Cessazione del rapporto di lavoro licenziamento e dimissioni

Cessazione del rapporto di lavoro licenziamento e dimissioni

 

 

 

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Cessazione del rapporto di lavoro licenziamento e dimissioni

LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
Il licenziamento individuale.
1.Le ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro.
L’estinzione del rapporto di lavoro può avvenire:
-per recesso del datore (licenziamento) o del lavoratore (dimissioni). Il recesso unilaterale è espressione del potere di ciascuna delle parti di sciogliere il rapporto con la semplice comunicazione all’altra parte. Si tratta di un diritto potestativo riconosciuto dall’ordinamento in deroga al principio generale secondo cui il contratto può essere risolto solo per mutuo consenso. Il potere di licenziare trova nell’ordinamento penetranti limitazioni.
-per risoluzione consensuale. In tal caso non operano le limitazioni previste per il licenziamento, dovendosi però ritenere operante la nullità prevista dalla L. n. 7/1963 nell'ipotesi in cui la risoluzione consensuale nasconda un licenziamento coperto da un consenso estorto al dipendente. (es. sono nulle le dimissioni rese dalla lavoratrice in occasione del matrimonio).
-per scadenza del termine nei contratti di lavoro a tempo determinato.
-per altre particolari circostanze specificamente previste dalla legge (ad esempio il mancato ritorno in azienda del lavoratore dopo il servizio militare o dopo la reintegrazione ex art. 18 St. lav).
-per morte del lavoratore (salvi determinati oneri economici in favore dei superstiti). La morte del datore invece non provoca la cessazione del rapporto, che prosegue con i successivi titolari dell'impresa; il rapporto si estingue solo se strettamente e infungibilmente legato alla persona del datore.
-per impossibilità sopravvenuta e forza maggiore. Si discute se possano formare autonoma causa estintiva. Si distinguono a tal uopo ipotesi riguardanti l’impresa o il datore. Tra le prime di enumerano il cosiddetto factum principis (requisizione amministrativa, ordine dell’autorità di evacuare i locali, fenomeni naturali che abbiano distrutto i locali aziendali, stato di guerra). Tra le ipotesi concernenti il lavoratore sono incluse la carcerazione, accertamento sanitario di assoluta inidoneità al lavoro).
L’opinione prevalente è che l’impossibilità sopravvenuta e la forza maggiore rilevino come cause estintive non già alla stregua della disciplina del diritto comune (art. 1464 e 1256 c.c.), ma nei limiti in cui configurano un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Per il caso in cui un lavoratore sia divenuto inabile nel corso del rapporto; in questo caso il legislatore ha espressamente escluso la possibilità di intimare il licenziamento qualora il dipendente possa essere adibito a mansioni equivalenti o, in mancanza, a mansioni inferiori.
2.Il recesso nella disciplina del codice civile.
La disciplina del recesso nel rapporto di lavoro era originariamente improntata ad una filosofia tipicamente liberista. In base al codice civile del 1865, le parti, così come avevano piena libertà di costituire e disciplinare il rapporto, disponevano in piena autonomia anche della sua cessazione (come sappiamo l’unico limite all’autonomia privata era costituito dal divieto di lavoro a tempo indeterminato).
Tale ottica liberistica ha trovato riscontro anche nel codice del 1942, nel quale l’artt. 2118 attribuiva a ciascuno dei contraenti la facoltà di recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato senza fornire alcuna motivazione (recesso ad nutum) (oggi la libertà di recesso dell’art. 2118 incontra le limitazioni poste dal legislatore).
Conseguenza di tale disposizione era dunque la preclusione del controllo del giudice sui motivi del licenziamento e l' idoneità della semplice dichiarazione da parte del datore ad estinguere il rapporto.
La previsione del recesso ad nutum si collegava a vari principi di ordine generale: a)pareva garantire la libertà individuale dei contraenti nei confronti di vincoli contrattuali a tempo indeterminato, potendo ciascuno liberarsi dal rapporto istantaneamente; b) pareva garantire una presunta eguaglianza tra le parti, ponendole in posizione simmetrica di fronte alla cessazione del rapporto; c)allineava la risoluzione del rapporto di lavoro a quella di ogni altro contratto sinallagmatico a tempo indeterminato, considerandola alla stregua di un qualsiasi istituto contrattuale riconducibile al diritto civile; d)creava una logica simmetrica tra la costituzione e la cessazione del rapporto di lavoro nel comune segno della libera determinazione ad opera della volontà delle parti.
L’unico vincolo per il recedente ai sensi della disciplina codicistica è rappresentato dall’obbligo di preavviso (da cui deriva il differimento della cassazione del rapporto). L’obbligo di preavviso trova fondamento nella necessità di tutelare la parte receduta, consentendole il tempo necessario per trovare una nuova occupazione (nel caso di licenziamento) o un sostituto (in caso di dimissioni).
L’obbligo di preavviso viene meno in caso di licenziamento per giusta causa, poiché ai sensi dell’art. 2119, la giusta causa di licenziamento preclude la prosecuzione anche solo provvisoria del rapporto.
Nel caso di dimissioni sorrette da giusta causa poi, non solo il lavoratore è esonerato dall’obbligo di preavviso, ma ha anche diritto ad un’indennità sostitutiva del preavviso.
La durata del preavviso non è predeterminata dal codice, che sul punto rinvia alla contrattazione collettiva e, in mancanza, agli usi o all’equità.
Ai sensi dell'art. 2110 c.c., il lavoratore in malattia non può essere licenziato fino alla cessazione dello stato morboso o alla scadenza del periodo di comporto. L'art. 2109 c.c., impedisce la computabilità nelle ferie del periodo di preavviso.
Il codice all'art. 2118 autorizza la parte che recede a sostituire il periodo di preavviso con un’indennità pari alla retribuzione che sarebbe spettata in caso di preavviso lavorato (c.d. indennità sostitutiva del preavviso).L'indennità di preavviso (art. 2121 c.c.) viene calcolata in un numero di mensilità o di giorni stabilito dai contratti collettivi. La sostituzione del periodo di preavviso con la relativa indennità è una facoltà della parte recedente.
La sostituzione del preavviso con l’indennità però non produce l’anticipata risoluzione del rapporto, il quale, pur in assenza di prestazione, resta giuridicamente attivo fino al termine del periodo di preavviso, sicché eventuali incrementi retributivi producono effetto in favore del lavoratore.
Tuttavia è lecito un accordo mediante il quale il datore e il lavoratore prevedano la risoluzione immediata del rapporto, precludendo istantaneamente la maturazione di ulteriori vantaggi economici e normativi. Per la validità di siffatto accordo occorre una manifestazione di volontà esplicita o implicita (mediante comportamenti concludenti). La mera accettazione dell'indennità sostitutiva del preavviso nonché del TFR non concretizza alcun comportamento concludente in tal senso.
Il codice all'art. 2119 esclude espressamente che il fallimento o la liquidazione coatta amministrativa integrino una giusta causa di licenziamento. Pertanto l’apertura di tali procedure concorsuali non comporta l’automatica cessazione dell’attività di impresa; è anzi previsto che all'esercizio provvisorio dell'impresa possa essere autorizzato il curatore del fallimento o il liquidatore. In tal caso i rapporti di lavoro continuano regolarmente ed il licenziamento potrà essere intimato soltanto se si verifica un inadempimento dei lavoratori o se l'attività aziendale venga realmente a cessare con l'obbiettiva impossibilità di utilizzare la forza lavoro.
Anche il trasferimento d’azienda non integra di per sé causa di giustificazione del licenziamento; anzi il legislatore si è preoccupato di garantire le continuità occupazionale dei dipendenti “ceduti”.
3.L'introduzione della regola della necessaria giustificazione del licenziamento.
La logica che giustificava il recesso ad nutum era assolutamente mistificatoria. Il rispetto dell’eguaglianza formale si poneva infatti in totale contrasto con l’eguaglianza sostanziale, data la diversa posizione delle parti del rapporto di lavoro.
Infatti, mentre le dimissioni del lavoratore creano al datore solo un fastidio dovuto alla sostituzione del lavoratore (peraltro agevolata dalla tendenziale ricchezza dell’offerta di lavoro), il licenziamento produce un danno ben maggiore per il lavoratore, in virtù della difficoltà di reperire una nuova occupazione in un mercato decisamente ostile (nonché per il fatto di privarlo dell’unica o principale fonte di sostentamento).
Ciò pose l’attenzione sulla necessità di una rivisitazione della materia. Con l'avvento della Carta Costituzionale si generò l'auspicio- anche attraverso una valorizzazione degli art 4 e 41 della Costituzione e dell'art 1345 c.c., sul motivo illecito- che si affermasse un generale divieto dei licenziamenti immotivati.
Una disciplina legislativa della materia trovò inizialmente l'opposizione, oltre che da parte datoriale, ad opera della CISL, ostile da sempre agli interventi legislativi in materie ritenute di competenza dell'autonomia collettiva.
Tuttavia in  tale contesto si affermò la L. 604/1966 sui licenziamenti individuali. Tale legge manteneva intatta la libertà di dimissioni, cui continua ad applicarsi la disciplina codicistica, e introdusse il principio della giustificazione obiettiva del potere di recesso, dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. La stessa legge introduceva le nuove definizioni di giustificato motivo (nella duplice configurazione soggettiva e oggettiva) mentre rinviava per l’identificazione della giusta causa al codice civile e più precisamente all'art 2119.
Quindi mentre nel regime del codice, l’esistenza o meno della giusta causa rilevava solo ai fini della concessione del preavviso (o della indennità sostitutiva), in presenza della disciplina legislativa vincolistica sui licenziamenti individuali, l’assenza di giusta causa comporta la illegittimità del licenziamento.
