, sfruttando quella plasticità di adattamento che gli deriva dalla genericità e non rigidità dei suoi istinti, ha potuto, attraverso le procedure tecniche di selezione e stabilizzazione, raggiungere "culturalmente" quella selettività e stabilità che l'animale possiede "per natura".
La genesi ‘strumentale’ della tecnica
Se la tecnica è l’essenza dell’uomo, allora definire la tecnica uno strumento è un errore.
Se condividiamo la tesi che la tecnica è l'essenza dell'uomo, allora il primo criterio di leggibilità che va mo-dificato nell'età della tecnica è quello tradizionale che prevede l'uomo come soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione. Questo poteva essere vero per il mondo antico, dove la tecnica si esercitava entro le mura della città, che era un'enclave all'interno della natura, la cui legge incontrastata regolava per intero la vita dell'uomo. Per questo Prometeo, l'inventore delle tecniche, poteva dire: "la tecnica è di gran lunga più debole della necessità".
Dunque, se nel mondo antico era valido il principio per il quale era l’uomo ad essere soggetto e la tec-nica un mero strumento, ciò non è più valido per quanto riguarda il mondo moderno. Se, infatti, nel mondo greco la tecnica era “di gran lunga più debole della necessità” ora non è più così.
Allora la tecnica, da strumento nelle mani dell'uomo per dominare la natura, diventa l'ambiente dell'uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce secondo le regole di quella razionalità che, misurandosi sui criteri della funzionalità e dell'efficienza, non esita a subordinare alle esigenze dell'apparato tecnico le stesse esigenze dell'uomo.
Rispetto al mondo antico la tecnica ha preso il sopravvento sull’uomo e da semplice suo strumento è divenuta il suo ambiente, ciò con cui egli deve misurarsi, rapportarsi, in cui deve vivere e respirare.
Si è già detto che la tecnica va intesa in duplice senso, sia come l’insieme vero e proprio dei mezzi ma-teriali, sia come razionalità tecnica, cioè come ragione e criterio tecnico per il quale è necessario rag-giungere il massimo dei risultati con il minimo dispendio di energie e sforzi (efficienza). La razionalità tecnica si configura e si declina concretamente come procedura tecnica. Giacché la tecnica è l’ambiente dell’uomo e, al contempo, si misura secondo i criteri di funzionalità ed efficienza, essa non esita a subordinare quelle che sono le esigenze umane alle necessità tecniche della procedura.
La tecnica infatti è iscritta per intero nella costellazione del dominio, da cui è nata e al cui interno ha potu-to svilupparsi solo attraverso rigorose procedure di controllo che, per esser davvero tale, non può evitare di essere planetario. Questa rapida sequenza era già chiaramente intravista e annunciata dalla scienza moderna al suo primo sorgere quando, senza indugio e con chiara preveggenza, F. Bacone toglie ogni equivoco e proclama: "scientia est potentia".
Già Bacone, quando diceva “la scienza è potenza”, rendeva evidente la differenza quantitativa-qualitativa che era avvenuta in campo tecnico-filosofico: la filosofia, che ai suoi albori aveva predica-to una scienza che fosse “sapere-sapore”, priva di altri scopi all’infuori del sapere intellettuale, curiosi-tà che deriva dalla meraviglia (Aristotele) giunge alla consapevolezza che il sapere tecnico si traduce in potenza capace di trasformare la natura e di metterla in produzione.
La trasformazione della tecnica da ‘mezzo’ in ‘fine’
Tuttavia ai tempi di Bacone “i mezzi tecnici erano ancora insufficienti” e, dunque, il margine di auto-nomia che la tecnica lasciava all'uomo era ancora abbastanza ampio tale che l’uomo “poteva ancora rivendicare la sua soggettività e il suo dominio sulla strumentazione tecnica”. Ma, come il buon vec-chio Hegel insegnava con la sua dialettica formula della trasformazione della quantità in qualità, la quantità tecnica si è trasformata in qualità tecnica: il mero aumento tecnico in ambiente. Oggi il domi-nio della tecnica è così ampio e vasto, così estensivo ed intensivo, che l’uomo non ha più la possibilità di sottrarsene vivendone all’interno.
Finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era inte-ramente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi dispo-nibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fi-ne a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l'acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta di-sponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la media-zione tecnica.
In un’economia di sussistenza, ove ciò che si produce è fine al soddisfacimento dei propri bisogni, ogni strumento ha una funzione esplicita, chiara e cristallina, con uno scopo ben definito. Quando pe-rò la quantità della tecnica aumenta a dismisura, subentra una trasformazione qualitativa, così che, la tecnica diventa essa stessa un fine.
È necessario disporre della tecnica in generale perché solo con essa è possibile raggiungere qualsiasi fine ci si prefigge.
Tutti i nostri scopi hanno una mediazione tecnica, ma la tecnica ha, a sua volta, un fine?
Se per noi la tecnica è divenuta uno scopo, non è altrettanto vero che essa si muova secondo una dire-zione verso un obiettivo. La tecnica vuole solo se stessa, si auto-perpetra e non ha altro scopo se non quello di perfezionarsi indipendentemente da ogni altra cosa: è essa un’auto-produzione.
Già Marx aveva descritto questa trasformazione dei mezzi in fini a proposito del denaro che, se come mez-zo, serve a produrre beni e a soddisfare bisogni, quando beni e bisogni sono mediati per intero dal dena-ro, allora il conseguimento del denaro diventa il fine, per raggiungere il quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la soddisfazione dei bisogni.
La tecnica assume le caratteristiche già descritte da Marx e attribuite al denaro, che, da mezzo di scam-bio, diviene fine dell’uomo nel momento in cui rappresenta equivalente generale che può comprare tutto e che può soddisfare ogni bisogno. La tecnica diventa equivalente generale!
E. Severino osserva che se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine che non può esser raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé.
Come non citare il Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che su questo punto schizza il concetto di denaro in modo memorabile:
Il denaro, perché possiede la qualità di comprar tutto, la qualità di appropriarsi tutti gli oggetti, è così l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua qualità è l’onnipotenza del suo essere; esso vale quindi come essere onnipotente (Manoscritti economici filosofici)
Poi riprende il grande Shakespeare con il Timone d’Atene:
Tanto di questo [oro] fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile. […] Maledetto metallo, comune bagascia del genere umano che smuove la marmaglia dei popoli.

La revisione degli scenari storici
Se l’ambiente dell’uomo è ormai la tecnica e l’uomo si esprime inevitabilmente attraverso il suo am-biente, che a sua volta non è neutrale nei confronti dell’uomo che non esiste come individuo indipen-dente, ma sempre in relazione alla storia, al modo di produzione con cui l’uomo produce e riproduce la sua esistenza, allora l’uomo si esprime attraverso la tecnica, così che anche le sue modalità espe-rienziali sono mediate da essa.
Soggetto della storia non è più l’uomo, ma la tecnica.
Se la tecnica diventa quell'orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi d'esperienza, se non è più l'esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza, allora assistiamo a quel capovolgimento per cui sogget-to della storia non è più l'uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero "strumento", di-spone della natura come suo fondo e dell'uomo come suo funzionario.
