Platone vita opere biografia

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Platone vita opere biografia

 

FILOSOFIA - PLATONE E NEOPLATONICI

Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.   (Platone)

Il filosofo è proprio colui che sa vedere l’insieme e sa cogliere la molteplicità abbracciandola nell’unità. Platone riassume il suo pensiero in questa massima stupenda: “Chi sa vedere l’insieme è dialettico, chi no, no”. 
(Repubblica, VII, 537 C 7)    (Giovanni Reale)

Che i molti siano uno e che l’uno sia molti è un’affermazione meravigliosa.   (Platone, Filebo 14 C 8-10)

I migliori scritti non sono altro che mezzi per aiutare la memoria di coloro che già sanno.   (Platone, Fedro, 278 A)

… e prendendo un’anima congeniale vi si piantano e vi si seminano parole con scientifica consapevolezza. Le quali sono sempre in grado di venire in aiuto a se stesse e a coloro che le hanno seminate e non sono sterili; ma poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre indoli, esse sono capaci di rendere questo seme immortale, e rendono beato chi lo possiede, quanto può esserlo un umano.   (Platone, Fedro, 277 A)

La stessa cosa è il conoscere e l’essere. (Platone, Parmenide, 28 B 3 Diels-Kranz)

La moltitudine infatti ignora che senza esser passati ed aver errato attraverso tutte le cose, è impossibile a colui che ha incontrato la verità possedere intelletto.   (Platone, Parmenide, 136 d-e)

Almeno questo io ho da dire su tutti quelli che hanno scritto o scriveranno intorno alle cose cui dedico il mio lavoro – gente che sostiene di conoscerle bene, sia che le abbiano ascoltate da me o da altri o che pretendano di averle scoperte da soli: secondo me, non è possibile che ne abbiano capito nulla. Non esiste su questi argomenti alcun mio scritto, né mai ci sarà. È un sapere che non può venire espresso come gli altri. [...] del resto io so bene almeno questo, che se potesse venire esposto da me, in forma scritta o parlata, lo sarebbe nel modo migliore [...] Ma se davvero pensassi che sia possibile scrivere queste cose esprimendole in modo adatto a molti lettori, che cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?  
(Platone, Lettera VII, 341b-d)

Chi ha una conoscenza scientifica delle cose giuste, belle e buone, diremo che tratta i propri semi con meno buon senso del contadino? – E allora non li scriverà sul serio nell’acqua, seminandoli nell’inchiostro con una penna, facendone discorsi impotenti a insegnare il vero in modo adeguato.  
(Platone, Fedro, 276c)

Senza dubbio, io dissi, la conoscenza è il cibo dell’anima; e si deve badare, amico mio, che il Sofista non ci inganni quando decanta quello che vende, come i commercianti all’ingrosso o al dettaglio, che vendono il cibo del corpo; poiché essi decantano indiscriminatamente tutte le loro mercanzie senza conoscere quali in realtà siano benefiche e quali nocive. Né lo sanno i compratori, ad eccezione del caso di un allenatore o di un medico che capiti a comprar da loro. Similmente coloro che portano intorno le mercanzie della conoscenza, e fanno il giro delle città, e le vendono tutte allo stesso modo; benché non mi meraviglierei, amico mio, se molti fra loro in realtà fossero del tutto ignoranti circa l’effetto che esse esercitano sull’anima; e i loro clienti sono ugualmente ignoranti, a meno che colui che compera, capiti sia un medico dell’anima. Se, pertanto, hai intendimento di ciò che è bene e male, tranquillamente potrai comperare la conoscenza da Protagora o da chicchessia; ma se non è così, allora, amico mio, fermati, e non mettere a repentaglio i tuoi interessi supremi in un gioco d’azzardo. Poiché vi è assai maggior rischio nel comperare conoscenza che nel comperare carne e bevande…   (Platone, Protagora)

E i sapienti, o Callicle, dicono che cielo, terra, dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dall’ordine, dalla temperanza e dalla rettitudine. Ed è proprio per tale ragione, o amico, che essi chiamano questo tutto “cosmos”, e non, invece, disordine e sregolatezza. Ora, mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dei e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l’eccesso e trascuri la geometria!  
(Platone, Gorgia, 507 D 6)

Bisogna, infatti, che l’uomo comprenda secondo quella che viene chiamata Idea, andando da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta con il pensiero. E questa è una reminiscenza di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto, procedendo insieme ad un dio, guardando dall’alto le cose che ora diciamo essere, alzando la testa verso ciò che realmente è.
Perciò, giustamente, solo la ragione del filosofo mette le ali. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è possibile, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, essendo in rapporto con le quali anche un dio è divino. L’uomo che si serva di tali reminiscenze in modo retto, in quanto è sempre iniziato ai misteri perfetti, diventa, lui solo, realmente perfetto.   (Platone, Fedro, 249  6)

Bisogna che l’uomo conosca mediante ciò che diciamo Idea, che procede dalla molteplicità delle sensazioni all’unità guadagnata con il ragionamento: e questa è la reminiscenza di quelle cose che una volta la nostra anima ha veduto, trovandosi al seguito di un Dio e sdegnando le cose che noi ora diciamo essere, teneva il capo sollevato verso ciò che è veramente.   (Platone, Fedro, 249 B-C)

Bisogna ridiscendere nella dimora degli altri e riabituarsi a vedere nell’oscurità.   (Platone, Repubblica, VII, 520c)

Perché non c’è, non c’è mai stato, non ci sarà mai nessun insegnamento concernente la morale che non sia quello della moltitudine. Almeno nessun altro insegnamento umano. Giacché per ciò che è divino bisogna, secondo il proverbio, fare eccezione. Questo bisogna saperlo bene. Chiunque si salva e diviene quel che deve essere finché le città hanno una tale struttura, colui, se si vuol parlare correttamente, bisogna dire che si salva per effetto di una predestinazione che procede da Dio.   (Platone, Repubblica, VI, 492a).

Il motivo per cui si pone tanto impegno per vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è là, e la natura dell’ala con cui l’anima vola, si nutre appunto di questo.
(Platone, Fedro, 248 B 5)

La proprietà essenziale dell’ala è di portare in alto ciò che è pesante.
(Platone, Fedro, 246d)

Quando l’anima scorge, attraverso il tempo, la realtà, ama e contempla e si nutre di verità, ed è felice finché il moto di rotazione non l’abbia riportata al medesimo punto [24 ore].   (Platone, Fedro, 247 d-e)

La regione iperurania mai qualcuno dei poeti di quaggiù l’ha cantata, ne mai la canterà degnamente. Ma è così: bisogna pur osare di dire la verità, soprattutto se è della verità che si parla. A occupare quella regione è l’essenza che realmente è, priva di colore, di figura, di corpo, visibile solo al pilota dell’anima, il pensiero, sulla quale verte la scienza vera. Così dunque l’intelligenza divina, nutrita di pensiero e di pura scienza, e anche ogni anima che intenda accogliere in sé ciò che li si addice, vedendo ciò che è in ogni tempo, si rallegra e contemplando il vero si nutre e gioisce, finché il percorso circolare non la riconduca allo stesso punto. E nel suo giro osserva la “giustizia” stessa, osserva la “moderazione”, osserva la “scienza”, non quella cui è connesso il divenire, né quella che è diversa concernendo i diversi oggetti che noi ora chiamiamo “enti”, ma la scienza che verte su ciò che realmente è.   (Platone, Fedro, 247c-e)

L’amore è ciò che ci libera, è lui che ci svuota dell’estraneità e ci riempie dell’intimità.   (Platone, Fedro, 197 d)

[In Platone] il bello è il chiarore di cui il vero brilla in eccedenza alla propria verità. È il supplemento d’essere e potenza che irradia dal vero.
(J.-L. Nancy, Sull’amore)

Dio possiede in misura adeguata la scienza e ad un tempo la potenza per mescolare molte cose in unità e di nuovo scioglierle dall’unità in molte; ma non c’è nessuno degli uomini che sappia fare né l’una né l’altra cosa, né ci sarà in avvenire.   (Platone, Timeo, 68 D 4-7)