La legge 604 all'art. 5 inoltre pose l’onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo a carico del datore, chiamato così a supportare anche sul piano probatorio la legittimità del recesso.
L'art. 8 della stessa legge infine, prevedeva, in caso di licenziamento ingiustificato, un regime sanzionatorio ritenuto alquanto moderato o compromissorio; riassunzione del lavoratore o (a scelta del datore) pagamento di una penale risarcitoria ragguagliata ad un numero di mensilità di retribuzione che variava, a seconda delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio e del comportamento delle parti. Nei fatti, i datori optavano quasi sempre per il pagamento dell’indennità risarcitorio, quindi salvaguardando il potere del datore di lavoro di estinguere anche immotivatamente il rapporto, salva l'efficacia dissuasiva dell'onere economico.
Soltanto per i licenziamenti per rappresaglia (ossia determinati da ragioni ideologiche, religiose, politiche o sindacali) veniva apprestato un regime di più radicale nullità (indipendentemente dalle dimensioni aziendali), con conseguente prosecuzione del rapporto senza soluzione di continuità.
Un deciso passo in avanti si ebbe con l’art. 18 St. lav., che segna il passaggio da un regime di stabilità meramente obbligatoria ad un regime di stabilità reale.
In base all’art. 18, laddove il giudice ritenga il licenziamento non assistito da giusta causa o da giustificato motivo, deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro senza alcuna possibilità alternativa di tipo risarcitorio. Oltre alla reintegrazione, il giudice condanna il datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore, risarcimento commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità).
In sostanza il datore può anche non reintegrare effettivamente il lavoratore, ma dovrà comunque continuare a pagargli ininterrottamente un’indennità pari alle retribuzioni correnti (il che rappresenta un fortissimo incentivo alla effettiva reintegrazione ed utilizzazione del lavoratore). Soltanto il lavoratore potrà liberare il datore dalla reintegra e dall’obbligo risarcitorio, chiedendo in sostituzione della reintegrazione un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, oppure non riprendendo servizio entro 30 giorni dall’invito rivoltogli dal datore.
L’art. 18 prevede poi lo stesso regime sanzionatorio per i licenziamenti per rappresaglia e per i licenziamenti inefficaci per vizio di forma. La disciplina dell’art. 18 tuttavia si applica soltanto ai datori di lavoro e alle unità produttive che superano determinate soglie occupazionali.
La L. 108/1990 poi, ha ridotto al minimo i casi di recesso ad nutum; solo per alcune categorie di lavoratori (collaboratori domestici, lavoratori in prova e con certi limiti anche i dirigenti) permane un regime di libera recedibilità.
4.La giusta causa.
L’art. 2119 autorizza ciascuna delle parti a recedere per giusta causa dal contratto qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. In tale ipotesi, come detto, la parte recedente non è tenuta a dare preavviso.
Parte della dottrina ravvisa la giusta causa non soltanto in un gravissimo inadempimento degli obblighi contrattuali, ma anche in qualsiasi altra circostanza o situazione esterna al rapporto di lavoro, verificatasi nella sfera del lavoratore, che sia idonea a ledere il vincolo di fiducia tra le parti e perciò ad impedire la prosecuzione del rapporto.
Per altri invece la giusta causa viene identificata esclusivamente solo con un vistoso inadempimento degli obblighi contrattuali, imputabile a colpa o dolo del lavoratore, a nulla rilevando fatti “esterni” al rapporto (ed in particolare comportamenti che rientrano nella vita privata del dipendente).
La prima tesi viene tra l'altro supportata dall'art. 9 della legge sull'impiego privato (R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825)- antesignano dell'art. 2119 c.c.- il quale alludeva ad una mancanza così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, mentre il codice civile del 1942, ha sostituito il termine “mancanza” con quello più ampio e neutro di “causa”, il che accrediterebbe appunto l'attuale maggiore ampiezza delle ragioni legittimanti il licenziamento in tronco.
In effetti, almeno in determinate ipotesi, fatti o comportamenti apparentemente estranei alla sfera contrattuale e magari attinenti alla vita privata del lavoratore possono compromettere l’elemento fiduciario e quindi esser invocati ai fini della ricorrenza della giusta causa. Basti pensare alla guardia giurata che viene sorpresa a rubare al di fuori del rapporto di lavoro, o alla commessa di un supermercato condannata per il furto commesso in un altro supermercato, o al cassiere di banca che commette un reato contro il patrimonio.
A ben vedere però, in questi casi il fatto o il comportamento “esterno” in tanto ha rilievo in quanto finisce per incidere sulla aspettativa della controparte di un esatto adempimento per il futuro, della obbligazione lavorativa. Non basta dunque che sia pregiudicato un generico rapporto fiduciario o che sia messa in discussione la compatibilità personale tra datore e prestatore di lavoro, ma occorre che venga meno la fiducia nella puntualità dei successivi adempimenti, elemento generalmente rilevante in tutti i contratti di durata.
La giurisprudenza, evitando di delineare rigidi confini in ordine alla rilevanza di comportamenti estranei alla sfera contrattuale, insiste sulla necessità di una valutazione complessiva ed in concreto delle singole fattispecie. Ai fini della sussistenza della giusta causa non è sufficiente una valutazione in astratto, ma occorre verificare se, tenuto conto della natura del singolo rapporto, della posizione delle parti, delle mansioni espletate e del particolare grado di fiducia connesso alla qualifica rivestita, la mancanza commessa si riveli talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto.
In giudizio valutativo trova applicazione  un  criterio (principio) di sussidiarietà, per effetto del quale il recesso per giusta causa viene legittimato soltanto nelle ipotesi in cui il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o le minori sanzioni disciplinari risultino inadeguati.
Con riguardo alle cosiddette organizzazioni di tendenza tipicamente orientate al perseguimento di finalità ideologiche (partiti, sindacati, giornali politicamente orientati, scuole d'ispirazione religiosa) il concetto di giusta causa viene reso più elastico sino a ricomprendere anche situazioni di incompatibilità personale agli scopi o all'ideologia dell'organizzazione, giacché in tal caso il profilo fiduciario attiene strettamente al contratto di lavoro ed alle obbligazioni assunte.
Quale che sia la concezione preferibile, la giusta causa consiste comunque in un fatto di tale gravità da imporre l’immediata estromissione del lavoratore, mentre resta ininfluente l’effettivo pregiudizio subito dal datore (ad esempio nel caso di un guardiano che si allontani più volte dal luogo da sorvegliare, la configurabilità della giusta causa prescinde dall’effettivo verificarsi in concreto di episodi di furto o danneggiamento).
Spesso i contratti collettivi provvedono ad elencare i fatti definibili in concreto come giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Si tende tuttavia a negare alcuna vincolatività a tali elencazioni, che, per quanto rilevanti in ragione della loro provenienza dalle parti sociali, non esimono tuttavia il giudice dall’onere di indagare sulla reale entità e gravità della mancanza nel caso specifico.
La pendenza di un procedimento penale a carico del lavoratore non rappresenta di per se giusta causa; ciò che rileva è invece il fatto oggetto dell’imputazione, che può integrare giusta causa a seconda dell’incidenza o meno sul piano delle obbligazioni contrattuali e della aspettativa di adempimento.
Nel caso in cui un fatto contestato come giusta causa non venga riconosciuto come tale, ma tuttavia venga accertato dal giudice come giustificato motivo soggettivo, è ammessa la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo (conversione alla quale consegue il solo diritto del lavoratore all’indennità per mancato preavviso).
5.Il giustificato motivo soggettivo.
La definizione del giustificato motivo- che può essere soggettivo o oggettivo- è contenuta nell'art. 3 della L. n. 604/1966.
Il giustificato motivo soggettivo si realizza quando il lavoratore incorre in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, che legittima il licenziamento con preavviso (a differenza di quello per giusta causa che è senza preavviso).
Per coloro che ritengono che il concetto di giusta causa identifichi solo un inadempimento contrattuale, la differenza col giustificato motivo soggettivo è solo quantitativa (il giustificato motivo soggettivo si caratterizzerebbe solo per la minore gravità dell’inadempimento, capace di consentire la prosecuzione del rapporto).
Per coloro che invece sostengono che la giusta causa abbracci anche quei fatti e comportamenti extracontrattuali idonei a ledere la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti, la differenza è anche qualitativa.
L’inadempimento può riguardare solo e tutti gli obblighi contrattali discendenti dal contratto di lavoro, ossia quelli relativi alla prestazione lavorativa, con i suoi corollari (diligenza, correttezza, non concorrenza, non divulgazione di notizie aziendali).
Peraltro solo un inadempimento notevole integra gli estremi del giustificato motivo soggettivo (ad un inadempimento minore fa seguito la sola applicazione di sanzioni disciplinari). Il criterio di identificazione del carattere “notevole” dell'inadempimento va individuato nel grado di colpa del lavoratore e non nell’utilità del datore compromessa dall’inadempimento.
Per quanto sia apprezzabile a livello metodologico il raffronto tra il criterio della notevolezza stabilito dall'art. 3 della L. n. 604/1966 e quello della “non scarsa importanza” dell'inadempimento fissato in generale dall'art. 1455 c.c., resta preclusa qualsiasi coincidenza tra i due criteri.
In ogni caso ampia è la discrezionalità del giudice nel classificare un determinato inadempimento come giusta causa di licenziamento o come giustificato motivo soggettivo, non potendo ritenersi vincolanti, ma solo orientative le tipizzazioni del giustificato motivo soggettivo operate dalla contrattazione collettiva.