La tecnica, liberatasi dalla condizione di semplice strumento, si pone come soggetto della storia, fa-cendo della natura il suo fondo e dell’uomo un suo funzionario, portando, conseguentemente, ad un mutamento “dei tradizionali modi di intendere la ragione, la verità, l'ideologia, la politica, l'etica, la na-tura, la religione e la stessa storia”.
- La ragione.
La ragione non è più l'ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmo-logie, ma diventa procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi a disposizione e gli obiettivi che si intendono raggiunge-re.
La ragione, diremmo il Lógos, nell’epoca della tecnica, va declinata in ragione strumentale, meglio, procedura strumentale che assicura l’efficienza, ossia il procedimento più economico per ottenere, dai mezzi disponibili, il massimo risultato. Il Lógos si declina ora in con tecno-logia.
- La verità.
La verità non è più conformità all'ordine del cosmo o di Dio perché, se non si dà più orizzonte capace di garantire il quadro eterno dell'ordine immutabile, se l'ordine del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal "fare tecnico", l'efficacia diventa esplicitamente l'unico criterio di verità.
Del vecchio concetto di alétheia, intesa come verità eterna ed immutabile, non resta più nulla.
La luce scintillante di alétheia che disvela e porta in chiaro ciò che era nel buio ora piega risolutamente sull’efficace. La ben rotonda e piena verità assoluta, che faceva tremare il cuore ancora ad Hegel, sva-nisce, evapora. Verità è, semplicemente, ciò che è efficace nella procedura tecnica!
- Le ideologie.
Le ideologie, la cui forza riposava sull'immutabilità del loro corpo dottrinale, nell'età della tecnica non reggono alla dura riduzione di tutte le idee a semplici ipotesi di lavoro.
Nell’epoca della tecnica tutto viene relativizzato, nulla è più fondato. Le ideologie sono per loro stessa natura Weltaschaung troppo rigide, ampie, che poco si adattano ai continui cambiamenti e alla necessi-tà continua di corrispondere alle procedure tecniche. Esse si riducono, così, a mere ipotesi di lavoro, che hanno da dimostrare la loro efficacia nell’ambito della procedura tecnica.
- La politica.
La politica, che Platone aveva definito "tecnica regia" perché assegnava a tutte le tecniche le rispettive finalità, oggi può decidere solo in subordine all'apparato economico, a sua volta subordinato alle dispo-nibilità garantite dall'apparato tecnico.
In campo filosofico la politica ha da sempre ricoperto un ruolo di massima importanza, dal momento che uno dei fini della filosofia è quello di rendere migliori le condizioni della comunità; ogni filosofo ha delineato una politica capace di essere veicolo ed espressione del proprio sistema filosofico. Nes-suna filosofia può dirsi esente da implicazioni politiche.
La politica come amministrazione della polis a misura d’uomo e avente l’uomo come fine muta di se-gno. La tecnica ha piegato le esigenze umane alle proprie necessità, così che la politica è diventata semplice scienza dell’amministrazione tecnica.
Destra e sinistra sono divenute, politicamente, categorie superflue nell’epoca della tecnica perché l’uomo è ormai ridotto a funzionario, non più padrone dell’apparato tecnico
In questo modo la politica si trova in quella situazione di adattamento passivo, condizionata com'è dallo sviluppo tecnico che essa non può controllare e tantomeno indirizzare, ma solo garantire. Riducendosi sempre di più a pura amministrazione tecnica, la politica mantiene un ruolo attivo e quindi decisionale so-lo là dove la tecnica non è ancora egemone, o dove nella sua egemonia presenta ancora delle lacune o delle insufficienze in ordine al vincolo della sua razionalità strumentale.
- L’etica.
L’etica, come forma dell'agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo della tecnica regolato dal fare come pura produzione di risultati, dove gli effetti si addizionano in modo tale che gli esiti finali non sono più riconducibili alle intenzioni degli agenti iniziali. Ciò significa che non è più l'etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica a reperire i mezzi, ma è la tecnica che, assumendo come fini i risultati delle sue procedure, condiziona l'etica obbligandola a prender posizione su una realtà, non più naturale ma artifi-ciale, che la tecnica non cessa di costruire e render possibile, qualunque sia la posizione assunta dall'etica.
Non è più l’etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica a reperire i mezzi per realizzarli. Essa non è più un elemento che pone un obiettivo da realizzare con la tecnica, ma il procedere tecnico si è com-pletamente reso indipendente dall’etica. Il suo fine è iscritto nelle sue procedure ovvero, se le cose tecnicamente devono giungere ad un risultato, inevitabilmente sarà quello l’obiettivo. L’etica diventa serva della tecnica e la segue a distanza adeguandosi alla sua agenda. L’agenda degli argomenti tecnici non la detta più il soggetto, ma la tecnica e l’etica arranca dietro a questa lepre che sempre sfugge. Eti-ca, bioetica, ecc. a rincorrere la tecnica che non solo detta l’agenda dei ‘lavori’ ma anche i tempi e i modi di risoluzione.
[...] una volta che l'"agire" è subordinato al "fare", come si può impedire a chi può fare di non fare ciò che può? Non con la morale dell'intenzione inaugurata dal cristianesimo e riproposta nei termini della "pura ragione" da Kant, perché questa, fondandosi sul principio soggettivo dell'autodeterminazione e non su quello della responsabilità oggettiva, non prende in considerazione le conseguenze oggettive del-le azioni e, proprio perché si limita a salvaguardare la "buona intenzione", non può essere all'altezza del fare tecnico. Ma all'altezza non è neppure l'etica della responsabilità.
L’etica delle intenzioni - di cristiana memoria - non è più all’altezza dei tempi; con Max Weber si af-fermava che l’etica doveva essere tale da prevedere l’esito di un’azione. L’etica della responsabilità fa si che l’azione sia inquadrata in un sistema di riferimento non solo soggettivo-intenzionale, ma più ampio, capace, cioè, di cogliere di quella azione la sua interazione con il mondo. L’etica della respon-sabilità, dunque, significa rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni. Ovvero, nel caso dell’elemosina, mentre l’etica delle intenzioni si limita al gesto caritatevole, l’etica della responsa-bilità si preoccupa di capire anche come viene “utilizzato” il gesto di carità, se per fini etici o meno.
Il problema però, è che nell’ambito della tecnica, non si conosce il fine della tecnica. Dunque, nem-meno l’etica della responsabilità, così come quella dell’intenzione, è all’altezza della situazione storica poiché la procedura tecnica porta a scenari storici non prevedibili. La nostra capacità di previsione è notevolmente ridotta e non perché vi è un minimo di conoscenza riguardo al massimo di capacità.
Come faremo a non fare ciò che possiamo fare? Come non utilizzeremo ciò che possiamo utilizzare? Come faremo a sottrarci a questi criteri della tecnica? Come faremo a sottrarci ad un’etica in cui a det-tare i principi non sono più gli uomini ma le cose?
- La natura.
Il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca che concepisce la natura come dimora di uomini e dèi e quella giudaico-cristiana, poi ripresa dalla scienza mo-derna, che la concepisce come campo di dominio dell'uomo.