Le cose che si dicono eterne procedono dall’uno e dal molteplice e hanno innato in loro il limite e l’illimitato. [Potenza e amore] [N.B. Qui non si tratta del mondo ma di un ordine eterno da cui il mondo procede]. Poiché queste cose sono così ordinate, noi dobbiamo in ogni ricerca porre ogni volta un’idea. La troveremo, perché è implicita nella ricerca. Se la troviamo, dopo questa unità bisogna esaminare [nella materia che si studia] i due rami in cui essa si divide, a meno che non siano tre o più ancora; e [dividere] ugualmente l’unità di ognuno di questi [rami], finché giungiamo a vedere che l’unità primitiva non è solo unità e numero e moltitudine indefinita, ma anche numero determinato. L’idea dell’indefinito non deve essere applicata alla quantità finché non si sia visto chiaramente in questa materia il numero che è mediatore tra l’uno e l’indefinito. Allora soltanto bisogna permettere all’unità in ogni materia di perdersi nell’indefinito. Gli dei ci hanno dato questo metodo per cercare, istruirsi e insegnare…   (Platone, Filebo, 16 b-e)

Il numero costituisce la mediazione tra l’uno e l’indefinito.(Platone, Filebo, 16d-e)

Il gioco è talvolta il sollievo della serietà.   (Platone, Filebo, 30 E 6)

Noi stessi siamo poeti di una tragedia, e, per quanto ci è possibile, della migliore e più bella: tutta la nostra costituzione è stata costruita come imitazione della forma di vita più nobile e più elevata, e diciamo che questa è davvero la tragedia più vicina alla verità.   (Platone, Leggi, VII, 817b)

Perciò, se la strada da percorrere è lunga, non ti devi meravigliare, perché, per poter raggiungere grandi cose, bisogna percorrerla. … Del resto, come ci dice il nostro discorso, se uno lo voglia, anche queste cose diventeranno bellissime in conseguenza di quelle. … Ma per chi intraprende cose belle è bello anche soffrire, qualsiasi cosa gli tocchi.   (Platone, Fedro, 274 A-B)

Le Idee sono princìpi delle altre cose, mentre delle idee, che sono numeri, sono princìpi i princìpi dei numeri; e i princìpi dei numeri diceva essere l’unità e la dualità.   (Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica di Aristotele).

Come Aristotele soleva sempre raccontare, questa era l’impressione che provava la maggior parte di coloro che ascoltarono la conferenza Intorno al Bene. Infatti, ciascuno vi era andato pensando di sentir parlare di uno di questi che sono considerati beni umani, come la ricchezza, la salute, la forza e, in generale, una meravigliosa felicità. Ma quando risultò che i discorsi vertevano intorno a cose matematiche, a numeri, geometria e astronomia, e da ultimo si sosteneva che vi è un Bene, un Uno, io credo che questo sia sembrato qualcosa del tutto paradossale. Di conseguenza, alcuni provarono disprezzo per la cosa, altri la biasimarono.   (Aristosseno, Elementi di Armonia, II 39-40)

La scienza del calcolo e l’aritmetica … sono discipline essenziali … per il filosofo, perché possa attingere all’essere, mettendo fuori la testa dal mondo del divenire.   (Platone, Repubblica, VII 525 A-C)

In ciò è l’efficacia delle scienze che abbiamo enumerato [aritmetica, geometria, astronomia, musica] per condurre quel che c’è di più prezioso nell’anima a contemplare ciò che vi è di più eccellente nell’essere.
(Platone, Repubblica, VII, 532b)

[Il Demiurgo] pensò di produrre un’immagine mobile dell’eternità, e mentre costituisce l’ordine del cielo, dell’eternità che permane nell’unità fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo.   (Platone, Timeo, 37 D 3-7)

- Pertanto, se la geometria ci costringe a volgerci al mondo delle essenze, farà al caso nostro; altrimenti, se ci orienta al mondo del divenire non ci interessa. […]
- La geometria è scienza di ciò che sempre è, e non di ciò che in un certo momento si genera e in un altro momento perisce.
- Su questo punto non si può non essere d’accordo: la geometria è conoscenza dell’essere che sempre è.
- Dunque, caro amico, essa, nei confronti dell’anima, è forza trainante verso la verità, è stimolo per il pensiero filosofico ad elevare ciò che ora in maniera sconveniente manteniamo terra terra.   (Platone, Repubblica, VII 526 D - 527 B).

Chi non è capace di definire l’Idea del Bene con il ragionamento, astraendola da tutte le altre, e come in battaglia, passando attraverso tutte le prove, desideroso di provarla non secondo opinione ma secondo l’essenza, non affronti queste cose con un ragionamento che non crolla, ebbene tu non dirai che chi si trova in queste condizioni non conosce né il Bene in sé né nessun’altra cosa buona?
E non dirai forse che, se anche ne apprende una qualche immagine, la coglie con l’opinione e non con la scienza, e che, dormendo e sognando in questa vita, prima di potersi svegliare qui, scendendo nell’Ade terminerà il suo sonno?
(Platone, Repubblica, VII 534 B-D)

Il Bene è la Misura esattissima di tutte le cose.  (Aristotele, Politico, fr. 2 Ross.)

Dio è per noi la Misura suprema di tutte le cose.   (Platone, Leggi, IV 716 C)

Il Bene è l’Uno, Misura assoluta di tutte le cose.  
(G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone)

E potremo avere un male maggiore nella Città di quello che la divide, e che invece di una ne fa molte? Un Bene maggiore di quello che la leghi insieme e ne faccia una?   (Platone, Repubblica, V 462 A-B)

Forse il modello di questa Città si trova nel cielo a disposizione di chi desideri contemplarlo e, contemplandolo, fondare la città del proprio io. Non ha quindi importanza che questa Città attualmente esista e possa esistere in futuro, perché comunque egli potrebbe occuparsi solo di questa Città interiore e non di un’altra.   (Platone, Repubblica, IX 592 B)

Bisogna prima di tutto a mio parere fare questa distinzione. Che cos’è l’essere eternamente reale, senza generazione, e che cos’è il divenire perpetuo, che non ha mai la realtà? L’uno è colto dal pensiero con l’aiuto del rapporto (logos), realtà eternamente conforme a se stessa; l’altro opinato dall’opinione con l’aiuto della sensazione senza rapporto, diviene e perisce, senza aver mai l’essere reale. Di più, tutto ciò che si produce ha necessariamente un autore, perché è assolutamente impossibile che senza autore vi sia nascita. Così, quando l’operaio, lo sguardo sempre volto verso ciò che è conforme a se stesso, e servendosi di ciò come modello, ne riproduce l’essenza (idean) e la virtù (dunamin), necessariamente qualcosa di perfettamente bello è compiuto. Se è volto al divenire e usa un modello che diviene, il risultato non è bello.
(Platone, Timeo, 28b - 29a)

Bisogna dire che questo mondo è un essere vivente, che ha un’anima, che è un essere spirituale, e che in verità è stato generato tale dalla provvidenza di Dio.
(Platone, Timeo, 30b - 31b)

Siccome il Modello ha vita eterna, egli [Dio] parimenti ha tentato di darla, per quanto è possibile, a questo universo. Ora, la natura del Modello vivente essendo eterna, non poteva essere assolutamente legata a ciò che è generato. Ebbe l’idea di creare un’immagine mobile dell’eternità. Nello stesso momento che stabilisce l’ordine del cielo, egli crea qualche cosa che, procedendo secondo il numero, è un’immagine eterna dell’eternità che è fissa nell’unità. Questa immagine è ciò che noi chiamiamo il tempo.   (37d)
Il passato e l’avvenire sono apparsi come le forme del tempo che imita l’eternità volgendosi secondo il numero.  (38a)
Così per questo ordinamento e questo pensiero di Dio concernente il prodursi del tempo, affinché il tempo fosse prodotto, il sole e la luna e gli altri cinque astri che si chiamano pianeti apparvero, per la determinazione e la custodia dei numeri del tempo.  (38c)
… affinché il cielo si mostrasse il più possibile da ogni parte e i viventi partecipassero del numero, tutti quelli almeno a cui ciò conveniva. (39b)
Contemplando i moti circolari dello spirito nel cielo, noi dobbiamo servircene per le traslazioni circolari del pensiero in noi, che ad essi si apparentano, ma quelli senza turbamento e queste turbate; noi dobbiamo dunque istruirci e partecipare della rettitudine essenziale delle proporzioni; grazie all’imitazione dei moti circolari di Dio, che sono assolutamente senza errore, dobbiamo rendere stabili i nostri che sono erranti. (47b)
(Platone, Timeo)