Il legislatore ha espressamente escluso la configurabilità di un giustificato motivo di licenziamento nel caso di rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. Sempre con riguardo alla tipologia del lavoro part-time è altresì stabilito che l'effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare richiede il consenso del lavoratore interessato ove non prevista e regolamentata dal contratto collettivo e che l'eventuale rifiuto dello stesso non integri gli estremi del giustificato motivo di licenziamento.
6.Il giustificato motivo oggettivo.
Ai sensi dell'art. 3 L. n. 604/1966 il giustificato motivo oggettivo consiste in ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa e legittima il recesso del datore di lavoro nel rispetto del periodo di preavviso.
Nel contrasto tra l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto e quello del datore ad espellere unità lavorativa realmente non più funzionali alle esigenze dell’impresa, è il secondo a prevalere.
Sono però richieste 2 condizioni:
-l’effettività delle esigenze aziendali richiamate nella motivazione del licenziamento;
-un preciso nesso di causalità tra tali esigenze ed il licenziamento.
Il giudice deve dunque accertare l’effettiva soppressione di una posizione lavorativa all’interno dell’azienda (riconducibile a scelte organizzative del datore). In forza del principio di libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) le scelte di gestione dell’imprenditore non sono sindacabili da parte del giudice, che deve limitarsi ad accertarne la sola effettiva realizzazione. Egli deve poi verificare l’esistenza di un nesso di causalità tra le modifiche organizzative operate dal datore ed il licenziamento, ossa la coerenza del licenziamento rispetto a tali modifiche organizzative (ad esempio non è legittimo il licenziamento di un lavoratore non interessato da un processo di riorganizzazione).
Di massima si ritiene che il licenziamento sia assistito da un giustificato motivo oggettivo solo quando il lavoratore non possa essere utilizzato su posizioni di lavoro alternative (ciò conformemente alla concezione del licenziamento come estrema ratio). L’onere di provare l’impossibilità di proficuo utilizzo del lavoratore in posti di lavoro diversi è a carico del datore, ma data la difficoltà di fornire una simile prova la giurisprudenza si accontenta di elementi probatori presuntivi, come la dimostrazione di non aver proceduto ad assunzioni. Sir richiede dunque una priva di tipo “statico”, riferito allo stato dell'organizzazione del lavoro e non alle ipotetiche modifiche organizzative che il datore potrebbe attuare per reperire nuove possibilità occupazionali.
Il giustificato motivo oggettivo non attiene esclusivamente all’attività aziendale e all’organizzazione del lavoro. Anche vicende soggettive possono rientrarvi qualora comportino un oggettivo impedimento al regolare funzionamento dell’attività aziendale. Si tratta di situazioni del lavoratore che si ripercuotono negativamente sull’attività e sull’organizzazione aziendale (si pensi alla carcerazione preventiva del lavoratore, per fatti estranei agli obblighi verso il datore o al ritiro della patente per un autista o alla sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore a svolgere le mansioni).
Secondo la giurisprudenza prevalente le assenze del lavoratore per carcerazione preventiva non integrano di per sé una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo del licenziamento, ma possono determinare una sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione a norma dell'art. 1464 c.c., la cui idoneità estintiva del rapporto va valutata in relazione alle dimensioni dell'impresa, al tipo di organizzazione tecnico produttiva, alla durata ragionevolmente prevedibile dell'assenza, alla natura e fungibilità delle mansioni del lavoratore detenuto.
Altra questione di rilievo concerne il fenomeno delle brevi malattie reiterate in relazione alle quali si è posto il problema della ricondicibilità alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, qualora le assenze determinino un pregiudizio per il regolare funzionamento dell'attività aziendale. La Suprema Corte a Sezioni Unite ha definitivamente escluso che le assenze per malattia possano essere qualificate come giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ciò significa che non è possibile licenziare per giustificato motivo oggettivo prima del decorso del termine di comporto di cui all'art. 2110 c.c.
7.Il licenziamento discriminatorio ed i periodi di irrecedibilità.
7.1.Il licenziamento discriminatorio.
Il licenziamento discriminatorio (in origine art. 4 L. n. 604/1966) è determinato da “ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacale è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e nell'art 15 St. lav.- come modificato dalla L. n. 903/1977 e dal D.lgs. n. 216/2003- stabilisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto “a licenziare un lavoratore a causa della sua affiliazione o attivitià sindacale o della sua partecipazione ad uno sciopero” nonché dei licenziamenti attuati “a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
La L. 108\’90 ha introdotto un regime sanzionatorio ancora più efficace, confermando la nullità dei licenziamenti discriminatori e considerando altresì applicabile la sanzione reintegratoria in qualsiasi caso o il pagamento della cosiddetta indennità supplementare. Interessante è a tal proposito l’estensione della tutela reale ai dirigenti “discriminati”.
A prescindere dalla motivazione addotta dal datore, incombe sul prestatore l’onere di provare l’intento discriminatorio sotteso al licenziamento, onere che risulta in qualche modo alleviato sia dall'obbligo di motivazione del licenziamento, che impone al datore di comprovare l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo, sia dalla possibilità di fare ricorso a presunzioni, al fine di dimostrare le finalità discriminatorie dell'atto.
7.2.I periodi di irrecedibilità.
Il potere di recesso del datore non è vincolato solo a presupposti causali, ma incontra anche limiti temporali. La ragione di fondo che presiede a tali limiti è legata alla tutela di diritti fondamentali e della stabilità del rapporto del lavoratore quale individuo e cittadino, diritti costituzionalmente rilevanti e preminenti sull’obbligazione lavorativa (come il diritto alla salute o all'assolvimento del servizio militare, di cariche politiche o sindacali).
Le ipotesi principali di limitazione temporanea del potere di licenziare sono elencate agli artt. 2110 e 2111 (malattia, infortunio, gravidanza, puerperio e servizio militare). In queste ipotesi il datore può recedere dal rapporto di lavoro solo quando sia trascorso il periodo protetto, stabilito dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. Abbiamo già detto che il licenziamento intimato durante il periodo di comporto è inefficace. Esso acquisterà efficacia al termine di detto periodo (anche se taluni ritengono che in tal caso il licenziamento non sia inefficace ma affetto da nullità insanabile al termine del comporto).
È previsto un periodo di irrecedibilità anche nei periodi che precedono e seguono immediatamente il matrimonio della lavoratrice (dal momento delle pubblicazioni fino ad 1 anno dalla celebrazione del matrimonio). L'art. 1 della L. 9 gennaio 1963, n. 7 dispone che al fine evitare che il licenziamento per causa di matrimonio venga mascherato sotto formali dimissioni della lavoratrice, sono ritenute nulle le dimissioni rassegnate dalla stessa nel medesimo periodo. In tal caso il rapporto non si trova in fase di sospensione (la lavoratrice è tenuta a svolgere la propria prestazione lavorativa). Tuttavia il divieto di recesso è stato imposto per evitare qualsiasi valutazione del datore circa la convenienza dell’ulteriore occupazione della lavoratrice, nel timore di una futura maternità.
È ancora previsto dall'art. 54 del D.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 un divieto generale di licenziamento, pena la nullità, per la lavoratrice madre (dall’inizio della gravidanza fino al termine del congedo di maternità, nonché fino al compimento di 1 anno di vita del bambino) e per il lavoratore padre (fino al termine del congedo di paternità nonché fino al compimento di 1 anno di vita del bambino). Il lavoratore licenziato in tale periodo deve presentare documentazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano.
Il divieto di licenziamento tuttavia non si applica in caso:
-di colpa grave costituente giusta causa di licenziamento;
-di cessazione dell’attività aziendale;
-di ultimazione della prestazione per la quale si è stai assunti o di risoluzione del rapporto per scadenza del termine;
-di esito negativo della prova.
È inoltre sancita la nullità del licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore. Nell'ipotesi di adozione e di affidamento il divieto di licenziamento si applica fino ad un anno dall'ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità o di paternità. La corte costituzionale con  la sentenza n. 495 del 2001 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 24, D.lgs n. 151/2001 nella parte in cui esclude la corresponsione dell'indennità di maternità nell'ipotesi di licenziamento per giusta causa intimato durante il periodo di irrecedibilità.
È opportuno specificare che la previsione di irrecedibilità durante detti periodi non esclude la possibilità di licenziamento per giusta causa, ma solo del recesso ad nutum e di quello per giustificato motivo. Ovviamente nei periodi di irrecedibilità coincidenti con la sospensione del lavoro la giusta causa può riguardare solo la violazione degli obblighi accessori e non l’obbligazione lavorativa principale (che è sospesa), a meno che l’inadempimento si sia verificato prima della sospensione e sia venuto a conoscenza del datore di lavoro solo in seguito.
L’unico fatto oggettivo (non riguardate comportamenti del lavoratore ma vicende aziendali) capace di estinzione del rapporto di lavoro durante il periodo di comporto è la cessazione dell’attività aziendale che determina l'impossibilità materiale della prosecuzione anche provvisoria del rapporto.
8.La forma e la procedura di irrogazione del licenziamento.
La presenza dei requisiti sostanziali- giusta causa o giustificato motivo soggettivo od oggettivo- è condizione necessaria, ma non sufficiente per poter configurare il licenziamento come legittimo. Occorre, infatti, che il licenziamento venga irrogato secondo ben precise modalità a garanzia della posizione del lavoratore.
8.1.Il licenziamento non disciplinare.
Il licenziamento deve essere comunicato per iscritto al lavoratore, mentre non è necessaria l’indicazione dei motivi, i quali possono essere richiesti dal lavoratore entro 15 giorni dalla comunicazione (in tal caso il datore è tenuto ad esplicitarli per iscritto entro 7 giorni dalla richiesta). Diversa è la procedura di irrogazione del licenziamento disciplinare.
Solo per i lavoratori domestici, per i lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici e per i lavoratori in prova permane un principio di libertà di forma, nel senso che il licenziamento può essere intimato oralmente e senza motivazione.
