Immanuel Kant la percezione e il giudizio estetico

Immanuel Kant la percezione e il giudizio estetico

 

 

 

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Immanuel Kant la percezione e il giudizio estetico

 

Immanuel Kant:
la percezione e il giudizio estetico

1. il sentimento: il fine e la bellezza
1.1. Una terza facoltà, il sentimento, si pone come intermedia tra quella conoscitiva e quella pratica. A essa Kant dedica la sua terza opera critica, intitolata Critica del giudizio, pubblicata nel 1790. Nel pensiero moderno (Descartes, Pascal, Spinoza e Hume) il sentimento ha acquistato un significato autonomo ed è stato usato per indicare sia la sfera della soggettività e i moti che hanno origine nell’anima, sia la facoltà che conduce a intuizioni non accessibili alla razionalità logica (come il senso del bello, del fine, del divino), sia il fondamento originario della morale; il sentimento costituisce dunque per i filosofi moderni una facoltà autonoma.
Kant imposta l’indagine su di esso secondo le linee di metodo della filosofia critica: non basta dunque indicare i risultati cui giunge il sentimento, ma bisogna chiarirne la funzione e gli ambiti di applicazione; ciò si ottiene solo illustrando i suoi principi formali e primi (le forme a priori).
L’analisi della facoltà del sentimento consente a Kant di ridefinire, secondo un quadro organico, l’intero progetto della filosofia critica. La distinzione tra le facoltà del soggetto e in particolare tra i due modi autonomi della ragione, quello teorico e quello pratico, è solo un’esigenza di metodo e Kant sottolinea lo stretto legame tra campo teorico e pratico. Il rapporto tra i due campi in vista del loro comporsi organico e sistematico è messo in luce dai principi formali a priori del sentimento: la finalità.
1.1.1. l’isola e il mare. L’intera riflessione di Kant è l’esposizione delle forme con cui le facoltà dell’uomo, la conoscenza, la volontà, il sentimento, organizzano i dati dell’esperienza definendo e delimitando così, secondo forme, il proprio oggetto specifico. Kant esprime la convinzione di aver fornito con completezza, chiarezza e certezza il quadro completo delle forme a priori delle facoltà umane: isole di fermezza di fronte al mare tempestoso e mutevole dell’esperienza. «Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma, questa terra è un’isola, chiusa dalla sua stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo.» (Kant, Critica della ragion pura, 243)

1.2. il sentimento e la finalità. È un principio finalistico che consente al soggetto di ordinare e organizzare la realtà (già definita conoscitivamente, dalle facoltà della ragione, in giudizi determinanti) in vista di un fine, di una nuova prospettiva. Le conoscenze teoretiche e pratiche sono coinvolte e prese in esame dal sentimento che riflette su di esse in vista di un fine (viene così formulato, come riflesso del fine su di loro, una nuova valutazione: un giudizio riflettente).
1.2.1. giudizio determinante e giudizio riflettente. Dopo aver ricordato che con il termine giudizio si intende «la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale», Kant distingue tra «giudizio determinante» e «giudizio riflettente». La prima forma di giudizio parte da un universale dato, da un concetto a priori dell’intelletto, da una regola o da una legge della ragione per costituire enunciati particolari; poiché i concetti di partenza sono pienamente noti alla ragione, il giudizio formulato a partire da essi a proposito di realtà particolari esprime una conoscenza scientifica necessaria e universale di ciò che è contingente; un tale tipo di giudizio è dunque determinante. La seconda forma di giudizio ha il suo punto di partenza in ciò che è particolare allo scopo di ricondurlo a un principio che ne giustifichi intenzionalmente e finalisticamente l’esistenza e l’ordine (è adatto alla circostanza, a cosa serve, ti piace…). La facoltà del giudizio rivela, in quest’ultima forma, una struttura di tipo finalistico, ma non ha alcuna conoscenza di un fine determinato verso cui tendere, il fine di cui si parla come finalismo a priori del sentimento non è né un concetto a priori, né un universale empirico; il fine è solo un principio o una struttura regolativa a priori che rende possibile una visione del mondo, coerente con le esigenze proprie della facoltà di giudicare.
1.2.2. Lo studio della finalità come forma trascendentale del giudizio porta Kant a distinguere analiticamente tra una finalità soggettiva e una finalità oggettiva. La prima si presenta come principio a priori dei giudizi estetici di bello e di sublime, la seconda dei giudizi finalistici che esprimono l’organizzazione della natura secondo un fine (organizzazione teleologica); del giudizio estetico e di quello teleologico si occupano due distinte sezioni della Critica del giudizio.
1.2.3. I giudizi riflettenti (estetici e teleologici) sono in realtà quelli che maggiormente ricorrono (al 90%?) nel parlato degli uomini. Quotidianamente non siamo occupati a definire gli oggetti o le situazioni, essi sono dati per noti tra chi parla e solo un errore richiede un intervento determinate (non è un acero è un platano); siamo invece per lo più occupati a esprimere il nostro parere circa la loro rispondenza ad un fine (esemplificando: non “questo è un vestito” ma “questo vestito mi sta bene”… e via dicendo: “è una situazione imbarazzante…, avevo sperato che…, mi sembra che la cosa possa andare…, ti conviene aspettare che…” e tutto ciò in vista di un fine più o meno esplicito o esplicitabile ma sempre presente come un a priori perché possa essere espresso un giudizio riflettente).

1.3. il giudizio riflettente teleologico basato sulla finalità oggettiva e la sua funzione.
Nella seconda parte dell’opera, denominata Critica del giudizio teleologico (dal greco télos, fine), Kant fa derivare le visioni finalistiche della natura dalla possibilità, insita nel soggetto, di riflettere sull’intero ordine del mondo, già determinato dall’intelletto nelle forme della universalità e della necessità meccanica, assumendo il principio della finalità oggettiva; la finalità della natura è definita oggettiva non perché esprime modi di essere della realtà in sé, ma in quanto viene riferita dal soggetto agli oggetti della conoscenza.
1.3.1. L’uomo, riflettendo sul mondo delle rappresentazioni che l’intelletto e la ragione hanno organizzato in leggi necessarie e scientifiche può considerare l’ordine naturale che la conoscenza ha delineato come se fosse fondato sulla tendenza della natura a realizzare un proprio fine interno; una simile prospettiva non aumenta la conoscenza e non costituisce in forme nuove i contenuti dell’esperienza, si limita ad avviare una nuova lettura della realtà naturale.
1.3.2. La finalità costituisce un principio soggettivo e trascendentale del sentimento e non afferma assolutamente nulla circa una struttura finalistica del mondo in sé. I giudizi estetici e teleologici si fondano sul sentimento, non hanno come base né concetti dell’intelletto, né principi logici della ragione, non sono perciò momenti della conoscenza scientifica. Non vi è alcuna possibilità di fondare ed esprimere con gli strumenti della conoscenza razionale e scientifica i giudizi estetici e finalistici che l’uomo esprime nei confronti dell’esperienza; tuttavia l’indagine scientifica ne trae nuovo impulso, in quanto l’idea della finalità naturale accende la speranza che «quanto più conosceremo intimamente la natura, o quanto più potremo ragguagliare le parti ancora ignote a quelle che si conoscono, tanto più la troveremo semplice nei suoi principi e, allargandosi la nostra esperienza, la troveremo sempre più unitaria nell’apparente eterogeneità delle sue leggi empiriche».