Bisogna anche aggiungere a questo discorso ciò che si produce per l’azione della necessità. Perché la nascita di questo mondo si è operata grazie a una combinazione fondata sulla necessità e sullo spirito. Ma lo spirito regna sulla necessità per mezzo della persuasione. Esso la persuade a spingere la maggior parte delle cose che si producono, verso il meglio. È in questa maniera, secondo questa legge, per mezzo della necessità vinta da una saggia persuasione, che fin dalle origini è stato composto questo universo.   (Platone, Timeo, 47e-48a)

Per quanto concerne la parte dell’anima alla quale spetta la sovranità in noi, bisogna concepire che Dio l’ha donata a ciascuno come un essere divino. Io affermo che questo essere abita al sommo del nostro corpo, e che per la sua parentela col cielo ci solleva al di sopra della terra, perché noi siamo una pianta non già terrestre ma celeste. È corretto parlare in tal modo. Perché da quel luogo, dal quale in origine ha germinato la nascita dell’anima, questo essere divino tiene sospesa la nostra testa, che è la nostra radice, e così mantiene diritto tutto il corpo. (90a)
Essere sempre al servizio di questo essere divino; mantenere al rango che gli conviene l’essere divino che abita in noi.
Non c’è che un modo di servire un essere, ed è di dargli il nutrimento e i movimenti che gli sono propri. I moti che sono parenti dell’essere divino che è in noi, sono i pensieri e i moti circolari dell’universo. Ciascuno deve applicarsi a seguirli, rieducare i moti circolari della nostra testa relativi alle cose che passano - essi i corrotti - col riapprendere le armonie e i moti circolari dell’universo. Bisogna far somigliare ciò che contempla, come lo esige la sua essenza originaria, a ciò che è contemplato. Una volta raggiunta la somiglianza, si possiede la compiutezza della vita perfetta proposta agli uomini dalle divinità per l’esistenza presente e futura.
(Platone, Timeo, 90c)

Le supreme forme del bello sono: l’ordine, la simmetria e il definito. E le matematiche le fanno conoscere più di tutte le altre scienze.  
(Platone, Simposio, 211 D - 212 A)

E di queste forme di procedimento proprio io sono un amante, Fedro, ossia delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere capace di pensare e di parlare. E se ritengo che qualcun altro sia capace di guardare verso l’Uno e anche sui molti, io gli vado dietro “seguendo le sue orme come quelle di un dio”. E quelli che sono in grado di fare questo - se io dico il giusto o no lo sa un dio - io finora li chiamo dialettici.   (Platone, Fedro, 266 B-C)

Poiché l’armonia è come un accordo di voci e l’accordi di voci è una certa proporzione. Allo stesso modo il ritmo si produce dal lento e dal rapido, dapprima divergenti, poi messi in proporzione. (186d)
A questi contrari la musica, come ad altri la medicina, imprime la proporzione, creando così l’amore e l’accordo scambievole; e la musica è la scienza dell’amore nel regno dell’armonia e del ritmo.   (Platone, Convito, 187b-187c)

E ora la potenza del Bene ci è sfuggita nella natura del Bello: infatti, la misura e la proporzione risultano essere, dappertutto, bellezza e virtù.  
(Platone, Filebo, 64 E)

Orientato verso l’immenso mare del bello.   (Platone, Convito, 210 d)

Tutto ciò che è buono è bello, e il bello non è privo di misura.  
(Platone, Timeo, 87 C)

Qual è il modo di agire di chi è amico e seguace di Dio? Uno e uno solo; quello che si esprime in questa antica massima: che il simile è amico del simile, purché sia secondo misura, perché le realtà prive di misura non solo non si attraggono fra di loro, ma neppure sono attratte da quelle dotate di misura. E per noi Dio è la misura suprema di tutte le cose, assai più che non lo sia l’uomo come qualcuno va sostenendo. Ora, se uno vorrà diventare amico di un essere così sublime, bisogna che quanto più possibile si faccia simile a lui.  
(Platone, Leggi, 716 C)

La luminosità dell’apparire non è solo una delle proprietà del bello, ma ne costituisce la vera e propria essenza. La caratteristica del bello, per cui esso attira immediatamente su di sé il desiderio dell’anima umana, è fondata nel suo essere stesso. In quanto strutturato secondo misura, l’ente non è solo ciò che è, ma fa apparire entro di sé una totalità in sé misurata ed armonica. È questa la disvelatezza (aletheia) di cui Platone parla nel Filebo, che appartiene all’essenza del bello. La bellezza non è semplicemente la simmetria, ma l’apparire stesso che su di essa si fonda. Essa ha la natura del risplendere. Risplendere però significa risplendere su qualcosa, come il sole, e quindi apparire a propria volta su ciò su cui la luce cade. La bellezza ha il modo di essere della luce.  
(Gadamer, Verità e Metodo, p. 550)

[Il Bello] è il modo di apparire del Bene in generale, cioè dell’ente come deve essere.   (Gadamer, Verità e Metodo, pp. 549-550)
Il Bello, cioè il modo in cui il Bene appare, si fa manifesto da se stesso nel suo essere, e si presenta.   (Gadamer, Verità e Metodo, p. 555)
La bellezza può anche essere percepita come il risplendere di qualcosa di ultraterreno e tuttavia visibile.   (Gadamer, Verità e Metodo)

Dunque, se non possiamo afferrare il Bene con una Idea unitaria, dopo averlo colto in tre, ossia nella Bellezza, nella Proporzione e nella Verità, diciamo che questo, come Uno, è giustissimo che lo consideriamo come causa di ciò che è nella mescolanza, ed è a motivo di esso che, in quanto Bene, la mescolanza diventa tale.   (Platone, Filebo, 65 A)

“Contemplare” significa assumere, sulla base della conoscenza, un preciso atteggiamento pratico nei confronti della vita, e quindi la theoria greca è ben lungi dall’avere solo un carattere intellettuale e astratto, ma è sempre anche una dottrina di vita.   (G. Reale, Platone - alla ricerca della sapienza segreta, p. 226)

Dire che la filosofia per i Greci significava riflessione razionale sulla totalità delle cose è abbastanza esatto se ci si limita a questo. Ma se vogliamo completare la definizione, dobbiamo aggiungere che, in virtù dell’altezza del suo oggetto, questa riflessione implicava un preciso atteggiamento morale e uno stile di vita che erano ritenuti essenziali sia dagli stessi filosofi che dai loro contemporanei. Questo, in altre parole, significa che la filosofia non era mai un fatto puramente intellettuale.   (Cornelia de Vogel, Philosophy, Assen 1970)

La creazione ci è chiaramente mostrata come “contemplazione”; essa è, difatti, prodotto della contemplazione, di una contemplazione che resta pura contemplazione e che non fa altro che creare perché è “contemplazione”.
(Plotino, Enneadi, III 8, 3)
La vera forza creatrice non è la “prassi”, ma la “teoria”.  (G. Reale, ibidem, p. 227)

I veri filosofi sono quelli che amano contemplare la verità.  
(Platone, Repubblica, V 475 E)

L’anima che non ha mai contemplato la Verità non potrà mai giungere alla forma di uomo.   (Platone, Fedro, 249 B)

[L’anima deve] raccogliersi e concentrarsi tutta in se stessa, e non credere a nient’altro che a se stessa, e tenere per vero solo ciò che essa da sé intende e sa sé sola… e non credere in nulla vero ciò che vede per altri mezzi e che resta diverso nelle diverse cose.   (Platone, Fedone, 83 a 6)