Il licenziamento dei dirigenti richiede la forma scritta ma non anche un obbligo di motivazione (art 2 L. n. 108/1990).
Il licenziamento, in quanto atto unilaterale recettizio, produce effetto dal momento in cui perviene a conoscenza del lavoratore (art. 1334 c.c.).
L'onere della forma scritta è rispettato anche nel caso in cui il datore di lavoro offra in consegna la lettera di licenziamento al dipendente che rifiuti di riceverla e nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, salva la prova dell'impossibilità incolpevole di effettiva conoscenza.
Il licenziamento carente di forma o di motivazione (se richiesta) posto in essere da datori di lavoro cui si applica l’art. 18 St. lav., è assoggettato alla stessa disciplina del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo (reintegrazione + risarcimento pari ad almeno 5 mensilità di retribuzione). Il licenziamento viziato nella forma attratto nell’area della stabilità obbligatoria invece, viene qualificato dalla L. 604\’66 come inefficace; da esso non deriveranno effetti giuridici ed il lavoratore avrà diritto a risarcimento del danno, che tuttavia in tal caso sarà determinato secondo le regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali e non secondo l’art. 18 St. lav (non dunque con il minimi di 5 mensilità).
Il licenziamento viziato per ragioni di forma può essere rinnovato osservano le modalità prescritte e la cessazione del rapporto si produrrà solo al momento della rinnovazione.
Se l'enunciazione scritta dei motivi può non essere contestualmente all'intimazione del licenziamento, tuttavia una volta effettuata deve essere tale da consentire al lavoratore di precostituire una linea difensiva. Di qui i corollari di completezza, analiticità e immutabilità della motivazione. In forza del principio di immutabilità restano precluse la modifica dei fatti e l'allegazione, in epoca successiva alla contestazione, di addebiti già noti al datore e non contestati al lavoratore.
8.2. Il licenziamento disciplinare.
Il licenziamento disciplinare è volto a sanzionare un comportamento colposo o comunque manchevole del lavoratore. Esso è espressione del potere disciplinare del datore e come tale, è sottoposto ad oneri formali più incisivi. Non basta la mera comunicazione del licenziamento e l’eventuale successiva specificazione dei motivi, ma occorre rispettare gli oneri procedurali che l’art. 7 St. lav. prevede per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari. I momenti essenziali di tale procedura sono:
-preventiva affissione del codice disciplinare in luogo accessibile ai lavoratori;
-contestazione per iscritto degli specifici addebiti mossi al lavoratore;
-concessione di un termine per dare modo al lavoratore di presentare le proprie giustificazioni;
-la previsione di una pausa di riflessione (5 giorni) tra la contestazione dell'addebito e l'applicazione del provvedimento disciplinare.
Tuttavia l’art. 7 St. lav. specifica che “non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro”. Il che ha fatto sorgere la dottrina il dubbio se il licenziamento possa o meno essere qualificato quale sanzione disciplinare, e se, di conseguenza, possa trovarvi applicazione l’art. 7 St. lav.
Si sono manifestate 2 tesi opposte al riguardo (una che considera il licenziamento disciplinare la più grave delle sanzioni disciplinari ed una che ritiene il licenziamento disciplinare irriducibile ad una sanzione, proprio per la sua natura “espulsiva”, mentre la sanzione postulerebbe la prosecuzione del rapporto). Alle due tesi radicalmente opposte ne  è stata avanzata anche una terza , secondo la quale l’art. 7 St. lav diviene applicabile al licenziamento disciplinare solo allorché esso sia esplicitamente annoverato tra le sanzioni disciplinari dalla contrattazione collettiva.
La questione è stata risolta dalla sentenza n.204 della Corte Costituzionale del 1982, che ha stabilito che i primi 3 commi dell’art. 7 (affissione del codice disciplinare, contestazione degli addebiti, e assistenza sindacale) devono applicarsi a tutti i licenziamenti disciplinari.
La cassazione ha poi specificato che il licenziamento deve ritenersi disciplinare quando sia correlato ad un comportamento imputabile a titolo di colpa al lavoratore e che è irrilevante la sua eventuale esplicita qualificazione in termini disciplinari nella contrattazione collettiva.
Secondo tale impostazione (cosiddetto ontologico) dunque il licenziamento disciplinare copre per intero l’area del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e quasi totalmente quella del licenziamento per giusta causa.
Sicché, a seguito dell’intervento della corte costituzionale risultano estesi al licenziamento disciplinare il principio di pubblicità e l’obbligo di contestazione preventiva dell’addebito, per dar modo al lavoratore di preparare la propria difesa (eventualmente con l’assistenza del sindacato). Inoltre è stato dibattuto il tema dell'applicazione o meno ai licenziamenti disciplinari della cosiddetta pausa di riflessione di 5 giorni prevista dall'art. 7 St. lav.
La cassazione ha a riguardo però precisato che nel caso in cui i fatti addebitati al lavoratore configurino illeciti penali o gravi violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore, la mancata affissione del codice disciplinare non inficia la legittimità del licenziamento (giacché il lavoratore non rischia di incorrere in sanzioni per fatti da lui non preventivamente conosciuti come mancanze).
Mentre dunque nel licenziamento non disciplinare la comunicazione del recesso può essere contemporanea o precedente alla comunicazione dei motivi, nel licenziamento disciplinare la contestazione degli addebiti deve necessariamente precedere l’adozione del provvedimento espulsivo.
Inoltre la contestazione degli addebiti deve rispettare i principi di specificità (i fatti vanno riferiti in modo preciso, per consentire una difesa puntuale), immutabilità (il fatto risultante dalla contestazione non può essere successivamente modificato) e immediatezza (il licenziamento deve essere intimato in stretta correlazione temporale con il verificarsi dei fatti che giustificano la cessazione del rapporto).
L’immediatezza è presupposto di legittimità del provvedimento, ma va comunque riferita, non all’epoca in cui si è verificata la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, ma al momento in cui il datore, tenuto conto delle circostanze, abbia avuto piena conoscenza del fatto posto a fondamento del recesso.
Anche con riguardo ai licenziamenti disciplinari occorre interrogarsi sulle conseguenze giuridiche del mancato rispetto della forma e\o della procedura, distinguendo i datori di lavoro che rientrano nel campo di applicazione dell’art. 18 St. lav., da quelli (di dimensioni minori) che rientrano nello spazio operativo della L. 604/1966 e infine dalle situazioni in cui vige un regime di libera recedibilità (recesso ad nutum).
In ogni caso il licenziamento disciplinare adottato senza il rispetto delle garanzie previste dall’art. 7 St. lav. va considerato ingiustificato; per quanto riguarda le conseguenze giuridiche bisogna distinguere:
Per quanto riguarda i datori che rientrano nell’area di applicazione della stabilità reale (le aziende di dimensioni maggiori) vedranno applicarsi il regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 St. lav. (reintegrazione del lavoratore + risarcimento del danno non inferiore a 5 mensilità) (tutela reale).
Per quanto riguarda i datori che si collocano nell’area di applicazione della stabilità obbligatoria, il licenziamento disciplinare che presenti vizi di procedura non è affetto da nullità, ma produce gli effetti tipici dell’area di tutela obbligatoria, indicati dalla L. 604/1966 (che prevede la possibilità di scelta del datore tra riassunzione e pagamento di un’indennità).
Per quanto concerne poi l’area della libera recedibilità (anche in tale ambito trovano applicazione le garanzie previste dall’art. 7 St. lav.), invece, è controverso se la conseguenza della violazione della forma o della procedura comporti l’inefficacia del licenziamento (con conseguente prosecuzione del rapporto) o la mera corresponsione dell’indennità di preavviso (va tuttavia detto che, a seguito della L. 108/1990 l’area di applicazione del recesso ad nutum è estremamente ridotta).
Quanto ai dirigenti, il licenziamento disciplinare intimato senza il rispetto della procedura dà luogo all'obbligo per il datore di versare l'indennità aggiuntiva prevista dai contratti collettivi per l'ipotesi di licenziamento giustificato, ma non produce l'invalidità del recesso.
9.L'impugnativa del licenziamento.
L'art. 6 della L. n. 604/1966 stabilisce che il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione (o dalla comunicazione dei motivi, laddove questa non sia contestuale). Sicché in caso di licenziamento con preavviso, la decorrenza avviene già durante il periodo di preavviso, anche se il rapporto non si è ancora estinto.
Decorso tale termine, il lavoratore decade dal diritto di impugnazione e il giudice non potrà rilevare d’ufficio l’insussistenza di un giustificato motivo di licenziamento (la cassazione ha stabilito che la decadenza dal diritto di impugnativa preclude ogni possibilità di accertamento da parte del giudice relativo all’eventuale illegittimità del licenziamento).
La previsione di un termine di decadenza si spiega con la necessità di garantire un minimo di certezza al potere organizzativo del datore, evitando che questi resti esposto per lungo tempo al rischio di una reintegrazione del lavoratore con relativo risarcimento.
La decadenza è applicabile non solo al licenziamento ingiustificato, ma anche a quello nullo in quanto discriminatorio, nonché al licenziamento disciplinare viziato dal mancato rispetto del procedimento previsto dall’art. 7 St. lav.
Il termine di decadenza è insuscettibile di sospensione o interruzione (anche in caso di incapacità del lavoratore). Solo la comunicazione al datore della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione può sospendere il decorso del termine (per la durata di tale tentativo) e solo la comunicazione della volontà di impugnare il provvedimento ha efficacia interruttiva.
