Filosofia appunti

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Filosofia appunti

 

Arthur Schopenhauer
O SI PENSA O SI CREDE

 

Il mito della metempsicosi è, fra tutti i miti che siano stati creati, il più ricco di contenuto, il più significativo, il più vicino alla verità filosofica, tanto che io lo ritengo il non plus ultra della rappresentazione mitica. Per questo anche Pitagora e Platone lo ammirarono e lo adottarono; e il popolo presso il quale esso domina universalmente come fede popolare e ha un influsso decisivo sulla vita è da considerarsi, proprio per questo, il più maturo, così come è anche il più antico.

Nessuno che sia veramente filosofo è religioso: cammina senza dande, pericolosamente ma libero.

Noi siamo soltanto concime per futuri meloni.

Se un dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere quel dio, perché il dolore del mondo mi strazierebbe il cuore.

Ogni religione positiva non è che una stampella per la patologica debolezza di spirito della maggior parte degli uomini.

Chiese e templi in tutti i paesi, in tutte le epoche, con sfarzo e grandezza, testimoniano il bisogno metafisico dell’uomo.

La religione cattolica è una guida per elemosinare il Cielo: guadagnarselo sarebbe troppo scomodo. I preti sono i sensali di quell’accattonaggio.

Non esiste alcuna religione naturale: le religioni, tutte, sono prodotti artificiali.

Ogni animale rapace è una tomba vivente di migliaia e migliaia di altri esseri viventi. Per lui nutrirsi e uccidere è una cosa sola. La sua conservazione consiste nel martoriare altri esseri, perché ce meilleur des mondes possibile esiste a condizione che l’uno divori l’altro.

L’inizio della teologia è la paura: se dunque gli uomini fossero felici, non sorgerebbe mai una teologia. Ma l’inizio della filosofia è completamente diverso: una pura riflessione senza uno scopo, alla quale una testa geniale perverrebbe anche in un mondo senza sofferenze e senza la morte.

Ci si immagini un demone creatore: si avrebbe il diritto di gridargli, indicando la sua creazione: «Come hai osato rompere la sacra pace del nulla per creare una simile massa di dolori e di miserie?».

Fate che egli [l’uomo] sia senza bisogni, mettiamo un essere puramente teoretico: non gli occorre alcun dio, e non ne fabbrica alcuno. Il cuore, cioè la volontà, ha bisogno di sperare nell’assistenza di qualcosa di onnipotente e quindi di soprannaturale, e di invocarla: si ipostatizza un dio perché è necessario pregare, non viceversa [cioè perché vi si creda a priori].

Già solo il presentarsi come verità rivelata è il marchio dell’inganno, e costituisce, per uno che pensi, una sollecitazione all’ostilità.

Una cretinata tutta particolare dei filosofastri di oggi è che essi danno per certo che gli animali non hanno un Io, mentre Loro, evidentemente, ne avrebbero uno.

La parola «dio» mi ripugna tanto perché, in ogni caso, pone all’esterno quello che è all’interno. In base a ciò si potrebbe dire che la differenza tra teismo e ateismo sia spaziale. Ma le cose stanno piuttosto così: «dio» è essenzialmente un oggetto e non il soggetto: non appena si pone un dio, quindi, io non sono niente. Se si sostiene l’identità del soggettivo e dell’oggettivo, si può anche sostenere l’identità del teismo e dell’ateismo.

Vorrei che, prima di prorompere nella lode dell’infinitamente Buono, si guardassero un po’ intorno e vedessero che aspetto ha e coma va questo mondo. Dopo di che chiederei loro se un tale mondo sia più simile all’opera dell’infinita Saggezza, dell’infinita Bontà e dell’infinita Potenza, oppure a quella della volontà di vivere.

Solo quando il mondo sarà diventato abbastanza onesto da non impartire lezioni di religione ai ragazzi prima del quindicesimo anno di età ci si potrà aspettare qualche cosa da lui.

Mediante il precoce indottrinamento, in Europa si è arrivati al punto che la credenza in un dio personale è letteralmente diventata, in quasi tutti, un’idea fissa.

Panteismo? Un dio che, incorporato, non raffigurasse niente di meglio che questo mondo inquieto, sanguinante e mortale, le cui creature esistono solo a condizione che l’una divori l’altra, sarebbe un bel tipo davvero.

Le religioni si sono impadronite della disposizione metafisica dell’uomo, in parte delimitandola e paralizzandola tempestivamente con i loro dogmi, in parte mettendo un assoluto divieto su tutte le sue liberi e naturali espressioni. Così, all’uomo la libera ricerca sulle questioni più importanti e interessanti, anzi sulla sua stessa esistenza, viene in parte proibita direttamente, in parte ostacolata indirettamente, in parte resa soggettivamente impossibile mediante quella paralisi; e dunque la più elevata delle sue disposizioni giace in catene.