1.4. il giudizio riflettente estetico basato sulla finalità soggettiva e l’ambito dell’estetica.
Nella prima parte della Critica del Giudizio, intitolata Critica del giudizio estetico, Kant illustra come il giudizio riguardante il bello e il sublime nella natura e nell’arte derivi dal sentimento di piacere e dispiacere dovuto alla percezione di un’armonia o disarmonia tra il soggetto (tra le facoltà del soggetto: immaginazione e intelletto) e l’ordine che egli scorge (la forma) nella natura.
L’estetica è una scienza che ha per oggetto la conoscenza sensibile, ne studia i principi formali (spazio e tempo) e mira a guidarla al raggiungimento della sua perfezione: la bellezza. La bellezza è la perfezione della conoscenza sensibile o la sua massima realizzazione. Nella Critica del Giudizio, Kant indica le condizioni trascendentali che sorreggono la nostra percezione della bellezza e descrive il comportamento del sentimento in situazioni estetiche con il conseguente giudizio di bello e brutto, di piacere e dispiacere, di gusto e disgusto.
La proposta analitica e descrittiva di Kant: «Ma quell’elemento soggettivo di una rappresentazione che non può essere elemento di conoscenza è il piacere o il dispiacere congiunto con la rappresentazione stessa: perché con l’uno o con l’altro io non conosco niente dell’oggetto rappresentato benché essi possano bene essere l’effetto di qualche conoscenza. Ora la finalità di un oggetto, in quanto è rappresentata nella percezione, non è una proprietà dell’oggetto stesso (perché tale proprietà non può essere percepita), sebbene possa esser desunta dalla conoscenza degli oggetti. Sicché la finalità, che precede la conoscenza di un oggetto e che, anche quando non si voglia usare la rappresentazione in vista di una conoscenza, è immediatamente legata con la rappresentazione stessa, è l’elemento soggettivo di essa, ciò che non può mai divenire elemento di una conoscenza. Si dice perciò che l’oggetto è conforme al fine, solo perché la sua rappresentazione è legata immediatamente col sentimento di piacere; e questa rappresentazione stessa è una rappresentazione estetica della finalità. — Rimane solo il problema se vi è in genere una simile rappresentazione della finalità.
Quando il piacere è legato con la semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dell’intuizione, senza riferimento di essa ad un concetto in vista di una conoscenza determinata, la rappresentazione non è riferita all’oggetto, ma unicamente al soggetto; e il piacere non può esprimere altro che l’accordo dell’oggetto con le facoltà conoscitive che sono in giuoco nel Giudizio riflettente, e in quanto esse sono in giuoco, e quindi soltanto una finalità soggettiva formale dell’oggetto. Giacché quella apprensione delle forme nell’immaginazione non può mai avvenire, senza che il Giudizio riflettente almeno le paragoni, anche inintenzionalmente, con la sua facoltà di riferire le intuizioni ai concetti. Ora, se in questa comparazione l’immaginazione (come facoltà delle intuizioni a priori) si trova d’accordo spontaneamente con l’intelletto, come facoltà dei concetti, mediante una rappresentazione data, ed è suscitato un sentimento di piacere, allora l’oggetto deve essere riguardato come conforme al fine rispetto al Giudizio riflettente. Un giudizio cosiffatto è un giudizio estetico sulla finalità dell’oggetto, e che non si fonda sopra alcun concetto dato dell’oggetto, né ne fornisce alcuno. Si giudica cioè la forma dell’oggetto (non l’elemento materiale della sua rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa — senza alcuna mira a un concetto che ne potrebbe ricavare — come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tal oggetto; e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappresentazione in modo necessario, e quindi non solo per soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L’oggetto allora si chiama bello e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e per conseguenza, universalmente) si chiama gusto.»
Kant, I. Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1978 p. 30-31
1.4.1. In sintesi sulla situazione estetica relativa al giudizio di gusto e di bellezza: la forma dell’oggetto è colta nella rappresentazione come conforme o armonizzatesi con l’immaginazione (facoltà delle intuizioni a priori) e con l’intelletto (facoltà delle forme concettuali a priori) del soggetto; dall’armonia tra la forma dell’oggetto e le forme del soggetto deriva un sentimento di piacere (legato alla rappresentazione) e un giudizio di gusto e quindi di bellezza.