L’impugnativa può essere giudiziale o extragiudiziale. È considerato impugnativa extragiudiziale qualunque atto scritto mediante il quale il lavoratore, a prescindere da formule sacramentali, manifesta inequivocabilmente al datore la volontà di contestare la legittimità del recesso. Evitata così la decadenza, il lavoratore ha la possibilità di agire in giudizio, entro il termine di prescrizione, al fine di ottenere, a seconda dei casi, l’applicazione dell’art. 18 St. lav. o della disciplina contenuta nella L. 604\1966.
Tuttavia può accadere che il lavoratore impedisca la decadenza direttamente attraverso l’impugnativa giudiziale, nel qual caso, per evitare la decadenza dal diritto all’impugnativa, è necessario che il deposito del ricorso e la sua notifica al datore avvengano entro i 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento.
Si è posto poi il problema se anche il licenziamento orale debba essere impugnato nel termine di 60 giorni. La giurisprudenza prevalente, in ossequio alla qualificazione di inefficacia operata dal legislatore, sostiene che il licenziamento formalmente viziato è insuscettibile di produrre qualsiasi effetto e va formalmente considerato tamquam non esset, con la conseguenza che il lavoratore può in qualunque tempo proporre l’ordinaria azione di accertamento dell’inefficacia del licenziamento.
Tentativo obbligatorio di conciliazione
L'art. 5 della L. n. 108/1990 ha previsto un tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale che deve essere preventivamente promosso dal lavoratore che intenda impugnare l’atto di licenziamento.
Originariamente il tentativo di conciliazione era obbligatorio solo per i lavoratori appartenenti ad imprese che rientrassero nell’ambito di applicazione del regime di stabilità obbligatoria (ossia imprese di dimensioni minori). Il D.lgs. 80/1998 ha poi esteso l’obbligo di esperimento del tentativo di conciliazione a tutti i lavoratori cui sia intimato il licenziamento, a prescindere dalle dimensioni dell’impresa.
Se il ricorso viene proposto in difetto del tentativo di conciliazione, il giudice deve sospendere il processo e fissare un termine, non superiore a 60 giorni, entro cui le parti devono proporre la richiesta del tentativo di conciliazione.
Il procedimento di conciliazione si conclude con un verbale che sancisce il successo o il fallimento del tentativo.
Se il tentativo di conciliazione fallisce, datore e lavoratore hanno facoltà di promuovere un arbitrato per la soluzione della vertenza. In ogni caso non si tratta di un tentativo da esperire obbligatoriamente ma solo di una facoltà delle parti, che possono liberamente decidere di rivolgersi direttamente al giudice.
Il tentativo di rilanciare forme di composizione stragiudiziale delle controversie in tema di licenziamento intimato da parte dei datori di lavoro “minori” trova giustificazione nell'intento legislativo di favorire, negli ambiti produttivi più ristretti, decisioni in qualche misura equitative ed attente anche alla specificità ambientale della vicenda nonché nella preoccupazione di non gravare delle spese del giudizio ordinario i datori di lavoro con minori potenzialità economiche.
10.L'onere della prova.
La distribuzione dell’onere della prova in materia di licenziamenti individuali  è regolata dall'art 5 L. n. 604/1966, secondo il quale “ l'onera della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”(data la sua posizione di forza nel rapporti con il lavoratore anche dal punto di vista processuale). In applicazione di tale principio, il datore di lavoro ha l'onere di provare l'inutilizzabilità del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo. Nessuna giustificazione invece deve esser fornita laddove sia ancora legittimo il recesso ad nutum.
Quanto detto riguarda la prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo; tuttavia i problemi di ripartizione dell’onere della prova non si esauriscono qui.
In primo luogo può darsi ad esempio il caso che venga in contestazione l’esistenza di quei presupposti (numero dei dipendenti) da cui discende l’applicabilità dell’uno o dell’altro regime sanzionatorio del licenziamento invalido (oppure l’operatività del recesso ad nutum); la cassazione ha stabilito che spetta al lavoratore l’onere di provare l’esistenza di tali presupposti, in quanto fatti costitutivi del diritto (alla stabilità reale o obbligatoria) rivendicato in giudizio, salvi i poteri istruttori integrativi del giudice.
Altra ipotesi riguarda la ripartizione dell’onere della prova in caso di licenziamento discriminatorio (licenziamento nullo determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa o dall’appartenenza ad un sindacato). In tal caso il datore deve porre a fondamento del licenziamento una semplice ragione giustificativa (giusta causa o giustificato motivo oppure la ricorrenza di un’ipotesi di licenziamento collettivo), mentre il lavoratore deve eccepire (e provare) al ricorrenza, dietro le apparenze formali, di reali ragioni di discriminazione politica, sindacale o religiosa.
Si tratta chiaramente di una prova difficile, giacché il lavoratore dovrebbe essere in grado di dimostrare la destinazione a fini discriminatori di licenziamenti che si presentano apparentemente giustificati (perciò si è ritenuto che in tali casi ancor più rigorosa e penetrante debba essere l’indagine istruttoria del giudice tramite il pieno utilizzo dei poteri conferitigli dall'art. 421 cod. proc.pen. , con rilievo della prova per presunzioni di cui gli art. 2727 e 2729 c.c).
Infine occorre considerare il casi del lavoratore che agisce in giudizio per ottenere la declaratoria di inefficacia del licenziamento per carenza di forma scritta o per mancata o intempestiva comunicazione dei motivi richiesti. Il datore di lavoro spesso può essere indotto ad opporre che il rapporto si è in realtà interrotto in forza di dimissioni presentate oralmente dal lavoratore. In tale ipotesi, al lavoratore che si fa attore in giudizio contestando l'illegittimità del licenziamento orale, spetta provare che esso si è verificato effettivamente nella realtà e che non si è dunque trattato, come asserisce l'imprenditore, di dimissioni. Qui infatti non è in gioco la prova della giusta causa o del giustificato motivo, bensì la dimostrazione del tipo di recesso intervenuto (licenziamento o dimissioni).
11.Il regime sanzionatorio del licenziamento invalido. 
Per il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo è previsto (fatta salva l’area di residua applicabilità del recesso ad nutum) un doppio alternativo regime sanzionatorio: quello delineato dall'art 8 della L. n. 604/1966 (c.d. tutela obbligatoria), che si applica ai datori che non superino determinate soglie occupazionali, e quello delineato dall’art. 18 St. lav., (tutela reale) che si applica al di sopra di tali soglie occupazionali.
11.1.La tutela obbligatoria.
Secondo l'art 8 della L. 604/1966 (applicabile come detto alle unità produttive di minori dimensioni) dall’annullamento del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo discende un’obbligazione alternativa (e non facoltativa) a carico del datore in un'ottica di stabilità obbligatoria: il datore è tenuto a riassumere il lavoratore entro 3 giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo variabile tra un minimi di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero di dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del lavoratore e al comportamento delle parti.
La misura massima di tale indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai 10 anni e fino a 14 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai 20 anni, se dipendente da datore di lavoro che occupa più di 15 dipendenti (dislocati in diverse unità produttive minori).
In sostanza il licenziamento, per quanto illegittimo, risolve il rapporto di lavoro ma fa sorgere un’obbligazione di ricostituzione ex novo del rapporto stesso o, a scelta del datore, di versamento di un’indennità risarcitoria (soluzione quest’ultima, largamente prevalente nella pratica).
11.2.La tutela reale.
Diverso è invece il regime sanzionatorio del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo delineato dall’art. 18 St. lav. ed operante per i datori di lavoro che presentino maggiori livelli occupazionali. Superando l’alternativa tra riassunzione e pagamento della penale, e introducendo un sistema di stabilità reale, l’art. 18 considera il rapporto di lavoro come non interrotto dal licenziamento ingiustificato (che ne impedisce giuridicamente la sola funzionalità di fatto). Più in particolare la norma prevede:
-la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro;
-il risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento ingiustificato commisurato alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione (tale risarcimento comunque non può essere inferiore a 5 mensilità).
Questo più drastico regime sanzionatorio è esteso altresì alle ipotesi di nullità del licenziamento discriminatorio nonché alle ipotesi di inefficacia del licenziamento per vizi formali o procedurali (omessa comunicazione per iscritto, omessa indicazione dei motivi richiesti dal lavoratore, mancato rispetto dell’art. 7 St. lav per i licenziamenti disciplinari) nelle imprese di maggiori dimensioni.
a)L’ordine di reintegrazione
Una prima lettura dell’art. 18 potrebbe suggerire che l’ordine di reintegrazione sia quasi superfluo o avrebbe un valore meramente “etico”; il rapporto di lavoro, interrotto solo di fatto dall’illegittimo licenziamento, non richiederebbe infatti alcun modo di essere ripristinato, poiché esso prosegue automaticamente a seguito dell’accertamento dell’invalidità del recesso datoriale.
Un’analisi più attenta tuttavia consente di mettere in luce il contenuto autonomo ed aggiuntivo (dunque non superfluo) dell’ordine di reintegra rispetto agli obblighi scaturenti normalmente dal rapporto di lavoro. Un conto infatti è l’accertamento della vigenza di tali obblighi e della ininterrotta prosecuzione giuridica del rapporto, e altra cosa è l’ordine al datore di ripristino, anche sul piano fattuale, della collaborazione lavorativa.
Le posizioni restano divaricate circa i modi di attuazione coattiva dell'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, ove il datore di lavoro non ottemperi spontaneamente.
Sempre a proposito dell’ordine di reintegrazione del giudice, è il caso di notare come esso non sia in realtà accompagnato da alcuno strumento di coazione diretta (in caso di inosservanza da parte del datore dell’obbligo di reintegrazione). ciò si spiega con il principio di non coercibilità diretta degli obblighi infungibili di fare (nemo ad factum precise cogi potest); non è possibile in sostanza imporre al datore la reintegrazione effettiva del datore.