Il teismo si deve riconoscere in una di queste tre accezioni:

  1. Dio ha fatto il mondo dal nulla: questo fa a pugni con l’assoluta certezza che dal nulla non si crea nulla.
  2. Egli ha creato il mondo da se stesso: allora o c’è rimasto dentro anche lui stesso, panteismo, o la parte di se stesso, che è diventata mondo, si è staccata da lui, emanazione.
  3. Egli ha formato la materia che ha trovata: allora questa è eterna come lui ed egli è soltanto un demiurgo.

Verrà il tempo in cui l’idea di un dio creatore sarà considerata, nella metafisica, come ora si considera quella degli epicicli nell’astronomia.

Chi crede non è filosofo.

I filosofi da strapazzo non conoscono neppure il problema della filosofia. Pensano che esso sia Dio. Da lui partono, come se fosse un dato certo, con lui hanno sempre a che fare: se egli sia nel mondo o fuori del mondo, se abbia una coscienza propria o se si debba servire di quella degli uomini, e simili buffonate a non finire. Asini, il mondo, il mondo è il problema della filosofia, il mondo e nient’altro!

Un essere personale avrebbe fatto il mondo: ciò si può certo credere, come ha insegnato l’esperienza, ma non pensare.

Quando uno comincia a parlare di Dio, io non lo so di che cosa parli.

Per 1800 anni la religione ha messo la museruola alla filosofia. Il compito dei professori di filosofia consiste nello spacciare per filosofia la mitologia ebraica.

Animali – esseri coscienti che dividono con noi questa esistenza misteriosa.
Il bisogno metafisico dell’uomo [...] viene subito dopo il bisogno fisico.

Esistono in tutti i popoli i monopolizzatori e gli appaltatori del bisogno metafisico: i preti. [...] [La prima infanzia] è il momento in cui qualsiasi dogma ben impresso, per quanto insensato possa essere, si fisserà per sempre. Se i preti dovessero aspettare la maturità di giudizio, i loro privilegi non potrebbero esistere.
Una seconda classe, sebbene non numerosa, di persone che traggono il loro sostentamento dal bisogno metafisico degli uomini è formata da quelli che vivono della filosofia: presso i greci si chiamavano sofisti, ora si chiamano professori di filosofia.

Le religioni sono necessarie al popolo e sono per lui un beneficio inestimabile. Ma se esse vogliono opporsi al progresso dell’umanità nella conoscenza della verità, allora, pur con tutta la delicatezza possibile, devono essere messe da parte. E pretendere che perfino un grande spirito – uno Shakespeare, un Goethe – si convinca e accetti implicite, bona fide et sensu proprio i dogmi di qualche religione è come pretendere che un gigante calzi le scarpe di un nano.

Se prendessi come misura della verità i risultati della mia filosofia, dovrei accordare al buddhismo la superiorità su tutte le altre religioni.

La filosofia è essenzialmente sapienza del mondo: il suo problema è il mondo: solo con il mondo essa ha da fare, lasciando in pace gli dèi; ma in compenso si aspetta che gli dèi lasciano in pace lei.

La filosofia, diversamente dalla religione, è una scienza, e, come tale, non ha nessun articolo di fede; in essa, quindi, non si deve assumere come esistente se non ciò che è o chiaramente accertato come dato empirico o dimostrato per via di deduzioni incontrovertibili; e si pensava di esservi giunti da molto tempo, quando Kant tolse al mondo quella illusione, e fornì, anzi, prove così evidenti dell’impossibilità di tali dimostrazioni che, da allora, non ci fu, in Germania, alcun filosofo che si provasse a ricorrervi.

A guardare le cose in modo del tutto realistico e obiettivo, è chiaro come il sole che il mondo si conserva da sé; gli esseri organici esistono e si propagandano grazie alla loro propria, specifica, forza vitale interiore: i corpi organici hanno in sé forze che la fisica e la chimica si limitano a descrivere, e il corso dei pianeti è determinato da forze intrinseche grazie alla loro inerzia e alla gravitazione. Il mondo, dunque, non ha bisogno di altri che di se stesso [...]. Ora, dire che, un tempo, questo mondo, con tutte le forze che contiene, non esisteva, ma fu tirato fuori dal nulla a opera di una forza estranea che si trovava al suo esterno – dire ciò significa formulare un’ipotesi del tutto gratuita, non dimostrabile in alcun modo; tanto più che le forze del mondo sono legate alla materia; né è pensabile che la materia sia qualcosa che può nascere o morire.
Quella concezione del mondo sfocia nello spinozismo. E’ del tutto naturale che gli uomini, nella loro angoscia, abbiano sempre immaginato, per poterli invocare, degli esseri che avrebbero dominato le forze della natura e il loro operare; ma i greci e i romani si contentavano di entità che dominavano, ciascuna, in un suo ambito particolare, né veniva loro in mente di affermare che una di quelle avesse fatto il mondo e le forze della natura.