Ma la dottrina che io ti espongo insegna che la facoltà di comprendere è innata nell’anima di ognuno, e così l’organo di questa facoltà. È come se qualcuno fosse incapace di dirigere l’occhio verso la luce, lontano delle tenebre, se non insieme con l’intero corpo.
Così, è con l’anima tutta intera che bisogna distogliersi dal divenire (dal temporale) finché essa divenga capace di sopportare la contemplazione della realtà e di ciò che c’è di più luminoso nella realtà, e cioè del bene. In ciò consiste quest’arte, l’arte della conversione; è il metodo più facile e più rapido di far sì che qualcuno si volga. Non si tratta di produrre in lui la vista; si sa che l’ha già. Ma non la dirige bene e non guarda dove bisogna. Questo solo si deve trovare il modo di ottenere.   (Platone, Repubblica, VII, 518b)

La purificazione consiste nel separare il più possibile l’anima dal corpo, nel deporla e, avendola deposta sola con se stessa, senza alcun contatto col corpo, nel raccoglierla e riunirla; nel farla abitare nella misura del possibile, ora e nel futuro, sola con se stessa e come liberata dai ceppi del corpo. Ora questo, il distacco e la separazione dell’anima in rapporto al corpo, ha per nome la morte.
(Platone, Fedone, 64a-67d)

- Infine, Adimanto, chi ha il suo pensiero veramente rivolto alle cose che sono, non ha neppure il tempo di guardare in basso alle faccende degli uomini e di riempirsi di invidia e di ostilità litigando con loro; ma, guardando e contemplando cose che sono ben ordinate e sono sempre nel medesimo modo, che non fanno né subiscono ingiustizie fra di loro, ma sono sempre in ordine e disposte secondo proporzione, egli imita appunto queste cose e si fa simile ad esse, quanto più è possibile. O tu credi che ci sia qualche possibilità che chi ha dimestichezza con una cosa e l’ammira, non la imiti?
- Non è possibile, disse.
- Perciò il filosofo, avendo dimestichezza con ciò che è divino e ordinato, diviene egli pure ordinato e divino, per quanto è possibile a un uomo.
(Platone, Repubblica, VI 500 B-D)

La meschinità è incompatibile con un’anima che deve incessantemente tendere ad abbracciare l’insieme e l’universalità del divino e dell’umano […]. Ora, ritieni che l’anima a cui appartengono l’elevatezza del pensiero e la contemplazione della totalità del tempo e dell’essere faccia gran caso alla vita umana?
(Platone, Repubblica, 486 A-B)

Si imita Dio facendo ordine nella vita, ossia introducendo quella trama ontologica di rapporti in giusta misura, nell’etica e nella politica.
È la struttura stessa del logos-arithmos, la quale è propria del mondo ideale - esplicazione del Bene-Uno, Misura suprema di tutte le cose - che calata nella vita dell’uomo per “imitazione” mediante la “contemplazione”, organizza nel modo migliore la vita stessa dell’uomo, portando nel suo pensiero e nelle sue azioni appunto ordine nel disordine, misura nella dismisura, unità nella molteplicità.
(G. Reale)

Nulla è negato con tanta appassionata energia da Platone, anche nella sua più tarda età, quanto il principio che l’anima possa conoscere ciò che è giusto senza essere essa stessa giusta.   (W. Jaeger)

Il cocchiere dell’anima, secondo il Fedro, ha sempre due corsieri anche per le anime divine; ma questa dualità non è in se stessa un pericolo, fino a quando l’ineguaglianza è sottomessa all’ordine: essa non diviene un pericolo se non nelle anime in cui questa subordinazione è distrutta, e cioè, in termini mitici, dal momento in cui l’auriga non è più padrone dei suoi cavalli; la caduta dei cavalli è dunque effetto del […] principio del disordine. Così i due cavalli del Fedro sembrano rappresentare esattamente l’essenza del diverso […], talvolta dominata dalla ragione, talvolta ribelle ad essa.
(L. Robin, La teoria platonica dell’amore, p. 184)

E i Sapienti dicono che cielo, terra, dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione che essi chiamano questo intero universo “cosmo”, ordine, e non disordine o dissolutezza.   (Platone, Gorgia, 507 E - 508 A)

Invero, come sembra, la giustizia era qualcosa di analogo; solo che essa non riguarda l’azione esterna delle facoltà dell’individuo, ma quella interiore che concerne lui stesso e le cose che gli competono. In tal modo, l’individuo non permette che ciascuna sua parte compia uffici che sono propri di altre, o che le differenti specie dell’anima invadano l’una il campo dell’altra, ma, disponendo in buon ordine le proprie cose e prendendo il comando di sé, dandosi un equilibrio e interiormente rappacificandosi - ossia raccordando le tre parti dell’anima come se fossero suoni di un’armonia: l’alto, il basso, il medio e altri ancora intermedi, se mai ce ne fossero -, legati insieme questi elementi e diventato uno di molti, temperato ed equilibrato, così d’ora innanzi operi, quando decida di operare, o per l’acquisto di ricchezze, o per la cura del corpo, o per qualcosa riguardante la vita pubblica, o per i commerci privati.   (Platone, Repubblica, IV 443 C-E)

Il processo storico implica per Platone un “incremento”. Platone unifica in modo efficace il processo lineare irreversibile e quello circolare, introducendo una concezione di tipo spiraliforme. Si ha, pertanto, un’evoluzione della storia del cosmo e degli uomini in cui il rettilineo si combina con il circolare della spirale, e che sintetizza, pertanto, il ripetersi dell’“identico” mediato con il “differente”. Secondo un’azione sinergica che procede in modo dinamico, i Princìpi dell’Uno e della Diade, cui corrispondono “Identità” e “Differenza”, mettono in atto appunto un processo che è, ad un tempo, identico e diverso.
(Cfr. Geiser, La metafisica della storia…, parte terza, passim)

Per quanto riguarda poi la forma di anima che in noi è la più importante, bisogna rendersi conto di questo, ossia che il dio l’ha data a ciascuno di noi come un demone. È questa la forma di anima che noi diciamo che abita nella parte superiore del corpo e che dalla terra si innalza verso la realtà che ci è congenere nel cielo, in quanto noi siamo piante non terrestri ma celesti.
(Platone, Timeo, 90 A)

Non c’è infatti né legge, né ordinamento che abbia più valore della scienza; né si può ammettere che l’intelligenza sia schiava o sottoposta ad alcun’altra realtà. Essa piuttosto, quando sia vera ed effettivamente libera, come la sua natura richiede, deve aver potere su tutto.   (Platone, Leggi, IX, 875 C-D)

E io non mi meraviglierei se Euripide affermasse il vero là dove dice: “Chi può sapere se il vivere non sia morire/e se il morire non sia vivere?”. Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba.  (Platone, Gorgia, 492E)

È evidente che una libertà spinta all’eccesso si rivolti in una schiavitù spinta all’eccesso, così nella sfera privata come in quella pubblica. Di conseguenza, è altrettanto logico che la tirannia non possa sorgere da nessun’altra forma di governo che dalla democrazia, se, come credo, la più assoluta e la più dura schiavitù deve venire da una estrema libertà.   (Platone, Repubblica, VIII, 564 A)

Il giorno e la notte, in quanto sono veduti, e i mesi e i cicli degli anni e gli equinozi e i solstizi hanno realizzato il numero e ci hanno fornito la nozione del tempo e la ricerca intorno alla natura dell’universo. Da queste cose ci siamo procurati il genere della filosofia, del quale nessun bene maggiore né venne né verrà mai al genere umano, essendo un dono datoci dagli dei.
(Platone, Timeo, 47 A-B)

Una delle grandi intuizioni che troviamo nella presentazione platonica di Socrate è quella secondo cui, all’opposto di ogni opinione comune, il domandare è più difficile del rispondere. […] Per essere capaci di domandare bisogna voler sapere, il che significa però che bisogna sapere di non sapere. Nello scambiarsi dei ruoli tra interrogante e interrogato, tra sapere e non sapere, che Platone ci mette davanti, viene in luce il carattere preliminare della domanda rispetto ad ogni conoscenza e ad ogni discorso veri. Un discorso che voglia far luce sulla cosa ha bisogno di aprirsi la via nella cosa mediante la domanda.
(Gadamer, Verità e Metodo, p. 419-420)

La pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi.   (Platone, Apologia di Socrate)

 

Neoplatonici

Neppure le grandezze continue potrebbero esserci, se l’Uno non concedesse la sua partecipazione.   (Plotino, Enneadi, VI, 9, 1)

[L’infinito] è infinito anche perché non è più di uno, né ha una delle sue parti che gli si ponga come limite. Per il fatto di essere Uno non è misurato né finisce in numero. Egli pertanto non trova limiti, né rispetto ad altro né rispetto a sé, perché in tal caso diverrebbe dualità. Non ha configurazione, né parti, né forma.
(Plotino, Enneadi, V, 5, 10 e sg.)