2. il sentimento: la bellezza e il sublime
2.1. La bellezza e il giudizio estetico.
2.1.1. La bellezza è una relazione. La bellezza non è una qualità della realtà, non è un predicato oggettivo ma nemmeno un predicato o giudizio solo soggettivo, un semplice stato d’animo del soggetto; è invece una situazione di relazione (uno stare in relazione) che poggia sul rapporto dell’oggetto con il soggetto: bello (brutto) è un oggetto, o meglio la rappresentazione di un oggetto che è immediatamente in armonia (disarmonia) con le forme del soggetto, determina perciò un sentimento di piacere (dispiacere), sulla base del quale formuliamo giudizi di gusto (disgusto).
2.1.2. la polarità sensibile e intelligibile (immaginazione e intelletto).
2.1.2.1. Commenta H.G.Gadamer, in Verità e metodo,: « non si può parlare di bellezza là dove l’immaginazione si limita a rendere schematicamente sensibile un concetto dell’intelletto, ma solo dove l’immaginazione può trovarsi in libero accordo con l’intelletto, cioè dove essa può essere produttiva; ma questa produttività dell’immaginazione è tanto più ricca non quando è libera in senso assoluto, come rispetto alle volute degli arabeschi, bensì quando vive entro un certo campo determinato, in cui la tendenza all’unità propria dell’intelletto non le si presenta come un insieme di limiti, ma come stimolo della sua libera attività.»
2.1.2.2. Commenta Herbert Marcuse, in Eros e civiltà, in coerenza con gli obiettivi critici e liberatori della Teoria critica della società : «Per Kant la dimensione estetica è la dimensione intermedia nella quale sensi e intelletto si incontrano. La mediazione viene compiuta dall’immaginazione che è la « terza » facoltà mentale. Inoltre la dimensione estetica è anche la dimensione intermedia, nella quale s’incontrano natura e libertà. Questa duplice mediazione è resa necessaria dall’invadenza del conflitto, generato dal progresso della civiltà, tra le facoltà inferiori e quelle superiori dell’uomo; questo progresso fu raggiunto per mezzo del soggiogamento delle facoltà sensoriali alla ragione e per mezzo della loro utilizzazione repressiva a scopi sociali.» (in Fubini, Enrico 1980 L’estetica contemporanea, Loescher, Torino)
2.1.2.3. in approfondimento: una aporia messa in luce, in particolare da Simone Weil.
«… il muro di fronte al quale secondo la Weil siamo arrestati quando parliamo di bellezza.
Il muro è dato dall’insormontabilità di un'aporia: se ci riferiamo alla bellezza che possiamo percepire, rischiamo di essere travolti dal destino che toccò a Narciso. Ma se ci rivolgiamo alla cara patria, secondo l’insegnamento di Ulisse, dobbiamo cancellare tutto ciò che ha a che fare con la bellezza sensibile, dobbiamo voltare le spalle a Calipso, dobbiamo negarci a tutto ciò che della bellezza appare nel sensibile. Con una ulteriore aggravante. Poiché sia in Platone che in Plotino il sensibile resta comunque il punto di partenza per la nostra ascesa all’intelligibile, poiché sono i bei corpi che risvegliano in noi l’amore per la bellezza in sé, la cancellazione del sensibile rischia di privarci anche della possibilità di ascendere all’intelligibile.
Per intraprendere la difficile strada del diaporéin, dell’ardua ricerca di un cammino che conduca fuori dall’aporia, si può cominciare col cogliere qualcosa di comune in entrambe queste impostazioni, nel senso che ambedue assolutizzano in maniera esclusiva uno dei due poli, entro i quali si tende la questione della bellezza. Un tentativo di procedere oltre il muro, di individuare un’alternativa al tragico destino di Narciso, senza tuttavia identificarsi con la scelta di Ulisse, può forse essere individuato in uno spunto offerto dalla stessa Weil.
In uno dei quaderni redatti a Marsiglia nel 1941, poco prima di abbandonare definitivamente la Francia, verso gli Stati Uniti, prima, e poi verso l’Inghilterra, si legge: «il bello è l’apparenza manifesta del reale. Il reale è essenzialmente la contraddizione». Per poi concludere subito dopo: «l’essenza del bello è contraddizione, scandalo e in nessun caso mera convenienza, pacifico accordo. È scandalo che si impone e colma di gioia». […]
Assecondando il percorso indicato dalla Weil, possiamo allora tentare di abbozzare una via di uscita, un modo per superare il muro che altrimenti resta insormontabile. Anzitutto, i due termini della polarità sensibile-intelligibile non sono l’uno isolabile rispetto all’altro, non si danno nella loro realtà, se non nella tensione che sempre li connette. In secondo luogo, e di conseguenza, non vi è affatto un percorso che conduca — una volta per tutte — dall’uno all’altro. Vi è piuttosto un procedere inconcludibile, un transito che prosegue, un viaggiare che mai raggiunge definitivamente la meta.
Si potrebbe rileggere in questa luce la stessa figura di Ulisse, risalendo in questo caso al mito greco originario, e alla pregnante ripresa dantesca, più ancora che alla lettura che ne fornisce Plotino. Secondo una tradizione molto antica, dopo il suo ritorno in patria, Ulisse sarebbe ripartito, avrebbe ricominciato il suo incessante peregrinare, fino a morire lontano da Itaca, come era stato profetizzato. Ecco, la bellezza non è la patria raggiunta una volta per tutte, non è la solare e definitiva contemplazione del bello in sé. Questo possesso ci resta precluso. Ciò che nella condizione umana è soltanto possibile è qualcosa che non si identifica né con le tenebre della caverna, né con la solare contemplazione della vera bellezza. Ma quel percorso accidentato e discontinuo nel quale tendiamo incessantemente verso la patria, senza tuttavia mai poterla compiutamente raggiungere.» (Curi Umberto 2013 L’apparire del bello. Nascita di un’idea, Bollati Boringhieri, Torino, 96, 97)
2.1.3. L’ambiguità della parola estetica, tra percezione sensibile e giudizio di bellezza, è la più nota ambiguità strutturale e insopprimibile del termine estetica. Il modello è diffuso e ufficializzato dalle opere di Kant, e proviene dalle posizioni di Baumgarten. Occorre mettere in luce la relazione tra i due ambiti di analisi della sensibilità o la relazione interna alla ambiguità della parola estetica: percezione sensibile e giudizio di bellezza. Si tratta di una doppia definizione e una doppia direzione di analisi, ma è anche una ambiguità insopprimibile e in necessaria connessione, in quanto i due processi, pur nettamente distinti nell’impostazione analitica, sono inscindibilmente legati da molti punti di vista:
2.1.3.1. L’estetica è termine che nasce per indicare e porre in analisi la percezione sensibile (Kant, Critica della Ragion pura: estetica trascendentale) «Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità. Deve esserci una tale scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i principi del pensiero puro, e vien denominata logica trascendentale.»
2.1.3.2. L’estetica è termine che per lo più ora indica il giudizio di bello e di brutto e studia le condizione della sua esprimibilità. Si lega quindi al concetto di bellezza come «forma della finalità di un oggetto … senza la rappresentazione di uno scopo». (Kant, Critica del Giudizio: Critica del giudizio estetico. Analitica del bello e del sublime (introduzione)
2.1.3.3. la bellezza è la perfezione della conoscenza sensibile o sua massima realizzazione. L’estetica infatti è una scienza che ha per oggetto la conoscenza sensibile e che mira a guidarla al raggiungimento della sua perfezione che è la bellezza. Nell’esperienza della bellezza immaginazione e concetto si avvicinano secondo una modalità particolare, apparentemente antitetica: rimandano l’un l’altro e si rafforzano in forza della loro autonomia. Il concetto ha nell’immagine (immaginazione intesa come attività di pensare attraverso immagini) la propria immediata e globale realizzazione, una immediatezza la cui pienezza è difficilmente traducibile nei modi dell’intelletto; l’immagine ha però nel concetto la possibilità di esplorare analiticamente la densità irrisolta di significato, di richiami e di rimandi che formalmente contiene.
2.1.4. l’arte, nella bellezza, è guida al percepire; uno stretto, inscindibile e fecondo legame: arte e percezione attraverso la bellezza. L’arte si lega strettamente all’immagine e al suo apparire, nell’indistinzione che caratterizza la sensazione («una originaria massa di immagini che sgorgano con flusso impetuoso dall’originaria facoltà della fantasia umana» Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale), prima che la lettura concettuale ne avvii una formale definizione. Si può definire l’arte, nella sua generalità oltre che in molti suoi aspetti, come la realtà considerata (con possibile sospensione di altri interventi di sintesi conoscitiva) dal punto di vista percettivo.
2.1.4.1. Il giudizio estetico influenza, forma e modifica, fa sorgere ed educa, i processi percettivi; «l’arte è profondamente coinvolta nel processo stesso della percezione» (Herbert Read) e la percezione è fortemente influenzata e formata dalla produzione e sensibilità artistica.
«Ognuno di noi, maturando, restringe i propri orizzonti di vita, si specializza, si chiude entro una sfera determinata di affetti, interessi, conoscenze. L’esperienza estetica gli fa vivere altri mondi possibili, e così gli mostra anche la contingenza, relatività, non definitività del mondo “reale” entro cui è chiuso.» (Vattimo, Gianni 1989 La società trasparente, Garzanti, Milano p.20). L’arte diventa, insomma, un passaggio al vedere; la sua frequentazione ha l’effetto di cambiare il nostro modo di vedere e guardare la realtà. «Può darsi che le navette spaziali non si accostino alle stazioni orbitali secondo le movenze di un valzer viennese, o che con il medesimo accompagnamento le hostess, per servire il pranzo in cabina, non facciano il loro ingresso ruotando di 360 gradi: ma dopo 2001 [Odissea nello spazio] risulta difficile pensare che non sia così.» (Codignola Matteo 2008 Un tentativo di balena, Adelphi, Milano p.32)