Dopo aver inferto, con la sua critica della medesima, un colpo mortale alla teologia speculativa, Kant dovette cercare di mitigarne gli effetti sul pubblico stendendo, su quella critica, un lenitivo di funzione analgesica; un comportamento molto simile a quello di Hume, che, nell’ultimo dei suoi Dialogues on natural religion, così pregevoli e così impietosi, ci rivela che è stato tutto uno scherzo, un semplice exercitium logicum. Così Kant, come surrogato delle prove dell’esistenza di Dio, ci ha dato il suo postulato della ragion pratica e la teologia morale che ne deriva, la quale, senza alcuna pretesa di validità soggettiva per la conoscenza o per la ragione teoretica, avrebbe dovuto essere pienamente valida per quanto riguardava l’agire, o per la ragion pratica; con ciò veniva fondata una fede senza conoscenza – tanto perché la gente avesse ancora in mano qualcosa di concreto. Il discorso di Kant, inteso come si deve, non vuol dire altro che questo: l’ipotesi di un dio giusto che remuneri l’uomo dopo la morte è uno schema regolativo utile e soddisfacente a cui può informarsi la definizione di ciò che sentiamo come significato serio, etico, del nostro agire, e , anche, quello stesso agire. Si tratta, in certo qual modo, di un’allegoria della verità: sicché, sotto questo aspetto, che è, poi, il solo che conti, quell’ipotesi potrebbe prendere il posto della verità – se non fosse necessario giustificarla anche teoreticamente, od oggettivamente. Uno schema analogo, di eguale orientamento, ma dotato di una assai maggiore, intrinseca verità e assai più plausibile (e quindi, in sé, più valido) è il dogma del brahmanesimo, quello della metempsicosi e della sua funzione riparatrice: noi dovremo, un giorno, rinascere sotto l’aspetto di ognuno degli esseri a cui abbiamo fatto del male, per subire la medesima offesa. La teologia morale kantiana sarà, dunque, da intendersi al modo di cui si è detto, e ciò, anche, con riguardo al fatto che a Kant non era consentito di ricorrere, su tali argomenti, a un linguaggio esplicito e aperto come quello del presente discorso, mentre, nel dar vita a una creatura mostruosa quale una dottrina teologica valida soltanto praticamente, egli contava sul granus salis delle persone più intelligenti. In questa nostra epoca, che si è lasciata alle spalle la filosofia kantiana, gli scrittori di teologia e di filosofia hanno cercato, per lo più, di far passare la teologia morale di Kant per un vero e proprio teismo dogmatico: per una nuova dimostrazione dell’esistenza di Dio. Si tratta, invece, di una cosa completamente diversa: quella teologia è valida esclusivamente nell’ambito della morale, guarda soltanto alla morale, e non si spinge oltre neppure di un millimetro.
Non si mantennero a un lungo tranquilli neppure i professori di filosofia; benché si sentissero messi in grave difficoltà dalla critica kantiana della teologia speculativa. Da tempo immemorabile, infatti, essi avevano considerato loro specifica missione quella di discorrere dell’esistenza e delle qualità di Dio e di fare, del medesimo, l’oggetto principale del loro filosofare: perciò, se la Scrittura dice che Dio nutre i corvi sul campo, io debbo aggiungere: e i professori di filosofia sulle loro cattedre. Questi, infatti, hanno ancor oggi la faccia tosta di affermare che il vero argomento della filosofia è l’Assoluto (che, come si sa, è il termine di moda per dire «il buon Dio») e il suo rapporto col mondo, e sono tutti indaffarati – come sempre – a precisare quel concetto, a ricamarci sopra, a fantasticarci attorno. E poi, i governi, che elargiscono denaro per un’attività filosofica di quel genere, vorrebbero, in cambio, veder venir fuori dalle aule universitarie dei buoni cristiani e degli assidui frequentatori delle chiese. Che cosa avranno provato quei signori della filosofia lucrativa quando dovettero constatare che, dimostrando che tutte le dimostrazioni della teologia speculativa sono insostenibili, e che è assolutamente inaccessibile ogni conoscenza riguardante il loro tema prediletto, Kant aveva rotto tutte le uova del loro paniere?

Insomma: a dispetto della Critica della Ragione e delle sue dimostrazioni, ai professori di filosofia non sono mai venute a mancare notizie autentiche sull’esistenza di Dio e sui suoi rapporti col mondo, mentre, secondo loro, l’attività filosofica deve consistere esclusivamente nel fornire dettagliate informazioni in proposito.