E proprio in ragione di ciò assume particolare rilevanza il diritto al risarcimento del lavoratore illegittimamente licenziato derivante dall’art. 18, giacché l’obbligo di continuare a corrispondere la retribuzione globale di fatto al lavoratore dal momento dell’illegittimo licenziamento al momento della reintegrazione del lavoratore, finisce per assumere una funzione di coazione indiretta all’adempimento da parte del datore di lavoro dell’obbligo di reintegra.
Se poi, una volta emesso l’ordine di reintegra, il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito a tal uopo rivoltogli dal datore, il rapporto di lavoro si intende risolto (salvo un giustificato motivo di assenza).
A tal fine non basta che sia stata emessa una sentenza di reintegrazione, occorrendo uno specifico invito del datore di lavoro. La reintegrazione deve avvenire nello stesso posto occupato al momento del licenziamento, anche qualora esso sia stato nel frattempo assegnato ad altri. Nulla impedisce che successivamente alla reintegrazione il datore di lavoro adibisca al lavoratore a diverse mansioni sempre nel rispetto della previsione dell'art. 2103 c.c.
b)Il risarcimento del danno.
Il giudice che emette una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, condanna il datore al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità, stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità di retribuzione), nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali maturati nel medesimo lasso temporale. La nuova formulazione presenta contenuti innovativi rispetto alla vecchia dizione dell'art 18 St. lav., che contemplava, da un  lato, il risarcimento del danno per il periodo intercorrente tra il licenziamento e la sentenza di reintegra e, dall'altro, il versamento della retribuzione per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale e sino all'effettiva reintegrazione.
La lettera della norma non sembra alludere al danno effettivo arrecato al lavoratore, ma sembra piuttosto stabilire in modo rigido e quasi presuntivo il criterio di determinazione dell’indennità. Ciò potrebbe far pensare che la misura del risarcimento sia inderogabilmente vincolata alla retribuzione non percepita dal lavoratore licenziato e debba quantificarsi non sulla base delle effettive diminuzioni patrimoniali che le sfera patrimoniale del lavoratore ha subito, ma applicando in modo rigoroso il criterio legale presuntivo della retribuzione globale di fatto.
Tuttavia, preoccupazioni di ordine equitativo suggeriscono una lettura più flessibile della norma, che porti a considerare le variabili di ciascun caso concreto, in modo da attenuare la rigidità della quantificazione del risarcimento, rendendo l’indennità suscettibile di variazioni corrispondenti a vicende patrimoniali che, sebbene si verifichino nell’abito della sfera patrimoniali soggettiva del lavoratore, assumono diversa rilevanza; a favore del datore, allorché questi possa provare che il lavoratore nel frattempo ha percepito compensi o retribuzioni da altri datori di lavoro (in tal caso l’aliunde perceptum assume valenza compensatrice e quindi moderatrice del risarcimento): oppure a favore del lavoratore, allorché questi dimostri di aver subito pregiudizi ulteriori (ad es; per sfratto morosità o per l’assunzione di mutui) oltre alla perdita della retribuzione.
Del resto, in favore di tale interpretazione si può considerare l’utilizzo del termine “commisurato”, che esprime che la retribuzione è solo il parametro di quantificazione dell’indennità, nel contesto di un regime risarcitorio di un danno effettivo e non presunto. La norma fissa poi una misura minima del risarcimento in 5 mensilità di retribuzione, che sono dovute, a titolo sanzionatorio, anche quando la reintegrazione si avvenuta entro un lasso di tempo inferiore.
Il riferimento alla retribuzione globale di fatto (mutuato dalla contrattazione collettiva) deve intendersi comprensivo di tutto quanto il lavoratore avrebbe effettivamente e continuativamente percepito nel periodo considerato.
È esplicitamente previsto poi che il datore debba altresì versare i contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo che intercorre tra il licenziamento e l’effettiva reintegra. Della facoltà del lavoratore di sostituire la reintegra nel posto di lavoro con un’indennità pari a 15 mensilità (restando fermo il risarcimento del danno) si è già detto.
12.Tutela processuale del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro
Il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro può essere fatto valere, oltre che attraverso l’ordinario processo del lavoro, tramite strumenti più rapidi. Innanzitutto il lavoratore ha la possibilità di invocare l’art. 700 c.p.c., in base al quale, quando vi è fondato motivo di temere che nelle more del giudizio ordinario il diritto azionato possa subire un pregiudizio imminente e irreparabile, si può chiedere un provvedimento d’urgenza a carattere cautelativo; nella specie una sospensione del licenziamento (con reintegra provvisoria) sino all’esito del giudizio ordinario di merito. Nel caso in cui invece il licenziamento sia connesso ad un fine antisindacale, la sua illegittimità può essere fatta valere anche dal sindacato mediante la procedura ex art. 28 St. lav., per la repressione della condotta antisindacale del datore. In tal caso l’azione del sindacato e l’azione ordinaria del lavoratore per l’impugnazione del licenziamento possono coesistere.
È infine in caso di ricordare che il lavoratore che ha ottenuto una sentenza di reintegrazione ha facoltà di chiedere al datore, in sostituzione di tale reintegrazione, una indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto (anche in tal caso però resta fermo il diritto al risarcimento del danno commisurato al periodo che va dal licenziamento alla richiesta della indennità sostitutiva della reintegrazione).
Una tutela del tutto particolare viene poi concessa dai commi 4 e 7 dell'art. 18 St. lav., ai dirigenti delle RSA e ai membri delle Commissioni interne, particolarmente esposti ad azioni di rappresaglia.
Il provvedimento di reintegra può essere provvisoriamente emesso con ordinanza nel corso di giudizio quando prima facie le prove fornite dal datore di lavoro non sembrano sufficienti a giustificare il licenziamento. Il provvedimento deve essere però richiesto congiuntamente dal sindacalista licenziato e dal sindacato di appartenenza. In caso di mancata reintegrazione del sindacalista, dopo l'ordine giudiziale, il datore dovrà pagare, oltre alla retribuzione, una somma di pari entità ad un fondo previdenziale, realizzandosi così una forma di coazione indiretta al rispetto dell'ordine del giudice.
13.Il campo di applicazione della disciplina vincolistica dei licenziamenti individuali.
Il regime di tutela del posto di lavoro è differenziato in ragione delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro.
L'ampio dibattito sviluppatosi a riguardo, con l'intervento della Corte Costituzionale e proposte di referendum, si è assestato lungo le linee tracciate dalla L. n. 108/1990, che ha mantenuto in vita, accanto al regime reintegratorio dell'art. 18, il regime di tutela meramente indennitaria introdotto dalla L. n. 604/1966. E poi permane un ristrettissimo numero di rapporti, dove permane la possibilità del recesso ad nutum.
13.1.2. L'area della tutela reale e della tutela obbligatoria 
Il regime di tutela del posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo è differenziato in ragione delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro.
Area della tutela reale
Ad oggi l’art. 18 St. lav. (e la sanzione di reintegrazione) si applica a ogni datore di lavoro che:
-occupa nell’unità produttiva (sede, stabilimento, reparto, ufficio) + di 15 dipendenti (5 in caso di imprese agricole);
-occupa nello stesso comune (anche in più unità produttive) + di 15 dipendenti (5 in caso di imprese agricole);
-occupa complessivamente + di 60 dipendenti.
Ai fini dei criteri individuati dai primi due punti il numero dei dipendenti si abbassa a 5 per le imprese agricole.
Tale diverso limite occupazionale è stato giustificato dalla stessa Corte Costituzionale con le profonde diversità strutturali del settore agricolo, nel quale il rapporto forza-lavoro-capitale investito è in linea di massima ben diverso rispetto a quello che caratterizza l'impresa commerciale ed industriale.
Ai fini del computo delle soglie occupazionali l'art 1 della L. n. 108 del 1990 precisa che si tiene conto sia dei lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato parziale (part time) per la quota di orario effettivamente svolto, sia dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro.
Si deve però rilevare come la recente riforma del mercato del lavoro, attuata con il D.lgs. n. 276/2003, abbia sostituito tale ultima tipologia con quella del “contratto di inserimento”
Non si computano invece il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il 2° grado (in linea diretta e collaterale). La L. n. 108/1990 non ammette al computo gli apprendisti nonostante il monito della Corte Costituzionale. Sono altresì esclusi dal computo dell'organico dell'impresa utilizzatrice i lavoratori somministrati nonché i lavoratori a domicilio subordinati.
In definitiva occorre avere riguardo alla reale struttura dell'organigramma aziendale, cioè a quel disegno organizzativo che dà ragione delle posizioni d lavoro normalmente necessarie all'andamento produttivo, così da ammettere al computo anche quei posti che, previsti nella normale pianta organica, sono momentaneamente vuoti per cessazione del rapporto con il relativo titolare. In presenza di società collegate non ha rilievo il numero complessivo dei dipendenti occupati nelle varie società, salvo l'accertamento di una fraudolenta utilizzazione dell'entità societaria al fine di eludere la normativa della L. n. 108 del 1990.
Un dibattito a sé concernente l'identificazione dell'unità produttiva autonoma suscettibile di computo separato degli occupati e rilevante nelle imprese che non occupano complessivamente più di 60 dipendenti. Se il riferimento all'unità produttiva come criterio di delimitazione della operatività dell'art. 18 St. lav, è ispirato alla opportunità di evitare situazioni di tensione tra lavoratore e alter ego del datore, coerenza vuole che non può parlarsi di unità produttiva quando manchi un preposto dell'imprenditore, fornito dei poteri gerarchici e di gestione del personale. È configurabile come unità produttiva autonoma lì ove sussistano un nucleo produttivo decentrato e la presenza di un alter ego del datore.