La natura del Bene è incontaminata volontà di sé stesso, non ridotta al traino della propria natura, ma frutto della propria scelta, dato che non c’era un altro essere in grado di attrarla a sé. Si può anche dire che nessuno degli altri esseri trova nella propria essenza la ragione dell’autocompiacimento, per il semplice motivo che si può essere sempre delusi da se stessi. Invece, nell’ipostasi del Bene è necessariamente inclusa la scelta e la volontà di sé, altrimenti sarebbe ben difficile per un’altra realtà essere soddisfatta di se stessa, dal momento che quest’ultima condizione dipende proprio dalla condivisione e dalla rappresentazione del Bene. […]
Se, dunque, c’è il Bene e con lui ci sono la scelta e la volontà, senza le quali egli non potrebbe esistere, è però necessario che il Bene stesso non sia molteplice e che, di conseguenza, volontà ed essenza facciano tutt’uno. Ora, se il volere deriva dal Bene, è necessario che anche l’essere derivi da Lui, cosicché il ragionamento porta a concludere che il Bene ha creato se stesso. Infatti, una volta ammesso che la volontà deriva da Lui, quasi come un suo prodotto e che essa si identifica con la sua esistenza, allora Egli stesso si è posto in essere così com’è. Non si può dunque dire che sia quello che la sorte ha scelto, ma quello che egli stesso ha voluto.   (Plotino, Enneadi, VI, 8, 13)

Si pensi a un cerchio, che, in quanto cerchio, tocca il suo centro e anzi si ritiene assumere le sue proprietà proprio dal centro ed è per così dire centriforme: infatti i raggi del cerchio che convergono in un unico centro con uno dei loro estremi, fanno di esso il punto di origine e di convergenza. Il centro però è qualcosa di più di questi raggi, dei loro estremi, e in generale dei punti che li costituiscono; questi estremi infatti hanno solo una certa somiglianza con il centro; direi anzi che ne sono una debole impronta, dato che il centro ha il potere di generarli insieme ai loro raggi, che in ogni caso lo contengono. Il centro si rivela nei suoi raggi per quello che è, e, per così dire, è esso che dà sviluppo ai raggi, e non viceversa. Così vanno intesi tanto l’Intelligenza quanto l’Essere che traggono origine dall’Uno, e da Lui si espandono, si estendono e ne sono dipendenti, e grazie alla loro natura intellettiva, provano l’esistenza di quella certa Intelligenza che è insita nell’Uno, e che però non è propriamente Intelligenza, appunto perché è Uno.
E proprio come nell’esempio appena fatto il centro non equivale né ai raggi né al cerchio, ma semmai è padre del cerchio e dei raggi - e infatti fornisce impronte di sé e, grazie a una indelebile proprietà, ha generato cerchio e raggi in modo tale che nessuna forza potrebbe mai separarli da esso - così anche l’Uno, mentre la potenza dell’intelligenza gli corre intorno, si pone quasi come il prototipo della sua stessa immagine, un intelletto contratto in unità, mentre la sua immagine, scivolando verso il molteplice, si arrende ad esso, e per questo si trasforma in Intelligenza. L’Uno invece, giacché si mantiene anteriore all’intelligenza, come sua potenza ha la capacità di generare le intelligenze.
[… nell’Uno] c’è come una luce che si spande da un unico punto in sé trasparente. La parte che si diffonde è l’immagine, mentre il punto di origine è il vero. Ma l’Intelligenza, per quanto immagine diffusa, non è difforme rispetto all’Uno, ossia non è per puro caso, perché fin nei particolari in lei domina la causalità e la ragione formale, per cui l’Uno risulta essere causa della causa.
(Plotino, Enneadi, VI, 8, 18)

Anche gli altri, non solo noi siamo gli esseri di lassù; siamo dunque tutti gli esseri di lassù. Mentre siamo in comunione con tutti gli altri, siamo insieme a loro gli esseri di lassù. Siamo in definitiva Tutto e Uno. Ma, guardando verso l’esterno, in direzione opposta a quella dell’origine cui siamo sospesi, ignoriamo di essere una unità, come dei volti rivolti verso l’esterno che, all’interno, si riconnettono a un unico vertice. Ma se uno potesse torcersi, o spontaneamente, o perché ha la ventura di venire tirato per i capelli da Atena, vedrebbe Dio e se stesso e il Tutto.   (Plotino, Enneadi, VI, 5, 7, 9-13)

D’altra parte bisogna stabilire che il Bene è ciò da cui dipendono tutte le cose, mentre esso non dipende da nulla. Così si conferma la formula: “Quello che tutte le cose desiderano”. Deve dunque restare immobile e tutte le cose devono volgersi verso di lui come un cerchio si volge verso il centro da cui emanano i raggi.   (Plotino, Enneadi, I, 7, 13-24)

In che modo tutte le cose si volgono verso il loro centro che è il Bene? Le cose inanimate si volgono verso l’anima, e l’anima si volge verso il Bene, passando attraverso lo Spirito. Anche le cose inanimate possiedono qualcosa del Bene, perché ogni cosa è, in qualche maniera, una unità e un essere, e partecipa di una speciale forma.   (Plotino, Enneadi, I, 7, 2,1-4)

D’altra parte, il principio di alterità, che produce la materia, in quella sfera è eterno: è infatti il principio della materia e il movimento primigenio, tant’è vero che anche il movimento è stato detto alterità, perché l’uno e l’altra hanno in comune il momento della nascita. Però, il movimento e l’alterità che vengono dal Primo sono qualcosa di indefinito, e hanno bisogno del Primo per essere definiti. La loro determinazione avviene nel momento in cui si convertono a Lui. Da principio anche quella materia era qualcosa di indistinto e un che di estraneo, e quindi non era ancora Bene, perché mancava dell’illuminazione del Primo. Infatti, se la luce irraggia dal Primo, ciò che accoglie la luce, prima di accoglierla, non poteva averla come un possesso perpetuo, ma come un qualcosa di estraneo, appunto perché essa viene da un altro essere.
(Plotino, Enneadi, II, 4, 5)

O forse bisognerebbe ammettere che l’Intelligenza non vide mai l’Uno, ma si limitava a vivere alla sua presenza, sospesa a Lui, rivolta verso di Lui. In tale maniera il suo moto si compiva per effetto di quel movimento, e siccome questo si realizzava tutt’intorno all’Uno, non poteva ridursi a un semplice movimento, ma a un movimento che importava sazietà e pienezza. In seguito, l’Intelligenza divenne tutte le cose e acquisì coscienza di ciò insieme alla coscienza di sé: solo a questo punto divenne intelligenza. E per possedere quello che vedeva doveva essere completa, guardando quelle realtà alla luce di chi ne faceva dono, ma anche disposta ad accoglierle.   (Plotino, Enneadi, VI, 7, 16)

La prova che si è raggiunto il Bene è che ci si sente migliori, che non si provano più rimpianti, che si è ricolmi di Lui, che si resta presso di Lui e non si cerca altro.   (Plotino, Enneadi, VI, 7, 26)

La sostanza, nel suo senso originario, non può ridursi all’ombra dell’essere, ma deve possederne la pienezza; e quest’ultima si dà solo in presenza della forma del pensiero e della vita, sicché pensare e vivere stanno insieme nell’Essere. Così, se si dà l’Essere si dà anche l’Intelligenza, e se si dà l’Intelligenza si dà anche l’Essere, e il pensare sta insieme all’Essere.   (Plotino, Enneadi, V, 6, 6)