La concezione di tipo greco inquadra la natura in un tempo di tipo circolare; la natura è la dimensione all’interno del quale l’uomo greco vive. La concezione invece giudaico-cristiana, poi di tipo scientifi-ca, concepisce la natura come oggetto del consumo, come oggetto di dominio. L’uomo è al vertice di una piramide gerarchica della natura, e da tale posizione esercita il suo dominio sulla natura.
Per differenti che siano, queste due concezioni convengono nell'escludere che la natura rientri nella sfera di competenza dell'etica, il cui ambito è stato finora limitato alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza alcuna estensione agli enti di natura.
Ciò accade per un duplice motivo: sia la concezione di tipo greco, sia quella giudaico-cristiana, fino alla rivoluzione industriale, non si pongono il problema della natura e del rapporto tra natura e uomo perché la natura è ‘sovrabbondante’. Non è proprio nell’orizzonte umano un rapporto ‘etico’ con la natura. Quest’ultima è lì come presenza che l’uomo può dominare. E’ con la rivoluzione industriale che si porrà il rapporto con la natura in maniera problematica. La capacità di antropomorfizzare la na-tura e di lacerarla ad opera dell’uomo pone il problema del limite e del rispetto cioè dell’equilibrio.
Ma oggi, che la natura mostra tutta la sua vulnerabilità per effetto della tecnica, si apre uno scenario di fronte al quale le etiche tradizionali si fanno mute, perché non hanno strumenti per accogliere la natura nell'ambito della responsabilità umana.
Le etiche si fanno mute e la natura fino ad oggi non è stata mai pensata nell’ambito della responsabilità umana. Basti pensare che le riflessioni etiche riguardanti l’economia sostenibile, che tra l’altro stentano a decollare, sono relative agli ultimi quarant’anni.
- La religione.
[…] ha come suo presupposto quella dimensione del tempo dove alla fine (éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato. Solo in questa dimensione "escatologica", che iscrive il tempo in un disegno, tutto ciò che accade nel tempo acquista il suo senso. Ma la tecnica, sostituendo alla dimensione escatolo-gica del tempo quella progettuale contenuta, come scrive S. Natoli, tra il recente passato in cui reperire i mezzi disponibili e l'immediato futuro in cui questi mezzi trovano il loro impiego, sottrae alla religione, per effetto di questa contrazione del tempo, la possibilità di leggere nel tempo un disegno, un senso, un fine ultimo a cui poter far riferimento per pronunciare parole di salvezza e verità.
L’uomo, nel tempo circolare greco, era inserito nella natura e in questo tempo delle stagioni perenni trovava un senso, una culla in cui tutto aveva un posto ordinario e ordinato. Il tempo lineare di tipo cristiano era una freccia scagliata verso un obiettivo e perciò stesso dotato di senso: tutto s’impilava in una sequenza che aveva una precisa direzione di senso e le singole parti erano fotogrammi il cui senso era iscritto nel fine. Con la tecnica la religione non è più dimensione salvifica in quanto perde possibi-lità di essere guida, direzione e fine. La tecnica sostituisce il tempo escatologico con quello progettuale dove il tempo è contratto nell’oscillazione tra il reperimento dei mezzi e il loro subitaneo impiego.
- La storia.
Si costituisce nell'atto della sua narrazione che ordina l'accadere degli eventi in una trama di senso. Il re-perimento di un senso traduce il tempo in storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel flui-re insignificante del tempo. Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso.
Se l’uomo non si muove verso un obiettivo, la storia, gli eventi non hanno più senso ma sono solo ciò che accade: La storia è solo un grande minestrone di fatti, un puro accadere insensato e caotico che non ha più senso e le azioni delle grandi Nazioni non trovano più un posto in un ‘disegno’. La Città di Dio di sant’Agostino aveva messo insieme, in un tempo lineare, storia ed escatologia cristiana; la tec-nica, non avendo nessun orizzonte, fa della narrazione storica una mera sequela di fatti privi di senso immersi nel puro accadere accidentale.
Rispetto alla memoria storica, la memoria della tecnica, essendo solo procedurale, traduce il passato nell'insignificanza del "superato" e accorda al futuro il semplice significato di "perfezionamento" delle procedure.
Il passato storico non è altro per la tecnica che un sistema di procedure e il futuro semplicemente un arco per perfezionare le procedure precedenti.
L'uomo, a questo punto, nella sua totale dipendenza dall'apparato tecnico, diventa astorico, perché non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica, che consiste nella rapida cancellazione del presente e del passato per un futuro pensato solo in vista del proprio autopotenziamento.
La storia precedente viene contratta dalla tecnica in quanto il suo sguardo è esclusivamente rivolto all’immediato futuro, ma non perché il futuro abbia un senso, un fine, ma solo per perfezionare le procedure tecniche.
La fine della storia non è da intendersi, dunque, come impossibilità del succedersi dei fatti, quanto piuttosto come la perdita di un orizzonte di senso, cioè di una visione complessiva attraverso cui po-ter valutare e ordinare gli accadimenti storici.
La soppressione di tutti i fini nell’universo dei mezzi
Nella mitologia, il primo mezzo tecnico che Prometeo fornisce all’uomo ha ancora le caratteristiche di uno strumento, non di una macchina, e serve, dunque, a raggiungere semplicemente un fine. Anche la promessa biblica dice che l’uomo è destinato a un continuo e costante progresso attraverso l’uso della tecnica e il dominio sulla natura.
Insomma, la direzione è verso una libertà che significa esser sciolti da qualsiasi condizionamento.
Ora è la tecnica ad essere l’assoluto privo di qualsiasi legame!
Nell’ambiente tecnico, invece, l’uomo è assoggettato dalla tecnica ed è inconsapevole di questa sua condizione.
Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l'apparato tecnico o chi vi è semplicemente inserito, senza poter più distinguere se è attivo o è a sua volta azionato, più non si pongono la domanda se lo sco-po per cui l'apparato tecnico è messo in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe dubitare della tecnica, senza di cui nessun senso e nessuno scopo sarebbero raggiungibili, e allora la "responsabilità" viene affidata al "responso" tecnico, dove è sotteso l'imperativo che si "deve" fare tutto ciò che si "può" fare.
Il negativo è circoscritto all’errore tecnico, al guasto, al difetto. La tecnica si presenta come un intero universo di mezzi che non ha nessun fine, meglio, i suoi effetti si traducono nei suoi fini che dunque significa incremento infinito della tecnica in quanto tecnica.
Se nell’età pre-tecnologica i fini e gli scopi umani avevano ancora qualche senso per orientare l’azione ora non ha senso porsi tale problema giacchè è positivo ciò che si inscrive nell’esercizio tecnico.
Lo stesso bisogno disperato e affannoso di senso che ora si vive nell’ambito della tecnica e a cui reli-gione e psicanalisi cercano di dar risposte testimoniano che lo stesso senso, il voler a tutti i costi un senso è diventato puro mezzo in un universo di mezzi. Pertanto anche le dimensioni salvifiche della religione e della psicanalisi risultano ridotti a puri mezzi tecnici che ci permettono di trovare un contat-to con il proprio io e acquietare l’inquietudine. La fede a tutti i costi venduta porta a porta, i corsi serali sulla salute psichica sono le note evidenti di un ‘senso’ della vita diventato mezzo per vivere.