Non è evidente di per sé neppure una natura naturans (quella natura naturans in cui il loro dio minaccia, spesso, di trasformarsi): Leucippo, Democrito, Epicuro e Lucrezio, infatti, costruirono il mondo senza di essa; e quegli uomini, con tutti i loro errori, valevano molto di più di una legione di banderuole la cui filosofia venale gira a seconda del vento.

Una caratteristica assolutamente essenziale del teismo è l’antropomorfismo; e questo non consiste soltanto nella figura umana attribuita alla divinità, e neppure soltanto nel suo partecipare dei sentimenti e delle passioni umane, ma è proprio del fenomeno fondamentale in sé: una volontà fornita di un intelletto che le fa da guida.

Comunque, si potrebbe dire, con Kant, che il teismo è, in certo qual modo, un postulato di natura pratica; ciò, però, in un senso affatto diverso da quello da lui inteso. Il teismo, infatti, non è, in realtà, un prodotto della coscienza; è un prodotto della volontà. Se avesse un’origine teoretica, come potrebbero, tutte le dimostrazioni su cui si basa, essere così insostenibili? Ecco, invece, in che modo esso nasce dalla volontà. La costante, affannosa inquietudine che ora opprime angosciosamente il cuore (la volontà) dell’uomo, ora accende in lui emozioni e passioni, e lo mantiene in uno stato perenne di timore e speranza – mentre le circostanze che lo fanno sperare e temere non sono in suo potere, e, anzi, non gli è dato di conoscere che un breve tratto della concatenazione dei relativi nessi casuali – quell’inquietudine, quel perenne temere e sperare, lo induce a creare l’ipostasi di entità personali da cui fa dipendere tutto. Di tali entità personali si può supporre che, al pari di altre persone, saranno sensibili a preghiere e lusinghe, servizi e doni; che, cioè, si dimostreranno più arrendevoli della rigida necessità, delle spietate, insensibili forze delle forze della nature, e delle oscure potenze che reggono il corso del mondo. Ora, se in un primo tempo, com’è naturale e come, con grande senso pratico, avevano voluto gli antichi, quelle divinità – in corrispondenza con la diversità delle circostanze – sono numerose, in seguito, per l’esigenza di conferire a quella nozione coerenza, ordine e unità, esse vengono assoggettate, tutte, alla sovranità di una, o, addirittura, ridotte a una soltanto: a un dio che, come una volta mi fece osservare Goethe, non è per niente utilizzabile per un’opera teatrale: che cosa si può fare con un personaggio solo? A ogni modo, ciò che qui importa è l’impulso che spinge l’uomo, spaventato e inquieto, a prosternarsi e a supplicare per avere soccorso nelle sue assidue, miserevoli pene, e, anche, in ciò che riguarda la sua felicità eterna. L’uomo preferisce affidarsi all’altrui grazia piuttosto che ai propri meriti; quello è uno dei pilastri che sorreggono il teismo. Perché il cuore (la volontà) abbia il sollievo della preghiera e il conforto della speranza l’intelletto dell’uomo deve inventargli un dio: non avviene l’inverso: non prega, l’uomo, perché il suo intelletto abbia dedotto, attraverso un corretto ragionamento logico, l’esistenza di un dio. Fate che egli sia senza pene, senza desideri, senza bisogni, un essere fatto soltanto di intelletto, privo di volontà: quell’essere non ha bisogno di alcun dio, e non ne crea alcuno. Nella sua gravosa angoscia, il cuore – cioè la volontà – sente il bisogno di invocare il soccorso di un’entità onnipotente, e, quindi, soprannaturale; e appunto perché si deve pregare si ipostatizza una divinità. Perciò, se il lato teoretico della teologia è, di popolo in popolo, molto diverso per quanto concerne il numero e la natura delle divinità, queste hanno, tutte, una cosa in comune: se gli uomini li servono e li pregano, possono aiutarli e lo fanno: perché è questo ciò che conta; e questo è, allo stesso tempo, il marchio, il segno distintivo da cui si riconosce l’origine di ogni teologia; si comprende, cioè, che ogni teologia nasce dalla volontà, dal cuore, e non già, come si vuol far credere, dalla testa, ossia dalla conoscenza.

Strettamente connesso con la vera origine [...] di ogni forma di teismo, e derivante, come quello, dalla natura dell’uomo, è il suo sentirsi stimolato a offrire sacrifici ai suoi dei, o per comprare il loro favore, o, se glielo hanno già dimostrato, perché continuino a farlo, o perché lo liberino da un male. Tale è il senso di ogni sacrificio; da ciò ha origine e su ciò si regge l’esistenza di tutti gli dèi, tanto che si può veramente dire che gli dèi vissero dei sacrifici. Se l’uomo si crea degli dèi è perché in lui è naturale – anche se è un prodotto della sua miseria e della sua limitatezza intellettuale – il desiderio di invocare e di comprare l’assistenza di entità soprannaturali, e, con esso, il bisogno di soddisfarlo.