Se l’anima è in stato di purezza nel mondo intelligibile, possiede anch’essa l’inalterabilità. Essa è allora ciò che sono gli oggetti del suo pensiero. Poiché, quando essa si trova in quel luogo, deve necessariamente arrivare a unificarsi con lo spirito, una volta che gli si sia rivolta; e, rivolta che gli si sia, non ha alcun termine intermedio e, giunta allo spirito, si accorda con esso, senza tuttavia perdere se stessa; ambedue sono unità e insieme dualità. Finché l’anima si conserva così, non può alterarsi, ma è in rapporto immutabile col pensiero e rimane, nello stesso tempo, cosciente di sé, giacché è diventata una sola e identica cosa con ciò che pensa.  (Plotino, Enneadi, IV, 2, 24)

Le Idee diventano “forze” o “potenze intelligenti” e dunque realtà vive, ossia “Intelligenze pensanti”. […]
Plotino giunge ad affermare che ciascuna Idea è in un certo senso tutte le altre Idee. Infatti, poiché il Nous è la totalità degli esseri intelligibili e con essi coincide, è necessario che ogni sua “parte”, così come rispecchia la totalità degli esseri intelligibili, sia essa pure conoscenza di tutti gli essere intelligibili. […]
In questo senso, Plotino dice che il Nous è “uno-molti”, vale a dire “unità molteplice” e “molteplicità una”.   (G. Reale)

Noi siamo d’accordo nell’ammettere che l’Essere è molti per la diversità e non per il luogo. L’essere, pur essendo così molteplice è tutto insieme; l’essere si stringe con l’essere ed è tutto insieme. L’Intelligenza invece è molteplice per effetto della “diversità”, non del luogo, e per questo è tutta insieme.
(Plotino, Enneadi, VI, 4, 4)

Diciamo allora che l’essere è multiforme e molteplice? Multiforme e semplice a un tempo, perché i molti vi si trovano come uno. È una Ragione formale unica e complessa, e tutto l’Essere nel suo insieme è uno. Certo, la diversità è propria dell’essere stesso; la diversità gli appartiene, e del resto, come potrebbe appartenere al non-essere? L’essere appartiene all’Uno non in forma separata, perché dovunque si trovi, lì è presente anche la sua unità, dato che anche l’uno, a sua volta, è di per sé essere. È possibile, infatti, essere presente anche essendo separato.   (Plotino, Enneadi, VI, 4, 11)

L’Anima ha la propria realtà dall’Intelligenza e il pensiero per essa si realizza nella contemplazione dell’Intelligenza, perché nel guardare all’Intelligenza trae da sé come qualcosa che non le è estraneo. Invero, solo questi meritano il nome di atti dell’Anima, in quanto hanno i tratti dell’Intelligenza e vengono dall’Anima stessa. […] L’Intelligenza, dunque, sempre più potenzia la divinità dell’Anima, sia perché le fa da padre, sia perché è presente in lei: non c’è nulla infatti che si frapponga fra loro se non il fatto d’essere realtà distinte: l’una in guisa di conseguente e di ricettacolo, l’altra in guisa di forma.   (Plotino, Enneadi, V, 1 3)

Avviene qui come per l’uomo che aspetta di udire la voce che vorrebbe udire; egli scarterebbe ogni altro suono, tenderebbe l’orecchio in cerca del suono che preferisce, per capire se si stia avvicinando; allo stesso modo è necessario escludere i suoni che provengono dal mondo sensibile, tranne che per necessità, per mantenere la potenza della coscienza dell’anima pura e pronta ad ascoltare suoni che vengono dall’alto.   (Plotino, Enneadi, V, I(10), 12, 14)

Ora, anche l’Anima pensa, almeno nella misura in cui guarda e contempla il principio che l’ha generata, vale a dire il Nous, ma la sua essenza consiste non nel pensare (altrimenti non si distinguerebbe dal Nous), bensì nel produrre e nel dar vita a tutte le altre cose che sono (ossia tutte le cose sensibili), nell’ordinarle e nel governarle.   (G. Reale)

Allora, nella misura in cui si volge alle realtà superiori, l’Anima pensa; invece, in quanto guarda a se stessa, organizza gli esseri che la seguono, li dirige ed esercita su di essi la sua sovranità.   (Plotino, Enneadi, IV, 8, 3)

Ma la physis [natura] è essa stessa contemplazione, nella misura in cui è forma razionale e vita, e anzi, proprio in quanto è contemplante è creante. In altri termini: nella misura in cui è “visione di forme” è “produttrice di forme” nella materia. Anche la natura, come tutte le realtà intelligibili, contemplando produce.   (G. Reale)

Perfino la natura materiale non poteva sottrarsi a questa legge per cui il bene è a disposizione dio tutti secondo quanto ciascuno ne sa accogliere.  
(Plotino, Enneadi, IV, 8, 6)

L’anima particolare che si rivolge alle realtà che la precedono è invasa dalla luce, perché si incontra con l’Essere. Invece, quella che si orienta alle realtà successive, va verso il non-essere. Ciò avviene nel momento in cui si rivolge a se stessa; perché in tal caso la voglia di sé produce le realtà successive che sono immagini di sé, ossia non-essere. È come se, procedendo sospesa nel vuoto, l’Anima divenisse sempre più indefinita: così, l’immagine di questa immagine nella sua indeterminatezza, risulta del tutto oscura, per il fatto che manca completamente di ragione e di intelligenza ed è assai lontana dall’essere.
Ma finché si orienta verso la natura intermedia, è ancora nel suo ambiente; se però di nuovo si rivolge, come in una seconda intuizione, all’immagine, allora le dà forma e finisce col farvi ingresso con piacere.   (Plotino, Enneadi, III, 9, 3)

Di conseguenza, anche ciò che nella materia si genera risulta essere una specie di gioco, semplicemente un’immagine nell’immagine, come una realtà riflessa nello specchio che compare in un luogo mentre si trova in un altro. Così, all’apparenza, diresti lo specchio pieno di cose: ma non ha nulla, anche se sembra essere tutto.   (Plotino, Enneadi, III, 6, 7)

D’altra parte, per tornare alla nostra metafora [dello specchio], se tu togliessi gli esseri che veramente sono, nessuna delle cose al momento visibili nella realtà sensibile si potrebbe più vedere, neppure per un istante.  
(Plotino, Enneadi, III, 6, 13)

Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora bello, comportati come l’autore di una statua che debba risultare bella: questi toglie, raschia, leviga, ripulisce fino a far apparire nella statua un bel viso. Anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, a furia di ripulire quanto è oscuro, fallo brillare e non smettere di “scolpire” la tua propria “statua” fino a che riluca per te il divino splendore della virtù, fino a vedere la “Saggezza, alta sul suo sacro soglio”. […] Sei divenuto tale? Hai visto questo? […] Se vedi di essere diventato così, allora, divenuto tu stesso una visione, sempre più fiducioso in te stesso, già intento a salire verso l’alto pur essendo ancora su questa terra, senza più bisogno di guida, figgi intensamente gli occhi e guarda!  
(Plotino, Enneadi, I, 6, 9/7-16/22-24)

Ogni anima è e diventa ciò che guarda.   (Plotino, Enneadi, IV, 3, 8, 15-16)

Come il tempo dipende dall’attività dell’Anima, così la stessa corporeità - e per conseguenza la spazialità - dipende dalla forma, dall’attività della forma sulla materia. La materia infatti, concepita nel modo sopra illustrato, non è né massa né estensione, e quindi non è corporeità.
Il corpo, in generale, nasce dall’unione della forma con la materia, è il risultato della qualità impressa nella materia. In particolare, Plotino specifica che la “corporeità” in quanto tale è per se stessa “forma”, è “logos”, è ragione formale p ragione seminale produttiva, che genera il corpo concreto in unione con la materia.   (G. Reale)

