Fondamenti etici delle scuole ellenistiche

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Fondamenti etici delle scuole ellenistiche

 

La caratteristica peculiare di tutte le scuole filosofiche fiorite in epoca ellenistica è la dominante concentrazione sulla questione etica. Nel pensiero filosofico classico questa componente non era scindibile da quella politica, in virtù della sostanziale equivalenza fra uomo e cittadino; nella mutata temperie politica successiva alla costituzione dei regni ellenistici e alla perdita del potenziale di azione del singolo sulla società, la riflessione filosofica pone invece al centro non più il cittadino, ma l’individuo. Come scrive Giovanni Reale (Storia della filosofia greca e Romana): “L’etica classica, che conosciamo, era sostanzialmente basata sul presupposto dell’identità dell’uomo col cittadino e, perciò, essa era impiantata sulla politica o, addirittura, subordinata alla politica. Per Platone e per Aristotele sono impensabili sia una etica non politicamente finalizzata, sia una politica non eticamente fondata. Ebbene, per la prima volta nella storia, la filosofia morale, in età ellenistica, grazie alla scoperta dell’individuo, si struttura in modo assolutamente autonomo, basandosi sull’uomo come tale, considerata nella sua singolarità”.

Fine supremo della filosofia, in tutte le scuole ellenistiche, è pertanto, in prospettiva individualistica, il conseguimento della felicità: eudaimonia in greco, in latino vita beata. La filosofia deve fornire quei precetti, quel sistema di valori, quei criteri per l’azione, che in epoca classica erano dettati dalle regole della vita associata, in sostanza dalla polis. La filosofia tenta dunque di rispondere all’urgenza di risolvere il problema della vita, hic et nunc: più che alla sophia, la sapienza, la filosofia ellenistica aspira al raggiungimento della phronesis, una “saggezza pratica”, un’arte del vivere, che permetta di gestire in modo indolore la propria esistenza.

Per tutte le scuole, pur nelle diverse declinazioni, il tramite per raggiungere la felicità sta nella capacità del singolo di controllare e/o superare le passioni, che sconvolgono l’animo e lo conducono al turbamento.
Perché ciò si realizzi, l’uomo deve rendersi indipendente da tutti gli elementi che non dipendono da lui, si tratti di beni esteriori o delle prove cui il destino ci sottopone: l’ideale massimo diviene dunque l’autarchia, il bastare a se stessi. L’autarchia è raggiungibile attraverso una valutazione corretta della realtà, tramite lo strumento che solo l’uomo possiede: la sua ragione, il logos.
L’uomo che riesce a raggiungere questa indipendenza totale e questa capacità di non lasciarsi turbare è il saggio, il nuovo ideale umano presente in tutte le scuole ellenistiche, pur se diversamente caratterizzato. Comune ad ogni sistema è però l’idea che il saggio, avendo ottenuto la perfetta felicità, sia da considerarsi in nulla inferiore agli dei, visto che la divinità è caratterizzata, nei diversi sistemi, o dalla perfezione razionale o dall’assenza di dolore.
Secondo Epicuro il saggio deve perseguire l’atarassia, cioè la costruzione di un’assenza di contatto con tutto ciò che può creare turbamento; per Zenone, fondatore dello Stoicismo, l’apatheia, cioè la capacità di non sentire i turbamenti dell’animo, dominandoli attraverso il rigoroso esercizio di una corretta valutazione razionale degli eventi; riduzione dei bisogni allo stato puramente animale predica Diogene, fondatore del Cinismo; secondo Pirrone, il fondatore dello Scetticismo, il saggio deve conquistare una totale indifferenza per qualsiasi evento esterno, visto che nulla può essere giudicato bene o male, in quanto non esistono criteri che consentano di stabilire la verità delle delle sensazioni (epoché, sospensione del giudizio).

Vale la pena sottolineare come, di fatto, denominatore comune di tutte queste posizioni sia una morale “di riduzione”, rinunciataria, connotata in termini negativi più che positivi: la vita beata si raggiunge attraverso la negazione di gran parte di ciò che costituisce la vita umana nella sua inesauribile complessità (bisogni, desideri, passioni, slanci).

“Dunque l’uomo, per essere felice, non ha bisogno né di un dio, che dall’alto lo aiuti, né di un’anima immortale e di una vita nell’aldilà, né di una società politicamente organizzata che lo tuteli, né delle cose esteriori (quali possedimenti o ricchezze) che lo rassicurino e, al limite, nemmeno di particolari doti fisiche. L’uomo ha bisogno unicamente della sua ragione, del logos, che rettamente ragioni, del logos che gli dimostri come la via che porta alla pace dello spirito, che è la vera felicità, sta appunto nella rinuncia, operata nella misura del possibile, di tutte quelle cose che non dipendono da noi, e nel ripiegamento su di noi e sulle cose che dipendono da noi, nella inespugnabile fortezza del nostro logos.” (G. Reale)

Fonte: http://www.liceogalvani.it/download_file.php?id=8860

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