La fine della dialettica servo-padrone
Là dove il mondo della vita è per intero generato e reso possibile dall'apparato tecnico, l'uomo diventa un funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua funzionalità, per cui è possibile dire che nell'età della tecnica l'uomo è presso-di-sé solo in quanto è funzionale a quell'altro-da-sé che è la tecnica.
Nello stesso modo in cui Marx diceva che l’uomo si sente umano nelle sue funzioni bestiali e animale nelle sue funzioni umane (Manoscritti eonomico-filosofici), Galimberti avverte che l’uomo nell’età della tecnica si sente presso-di-sé quando è altro-da-sé, cioè si sente umano quando è appendice dell’apparato tecnico, mentre si ritrova spaesato nel momento in cui deve esplicare le sue funzioni più propriamente umane.
L’apparato tecnico per grandezza e autonomia si erge ora maestoso di contro all’uomo che viene ridot-to a funzionario dell’apparato tecnico.
L’alienazione tecnologica, secondo Galimberti, è sostanzialmente diversa dall’alienazione che Marx raccontava a proposito dell’alienazione del lavoro.
Quando Marx parla dell’alienazione configura questo esser altrove, questa estraneazione in una di-mensione che prevede ancora uno scenario in cui l’uomo è soggetto, protagonista, insomma, un oriz-zonte umanistico. L’uomo è ancora soggetto e la tecnica ancora pensata, vissuta come strumento. Lo scenario umanistico è ancora presente nella stessa elaborazione della dialettica storica, del materiali-smo storico dialettico, appunto, dove la storia è si influenzata, in ultima istanza, dalla struttura econo-mica, ma sono gli uomini, ancora, a fare la storia. La rivoluzione ad es. non è semplicemente il prodot-to di cause economiche ma la concomitanza di più fattori dove la soggettività della classe è elemento fondamentale. Lo stesso comunismo è un movimento reale, ma anche ciò che risolve positivamente l’alienazione giacchè risolve la contraddizione della produzione sociale e della appropriazione privata. Insomma, Marx si attarda ancora in un alveo umanistico che si riferisce ad un uomo pre-tecnologico. Nell’epoca della tecnica il capovolgimento avvenuto fa si che l’uomo è predicato della tecnica.
Dunque, il concetto di alienazione marxiano è ormai insufficiente a perimetrare la complessità dell’epoca nostra. La stessa analisi della ‘civiltà delle macchine’ cioè lo scenario della tecnica che Marx per primo profetizzò non è più idoneo a comprendere la contemporaneità.
Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con riferimento all’uomo pre-tecnologico, dove, come vuole la lezione di Hegel, il servo ha nel signore il suo antagonista, e il signore nel servo, mentre, nell’età della tecnica, non ci sono più né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui de-vono subordinarsi sia i servi sia i signori.

La fiducia nell’uomo e nella ragione ascrive Marx a una visione filosofica che ormai è considerata ve-tusta è superata dall’epoca tecnica. Per Galimberti, “l’uomo non è in grado di percepirsi più come ‘alienato’”. La dialettica servo-padrone, più specificatamente, quella capitalista-operaio marxista è sta-ta assorbita nella figura totalizzante della tecnica.
L’alienazione, infatti, può sussistere solo nel momento in cui un uomo, l’operaio, viene effettivamente espropriato di qualcosa da qualcun altro, il capitalista; in un’epoca, invece, in cui tutti sono dominati dalla tecnica, non si ha la percezione, nel sentire comune, di ciò che si sta perdendo, dunque è impos-sibile parlare della stessa alienazione. L’alienazione, insomma, ha bisogno di una figura che sente la scissione da sé mentre nell’epoca della tecnica si ha piuttosto un processo di identificazione con l’apparato tecnico che come apparato non concede nelle sue procedure altro da sé.
Si può anzi dire che la tecnica diventa l’unico ambiente possibile per l’uomo, che quindi è costretto a un processo di identificazione tecnologica.
La revisione delle categorie umanistiche
Tutte le categorie umanistiche devono essere completamente, radicalmente rifondate alla luce dell’ambiente tecnico in cui viviamo.
- L’individuo. Il concetto di individuo, faticosamente elaborato, forgiato in secoli di storia, nell’era della tecnica è destinato a dissolversi. Muore l’individuo come libertà, autonomia, consapevolezza di singolarità. Dell’individuo non rimane più nulla, solo, ancora la sua inconsistenza umbratile.
- L’identità. Il concetto di identità la cui storia si sagoma anch’essa faticosamente con l’uscire dalla appartenenza e dalla indistinzione dal gruppo, pian piano dilegua. Il riconoscimento della identità era indissolubilmente legato all’azione dell’individuo che fungeva da cartina di tornasole della essenza del singolo, ora non può essere più letta come tale. L’azione dell’individuo è completamente inserita nelle procedure tecniche sicchè essa risponde solo alla forma dell’esecuzione. Le azioni di un individuo non rivelano più la sua anima, bensì l’adeguamento dello stesso individuo all’apparato tecnico. Così è im-possibile trovare un’identità dell’individuo prescindendo dalla funzione che quest’ultimo svolge all’interno della procedura tecnica; ne consegue, quindi, che identità = funzionalità.
Mentre nell'età pre-tecnologica era possibile riconoscere l'identità di un individuo dalle sue azioni, per-ché queste erano lette come manifestazioni della sua anima, intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni dell'individuo non sono più leggibili come espressioni della sua identità […]. Eseguendole, il sogget-to non rivela la sua identità, ma quella dell'apparato, all'interno del quale l'identità personale si risolve in pura e semplice funzionalità.
- La libertà. Nell’epoca della tecnica assume un rilievo particolare la libertà come competenza che viene esercitata all’interno dei rapporti professionali e che come tali sono impersonali. La funzione che l’individuo svolge all’interno dell’apparato entra in conflitto con le aspirazioni personali dello stesso individuo. Ciò non è altro che la manifestazione di una condizione patologica di schizofrenia, dovuta alla separazione sempre più profonda tra la sfera pubblica e quella privata. Si ha quindi che
gli individui reagiscono al senso di impotenza che sperimentano ripiegandosi su se stessi e, nell'impossibilità di riconoscersi comunitariamente, finiscono con il considerare la società stessa in termini puramente strumentali.
- La cultura di massa. La cultura di massa implica direttamente la massificazione ossia quel processo per cui non siamo più in presenza di una semplice concentrazione di molti quanto la produzione di una massa che consuma le stesse cose ma in maniera solipsistica. Prodotti di massa, consumi di massa, informazione di massa fanno si che rifocillino in massa singoli individui che sanno tuttavia di avere un consumo privato, personale, originale dei prodotti. Il singolo ha la sensazione di esperire una vita indi-viduale pur consumando prodotti di massa, creati in serie ma che apparentemente rispondono ai biso-gni di ognuno. Si slabbra allora quel diaframma tra il pubblico e il privato giacchè ciascuno è stato ri-fornito in privato di ciò che poi incontra in pubblico. Da ciò si articolano processi di de-individuazione che portano a società omologate e conformiste.