E noi uomini chi siamo? Ci identifichiamo con la realtà di lassù o con quella che le si avvicina e che si sviluppa nel tempo? Prima di nascere in questo mondo eravamo uomini di lassù, diversi - alcuni perfino dei! -, pure anime, e l’intelligenza era unita con la sostanza universale; insomma, non eravamo parti separate e distinte dell’intelligibile, ma parti integranti del tutto.
In verità, neppure ora ne siamo separati, solo che a quell’uomo se ne è aggiunto un altro, che reclama la sua esistenza. Così ha incontrato noi, che pur non eravamo estranei al tutto; si è rivestito di noi, sovrapponendosi a quell’uomo che ciascuno era una volta. È come quando persone diverse, da luoghi diversi tendono l’orecchio per sentire ed accogliere un’unica voce ed un’unica parola: in tal caso, l’ascolto si realizza quando è presente la causa che la mette in atto. Siamo, in tal modo, due uomini insieme, e non più quell’altro che prima eravamo: anzi, talvolta, quando l’uomo originario è inattivo o per altri motivi assente, ci riduciamo a questo che in seguito si è aggiunto.  
(Plotino, Enneadi, VI, 4, 14)

Le singole anime hanno dunque una naturale attrattiva per ciò che è intelligibile, la quale si esercita nel rivolgersi alla loro origine; e tuttavia esercitano anche un’attività su questo nostro mondo, non diversamente dal raggio di luce che per un capo è lassù, appeso al sole, per l’altro non risparmia il suo aiuto a ciò che segue.   (Plotino, Enneadi, IV, 8, 4)

Che cosa è mai quello che ha causato nelle Anime la dimenticanza di Dio padre e ha fatto sì che, pur essendo parti di lassù, non avessero più alcuna conoscenza di Lui, né di sé, né di quel luogo? L’origine del male per loro è […] poi anche la volontà di essere padrone di se stesse.
E poiché senza dubbio trassero piacere da tale padronanza di sé, sfruttarono questo loro movimento autonomo per dirigersi in senso contrario al dovuto e, al massimo della distanza, persero conoscenza del fatto di essere originarie di là […] Dunque, persero di vista e Lui e se stesse, e per ignoranza della propria origine, finirono con il disprezzarsi ed apprezzare tutto il resto, prese da ammirazione per ogni cosa più che per sé medesime; anzi, restando colpite ed affascinate da tali realtà, a queste si legarono e con disprezzo si staccarono quanto più possibile da ciò da cui si erano separate. Si dà il caso che fosse proprio la stima di siffatte cose e la svalutazione di sé a causare la totale perdita di conoscenza di quella superiore realtà.   (Plotino, Enneadi, V, 1, 1)

Insomma, se la sensazione è nei nostri confronti un messaggero, l’Intelligenza è per noi un re.   (Plotino, Enneadi, V, 3, 3)

Bisogna ben credere che si vede, quando l’anima tutto d’un tratto scorge la luce: questa luce viene da Lui, anzi è Lui stesso. Bisogna ben pensare che è presente, quando ci illumina […]. Tale è il fine verace dell’anima, il contatto con questa luce […]. Ma come arrivarci? Distaccati da tutto.   (Plotino, Enneadi, V, 3, 17)

A queste condizioni l’Anima deve spogliarsi di ogni realtà esterna per rivolgersi totalmente in se stessa, senza nulla concedere al mondo esteriore; bisogna pure che rinunci a conoscere ogni realtà a partire da quelle sensibili fino alle forme intelligibili, e addirittura a se stessa, per ritrovarsi nella contemplazione dell’Uno.   (Plotino, Enneadi, VI, 9, 7)

Così, allontanando tutto il resto, farai crescere te stesso, e grazie alla tua rinuncia il tutto ti sarà presente. Ora, se quest’ultimo si fa presente a chi si libera delle cose, non si rivelerà a chi resta congiunto con altre cose: dunque, il tutto non è venuto per rendersi presente, ma piuttosto sei tu che te ne vai quando lui non è presente. E pure allontanandoti, non ti distacchi da lui - che infatti è presente - perché, in verità, non te ne sei andato, ma in sua presenza ti sei rivolto a cose opposte.   (Plotino, Enneadi, VI, 5, 12)

L’Uno c’è perché è libera attività auto-produttrice, libera causa sui, libertà “auto-causantesi”. L’Uno è libertà nel senso che “è ciò che vuole essere”, o, in altri termini, “vuole essere ciò che è”.
E ciò che Egli vuole essere è quanto di più alto ci possa essere, l’assoluto positivo, l’“assoluto Bene”.  

L’Uno pone liberamente sé, e, ponendo liberamente sé, produce necessariamente le altre cose, che, da Lui che si è liberamente auto-posto come potenza produttrice infinita, non possono non derivare.  
(G. Reale)

In quanto ragione formale [la natura] è soggetto e oggetto di contemplazione, e se può creare è perché si trova ad essere a un tempo contemplazione, oggetto contemplato e ragione. Ecco dunque che la creazione ci si è rivelata come contemplazione, come l’esito di un atto contemplativo che resta qual è, appunto contemplazione, e senza avventurarsi in una qualche azione, già semplicemente per essere contemplazione, crea.   (Plotino, Enneadi, III, 8, 3)

L’azione, dunque, è in funzione della contemplazione e dell’oggetto della contemplazione, di modo che anche per coloro che agiscono, il fine consiste nella contemplazione: è come se costoro, non potendo raggiungere il loro scopo direttamente, cercassero di coglierlo vagando in modo incerto. Infatti, quando costoro realizzano i loro obiettivi, proprio come volevano che fossero, non lo fanno certo per restarne all’oscuro, ma per averne conoscenza e rimirarseli mentre stanno nella loro Anima, dove risiedono certamente per essere contemplati.   (Plotino, Enneadi, III, 8, 6)

Tu dunque aumenti te stesso quando getti via le altre cose e l’Intero ti si fa presente quando le hai eliminate; ma a chi resta con le altre cose, esso non si manifesta.   (Plotino, Enneadi, VI, 5,12)

Plotino: “Spetta agli Dei venire da me; non a me andare da loro”.  
(Porfirio, Vita di Plotino, 10)

L’intelletto segua Dio, riflettendo come in uno specchio Dio con l’assomigliarsi a Lui: l’anima segua l’intelletto: all’anima poi faccia da servo il corpo, per quanto gli è possibile, lui puro ed essa pura, perché se il corpo è insudiciato dalle passioni dell’anima, il sudiciume si rivoltola di nuovo su di essa.
(Porfirio, Lettera a Marcella, 15)

La legge divina è sconosciuta a un’anima impura per la follia e l’intemperanza, ma è chiaramente riconoscibile mediante la razionalità e l’impassibilità. E non è possibile né trasgredirla, perché niente per l’uomo è superiore ad essa, né disprezzarla, perché essa non può risplendere in chi vuole disprezzarla: e neppure cambia nelle fortuite necessità delle circostanze, perché è solita essere superiore al caso e più forte di ogni abile forza.
Solo l’Intelletto la conosce, quando ne scava in profondità la ricerca e la scopre in se stesso impressa come un sigillo, e da essa procura un nutrimento all’anima come suo corpo. Infatti, come corpo dell’Intelletto si deve porre l’anima razionale, che l’Intelletto nutre portando, mediante la luce che è in lui, al riconoscimento le nozioni che sono in essa, che egli ha impresse e scolpite derivandole dalla verità della legge divina.
Egli ne diventa maestro e salvatore, la nutre e la custodisce e la guida verso l’alto: le parla in silenzio la verità: le consente di squadernare da sé la legge divina con lo sguardo rivolto a lui e a lui pensando: e così egli riconosce che questa legge era stata dall’eternità impressa in lei.
(Porfirio, Lettera a Marcella, 26)

Egli [Dio] è venuto per essere presente, ma siamo stati noi ad allontanarci quando non è presente. E che cosa c’è di strano? Non sei lontano da Lui, se è presente in te; e non sei presente in te stesso, pur essendo presente, quando sei rivolto ad altre cose e distolto da te stesso, e sei allora presente e assente nello stesso tempo. E se sei presente a te stesso in modo da non esserlo, e per questo non conosci te stesso, e trovi tutto ciò che è lontano da te anziché te stesso, che per natura sei presente in te, perché ti meravigli allora se ciò che è assente è lontano da te, visto che è lontano da te perché tu stesso ti sei allontanato da te? Infatti, più tu rientri in te stesso - per quanto Egli sia sempre presente e inseparabile da te - più sei vicino a Lui; più sei in te, più sei in Lui, perché è inseparabile per essenza da te come tu lo sei da te stesso. (Porfirio, Sentenze, 31)