2.2. Il sublime o la massima espressione del sentimento in cui è essenziale l’illimite, l’infinito.
2.2.1. Come richiamo e introduzione: nella situazione estetica relativa al giudizio di gusto e di bellezza, la forma dell’oggetto è colta nella rappresentazione come conforme o armonizzatesi con l’immaginazione (facoltà delle intuizioni a priori) e con l’intelletto (facoltà delle forme concettuali a priori) del soggetto; dall’armonia tra la forma dell’oggetto e le forme del soggetto deriva un sentimento di piacere (legato alla rappresentazione) e un giudizio di gusto e quindi di bellezza. Tutto ciò si svolge nel campo di esperienze formali.
Vi sono invece situazioni estetiche (percettive, sensibili) segnate da una sproporzione o da una asimmetria che interessa ad un tempo il dato dell’esperienza e lo stato delle facoltà del soggetto; situazioni che non si lasciano ricondurre a forme, alle quali non appartiene il concetto di limite, che risultano indefinibili, illimitate, ad esse sembra competere in forma essenziale l’assenza di forma e l’infinito. Nella Critica del Giudizio Kant studia queste esperienze estetiche nella sezione Analitica del sublime, ne indica le sedi, le condizioni a priori o trascendentali e, soprattutto, descrive lo stato del soggetto di fronte e nella situazione del sublime.
2.2.2. Nell’indicare le condizioni trascendentali del sublime matematico e del sublime dinamico della natura, Kant spiega come il sublime nasca da una asimmetria, una «sproporzione», tra la tendenza dell’immaginazione e la natura della ragione: «nella nostra immaginazione vi è una spinta a proseguire all’infinito, e vi è invece nella nostra ragione una pretesa all’assoluta totalità, come ad una idea reale» (Kant CdG, 99); in altri termini, il sublime è la massima espressione del sentimento in cui è essenziale l’illimite, l’infinito.
2.2.3. Le sedi del sublime: la sezione Analitica del sublime, della Critica del Giudizio, tratta del sublime matematico e del sublime dinamico della natura, per indicarne l’aspetto trascendentale. Seguendo la definizione del sublime si può sostenere che non vi è settore in cui la dimensione dell’infinito e quindi l’esperienza del sublime, non sia destinata ad affacciarsi in imprevedibile varietà di modi. Il sublime è legato a ciò che è “assolutamente grande”, che è illimitato, che non ha forma ed è inadeguato e quindi violento nei confronti dalla sensazione e dell’immaginazione, dell’intelletto e della stessa ragione; la smisurata grandezza dell’oggetto lo colloca al di là di ogni possibile comparazione e al di là di ogni principio di conoscenza (determinabile in forza di un limite, di una forma).