- I mezzi di comunicazione di massa. La comunicazione è ormai una rete di mezzi che ci esonera dall’obbligo della esperienzialità. McLuhan, in Strumenti del comunicare (1867), è stato uno dei primi a mettere in evidenza i mutamenti antropologici prodotti dal media nell’uomo. Forse in questo più che in altri casi si può constatare come il mezzo tecnico non è affatto neutrale ma ‘impone’ una modalità comunicativa, intervenendo sulle stesse modalità comunicative e facilita i processi di omologazione.
Non abbiamo più bisogno dell’esperienza diretta. I mezzi di comunicazione hanno sostanzialmente e radicalmente modificato il nostro modo di fare esperienza abolendo le classiche modalità esperienziali del tempo, dello spazio. I media propongono presente il passato, vicino ciò che è lontano, ma anche assente ciò che è stato individualmente ‘visto’.
La realtà della informazione è ad un tempo tutt’altro che neutra giacchè gli eventi vengono ‘allestiti’, codificati in termini che sono già pronti per essere digeriti. L’evento diventa bolo alimentare pronto per il passaggio successivo a chimo, ecc.
La comunicazione diventa un monologo collettivo in cui il cardine dell’esperienza comunicativa vis-suta individualmente frana completamente in ascoltanti ex-cathedra come aveva già intuito P. Pasolini.
- La psiche. Nell’epoca pre-tecnologica l’individuo era quel fascio di esperienze individuali che espe-riva. Oggi, invece, l’individuo, allevato nell’oblio dell’esperienza singolare si ritrova senza alcun dia-framma tra interiorità ed esteriorità: ciò che mi rappresento coincide con la rappresentazione comune; tra superficie e profondità in quanto la profondità finisce per essere semplice accettazione delle regole sociali; tra attività e passività in quanto l’unica attività possibile è l’adattamento alle procedure tecni-che. Infine, è propria dell’età della tecnica una cultura che tende al potenziamento delle facoltà intel-lettive su quelle emotive assai poco controllabili.
La tecnica e il nichilismo.
Fin dall’inizio il nulla si è fatto presente, si è affacciato nella riflessione filosofica delle origini, ma so-lo con l’età della tecnica essa mostra il suo volto severo e disincantato; solo con l’età della tecnica il nichilismo diventa l’aria che respiriamo, il paesaggio che vediamo, il labirinto che percorriamo.
Sulle orme della definizione di Nietzsche di nichilismo attivo e passivo, Galimberti dice che la forma attiva è propriamente la forma che assume la tecnica che è uscita da qualsiasi orizzonte di senso. L’abolizione dei fini fa si che non vi sia alcun senso da cogliere. Si genera da questa mancanza di sen-so la ricerca affannosa di senso per l’uomo occidentale; si genera, allora, quel nichilismo passivo per cui sembra che i fini sono inadeguati e bisogna rintracciarne altri all’altezza storica che ristorano, ac-quietano, stordiscano.
Eppure, dice Galimberti, il nichilismo filosofico profetizzato da Nietzsche è ben pallida cosa rispetto al nichilismo della tecnica perché vien messo in gioco non solo il senso dell’essere, ma l’essere stesso dell’uomo e del mondo. Nietzsche ha solo profetizzato ciò che la tecnica sta realizzando come potere reale: la nientificazione!
Il nichilismo culturale, da Schopenhauer a Nietzsche ad Heidegger rimane a livello culturale, mentre il nichilismo tecnico ha, ormai, il potere concreto di annientare il mondo e l’uomo ed è uscito “dal cer-chio ristretto delle tendenze culturali per divenire coscienza comune e mentalità di massa”.
L’inadeguatezza della comprensione umana
Che cosa è e cosa diventa l’uomo nell’età della tecnica? La natura umana non è nulla di stabile, origi-nario, archetipico data una volta per tutte. Essa è storia, è tempo! E’ produzione, lavoro! L’uomo è dunque, il suo fare che determina anche l’orizzonte della sua comprensione. Non esiste la natura umana al di fuori di una modalità del darsi tecnico. La questione che si pone, tuttavia, è che se l’uomo si è sempre rapportato in un mondo poco trasformabile, oggi la tecnica si presenta come la possibilità estrema e illimitata della manipolabilità del mondo.
Quanto più l’apparato tecnico si erge maestoso e fittamente intrecciato tanto più cala la nostra capacità di immaginazione o di previsione e di percezione del dove stiamo andando rispetto ai fini. Ciò com-porta che il nostro sentimento diventa incapace di agire.
A paralizzare la nostra immaginazione non è solo questo impianto gigantesco ma la parcellizzazione dei processi lavorativi che non ci permette più di seguire la trama dell’intero processo anche se con-chiuso cosicchè lo stesso nostro fare ci appare senza senso. Non riusciamo più, non solo a prevedere, ma semplicemente a intravedere gli effetti, gli esiti, gli scopi e il senso. E’, dunque, possibile che l’addetto al campo di sterminio possa dire che ha soltanto “lavorato”. Questo gap fa si che si insinui quel nichilismo passivo di cui parla Nietzsche che il troppo grande ci lascia troppo freddi. Come anal-fabeti emotivi assistiamo passivi alla proliferazione nucleare, alla distruzione dell’ambiente, alla morte per fame di un bambino ogni 5 secondi. C’è insomma un’inadeguatezza del nostro sentire. E’ proprio questa inadeguatezza a rendere possibile, infine, lo sterminio di sei milioni di ebrei. Possibile e ripetibi-le! Si inceppa, tra l’altro, il sentimento della responsabilità.
Il nazismo è, da questo punto di vista l’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità organizza-tiva. La Shoah è simbolo della perfetta organizzazione del ‘lavoro’ cioè dello sterminare, in una per-fetta razionalità della macchina organizzativa. Il nazismo è la figura che meglio di altre segna “l’atto di nascita dell’età della tecnica”.
Senza la tecnica l’uomo non sarebbe sopravvissuto con la sua carenza biologica e, d’altra parte, pro-prio la sua carenza gli conferisce una plasticità comportamentale inusitata alle altre specie.
Prometeo (“colui che pensa in anticipo”), regalando il fuoco agli uomini, simbolo della tecnica, si è trasformato in colui che non è capace di prevedere le ‘fiamme’.
Oggi la nostra capacità previsionale, di anticipazione è fortemente compromessa e in ciò risiede il no-stro massimo pericolo. Rimane una flebile speranza. Una maggiore capacità di comprensione, “ben lungi dall’esser sufficiente per dominare la tecnica, evita almeno all’uomo che la tecnica accada a sua insaputa”.
Occorre evitare che la nostra prossima domanda sia: Che cosa la tecnica può fare di noi?
Il nichilismo e i giovani
I giovani stanno male, ma non sempre lo sanno!