Per attenuare quanto poteva esservi di scandaloso nella sua critica di tutta la teologia speculativa, Kant vi aggiunse [...] un’affermazione: anche se l’esistenza di Dio avesse dovuto restare indimostrata, era altrettanto impossibile dimostrare la sua inesistenza. Con ciò, molti si tranquillizzarono, senza accorgersi che Kant, con finta ingenuità, aveva ignorato che affermanti incumbit probatio, e, inoltre, che il numero delle cose di cui non è possibile dimostrare l’inesistenza è infinito.

Si deve ammettere che il teismo fornisce un appoggio alla morale; ma si tratta di un appoggio della specie più grossolana, tale anzi da annullare, in sostanza, la vera, pura moralità dell’agire: qualunque azione disinteressata, una volta che viene retribuita con una cambiale a lunghissima scadenza, ma sicura, che si ottiene in pagamento, si muta istantaneamente in un’azione egoistica; e quello che, in principio, era il dio creatore, diventa, alla fine, il dio della vendetta e della rimunerazione.

Il teismo è, poi, in contrasto con la morale anche a parte ante; e ciò perché abolisce la libertà e l’imputabilità. In relazione, infatti, con un essere che esiste ed è quello che è in quanto è opera di un altro, non si può pensare né a colpe né a meriti. [...] Se esso agisce male, ciò accade perché è malvagio; e, quindi, la colpa non è sua, ma di colui che lo ha fatto. [...] Sant’Agostino, Hume e Kant si sono perfettamente resi conto della validità di questa argomentazione maliziosamente e codardamente ignorata dagli altri [...]. Appunto per eludere quella tremenda, esiziale difficoltà, è stata inventata la libertà del volere, il liberum arbitrium indifferentiae, una finzione assolutamente mostruosa, e perciò costantemente contestata, e respinta ormai da molto tempo da tutte le menti pensanti, ma mai, forse, confutata sistematicamente e a fondo.

Dire che l’uomo è stato creato libero è affermare una cosa impossibile: affermare, cioè, che il creatore gli ha dato un’existentia senza essentia; gli ha dato, quindi, l’esistenza soltanto in abstracto, lasciando a lui di decidere «che cosa» voglia essere.

La libertà morale e la responsabilità, ossia l’imputabilità, presuppongono, inevitabilmente, l’aseità. Le azioni scaturiranno sempre, necessariamente, per effetto dei motivi e in relazione a essi, dal carattere di un essere, vale a dire dalla natura che gli è peculiare, ed è quindi immutabile. Perciò, per essere responsabile, quell’essere deve esistere come entità primigenia e in virtù di un autonomo potere assoluto: deve, cioè, per quanto concerne la sua existentia e la sua essentia, essersi fatto da sé, essere autore di se stesso – se vuole essere il vero autore delle proprie azione. Ovvero: [...] la libertà non può trovar posto nell’operari, e, quindi, deve trovarsi nell’esse; perché che esista è sicuro.

 Non ha alcuna ragione di temere la morte uno che vede in sé l’essere primogenio ed eterno, l’origine di tutto ciò che é, e sa che nulla esiste al di fuori di lui.

Contro il panteismo io muovo una sola, importante obiezione: non dice nulla. Chiamare dio il mondo non vuol dire spiegarlo; significa soltanto arricchire la lingua di un inutile sinonimo della parola «mondo». Dire «il mondo è dio» è come dire «il mondo è il mondo».

Dovrebbe, veramente, essere un dio sconsiderato quello che, per divertirsi, non sapesse trovare niente di meglio che trasformarsi in un mondo come questo, un mondo così affamato, per sopportare in esso dolori, miseria e morte che non conoscono limiti né hanno un fine, sotto le specie di milioni innumerevoli di esseri viventi, ma viventi nell’angoscia e nei tormenti, che restano in vita, tutti quanti, per qualche tempo, soltanto divorandosi l’un l’altro – per esempio, sotto la specie di sei milioni di schiavi negri, che ricevono, in media, ogni giorno, sessanta milioni di frustate sul corpo nudo; o di tre milioni di tessitori europei che vegetano stentatamente nella fame e nell’affanno di umide stanze o in squallide fabbriche, e così via. Che bel passatempo, per un dio che, in quanto tale, dovrebbe essere abituato a ben altro!