2.3. la sfida, rappresentare l’irrapresentabile: l’estetica, il sublime e il piacere negativo.
La rappresentazione svolge un ruolo fondamentale nelle procedure di riconoscimento concettuale dei dati fenomenici; a partire da Platone e da Aristotele la rappresentazione svolge una funzione intermedia tra la sensazione e il concetto; nell’impostazione di Kant, il mondo, in sé inconoscibile, lo è all’interno delle nostre rappresentazioni, centrali nel ruolo di sintesi svolo dalla immaginazione produttiva. L’esperienza del sublime riguarda l’immaginazione, potenziata ben oltre le capacità delle sue rappresentazioni.
2.3.1. rappresentare l’irrapresentabile: una presentazione senza rappresentazione; vale a dire una esibizione indiretta di ciò che non si può rappresentare intellettualmente attraverso concetti. La natura (nel caso del sublime naturale) è sublime in quei fenomeni la cui intuizione include l’idea della sua infinità e di fronte ai quali emerge nel soggetto una doppia tendenza: l’aspirazione verso l’infinito e un senso di inadeguatezza; un’attrazione e un timore (fascinosum et tremendum).
La situazione: la smisurata grandezza della forma dell’oggetto genera un senso di insufficienza e quindi di smarrimento, pena, timore, quasi respinti di fronte all’illimite, in sua dipendenza senza possibilità di orientamento per la conoscenza concettuale e per decisioni pratiche sul che fare (conoscenza e volontà sono come soggiogate e vivono la propria impotenza); per contrasto, tale sentimento di impotenza, rivela la consapevolezza di una possibilità (e potenza) illimitata del soggetto nel cammino delle sue rappresentazioni, dell’immaginazione; l’iniziale spavento e timore diventa sfida, fascino e attrazione generate dalla grandezza smisurata di ciò che viene avvertito. È questa l’esperienza del sublime, da non intendere come qualità della natura ma come sentimento del soggetto di fronte alle forme senza forma e senza rappresentabilità; di fronte alla esibizione indiretta (non concettualizzabile) dell’infinito. «… sublime è ciò che , per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi.» (Kant CdG 99)
2.3.2. si tratta di un piacere negativo che entra in gioco e in sfida con il piacere positivo della bellezza e della perfezione formale sfidandone la serenità per nuove direzioni.
«Il piacere pel sublime della natura è perciò soltanto negativo (mentre quello pel bello è positivo), vale a dire è il sentimento dell’immaginazione che si priva da sé della propria libertà, in quanto si determina conformemente a un’altra legge, che non è quella del suo uso empirico. In tal modo, l’immaginazione raggiunge un’estensione e una potenza maggiore di quella che ha sacrificata, ma il cui principio le è ignoto, mentre sente però il sacrifizio o la privazione e, nel tempo stesso, la
causa cui è sottomessa. Lo stupore che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo; sono soltanto una prova ad abbandonarvisi con la nostra immaginazione, per sentire il suo potere di collegare l’emozione suscitata da tali spettacoli con la serenità dell’animo, e di essere superiore alla natura in noi stessi, e quindi anche a quella fuori di noi, in quanto può avere influenza sul sentimento del nostro benessere.» (Kant CdG 122)
2.3.3. il richiamo del mare e il sublime
L’assedio del mare alimenta la volontà di terraferma: un’ansia di definire, tracciare confini, delimitare aree, che se esportata oltre il terreno sicuro della mente è miserabilmente destinata a creare vane illusioni di realtà (del resto, il mare, si sa, è pieno di sirene che promettono regni).
L’approccio al mare è fallace, fonte di illusioni, se lo si vuole trasformare in terraferma, o se nei suoi confronti si ragiona in termini di isola, si vuol ridurre cioè la sua ampiezza e il suo tumulto alle forme e alle misure della nostra isola, della nostra mente. Conosciamo la realtà attraverso i dati d’esperienza, i fenomeni, gestiti secondo le capacità e i modi delle facoltà sensibili e mentali proprie dell’uomo. Questa consapevolezza rimanda alla realtà in sé, di cui affermiamo l’esistenza ma anche non la conoscibilità come realtà in sé (è noumeno, una nozione della mente). L’esperienza tuttavia ci pone anche di fronte a dati che sconvolgono la nostra sensibilità in quanto non riusciamo a leggerli utilizzando le forme con cui i nostri sensi conoscono; non possono esserci, di conseguenza, schemi che riconducano quei dati a concetti; essi parlano al sentimento nell’esperienza del sublime, limite estremo della conoscenza estetica e percezione non formalizzabile dell’illimite.

3. Estetica antica (e medievale) e estetica moderna (romantica)
[testo in discussione 2 qui riportato provvisoriamente e con numerazione interna autonoma]
La percezione e la produzione estetica

1. problemi posti da insopprimibili ambivalenze
1.1. l’arte tra apparenza (apparire) e produzione (poiesis, produzione); il lascito di Platone e di Aristotele.
1.1.1. Platone: arte è imitazione (mìmesis) o apparenza? Da Platone sembra partire la lunga (e corta) tradizione della teoria mimetica dell’arte. Lunga in quanto ancora attribuita a Platone come sua principale teoria estetica, corta in quanto sembra una teoria improduttiva se non per la capacità di dare fondamento e contesto ultimo a sentenze di controllo, di censura o di condanna nei confronti della produzione artistica e delle sue pretese di autonomia. Interpretando infatti in senso non pedagogico (come vuole il contesto) ma metafisico il piano degli studi che Platone presenta al termine del sesto libro della Repubblica, è facile ricavare la tesi secondo cui l’arte è imitazione e copia e comprendere così le ragioni di un suo discredito. Se principi della realtà e della razionalità sono le idee essenze universali di cui le realtà particolari sono imitazioni o copie materiali, l’arte che, attraverso immagini, rappresenta la realtà fisica è imitazione dell’imitazione. Il suo oggetto prodotto è una lontana e sbiadita copia dei principi ideali cui mette capo la realtà; l’arte è imitazione e apparenza, illusione e inganno, allontana dalla realtà ideale.
1.1.1.1. Platone: arte è apparenza. L’affermazione che l’arte è apparenza, sulla base della sua natura mimetica, può suggerire una diversa formulazione della teoria dell’arte in Platone (Th. Wiesengrund Adorno, oltre a non disconoscere, in generale, la funzione conoscitiva della mimesi, nella sua estetica mostra quanto “l’opera d’arte deve alla forza rivelatrice della mimesi”, osserva J. Habermas 1981, Teoria dell’agire comunicativo, 518-519). L’arte è apparenza nel senso che l’essenza dell’arte è apparire, manifestazione; in ciò l’arte “imita” la realtà in quanto la realtà stessa nel suo accadere è manifestazione, continuo e infinito apparire. Così collocata l’arte esprime l’essenza della realtà, anzi ne mette in luce le forme secondo i criteri della bellezza contribuendo e guidando l’osservatore a cogliere il reale in sguardi e percezioni che avvertono e scoprono in forme sempre nuove la realtà poiché è la realtà stessa che consiste in un denso e mai risolto apparire, realtà e arte sono allora congiunte nel formare la sensibilità dell’uomo, attraverso i processi percettivi, alla scoperta della bellezza, del bene, del giusto…. La percezione del reale secondo la sensibilità estetica della bellezza è scoperta e lettura del reale secondo le sue mai del tutto svelate possibilità. Sul tema della possibilità si incentra, di seguito, la Poetica di Aristotele.