Stanno male non tanto per le normali crisi esistenziali-adolescenziali quanto perché vivono un ambien-te dove si aggira un ospite inquietante. L’ospite inquietante di cui parlava Nietzsche è tra noi e fagocita tutto: invade e distrugge tutti i valori che la cultura occidentale aveva lentamente conquistato. E’ l’ospite inquietante che cancella gli orizzonti! E’ Nietzsche ad annunciare che:
L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere. Il circo-lo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto. Si avverte sempre più il vuoto e la povertà di va-lore. Il movimento è inarrestabile, sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine, conosce abbastanza per non credere più in nes-sun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido. Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli. (Nie-tzsche, Frammenti postumi 1887-1888)
E’ diventato ormai impossibile prescindere dalla tecnica, che ha annullato qualsiasi orizzonte di senso e ha imposto il suo modo di ragionare in termini di massima funzionalità ed efficienza, spostando su un piano completamente subalterno il proprio Io e quindi la logica dei sentimenti, delle emozioni e del-la razionalità ad esso collegata.
Heidegger giustamente di quest’ospite diceva che vuole lo “spaesamento come tale. […] Ciò che oc-corre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia”. (La questione dell’essere)
Con L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani del 2007, Galimberti cerca di rintracciare le ragioni e, forse, i rimedi per il malessere giovanile all’interno dell’età della tecnica e del nichilismo.
Se il nichilismo è tra noi e noi ne viviamo l’ambiente, ne respiriamo l’aria, non è più possibile leggere il disagio giovanile come semplice crisi adolescenziale-esistenziale. Non sarà nemmeno possibile, allo-ra, trovare qualche panacea che rimanga in una dimensione individuale, soggettivistica, psicologica. Il problema è epocale, d’orizzonte culturale!
La scuola è, gioco forza, la principale colpevole dell’isolamento dei ragazzi all’interno della società: infatti in un’età come quella adolescenziale in cui si fanno sempre più aspri, pungenti i rapporti fami-liari, la scuola dovrebbe fornire quell’educazione all’emotività che permette all’individuo di autodi-sciplinarsi; invece si limita a valutare con strumenti matematici, obiettivi, rigorosi lo studente in base alla sua efficienza, senza curarsi minimamente di suscitare un interesse che lo coinvolga anche a livel-lo emotivo.
Ora, questo eccesso di emozionalità, che non riesce ad incanalarsi in modo costruttivo, trova secondo Galimberti, tre possibili sbocchi:
1) lo stordimento dell’apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga; 2) il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell’ignavia e della non partecipazione che portano all’atteggiamento opaco dell’indifferenza; 3) il gesto violento, quando non omicida, per scaricare le emozioni e per ottenere un’overdose che superi il livello di assuefazione come nella droga. (Galimberti, L’ospite inquietante)
La seduzione della droga.
L’uso sempre più diffuso delle droghe, così come anche degli psicofarmaci, è un fenomeno culturale che trova le sue radici: a) nell’impossibilità di soddisfare il proprio piacere; b) nella rinuncia alla ri-cerca di un qualsiasi senso, anche precario, nella propria vita.
Droghe che rispondono alla prima delle due necessità sono l’ecstasy, che allontana la paura e permette di vivere più intensamente i rapporti interpersonali, e la cocaina, che spinge chi la assume a vivere ol-tre i limiti concessi dal proprio corpo per rispondere a quel “senso di insufficienza” per quanto riguar-da le proprie capacità fisiche e mentali.
L’eroina ha, invece, un effetto anestetizzante, per cui uccide i sensi sottraendo l’individuo dalla noia della routine quotidiana e dall’insensatezza della propria vita.
Non bisogna dunque avere paura di affrontare questo problema e di capirne realmente le cause, uscendo anche fuori dagli schemi della cultura tradizionale e scavando a fondo nell’interiorità dei tos-sicomani, per riuscire ad “accettare il male per quello che ha di costruttivo e non solo di distruttivo”.
Fondamentale è instaurare una cultura della droga, che, come quella del tabacco o dell’alcool, possa veramente informare i giovani:
Per questo è necessario che a scuola, e in quel suo sostituto mediatico che è la televisione, si parli di droga in modo analitico, determinato, scientifico e persino filosofico, in modo che i giovani sappiano che cosa as-sumono, che effetto fa, che danni procura, che piaceri promette e da che visione del mondo scaturisce. L’ignoranza non ha mai salvato nessuno e l’ignoranza dei giovani a proposito della droga è pari alla sua dif-fusione. (L’ospite inquietante)
Il gesto estremo.
L’omicida che compie il suo crimine “senza movente” non esiste; è la mancata educazione delle emo-zioni che spinge un qualsiasi individuo ad un gesto di tale violenza.
I professori entrano in classe. Ma li vedono in faccia questi ragazzi? […] Sanno che le generazioni di giovani con cui oggi hanno a che fare, non per colpa dei professori ma a causa delle rapidissime trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche che li coinvolgono, sono di una fragilità emotiva impressionante? Sanno che l’emozione, se non trova il veicolo della parola, ricorre al gesto? Gesto truculento d’amore o gesto tru-culento di violenza? (L’ospite inquietante)
Il suicidio è il gesto di chi non trova più alcun senso alla propria vita, sentendosi circondato da ma-schere prive di valore che non fanno altro che interpretare dei ruoli già stabiliti, dove non c’è più alcun rapporto autentico. E’ la disperazione di chi si accorge che non c’è alcun fine e che il “progresso” è solo un’illusione consolatoria. Anche qui la possibile soluzione, riprendendo le parole di Freud, è que-sta:
La scuola deve fare qualche cosa di più che evitare di spingere i giovani al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere e offrire appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono ne-cessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i legami con la casa paterna e la famiglia. (Freud, Contributi a una discussione sul suicidio)
Le generazioni nichiliste.
I giovani nell’era nichilista della tecnica si agitano in maschere strette:
1) La generazione del pugno chiuso è in aperto contrasto con la società, tanto da non accettare più la contrattazione che essa offre perché si pone, invece, sul piano della sfida e dello scambio terroristico, il quale si fonda su una richiesta che non può essere soddisfatta; due sole diventano quindi le possibili soluzioni della sfida: la morte del sistema o la propria morte;
2) La “generazione X” degli indifferenti vive nell’apatia, nell’impossibilità di trasformare il gesto in stile di vita e di sentire l’emozione nel profondo; il tratto fondamentale che li caratterizza è la non-partecipazione, per cui, anche se risultano omologati dal consumismo, o forse proprio per questo, per-dono la propria identità e si sentono dunque soli;
3) La “generazione Q” dal basso quoziente intellettivo ed emotivo comprende i giovani che vengono definiti sociopatici o psicopatici per la loro incapacità di sentirsi parte di una società e di avvertire il peso delle proprie azioni; coloro che ne fanno parte sono mossi dal desiderio di rompere la monotonia delle regole determinate dalla tecnica attraverso gesti eclatanti in grado di risvegliarli, almeno momen-taneamente, dalla noia;
4) Gli squatter sono, invece, rassegnati all’impossibilità del cambiamento, e rispondono con il silenzio a quel silenzio che viene dalle istituzioni, che, a loro volta, non hanno potere decisionale per il sempli-ce fatto che il loro agire è completamente determinato dalla tecnica;
5) I ragazzi dello stadio usano la pura violenza nichilista per liberare le proprie energie vitali che non sanno come impiegare, scegliendo di agire in massa perché
la responsabilità individuale è difficile da identificare e l’impunità generale diventa un salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione, perché la violenza nichilista è autosufficiente. (L’ospite inquietante)
Oltre il nichilismo.