Io vorrei contrapporre alla formulazione kantiana del principio morale la norma seguente: quando si entra in contatto con una persona non ci si metta a giudicarla, con criteri oggettivi, secondo il suo valore e la sua dignità: non si prendano, cioè, in considerazione né la malvagità della sua volontà né la limitatezza del suo intelletto e la stoltezza delle sue idee; perché quella malvagità potrebbe ingenerare antipatia nei suoi riguardi, e la stoltezza del disprezzo; ma si guardi soltanto alle sue sofferenze, alla sua miseria, alla sua angoscia, ai suoi dolori. Allora ci si sentirà, sempre, simili a lui, si proverà simpatia per lui, e, in luogo di avversione o di disprezzo, si proverà per lui quella compassione che, sola, è quella ἀγάπη [amore] a cui ci esorta il Vangelo. E non è certo con un’indagine sulla sua presunta «dignità» che si può evitare che nasca, nei suoi confronti, avversione o disprezzo: l’unica posizione da assumere a quel fine è, al contrario, quella della compassione.

Data la maggiore profondità delle loro concezioni etiche e metafisiche, i buddhisti non prendono le mosse da virtù cardinali, ma da vizi cardinali.

Così ci tocca sentire che il suicidio è la più grande viltà, che è possibile soltanto in caso di pazzia, e altre insulsaggini del genere, o anche la frase, del tutto insensata, «uno non ha il diritto di suicidarsi»; mentre è evidente che su nulla al mondo uno ha diritti più incontestabili di quelli che riguardano la sua persona e la sua vita.

Non pensiamo che si debba desiderare tanto la vita da voler vivere comunque, qualunque esistenza si conduca. Chiunque tu sia, dovrai morire ugualmente, che tu sia vissuto bene o viziosamente e in modo nefando. Perciò ognuno, come rimedio per la sua anima, pensi soprattutto a questo: fra tutti i beni che la natura ha elargiti all’uomo nessuno è migliore di una morte che giunga quando è bene che giunga; e ciò che la morte ha di meglio è il fatto che ognuno se la può procurare da sé.

La religione è la metafisica del popolo; bisogna assolutamente lasciargliela, e, quindi, mostrare, esteriormente, rispetto per essa, perché screditarla vorrebbe dire portargliela via.

Ora, le varie religioni non sono altro che semplificazioni schematiche diverse, nelle quali il popolo coglie e si prospetta una verità che, in sé, gli è inattingibile, mentre, con quelle, si fa tutt’uno con essa, indissolubilmente. Perciò, mio caro, non avertene a male, ma schernire le religioni è, a un tempo, una meschinità e un’ingiustizia.
Ma non è, forse, altrettanto meschino e ingiusto pretendere che non vi debba essere alcun’altra metafisica all’infuori di quella, confezionata su misura per adattarsi ai bisogni e alle facoltà intellettuali della massa?

All’incirca, come una gamba di legno sostituisce una gamba naturale: ne prende il posto, adempie alla meno peggio le sue funzioni pretendendo di essere considerata una gamba vera, è costruita ora più ora meno abilmente, e così via. C’è, però, una differenza: di solito, prima della gamba di legno, ce n’era una vera, mentre la religione ha preso, dappertutto, il sopravvento sulla filosofia.
Ma per chi non ha una gamba naturale, una gamba di legno ha un grande valore. Devi tener presente che il bisogno metafisico dell’uomo vuole, assolutamente, essere soddisfatto: l’orizzonte dei suoi pensieri dev’essere chiuso, non può restare sconfinato.

Comunque, ammesso che la religione sia uno strumento eccellente per addomesticare e ammaestrare questa razza di bipedi dissennata, ottusa e malvagia, agli occhi di chi è amico della verità ogni fraus, per quanto pia possa essere, è riprovevole. La menzogna e l’inganno sarebbero strumenti davvero singolari per affermare le virtù. La bandiera a cui ho giurato fedeltà è la verità; le rimarrò fedele in tutto, e, senza curarmi del risultato, combatterò per la luce e per la verità.