1.1.2. Aristotele e le arti poietiche. (in ripresa sommaria)
1.1.2.1. Uno specifico oggetto: le scienze poietiche costruiscono il proprio oggetto. Il loro campo di presenza riguarda ciò che può essere prodotto; non le cose accadute, ma ciò che può accadere; non si muovono quindi (così a prima vista) nel campo della realtà ma nel campo della possibilità.
1.1.2.2. Una specifica logica: il possibile, il verosimile, l’imprevedibile. L’arte, la pittura e la poesia, rappresentano la realtà dal punto di vista della possibilità, mostrano l’ambito della possibilità proprio della realtà. «L’opera come tale è una sospensione della realtà e non la sua conferma letterale.» Quindi gli elementi (o i passaggi) di carattere logico poietico sono tre: possibile, verosimile, imprevedibile (e anche l’imprevedibile cade nel campo della possibilità; i tre termini si prestano, significativamente, anche a definire la realtà).
1.1.2.3. Una specifica meraviglia. In quanto imprevedibile, la realtà costruita dall’arte genera stupore che è ad un tempo smarrimento e attrazione, disagio e fascino, allontanamento e richiamo. Nello studio che Aristotele svolge sugli effetti della tragedia lo stupore assume le due forme quasi antitetiche (ma inseparabili) quelle del terrore e della pietà; l’allontanamento e il richiamo diventano terrore e pietà, e così l’arte si trasforma in percorso di scoperta degli stati possibili e imprevedibili dell’anima; «… ma nello stesso tempo ciò che sopravviene deve risultare imprevisto, pará ten dòxan, in contrasto con l’attesa. […] Nel succedersi di casi legati fra loro da relazioni di verosimiglianza, deve insomma accadere qualcosa che — senza violare il nesso necessario — sia in contrasto con ciò che ci si aspetterebbe. Solo così, sarà più facile che emerga il thaumastòn, il «meraviglioso», ciò che può destare lo stupore dello spettatore.» (Curi Umberto 2013 L’apparire del bello. Nascita di un’idea, Bollati Boringhieri, Torino, p.64)

1.1.3. I legami dell’arte e la sua efficacia universale. La bellezza non esiste come un aspetto particolare o a indicare un’area specifica e determinata; dilaga in manifestazione e scoperta del possibile nella dimensione del reale, del tempo, delle facoltà dell’uomo. «Per un amplissimo tratto della sua storia la vicenda della bellezza non coincide affatto con quella delle «arti belle». Il destino della bellezza è connesso inizialmente, e per un lunghissimo periodo, non all’arte ma alla natura e, più in particolare, agli esseri viventi. La bellezza viene ad assumere nell’antichità anche un significato morale, e tutto ciò si è offuscato nel patrimonio culturale, ma è invece rimasto vivo anche oggi nel senso comune. Continuiamo infatti a usare il termine bello non solo a proposito di individui in carne e ossa, ma anche di comportamenti cui intendiamo fornire la nostra approvazione morale, per esempio a proposito di un gesto generoso.» (Vercellone Federico 2008 Oltre la bellezza, il Mulino, Bologna, 9). La bellezza dunque ha molte sedi (sedi totali).
1.1.3.1. Ha sede nella realtà: la natura, il cosmo (Esiodo, Teogonia; Pitagora, Platone, Timeo 30b,30d), a partire dalla visione della ontologia o metafisica (il bello entra nell’elenco, antico e medievale, dei cinque trascendentali: Esse, Pulchrum, Unum, Verum, Bonum), fino all’abitare (la dimensione ecologica del cosmo, cioè lo sguardo sul mondo dal punto di vista dell’abitare)
1.1.3.2. Ha sede nell’anima, nelle facoltà del vivente (animale e umano): il vivente, in quanto organismo, organica composizione delle parti in unità (lo stesso cosmo è perciò vivente, per l’interdipendenza delle sue parti; cfr. Timeo); la mente (per il concetto di bellezza in sé; quell’idea per cui tutte le altre cose possono dirsi belle Platone, Ippia maggiore 288a), la sensazione (sensibilità, immagine, rappresentazione…), l’arte e la tecnica (in Platone come mìmesis e partecipazione della natura, Repubblica 598b; in Aristotele come poiesis e verosimiglianza), le scelte morali e l’eros (la bellezza che si applica a tutti i processi nel loro compiersi naturale e a tutta la realtà dai corpi ai pensieri, come accade all’eros secondo Platone nella successione e nella diversità degli encomi di amore presentati nel Simposio).
1.1.3.3. Ha sede nel tempo (e il tempo è la misura del movimento, del divenire, luogo quindi della possibilità e della imprevedibilità), nel tempo del kairòs. Poiché si lega a processi in compimento e realizzazione, la bellezza è un dato universale ma non continuo; accade nel tempo del realizzarsi e del compiersi di un processo: il tempo opportuno. L’espressione che definisce quel tipo di temporalità è il termine greco kairòs: il tempo giusto, opportuno, unico e totale in cui una esperienza di realizzazione appare nel suo improvviso e travagliato processo di compimento fino a manifestarsi nella sua pienezza. Afferma Sofocle «Pánta gar kairò kalá» (tutte le cose belle accadono al momento giusto o “tutto ciò che è bello, è tale se accade nel momento opportuno”. Curi 2013 p. 26)