Come ci salveremo dalla voragine, dal niente che tutto ingoia? Come ci salveremo dalla notte se i valo-ri e le azioni perdono di senso e il futuro non sembra riservare alcuna promessa? Dove i rimedi?
I rimedi tradizionali non sono più all’altezza della domanda. Il rimedio religioso quanto quello raziona-lista non reggono la domanda di senso in questa epoca storica.
La religione e la sua dimensione salvifica è inefficace perché il cielo è un cielo vuoto: Dio è veramen-te morto e resta morto; le chiese sono davvero sepolcri!
La ragione si è dimostrata inefficace nel cogliere la totalità della vita: la ragione non regola affatto i rapporti tra gli uomini.
Siamo dunque immersi in una ragione strumentale che cancella tutti gli orizzonti giacchè cancella il pensiero e la dimensione emotiva.
Per uscire dall’imbuto nichilistico in cui siamo finiti, Galimberti propone “l’etica del viandante”, già presente in Nietzsche quando parla del “piacere di navigante”:
Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non ancora scoperte, se nel mio piace-re è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: “la costa scomparve – ecco anche la mia ultima ca-tena è caduta – il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio! vecchio cuore”. (Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
La salvezza non è più nelle escatologie tranquillizzanti. La salvezza è nel viaggio senza fine, senza me-ta in cui non è necessario trovare un orizzonte, un senso, uno scopo. Il giovane viandante rifugge dalla dimensione delle illusioni che proteggono e coscientemente diserta le acque tranquille del lago limac-cioso per dire sì al mondo.
In un tale scenario, il proprio comportamento sarà dettato da un’etica “che non si appella al diritto ma all’esperienza e all’azione”, la quale poi non è altro che quella ricerca della iusta mensura greca che permette all’individuo di svilupparsi riconoscendo quelle che sono le proprie capacità ed inclinazioni.
L’’arte del vivere’, come dicevano i Greci!
E’ così che si potrà passare da una visione del mondo – giudaico-cristiano - basata sull’attesa, tutta in-centrata sul raggiungimento di un preciso momento futuro, a una nuova concezione fondata sulla spe-ranza, che apre invece ad infinite possibilità e non limita in alcun modo l’azione dell’uomo.
In questo senso diciamo che l’attesa è passiva, perché vive il tempo come qualcosa che viene verso di noi, la speranza invece è attiva perché ci spinge verso il tempo, come verso quella dimensione che ci è assegnata per la nostra realizzazione. I giovani sono attivi quando con la speranza vanno verso il tempo e non quando con l’attesa aspettano che il tempo venga verso di loro. (L’ospite inquietante)
Ora, se i giovani, affrancati dall’illusione di una meta da raggiungere, da un senso ultimo, si abbando-neranno al flusso della vita, alla sua energia ‘vitale’ cercando se stessi, libereranno il mondo nelle sue infinite possibilità, forse, il nichilismo non sarà passato invano!
CONCLUSIONI
Il linguaggio chiaro, piano, seducente di Galimberti offre una certa maggiore distensione rispetto ad Heidegger, ma soprattutto il cammino ci sembra libero da una spessa metafisica. Insomma, pur muo-vendosi sulla linea heideggeriana, Galimberti ci sembra scevro da quella pesante imbragatura metafisi-ca.
Il merito di Galimberti è di aver chiaramente posto il problema della tecnica all’interno di una spiega-zione assai convincente che parte da quel meccanismo hegeliano del passaggio della quantità a qualità che lo stesso F. Engels della Dialettica della natura aveva ripreso come uno dei meccanismi della dia-lettica hegeliana. Ad un certo grado quantitativo la tecnica non è solo un aumento tecnologico ma essa si trasforma in ambiente. Il passaggio da strumento neutro ad ambiente posto in maniera così chiara fa si che il cambiamento si avverta in maniera inusitata e il pericolo di una completa subordinazione dell’uomo si erge in tutta la sua plastica evidenza.
Ancora, è merito di Galimberti sottolineare come la strumentazione concettuale con cui ci attardiamo a voler leggere gli avvenimenti è ormai antidiluviana: umanistica e pre-tecnologica. La pars destruens della strumentazione concettuale come in un negativo disegna la pars costruens degli spazi che ad es. la politica, l’etica viene ad avere in un’età della tecnologia e del ruolo che assegnano all’uomo ossia di vera e propria subalternità all’apparato tecnologico.
Heidegger e Galimberti concludono entrambi la loro riflessione filosofica con una certo indulgere all’abbandono ascoltante ai sentieri destinali, il primo, ad una maggior consapevolezza anche se impo-tente, il secondo. Questo atteggiamento è la conseguenza coerente di uno scenario che si apre davanti a loro, di un destino che si compie al di sopra, dietro, oltre l’uomo ormai funzionario di un apparato, di un impianto, di un Gestell di cui non è più possibile recuperare il controllo. Entrambi concordano che non resta molto da fare! Alla filosofia, del resto, spetta solo la registrazione puntuale, precisa, chiara dello stato dell’arte, o se si vuole, dell’imbuto in cui ci siamo cacciati: una filosofia dell’abbandono!
Lo scenario
Lo scenario delineato da entrambi è che la tecnica non può essere intesa più come strumento ma essa è ora il Moloch che fagocita tutto ciò che è altro da sé al solo fine della autoespansione, dell’autoaccrescimento insensato e senza scopo che si misura solo con i criteri della efficienza e fun-zionalità. La tecnica è un gigantesco apparato che si para innanzi, nientemeno, che al genere umano, all’umanità tutta. La fase storica che viviamo, dunque, prevede un oblio dell’uomo e un protagonismo della tecnica. Una volta che la tecnica ha fatto dell’uomo un semplice funzionario la storia si traduce in puro e semplice sviluppo della tecnica. In ciò il destino, Geschick! Non abbiamo alcun potere sulla tecnica, sull’impianto, imposizione, in generale, cosicchè siamo abbandonati al nostro destino che ha sviluppi imperscrutabili.
Dialettica Soggetto/Oggetto-Mondo
Innanzitutto va notato come questa posizione sia più materialista del materialismo marxiano nel senso che disegna l’uomo come completamente determinato, legato, prodotto, condizionato dalla modalità della produzione e riproduzione della vita. Si tratta in questo caso dell’abbraccio mortale con quello che Marx definiva materialismo deterministico e da cui prendeva le distanze come materialismo roz-zo giacchè non intendeva il reale come prassi. Marx criticando aspramente questa forma ingenua di materialismo vi opponeva il suo materialismo storico-dialettico che mantiene in vita la dialettica Sog-getto/Oggetto-Mondo; mantiene in vita, prepotentemente, la categoria della prassi.
La riflessione filosofica di Heidegger e di Galimberti sulla tecnica fa si che venga completamente schiacciata qualsiasi dialettica Soggetto/Oggetto-Mondo proprio mentre ribadiscono che l’uomo è den-tro al destino del Gestell che in termini marxiani, per intenderci, possiamo tradurre con modo di pro-duzione. Da questo punto di vista Marx rimane sulla linea che da Cartesio con il suo cogito propone in maniera forte la soggettività.