Le religioni sono come le lucciole: per brillare hanno bisogno dell’oscurità. Ciò che occorre a tutte le religioni è un certo grado di diffusa ignoranza; quello che è il solo elemento in cui possano vivere. Non appena, invece, è consentito all’astronomia, alle scienze naturali, alla storia, alla geografia, all’etnologia, di diffondere ovunque la loro luce, e può finalmente prendere la parola anche la filosofia, ogni religione fondata sui miracoli e sulla rivelazione è destinata a tramontare; e allora è la filosofia a prendere il suo posto. Verso la fine del quindicesimo secolo, con l’arrivo di alcuni  dotti greci, spuntò, in Europa, il giorno della conoscenza e della scienza; quel sole continuò a salire, sempre più in alto, nel 1500 e nel 1600, due secoli così fecondi, e dissipò le nebbie del Medioevo. Parallelamente si ebbe, a poco a poco, il declino della Chiesa e della religione, tanto che, nel 18° secolo, alcuni filosofi inglesi e francesi potevano già insorgere, contro l’una e l’altra, direttamente, finché, sotto Federico il Grande, venne Kant, che sottrasse alla fede religiosa il sostegno della filosofia di cui aveva goduto fino ad allora, e, affrontando la questione con scrupolosità e pacatezza tutta tedesca, emancipò l’ancilla theologiae; con ciò essa assunse un aspetto meno frivolo, e tanto più serio. Di conseguenza, vediamo, nel 19° secolo, un cristianesimo molto indebolito, abbandonato quasi del tutto dai credenti più seri, un cristianesimo che lotta, ormai, per la sua stessa esistenza, mentre i sovrani, premurosi, cercano di mantenerlo in piedi con sostanze stimolanti, così come fa il medico che sostiene col muschio il moribondo.

Può anche darsi che sia addirittura imminente il momento, tanto profetizzato, in cui la religione si dipartirà dalle popolazioni dell’Europa, come la nutrice da un bambino troppo cresciuto per restare affidato alle sue cure e ormai pronto a ricevere gli insegnamenti di un precettore. E’, infatti, fuori di dubbio che pure e semplici dottrine religiose basate sull’autorità, sui miracoli e sulla rivelazione non sono adatte che all’infanzia dell’umanità.

Veramente è, questo, il lato peggiore di tutte le religioni: i seguaci di ciascuna ritengono che tutto sia loro permesso contro i seguaci di tutte le altre, coi quali, perciò, si comportano in modo estremamente malvagio e spietato. Così fanno i maomettani coi cristiani e con gli indù, e così fanno i cristiani con gli indù, coi maomettani, con le popolazioni americane, coi negri, gli ebrei, gli eretici e così via. Ma forse, quando dico «tutte», vado troppo lontano; e, in omaggio alla verità, debbo aggiungere che veramente, a quanto sappiamo, il fanatismo e gli orrori nati da motivi religiosi non appartengono che ai seguaci delle religioni monoteistiche, sono tipici, cioè, dell’ebraismo e delle sue due ramificazioni, il cristianesimo e l’Islam. [...] In pratica, l’intolleranza è un fenomeno proprio soltanto del monoteismo: un dio unico è, per sua natura, un dio geloso, e non ne lascia vivere altri. Al contrario, gli dei delle religioni politeistiche sono, per loro natura, tolleranti, vivono e lasciano vivere, e, soprattutto, sono benevoli verso i loro colleghi, gli dei della medesima religione; e poi la loro tolleranza si estende anche agli dei stranieri, che, quindi, vengono accolti ospitalmente, e talvolta, in seguito, ottengono il diritto di cittadinanza, ciò che è dimostrato soprattutto dall’esempio dei romani, che accoglievano di buon grado e onoravano divinità frigie, egizie e altre ancora.

Nella sua qualità di scienza, la filosofia non ha assolutamente nulla a che vedere con ciò che si deve credere né con ciò che è lecito credere; il suo oggetto è soltanto ciò che si può sapere.

A ogni modo, si tratta di due cose fondamentalmente diverse [fede e filosofia], che, per il bene di entrambe, debbono restare rigorosamente separate, così che vadano ciascuna per la sua strada ignorandosi reciprocamente.

C’è un altro difetto fondamentale del cristianesimo del quale si deve far parola; [...] ha distaccato l’uomo dal mondo degli animali,  a cui egli, in sostanza, appartiene e, dando importanza a lui soltanto, li tiene addirittura in conto di cose. [...] Ora, il difetto fondamentale di cui ho detto è una conseguenza della creazione dal nulla, dopo la quale il creatore (capp. 1 e 9 della Genesi), consegna all’uomo tutti gli animali, proprio come se fossero cose, e senza nemmeno raccomandargli di trattarli bene, come fa, per lo più, uno che vende cani nel separarsi dal cane che ha allevato; e glieli consegna perché imperi su di loro, cioè ne faccia quello che vuole, dopo di che, nel secondo capitolo, gli conferisce, per di più, il titolo di primo professore di zoologia, in quanto lo incarica di dar loro i nomi che dovranno portare di lì in avanti; il che, poi, non è che un simbolo della loro totale indipendenza dall’uomo, vale a dire della loro condizione di essere privi di diritti. Santa Ganga! Madre della nostra specie! Racconti di quel tipo mi fanno l’effetto del bitume e del foetor judaicus. Tutto dipende dalla visione ebraica, nella quale l’animale è un manufatto costruito a uso e consumo dell’uomo.