Area della tutela obbligatoria
Ove non sia applicabile l’art. 18 St. lav., in quanto non vengono superate le su menzionate soglie occupazionali, si applicherà il regime di stabilità obbligatoria delineato dalla L. 604/1966 (riassunzione o risarcimento da 2,5 a 6 mensilità).
Il regime di stabilità obbligatoria si applica poi, a prescindere dalla consistenza occupazionale, nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o religiosa (c.d. imprese di tendenza).
Il legislatore ha voluto sottrarre tali datori al rischio della reintegra ex art. 18, ritenendo che il carattere ideologico o, come si dice, di tendenza, dell’attività svolta e delle finalità perseguite, mal si concilierebbe con la prosecuzione coatta della collaborazione con un lavoratore sgradito o comunque non allineato all’ispirazione politica o ideologica che guida l’attività del soggetto datore. In altri termini si è ritenuto di far prevalere le peculiari esigenze  del datore di lavoro rispetto alla istanza di stabilità reale del lavoratore. Il legislatore non ha ritenuto di distinguere tra lavori addetti a mansioni “di tendenza” e addetti a mansioni “neutre”poiché anche a questi ultimi è richiesta una lealtà ideologica.
L'organizzazione di tendenza conserva il beneficio di non reintegrare ex art. 18 il lavoratore licenziato per fatti estranei alle caratteristiche ideologiche o di tendenza (ad es. furto) che poi si sono rivelati insussistenti in sede giudiziaria, derivandone un'eccessiva estensione dell'area di privilegio disegnata dalla norma. Va comunque precisato che nelle attività di tendenza svolte con fini lucrativi la tendenza acquista rilievo, potendo integrare come giusta causa fatti che in  contesti diversi non possono legittimare il recesso datoriale: un giornale di partito può legittimamente licenziare il giornalista che pretenda di scrivere articoli in sintonia con indirizzi politici diversi.
13.3.Area residuale del licenziamento libero 
Dall'art. 10, L. n. 604/1966, si desume che non godono di tutela contro i licenziamenti arbitrari (e sono quindi licenziabili ad nutum) i dirigenti amministrativi e tecnici. L’esclusione è determinata dal vincolo fiduciario che contraddistingue il rapporto di lavoro dei dirigenti e che rende improponibile una prosecuzione di tale rapporto con soggetti che non godono più della completa fiducia del datore.
I dirigenti tuttavia godono della tutela contro i licenziamenti discriminatori (e il datore è tenuto a comunicare il licenziamento in forma scritta).
Occorre inoltre precisare che la mancata applicazione della disciplina legislativa su licenziamenti individuali è compensata da una diffusa tutela prevista dalla contrattazione collettiva di categoria, che, in caso di recesso privo di “giustificatezza” (da intendersi come mera presenza di valide ragioni di recesso), riconosce al dirigente il diritto ad un’indennità supplementare.
Nonché vi è l'obbligo del datore di lavoro di comunicare per iscritto la motivazione del licenziamento. In merito ai contenuti della nozione di “giustificatezza”, la giurisprudenza esclude una sovrapposizione con le nozioni legali di “giusta causa” e di “giustificato motivo”, ritenendo che la giustificatezza sia da individuare nella mera presenza di valide ragioni di recesso, da valutare secondo buona fede e correttezza.
La contrattazione collettiva ha riconosciuto ai dirigenti la possibilità di ricorrere ad un Collegio di conciliazione ed arbitrato per l'accertamento della giustificatezza o meno del licenziamento- ferma restando la validità del licenziamento-il collegio ha facoltà di condannare il datore al pagamento dell'indennità supplementare, di natura risarcitoria.
In dottrina è stata prospettata l’opportunità di distinguere, nell’affollato quadro delle posizioni dirigenziali, tra dirigenza autentica e dirigenti di livello inferiore (le cui mansioni non hanno le caratteristiche proprie del rapporto dirigenziali),  che sarebbero in sostanza equiparabili agli impiegati di grado elevato e che perciò andrebbero tutelati dalla disciplina limitativa dei licenziamenti. La giurisprudenza ha raccolto questa proposta, ritenendo che soltanto nei confronti dei dirigenti apicali non possano trovare applicazione le garanzie procedimentali sul licenziamento disciplinare (art. 7 St. lav.), applicandosi invece nei confronti del dirigente di livello medio-basso.
Controversa è l'applicabilità delle garanzie previste dall'art. 7 della L. n. 300/1970 al rapporto di lavoro dirigenziale nell'ipotesi di licenziamento disciplinare. Sulla falsariga della sentenza della Cassazione n. 6041 del 29 maggio 1995 è stata teorizzata la distinzione tra dirigente (vero alter ego dell'imprenditore) e dirigente di livello inferiore. La procedura disciplinare non sarebbe necessaria per il dirigente di vertice, mentre sarebbe indispensabile in caso di recesso disciplinare dal rapporto con il dirigente di livello medio-basso. Il licenziamento disciplinare del dirigente (medio-basso) senza il rispetto delle garanzie procedurali di cui all'art. 7 St. lav obbliga il datore a versare, oltre l'indennità di mancato preavviso, l'indennità aggiuntiva prevista dal contratto collettivo per le ipotesi di licenziamento ingiustificato, ma non comporta la prosecuzione del rapporto.
Sempre ai sensi dell'art. 10, L. n. 604/1966 la disciplina vincolistica dei licenziamenti non si applica ai lavoratori assunti in prova (la tutela però riprende vigore trascorsi 6 mesi dall’inizio del rapporto), ai lavoratori assunti con contratto a termine, agli atleti professionisti, ai lavoratori domestici (collaboratori domestici per quali si esclude l'art. 18 St.lav e della L. n. 604/1966, mentre vige l'art 2118 c.c., il quale si applica a tutta una categoria di prestatori che, per essere inseriti all'interno di una comunità familiare o similare, devono necessariamente mantenere una piena sintonia anche personale con il datore di lavoro e la predetta comunità), né ai lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici.
La dottrina e la giurisprudenza tende a comprimere ulteriormente la residua operatività dell'art. 2118 c.c., affermando che dai principi generali discende la necessità che il licenziamento, pur dove vige un regime di recesso ad nutum, non sia assistito da un motivo illecito, pena l'invalidità del medesimo licenziamento in forza dell'art. 1345 c.c., norma la cui operatività non è in alcun modo delimitata e che risulta applicabile in virtù dell'art. 1324 c.c., anche agli atti unilaterali. In tal caso spetterà al lavoratore provare il motivo illecito del licenziamento e, in ipotesi di prova positiva, il licenziamento sarà dichiarato nullo.
La L. 26 febbraio 1982, n. 54 (art 6) ha attribuito ai lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici, ma che non abbiano raggiunto l'anzianità contributiva massima utile prevista dai singoli ordinamenti previdenziali, il diritto di optare per la prosecuzione del rapporto fino al conseguimento del predetto massimo e comunque non oltre il 65° anno d'età. I lavoratori che esercitano la facoltà d'opzione beneficiano delle garanzie previste dagli art 1 e 2 della L. n. 108/1990 sino al raggiungimento della massima anzianità contributiva. Identiche garanzie sono state successivamente estese dalla L. 29 dicembre 1990, n. 407 (art 6) a favore dei dipendenti che non richiedono la liquidazione di una pensione di vecchiaia.
14. Il dibattito de iure condendo: le proposte di riforma.
Con la riforma dl mercato del lavoro, attuata del D.lgs n. 276/2003, si è sviluppato un rinnovato interesse in merito all'opportunità di intervenire sull'art. 18 dello Statuto, in considerazione del fatto che una rigorosa tutela degli occupati può tradursi in una penalizzazione di coloro che sono fuori dal mondo del lavoro.
L'infruttuoso esito del referendum, per il mancato raggiungimento del quorum, fece proseguire il dibattito in ambito politico e sindacale. Così, nel novembre 2001, il Consiglio dei Ministri approva il disegno di legge (S 848) contenente la “Delega al Governo in materia del mercato del lavoro”, si prevedeva di intervenire anche sulla materia relativa ai rimedi nei confronti del licenziamento illegittimo, ipotizzando una temporanea riduzione del campo di applicazione dell'art. 18 (e della relativa reintegrazione).
Successivamente ad un acceso dibattito parlamentare e a manifestazioni di piazza della CGIL, il Governo decideva di stralciare dal citato disegno di legge delega la parte relativa alla riforma dell'art. 18 St. lav che tuttora giace in Parlamento. L'ipotesi di modifica dell'art. 18 permetterebbe di sperimentare per tre anni la sospensione dell'operatività dell'art 18 e la previsione di una sanzione meramente indennitaria per i licenziamenti illegittimi, così da determinare un incentivo all'accrescimento dimensionale delle piccole imprese e all'incremento occupazionale.

 
I licenziamenti collettivi
1.Evoluzione delle fonti di disciplina: contrattazione collettiva, giurisprudenza, normativa comunitaria, legge.
Un’ulteriore modo di estinzione del rapporto di lavoro (contrassegnato da una disciplina distinta da quella del recesso individuale) è il licenziamento collettivo, disciplinato dalla L. 223\1991.
La materia dei licenziamenti collettivi è stata per molti anni caratterizzata da un voluto astensionismo legislativo, determinato dalla consapevolezza della difficoltà di apprestare una idonea tutela a tutti gli interessi coinvolti (i licenziamenti collettivi erano dunque regolati da 2 accordi interconfederali nonché da alcune scarne disposizioni legislative: la L. n. 604/1966 e la L. n. 108/1990, che si limita a confermare l'esclusione dei licenziamenti collettivi dall'applicazione della disciplina del licenziamento individuale).
Tale astensionismo era compensato dall’adozione di una politica di prevenzione delle riduzioni di personale, realizzata con la creazione di sistemi alternativi: la Cassa integrazione guadagni e l’istituto della mobilità.