Sono queste la virtù dell’anima che si eleva a ciò che è veramente essere, mentre quelle politiche migliorano l’uomo mortale […]; nelle virtù catartiche, quindi, la prudenza consiste nel non sottostare alle opinioni del corpo, ma nell’agire da sola, perfezionandosi grazie al puro pensare; la temperanza consiste nel non sottostare alle stesse passioni; la fortezza consiste nel non temere il distacco dal corpo, come se fosse una caduta nel vuoto e nel non essere; e infine la giustizia consiste nella padronanza della ragione e dell’intelletto, senza che nulla vi si opponga.
Notiamo quindi che la disposizione alle virtù politiche consiste nella moderazione delle passioni, che ha come fine il vivere da uomo secondo natura, mentre quella alle virtù contemplative consiste nell’impassibilità, che ha come fina l’assimilazione a Dio.   (Porfirio, Sentenze, 32)

Le cime dei monti non sarebbe possibile scalarle senza pericolo e senza fatiche; così pure dai bassifondi del corpo non si emerge per quelle vie che trascinano giù il corpo, il piacere e l’indolenza: la via passa per la sofferenza e la memoria della caduta. E se spiacevoli sono gli ostacoli accidentali, la vera difficoltà è propria alla risalita. Perché vivere una vita facile appartiene agli dei, ma per chi è caduto nel divenire è tutto il contrario, perché questo stato porta all’oblio e contribuisce ad esternarci e ad addormentarci, se, sedotti dai sogni che ci illudono, ci abbandoniamo al sonno.   (Porfirio, Lettera a Marcella, 6)

In verità, chi vede il bello nei corpi non deve rincorrerlo, ma ormai, sapendo che è solo un’immagine, un’impronta e un’ombra, lo deve fuggire per dirigersi a ciò di cui è immagine. Chi infatti vi si gettasse sopra per poterlo stringere, quasi fosse una cosa reale, imiterebbe quell’uomo che - a quanto allude il mito - mi pare volesse afferrare la sua bella immagine riflessa nell’acqua e finì per cadere giù, scomparendo nella corrente.
Una sorte non diversa toccherebbe all’uomo che, affascinato dai bei corpi, non riuscisse a liberarsene: anch’egli cadrebbe - ma questa volta con l’Anima! - nella notte fonda e impenetrabile dell’Intelligenza, dove si troverà cieco nell’Ade, lì come qui circondato da ombre.
Fuggiamo dunque verso l’amata Patria! Ecco l’invito più sincero. Ma che genere di fuga è mai questa e come si attua? Ce ne andremo alla maniera di Ulisse, quando - a detta del poeta - lasciò la maga Circe e Calipso, a mio giudizio facendo intendere di non voler restare, per quanto non gli mancassero piaceri per gli occhi e si trovasse circondato da una profusione di bellezza sensibile.
Il fatto è che la nostra Patria è il luogo da cui siamo venuti, là dove è il Padre. E dunque quale viaggio è mai questo e quale fuga? Certo, non si potrebbe compiere a piedi, perché in ogni caso i piedi ci porterebbero da una terra all’altra. Neanche si devono attrezzare carrozze di cavalli o imbarcazioni, basta solamente distaccarsi da tutto e non guardare più, ma - per così dire - con gli occhi ben serrati, riattivare quella vista che tutti hanno, ma che in pochi usano, e ricorrere a essa.   (Plotino, Enneadi, I, 6, 8)

Tutto ciò che procede da qualcosa e vi si rivolge ha un’attività circolare.
Se infatti si rivolge a ciò da cui procede, congiunge al principio la fine e il movimento risulta unico e continuo, poiché avviene, in una direzione, a partire da ciò che permane immobile; nell’altra, verso ciò che è immobile. Perciò ogni essere procede con moto circolare dalla sua causa iniziale alla sua causa iniziale.
Ci sono cicli più grandi e cicli più piccoli, dal momento che le conversioni in parte si indirizzano a ciò che è immediatamente superiore, in parte alla realtà più in alto e fino al Principio di tutto: da esso infatti derivano tutte le cose e ad esso ritornano.   (Proclo, Elementi di teologia, 33)

Ma torniamo all’immagine del “circolo” [di Proclo] e al suo significato. Il centro del circolo infatti è l’immagine della “permanenza”, il raggio è l’immagine della “processione”, la circonferenza è l’immagine del “ritorno”.   (G. Reale)

La circonferenza non è altro che il centro sviluppato e al tempo stesso delimitato, essa è rivolta verso il centro che è principio del circolo. Il rivolgersi diventa così il centro compiutamente sviluppato, processione giunta al suo termine e alla sua conversione e allo stesso tempo ritorno.  
(W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica)

La triade principale principio-mezzo-termine interpreta dunque l’Uno nel suo essere Principio sopraesistente, nel quale ogni realtà ha il proprio inizio, il proprio punto medio o potenza che lo mantiene nell’essere, perché in esso è “incentrato” e “radicato”, e il proprio fine al quale, in quanto propria origine, esso deve nuovamente fare ritorno per trovare compimento.
(W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica)

E così come l’Uno, per il fatto che non si potranno mai esprimere né l’essere né l’essenza, non va pensato però come un nulla privo di senso, allo stesso modo che la sua inconoscibilità e ineffabilità, nonché il superamento del dire e del pensare nel silenzio non pensante, nella fede o nella “mania” dell’estasi, non sono da intendere nel senso di un agnosticismo o irrazionalismo esaltato.
Accade, invece, come già nel percorso della dialettica negativa, che proprio nell’evento dell’unificazione che si compie estaticamente nel silenzio e nella fede si palesa l’assoluta incommensurabilità dell’Uno stesso: il nulla come sovrabbondanza dell’Uno e non come il nulla di una realtà non-fondata. Si può pertanto affermare che l’Uno in sé rimane inaccessibile tanto al pensiero umano che a quello divino non tanto perché esso non sia in modo assoluto nessuno degli enti che derivano da Lui, ma piuttosto perché, in un modo supremo che non può essere pensato né espresso in senso soddisfacente mediante l’affermazione né mediante la negazione, esso è, in quanto Principio di tutto, tutto ciò di cui è nulla. Questo nulla della sovrabbondanza è dunque termine del pensiero e suo superamento.
(W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica)

Offriamo questo inno al Dio:
lasciamoci alle spalle l’essenza fluttuante,
raggiungiamo il vero scopo, la completa somiglianza con Lui.

Impariamo a conoscere il Signore,
amiamo il Padre,
obbediamogli quando ci chiama.
Affrettiamoci verso il calore
sfuggendo al freddo.
Diventiamo fuoco,
attraverso il fuoco compiamo il nostro tragitto.
Una strada agevole si apre per la nostra ascesa.
Il Padre ci guida avendo dispiegato vie di fuoco.
Noi lasciamo scorrere la nostra vita
come misera corrente che sgorga dall’oblio.
(Proclo, Filosofia caldaica, I)

E questa è la parte migliore della nostra attività: nella calma delle facoltà elevarsi al divino stesso e danzare intorno a quello, e riunire senza posa tutta la molteplicità dell’anima in questa unificazione e, tralasciate tutte quante le cose che vengono dopo l’Uno, collocarsi accanto ad esso e congiungersi con esso che è ineffabile al di là di tutti gli enti.   (Proclo, Teologia Platonica, I, 3)

Plotino [in punto di morte] aggiunse: “Cercate di ricondurre il divino che è in noi, al divino che è nell’universo”.   (Porfirio, Vita di Plotino, 2)

Ferecide diceva che Zeus si mutò in amore al momento di creare, perché combinò l’ordine del mondo, partendo dai contrari, in una concordanza e lo menò all’amicizia e seminò in ogni cosa l’identità e l’unità sparse ovunque.
(Proclo, commento al Timeo 32c)

 

Fonte: http://www.psicoenergetica.it/psicoenergetica/FILOSOFIA%20PLATONE.doc

Sito web da visitare: http://www.psicoenergetica.it/

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