«Il giusto ha pietà del suo bestiame.» «Ha pietà»! Che razza di espressione! Si ha pietà di un peccatore, di un malfattore; non di un innocente, fedele animale, che spesso dà da vivere al proprio padrone e non ottiene, in cambio, altro che un po’ di cibo. «Ha pietà!» Non pietà, ma giustizia, è ciò che è dovuto agli animali; ma per lo più tale giudizio manca in Europa, perché il vostro continente è impregnato di foetor judaicus a un punto tale che la semplice, ovvia verità «l’animale è, in sostanza, la stessa cosa che l’uomo» è considerata uno scandaloso paradosso.

Non ci sono dubbi: è ormai tempo che, in Europa, si ponga fine, almeno per quanto riguarda gli animali, alla concezione ebraica della natura, e che si riconosca, si rispetti e si tuteli l’essenza eterna che vive, come in noi, così anche in tutti gli animali. Sappiatelo e tenetelo presente! Si tratta di una cosa seria, e non si può cambiare, nemmeno se coprite di sinagoghe tutta quanta l’Europa. Bisogna essere privi di ogni sensibilità e completamente cloroformizzati dal foetor judaicus per non riconoscere che gli animali sono, nella loro essenza e in ciò che più conta, assolutamente uguali a noi, e che la differenza sta unicamente nell’accidente, nell’intelletto, non nella sostanza, che è la volontà.

E’ vero, purtroppo, che l’uomo, spintosi a nord è perciò divenuto bianco, ha bisogno della carne degli animali (anche se, in Inghilterra, vi sono dei vegetarians); ma, a quegli animali, si deve dare una morte del tutto indolore usando il cloroformio e raggiungendo rapidamente l’organo vitale; e ciò non già, come si legge nell’Antico Testamento, per «compassione», ma per un maledetto obbligo nei confronti dell’essenza eterna che vive, come in noi, così in ogni animale.

Quelli che si immaginano che le scienze possano progredire e diffondersi sempre di più senza che ciò impedisca alla religione di continuare a sopravvivere e a prosperare sono vittime di grande errore. La fisica e la metafisica sono nemiche naturali della religione, e quindi questa è, a sua volta, nemica loro e fa, da sempre, tutto ciò che può per soffocarle, allo stesso modo che quelle si studiano di scalzare le sue fondamenta.

Le conoscenze che, in ogni campo, aumentano di giorno in giorno e si estendono sempre più in tutte le direzioni, allargano l’orizzonte di ogni individuo nell’ambito dei suoi particolari interessi, e lo allargano a tal punto che, fatalmente, esso finirà per raggiungere un’ampiezza tale che al suo contatto i miti che costituiscono l’ossatura del cristianesimo rinsecchiranno, e non offriranno più appiglio alla fede. La religione è come il vestito di un bambino quando il bambino è cresciuto: non gli va più bene, e non c’è niente da fare: il vestito si squarcia. Fede e conoscenza rinchiuse nella medesima testa non vanno d’accordo; ci stanno come un lupo e una pecora chiusi nella medesima gabbia: e la conoscenza è il lupo che minaccia di divorare la vicina. Vediamo come, quando si sente in pericolo di morte, la religione si aggrappi alla morale, quella morale di cui vorrebbe farsi credere madre; ma non le è madre per nulla.

Se la civiltà ha raggiunto il suo culmine fra i popoli cristiani, ciò non dipende da un’influenza positiva del cristianesimo, ma dal fatto che il cristianesimo è morto e ha, ormai, ben poca influenza: e infatti, finché ne ebbe molta, e cioè nel Medioevo, la civiltà era molto arretrata. Per contro l’islamismo, il brahmanesimo e il buddhismo esercitano ancora, sulla vita, un’influenza decisiva: ma in Cina assai di meno e per questo la sua civiltà è abbastanza vicina a quella europea. Ogni religione è agonistica rispetto alla civiltà.

«Se si studia il buddhismo nelle sue fonti», disse Schopenhauer, «ci si rischiara la mente: qui non ci sono le stupide chiacchiere sul mondo creato dal nulla e su un tizio personale che lo avrebbe fatto. Al diavolo tutta questa robaccia.»

«Teologia e filosofia» disse, «sono come i due piatti della bilancia. Quanto più si abbassa l’uno, tanto più si alza l’altra. Quanto più nel nostro tempo cresce la miscredenza, tanto più diventa grande il bisogno di filosofia, di metafisica; e allora devono venire da me.»

A. Schopenhauer, O si pensa o si crede, Rizzoli, 2011

Fonte: http://www.manualedifilosofia.altervista.org/alterpages/files/Osipensaosicrede-Schopenhauer.doc

Sito web da visitare: http://www.manualedifilosofia.altervista.org/

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