1.2. tre modi di conoscere e tre mondi: sensibilità, immaginazione, intelletto; la sorte e il ruolo dell’immaginazione
1.2.1. analisi della percezione nel processo gnoseologico; la relazione tra tre mondi e la loro riduzione a due. L’indagine sulle facoltà umane cui si affida la realizzazione del processo conoscitivo tende a distinguere tra diverse forme di conoscenza, all’interno di un unico processo conoscitivo; ad esse corrispondono diverse facoltà e diversi esiti conoscitivi. La divisione analitica del processo conoscitivo, quotidianamente percepito come unico e lineare, permette di esplicitare alcune convinzioni: 1. la conoscenza non è istantanea ma è un movimento ed è dotata, conseguentemente, di una propria e specifica temporalità (il tempo interiore), 2. le conoscenze raggiunte sono suscettibili di ripresa, da parte di forme conoscitive diverse, e possono generare esiti nuovi talora imprevedibili, 3. è possibile intervenire sul processo conoscitivo con strategie specifiche e mirate, influenzandone il corso, se i momenti del conoscere sono analiticamente evidenziati.
1.2.2. i tre mondi e la scomparsa dell’immaginazione. Vanta una lunga storia, nel pensiero filosofico, la tripartizione del processo conoscitivo e del suo risultato oggettivo (come oggetto di una conoscenza) nei “tre mondi”: mundus sensibilis, mundus imaginabilis, mundus intelligibilis. Ma nell’età moderna il mundus imaginabilis scompare come fattore di disturbo e di errore; la verità si affida o al primo mondo (genericamente: tradizione empirista) o al terzo (genericamente: tradizione razionalista) o al passaggio immediato e quasi biunivoco tra il primo e il terzo escludendo (o per lo meno minimizzando, oppure negandole la caratteristica di facoltà dotata di una produttività autonoma e di una logica specifica) qualsiasi apporto dell’immaginazione (a confermare quest’ultima impostazione vengono richiamati Aristotele e la Scolastica: la verità è “adæquatio rei et intellectus”). «Nulla può dare la misura del mutamento intervenuto nel significato dell’esperienza, quanto il rovesciamento che esso produce nello statuto dell’immaginazione. Poiché l’immaginazione, che oggi è espunta dalla conoscenza come «irreale», era invece per l’antichità il medium per eccellenza della conoscenza. In quanto mediatrice fra senso e intelletto, che rende possibile, nel fantasma, l’unione fra la forma sensibile e l’intelletto possibile, essa occupa nella cultura antica e medievale esattamente lo stesso luogo che la nostra cultura assegna all’esperienza. Lungi dall’essere qualcosa di irreale, il mundus imaginabilis ha la sua piena realtà tra il mundus sensibilis e il mundus intelligibilis, ed è, anzi, la condizione della loro comunicazione, cioè della conoscenza.» (Agamben Giorgio 2001, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, ed. Einaudi, Torino 2001).
1.2.2.1. Il ruolo dell’immaginazione era ancor più centrale nella (irrisolta e non superata) tradizione averroista secondo cui la differenza tra gli individui sta proprio nell’immaginazione. Solo questa è assolutamente individuale, imprevedibile, creativa, un continuo succedersi di immagini che attendono di diventare pensieri; o forse non sono in attesa, ma rivendicano comunque un’autonomia dal pensiero. Il livello della pensabilità è quella parte dell’uomo che cerca la chiarezza e la comunicazione e la trova in una razionalità universale (come facente capo ad un intelletto agente unico per tutti); il livello della fantasia, lo stadio del non pensiero, è quella parte dell’uomo immediata e intuitiva che si rivela essere la sua continuità. Nella mente e nei concetti il singolo vive in forme universali, condivise, proprie dell’umanità; nelle immagini sensibili, indefinite e continue della propria fantasia, l’uomo è nella propria singolarità.
1.2.3. la funzione dell’immaginazione nello schematismo e la ricomparsa dei tre mondi o lo schematismo trascendentale e il ritorno dell’immaginazione (da Kant a Husserl) ma per lo più con ruoli di servizio intellettivo. Tra la visione (i dati sensibili) e i concetti puri (le categorie come regole di sintesi empirica concettuale) si segnala uno scarto di relazione per la non sovrapponibilità delle capacità di significato dei due campi: le intuizioni sensibili empiriche possono disporsi secondo concetti plurimi, analogamente le categorie possono avviare processi di sintesi concettuali dell’esperienza non unici né definitivi. A predisporre l’esperienza in vista della sua possibile lettura concettuale intervengono gli schemi, cioè l’immaginazione che, grazie al tempo come senso e movimento interiore, mette in sequenza i dati sensibili predisponendoli ad una particolare lettura concettuale. Si tratta di operatori ordinanti a priori o adattatori dell’esperienza allo scopo di renderla disponibile ad una definizione secondo categorie e quindi alla conoscenza. Gli schemi, nel processo conoscitivo, esprimono la funzione del tempo e dell’immaginazione: fermano l’esperienza nel suo scorrere, nel suo specifico movimento, quindi nella sua capacità di rimandare a significati non ancora concettualmente definiti, anzi in apertura e quasi provocazione nei confronti dei concetti. «Il punto cruciale è il ruolo degli schemi nei sistemi complessi adattativi. Essi hanno il compito di identificare, comprimere, e registrare le regolarità dell’esperienza così da permettere al sistema di adattarsi fornendo risposte rapide ed efficaci. […] Quella che si presenta come informazione in uno schema può essere rumore in un altro, e viceversa. […] È necessario a questo punto sottolineare che l’attività tramite cui gli schemi si adattano all’ambiente comporta una costante fluttuazione tra informazione e rumore. […] Inoltre, poiché l’esperienza eccede sempre la nostra capacità di elaborazione e l’autocoscienza non è mai completa, i significati prodotti dalla conoscenza non sono mai stabili, ma sempre mutevoli. Tale instabilità contiene una promessa di creatività e una minaccia di distruzione.» (Taylor C. Mark, Il momento della complessità. L’emergere di una cultura a rete, ed. Codice, Torino 2005). (Come se il mundus sensibilis solo attraverso il mundus imaginabilis possa costituire il mundus intelligibilis senza mai potervisi identificare.)
1.2.4.1. L’esaltazione dell’immaginazione nell’esperienza del sublime. Il passo è noto: «Il piacere pel sublime della natura è perciò soltanto negativo (mentre quello pel bello è positivo), vale a dire è il sentimento dell’immaginazione che si priva da sé della propria libertà, in quanto si determina conformemente a un’altra legge, che non è quella del suo uso empirico. In tal modo, l’immaginazione raggiunge un’estensione e una potenza maggiore di quella che ha sacrificata, ma il cui principio le è ignoto, mentre sente però il sacrifizio o la privazione e, nel tempo stesso, la
causa cui è sottomessa. Lo stupore che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo; sono soltanto una prova ad abbandonarvisi con la nostra immaginazione, per sentire il suo potere di collegare l’emozione suscitata da tali spettacoli con la serenità dell’animo, e di essere superiore alla natura in noi stessi, e quindi anche a quella fuori di noi, in quanto può avere influenza sul sentimento del nostro benessere.» (Kant Critica del Giudizio 122).