In verità in Heidegger e poi in Galimberti la dialettica non rimane propriamente schiacciata, non è pro-priamente dialettica ma monologo della tecnica. Il rapporto uomo/tecnica viene declinato assoluta-mente come incedere tecnico. L’uomo viene fagocitato, accorpato nell’impianto tecnico, semplice-mente. Dunque, da qui in poi possiamo solo parlare propriamente della storia della tecnica.
Questa posizione finisce con il ricordare molto quella posizione di sedicenti marxisti che aspettavano, trasognati e immobili, il comunismo giacchè era scritto nel destino e descritto nel Capitale!
Dialettica servo-padrone
Non solo… un altro passaggio fondamentale travestito da metafore filosofiche è l’annichilimento della dialettica servo-padrone di hegeliana memoria. Fuor di metafora ciò significa che la tecnica non può essere usata ma usa indifferente il genere umano. E’ indifferente la figura del servo o del padrone, an-zi superata. E’ qui un nodo problematico estremamente complesso, ma cruciale, per poter dipanare i fili del nostro … destino.
Questa liquidazione della dialettica servo-padrone evapora d’incanto nientemeno che la società divisa in classi, la divisione tra capitale e forza-lavoro, una particolare, specifica storica, proprietà dei mezzi di produzione, ecc.
E’ proprio indifferente la forma di proprietà che abita la tecnica?
E’ indifferente all’analisi che la tecnica respiri nella forma della proprietà privata capitalistica?
Poiché le macchine, considerate in sé, - scrive Marx - abbreviano il tempo del lavoro, mentre, adoperate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa, poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e ado-perate capitalisticamente ne aumentano l'intensità, poiché in sé sono vittoria dell'uomo sulla forza della natura e adoperate capitalisticamente soggiogano l'uomo mediante la forza della natura, poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., l'economista borghese dichiara semplicemente che la considerazione delle macchine in sé dimostra con la massima precisione che tutte quelle tangibili contraddizioni sono una pura e semplice parvenza della ordinaria realtà, ma che in sé, e quindi nella teoria, non ci sono affatto. Così risparmia di doversi ulteriormente stil-lare il cervello, e per giunta addossa al suo avversario la sciocchezza di combattere non l'uso capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse. (Il Capitale, L. I)
La citazione sulle macchine ci fornisce un bell’esempio di come un elemento cambia segno qualora si trovi in un sistema piuttosto che in un altro.
La valutazione marxiana è che la tecnica (componente del capitale fisso) si dispiega chiaramente e to-talmente nel socialismo ovvero in una società in cui viene risolta la contraddizione tra produzione so-ciale e appropriazione privata e che l’ha fatta finita con la tecnica nella figurazione della proprietà pri-vata o forma capitalistica. La tecnica è non più alienante e alienata in processi tecnici chiari, perché li-berati dal loro uso capitalistico e al servizio della socialità, non è più forma di dominio sociale. Dun-que “dispiegamento disalienato e totale della tecnica.
Il destino.
Chi compie il richiedere provocante secondo Heidegger? L’uomo? No! Il Gestell, intelaiatura che non è nulla di tecnico, ma è il modo in cui si disvela il mondo come fondo. Ciò avviene con l’uomo ma non per opera sua. Esso è destino, Geschick! Per Heidegger la tecnica non accade fuori dall’uomo, ma non per opera sua.
Cos’è il Gestell per Marx?
Il Gestell in termini marxiani è la struttura, meglio, modo di produzione.
L’uomo non è mai occhio puro sul mondo ma è all’interno di rapporti di produzione storicamente de-terminati, all’interno di rapporti sociali, ecc. Nessuno può seriamente pensare alla neutralità degli stru-menti: l’uomo in quanto essere al mondo non può prescindere dal relazionarsi con gli enti utilizzandoli e trasformandoli attraverso la tecnica, ma con ciò egli stesso ne viene continuamente trasformato. L’uomo ha il suo ambiente nel modo di produzione di volta in volta storicamente determinato e non può sfuggirvi come non può sgattaiolare dal suo corpo.
Marx, primo fra tutti ha compreso in profondità, il capovolgimento dei mezzi in fini del sistema capita-listico: un sistema che solo secondariamente soddisfa i bisogni umani avendo come legge suprema quella del profitto! Ha capito perfettamente che il denaro da strumento di scambio diventa equivalente generale e, dunque, fine. Ha compreso perfettamente che questo organismo economico si sviluppa e sfugge al controllo dei singoli. E tuttavia l’uomo in questo sistema non figura semplicemente come co-sa tra le cose. Gli stessi cambiamenti ‘necessari’ devono essere opera dell’uomo. Così come il sociali-smo non è l’opera segreta di un destino inevitabile, ma il movimento reale di masse che si muovono sulla scena della storia.
L’uomo è un uomo determinato storicamente e pure vincolato dalla storia e finanche si pone problemi che storicamente può risolvere. Tuttavia, in Marx non viene mai pensato come mero funzionario an-che quando nel Capitale le classi sociali sembrano svolgere il ruolo di “impersonificazioni” delle cate-gorie economiche: capitale/lavoro.
Ha un destino il modo di produzione? Sí e no!
Cos’è il Geschick per Marx?
Il modo di produzione capitalistico è nato dall’incontro tra il capitale e il lavoro, tra denaro e forza-lavoro senza proprietà alcuna. Ebbene questo incontro più volte si è dato nella storia ma non ha fatto presa non è durato e non si è trasformato in un nuovo modo di produzione. I singoli elementi, fuori da qualsiasi visione teleologica, fluttuano prima della loro combinazione per poi incontrarsi e durare. Il caso e la necessità! Nulla è preordinato al di fuori della prassi umana e della dialettica del Soggetto. Nemmeno ha senso porsi, tuttavia, in una prospettiva in cui la storia umana ha l’uomo come protago-nista che sceglie il suo cammino. L’uomo non sceglie liberamente il suo destino ma lo fa nella situa-zione che trova e con gli elementi che trova!
Metà della sua vita Marx l’ha dedicata alla comprensione teorica del modo di produzione capitalistico, l’altra metà ad abbatterlo! Metà della sua vita è stata impegnata nella organizzazione politica del prole-tariato, nella organizzazione della Prima Internazionale, ecc. conscio che il capitalismo non sarebbe caduto da solo e che la lotta stessa è incertezza del risultato. La comprensione della caduta del saggio del profitto, dal punto di vista semplicemente economico, è proprio la limitatezza della comprensione borghese del fenomeno storico.
Risultano da quanto siamo andati dicendo due concezioni della nostra epoca che, pur avendo dei tratti in comune, si differenziano notevolmente e in più punti. Le singole scienze potranno apportare nuovi contributi a meglio articolare la discussione. Ne va, come ognuno può comprendere, del nostro … de-stino!
BIBLIOGRAFIA
Opere di Galimberti
Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, 1999
Galimberti, L’ospite inquietante, Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007
Galimberti-Alloni, Il viandante della filosofia, Aliberti, 2011
Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, 2012
SITI WEB:
http://www.umbertogalimberti.it/

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