1.2.4.2. (anticipando) L’estetica ricompare e pretende per sé una centralità, se non addirittura una priorità, nel mondo della civiltà dell’immagine. Le immagini prodotte e disponibili, messe in rapida circolazione e in forma di comunicazione, sopravanzano in modo incalcolabile i concetti e la loro possibilità di lettura o interpretazione concettuale; parlano da sole, avanzano da sole, immagini senza concetti o che solo con estrema difficoltà ed eccezionalmente si danno in concetti (non si vive l’urgenza della loro concettualizzazione).
1.2.5. Dunque: estetica romantica.
1.2.5.1. La parola «estetica» fu coniata nel 1735 da Alexander Baumgarten, che designava così la scienza dedicata alla conoscenza sensibile, non limitata quindi solo all’arte e alla bellezza, ma estesa a tutte le esperienze non concettualizzabili (non per questo però irrazionali, come il piacere, il linguaggio, l’emozione). (Fusillo Massimo 2009 Estetica della letteratura, il Mulino, Bologna p.10)
Nella sua prima e fondamentale presentazione e definizione, formulata da Baumgarten (Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762; Aesthetica, 1750), l’estetica si costituisce come disciplina autonoma e specificatamente filosofica che non ha come tema il bello, ma la conoscenza sensibile, di cui si presenta come scienza. Ma in questo stesso contesto emerge la connessione con il tema della bellezza e quindi la forte relazione tra le due accezioni che sembrano costituire l’irrisolta ambiguità del termine estetica come scienza della sensibilità e teoria della produzione artistica. L’estetica infatti è una scienza che ha per oggetto la conoscenza sensibile e che mira a guidarla al raggiungimento della sua perfezione che è la bellezza, il cui raggiungimento si consegue mediante le arti liberali, sempre che, secondo Baumgarten, l’esercizio di queste si attenga alle regole operative indicate dall’estetica stessa.
L’estetica quindi ha un campo di applicazione composito, caratterizzato da tre diverse componenti reciprocamente connesse: 1. conoscenza sensibile, raggiunge la sua perfezione, che è la bellezza, mediante le arti liberali; 2. bellezza, è la perfezione della conoscenza sensibile che si raggiunge nelle arti liberali; 3. arti liberali, attività dell’uomo che attinge dalla conoscenza sensibile. La grande novità di Baumgarten sta proprio nella capacità di tenere uniti e reciprocamente collegati i tre ambiti.
Contemporaneamente a Baumgarten, anche Kant utilizza il termine “estetica”, nella sua estetica trascendentale, con il puro significato etimologico: estetica in Kant, cioè, è tutto ciò che attiene all’ambito della sensibilità, quindi l’estetica trascendentale è la scienza delle forme a priori della conoscenza sensibile. Kant affronta poi le tematiche specificatamente estetiche (il problema del bello, del sublime e del gusto) nella Critica del Giudizio, ma non utilizza in questo contesto il termine estetica (parla però di Giudizio estetico, sezione in cui colloca l’analitica del bello e l’analitica del sublime).
Quindi già fin dal momento della sua creazione e della sua definizione, il termine estetica assume significati diversi da quelli proposti da colui che l’ha coniato. Acquista un uso polisemico; si affida a un processo continuo di ridefinizione, cioè di assegnazione di accezioni diverse da quelle originarie, con conseguente moltiplicazione e variabilità di significati. A dimostrazione di questo processo di continuo valga la posizione di Hegel: il significato che il termine “estetica” assume nel suo pensiero ha una specificazione diversa da quella di Baumgarten; l’estetica per Hegel infatti è filosofia dell’arte bella: in questo caso l’estetica non ha nulla a che fare con la pura percezione sensoriale e l’attenzione viene calata sull’arte e sulla bellezza. Con Hegel (e con l’idealismo) quindi si va incontro ad un ulteriore processo di ridefinizione dell’estetica: il bello non è il bello di natura, ma è il bello dell’arte. Allo stesso modo con il Positivismo, parallelamente al rilievo attribuito alle scienze in generale e delle scienze umane in particolare, alle quali viene applicato il metodo proprio delle scienze della natura, si ha un nuovo mutamento del campo di applicazione dell’estetica: accanto all’estetica filosofica si affianca un’estetica scientifica che attinge il suo apparato concettuale e il suo strumentario dalle scienze, in particolare quelle umane.
(Claudia Bianco, Alexander Gottlieb Baumgarten, Estetica e conoscenza sensibile, sito web: La filosofia e i suoi eroi, in citazione libera)
1.2.5.2. Tradizione “romantica” e eredità post-romantiche: caratteri generali. L’estetica si configura come un ramo, più o meno meccanico o sistematico ed essenziale, della filosofia intesa come prassi teoretica e come sistema generale, nel modo con cui la tradizione dell’ “idealismo assoluto” tende a costruirlo; si fonda su di un’intuizione, esplicitata in vari termini: ispirazione, sentimento, genio, creatività, struggimento, invasamento, magia …; trova il proprio contesto nella cultura “romantica” basata sulla affermazione dei limiti della ragione, ferma al dato apparente, e sul conseguente proposito di valorizzare la capacità di porsi, con sentimento e immediatezza, in contatto e sintonia con l’essenza profonda e vitale della natura, della società, della storia.
1.2.5.3. Definita secondo canoni ricorrenti, l’estetica “romantica” ha una durata temporale più ampia di quella che viene storicamente attribuita al movimento Romanticismo, si configura come una costante percettiva e valutativa e ha segni di presenza (nostalgie post-romantiche) in autori e opere che, per impianto generale, nulla hanno da spartire col periodo ormai lontano della sensibilità romantica e con la sua redenzione filosofica, l’idealismo. Nella filosofia definita dell’idealismo, l’arte si colloca nell’Assoluto, ne è l’espressione sensibile immediata; l’opera d’arte acquista dunque i tratti dell’unicum assoluto e irripetibile; viene avvolta da un’aura “sacrale” che le deriva appunta dall’essere manifestazione in forma sensibile dello Spirito Assoluto. Hegel: l’Arte è l’Assoluto in forma finita e sensibile: «La forma di questo sapere è, in quanto immediata (il momento della finità dell’arte), da una parte un dirompersi in un’opera di esistenza esterna e comune, nel soggetto che produce l’opera e in quello che la contempla e l’adora; dall’altra parte essa è l’intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell’ideale; — della forma concreta, nata dallo spirito soggettivo, nella quale l’immediatezza naturale è soltanto segno dell’idea, per la cui espressione è cosi trasfigurata mediante lo spirito formatore, che la forma non mostra altro in lei fuori dell’idea. Tale è la forma della bellezza.» (Hegel G.W.F. 1817 Enciclopedia delle scienze filosofiche § 556.)

Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_13-14/dispense/corso77_lez6.doc

Sito web da visitare: http://www.terzauniversita.it/

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