L’utilizzo di questi sistemi (di Cig e circuiti di mobilità) ha portato ad effetti perversi, finendo per traviare la natura degli istituti e col creare situazioni di sopravvivenza meramente fittizia dei rapporti di lavoro i cui costi venivano interamente supportati dalla collettività.
Il legislatore è cosi stato indotto (anche sotto la spinta dell’unione europea, la cui corte di giustizia ha condannato l’Italia per la mancata recezione delle proprie direttive in materia, con particolar riferimento all’estensione della disciplina ai datori di lavoro non imprenditori) ad un intervento normativo di portata generale; la L. 223/1991, con la quale si è inteso valorizzare la mobilità esterna o extra-aziendale, concepita come momento successivo al licenziamento collettivo volto a favorire la ricollocazione dei lavoratori licenziati.
Un ruolo propulsivo nell'evoluzione della disciplina sui licenziamenti collettivi è stato l'ordinamento comunitario con la Dir. 17 febbraio 1975, n. 75/129, modificata dalla Dir. 24 giungo 1992, n. 92/56, entrambe poi confluite, nella Dir. 20 luglio 1998, n. 98/59.
2.I licenziamenti collettivi nella L. n. 223/1991: la riduzione di personale e la messa in mobilità nelle imprese.
Per quanto riguarda l'ambito di applicazione della L. n. 223/1991, la rilevanza della distinzione tra datori di lavoro imprenditori e datori di lavoro non imprenditori è venuta meno con il D.lgs. 8 aprile 2004,. n. 110, emanato in ossequio alla sentenza della Corte di Giustizia Europea n. 32/02.
Per quanto riguarda gli imprenditori (i lavoratori licenziati da datori che non sono imprenditori non possono godere degli ammortizzatori sociali di cui alla L. 223/1991), l’istituto del licenziamento collettivo è connesso con la Cassa integrazione guadagni. Essa assume una funzione di sostegno di crisi aziendali reversibili, mentre in caso di problemi di eccedenza definitiva di personale non rimane che il licenziamento collettivo seguito da mobilità.
Può anche accadere che si utilizzino entrambi gli strumenti, allorché il licenziamento collettivo con collocazione in mobilità segua un periodo di sospensione in CIGS (nel caso in cui un’eccedenza di manodopera da reversibile si trasformi in irreversibile durante il periodo di CIGS).
La L. 223/1991 contempla due fattispecie di licenziamento collettivo: quello per riduzione di personale e quello per messa in mobilità
Licenziamento per riduzione di personale
Per dar corso al licenziamento per riduzione di personale è necessario che l’imprenditore abbia un organico complessivo di più di 15 dipendenti e che intenda licenziare almeno 5 lavoratori nella stessa provincia in un arco temporale di 120 giorni. È questo il presupposto numerico.
La causa della dismissione deve essere unitaria e riconducibile ad una riduzione o trasformazione di attività d’impresa (vi si possono ricondurre anche le ipotesi nelle quali l’imprenditore riduca solo la forza lavoro occupata a causa di innovazioni o ammodernamenti tecnologici, senza realizzare una contrazione di strutture o di attività) o alla cessazione totale dell’attività (chiusura dell’impresa). È questo il presupposto causale. Con riguardo al presupposto causale, il giudice eventualmente investito della legittimità del licenziamento collettivo non può (in ossequio al principio di libertà nell’iniziativa economica ex art. 41 Cost.) sindacare il merito delle scelte datoriali, ma deve limitarsi ad accertare:
-la sussistenza del presupposto causale invocato a sostegno dei licenziamenti collettivi (ossia verificare se una riduzione o trasformazione dell’attività vi sia effettivamente);
-il nesso causale tra il progettato ridimensionamento ed i singoli provvedimenti di recesso;
-la correttezza procedurale dell’operazione (ossia il rispetto della procedura di mobilità e dei criteri di scelta dei licenziandi).
D’altronde, se omogenei sono i presupposti causali sottesi al licenziamento collettivo ed al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, analogo deve essere in entrambe le fattispecie anche il sindacato giudiziale (anche se nel licenziamento collettivo l’indagine è un pò più ampia giacché ha ad oggetto anche il rispetto della procedura di mobilità).
Il giudice deve dunque indagare sulle circostanze di fatto che accompagnano il licenziamento collettivo, per verificare se contrastano con le motivazioni poste dal datore di lavoro a sostegno della sua volontà di dar corso ai licenziamenti stessi. Potrebbe ad esempio escludere la sussistenza del legittimo presupposto causale il fatto che il datore abbia provveduto a nuove assunzioni, laddove queste rappresentino un ampliamento dell’attività economica contrastante con la pretesa riduzione della stessa, oppure laddove le assunzioni siano motivate dalla necessità di colmare i vuoti verificatisi nel personale rimasto in servizio (licenziamenti seguiti da immediate nuove assunzioni possono presumersi dovuti non all’esigenza di ridurre il personale, ma solo al desiderio di disfarsi di lavoratori sgraditi).
Licenziamento per messa in mobilità
L’imprenditore con più di 15 dipendenti può avviare le procedure di mobilità qualora, durante il godimento o alla fine di un periodo di CIGS, ritenga di non essere in grado di reimpiegare tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative. La dizione sembra lasciare la libertà al datore in merito alla decisione sul ricorso allo strumento della Cassa Integrazione rispetto al licenziamento collettivo.
Sono esclusi dall’ambito di applicazione della normativa sui licenziamenti collettivi i dirigenti ed i casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine.
Per questa tipologia di licenziamento non è previsto un limite numerico (a differenza dell’altra), mentre è presupposta la CIGS; mentre è discussa l'esistenza di un obbligo di ricorrere a misure alternative anche dopo l'emanazione del D.lgs. n. 151/1997, il quale si limita a sollecitare (senza imporre) la ricerca e l'adozione di tali misure alternative.
3.La procedura di mobilità.
Tra il momento in cui matura la decisione imprenditoriale di procedere al licenziamento collettivo ed il momento dell'effettiva espulsione del singolo lavoratore dal processo produttivo la legge pone la c.d. procedura di mobilità (che è identica per entrambi i tipi di licenziamento collettivo), la cui funzione è quella di attutire, ove possibile, gli effetti del licenziamento collettivo sul mercato del lavoro.
La procedura è regolata dagli art. 4 e 5 della L. 223/1991; ai fini della sua attivazione è fatto obbligo all’imprenditore di comunicare preventivamente per iscritto alle RSA (ora RSU) e alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative, i motivi tecnici e organizzativi che determinano la necessità di ridurre il personale; il numero, e i profili professionali del personale eccedente, i tempi di attuazione del programma di mobilità; le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell'attuazione del programma.
L'informativa deve essere seria e completa, “dettagliata ed analitica” ed idonea ad aprire il confronto sindacale; essa dovrà dunque evidenziare tutte le ragioni che sono alla base della scelta imprenditoriale di ridurre il personale. L'obbligo di informazione deve essere adempiuto “indipendentemente dal fatto che le decisioni relative all'apertura delle procedure...siano assunte dal datore di lavoro o da una impresa che lo controlli”.
La comunicazione comporta inoltre un costo per l’impresa, in quanto ad essa va allegata una copia della ricevuta del versamento all’Inps di una somma pari al trattamento massimo mensile di integrazione salariale, moltiplicato per il numero dei lavoratori considerati in esubero (somma da versare in 30 rate mensili).
La procedura avviata con la comunicazione, può poi articolarsi in due fasi; una eventuale e l’altra subordinata all’esito negativo della prima.
La prima fase, che potrebbe essere definita fase sindacale, può aver luogo, ad iniziativa del sindacato, entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione e deve comunque durare non più di 45 giorni. La fase sindacale si sostanzia in un libero confronto tra l’imprenditore ed il sindacato, finalizzato a ricercare un accordo che risolva in tutto o in parte il problema delle eccedenze.
Questa consultazione si configura per il datore di lavoro come un onere a trattare in buona fede, il cui mancato rispetto, ove risulti immotivato, può integrare un comportamento antisindacale sanzionabile ex art. 28 St.lav, oltre ad avere un obiettiva ed autonoma rilevanza civilistica, potendo essere causa dell'inefficacia dei recessi intimati.
Tuttavia, per quanto il legislatore si sia sforzato di incentivare il dialogo con finalità conciliative, l’imprenditore resta comunque libero di non accettare le proposte sindacali ed il sindacato, a sua volta, può anche decidere di non attivare affatto la procedura.
D'altra parte, la legge, nell'intento di favorire soluzioni compromissorie, predispone una serie di incentivi alla conclusione dell'accordo. L'imprenditore viene incentivato a concludere l'accordo dal momento che in questo caso beneficia di una consistente decurtazione dei costi di licenziamento. È prevista, altresì, un'ipotesi di deroga all'art. 2103 c.c., qualora sia possibile evitare un recesso spostando il lavoratore ad altre mansione anche se non equivalenti a quelle di provenienza; un'anticipazione parziale del trattamento di pensione combinato con la riduzione a part-time dell'orario di lavoro ed, infine, la possibilità di utilizzare una versione rivisitata del contratto di solidarietà. Inoltre, e sempre la fine di evitare le riduzioni di personale, l'accordo sindacale può regolare il comando o il distacco di uno o più lavoratori dall'impresa ad altra per una durata temporanea.
Esaurita la fase sindacale, si configurano due possibili situazioni; o è stata raggiunta un’intesa formalizzata in un accordo oppure la procedura è stata infruttuosa. In questo secondo caso la legge prevede l’apertura di un ulteriore fase conciliativa in sede amministrativa, su impulso del direttore della Direzione provinciale del lavoro.
4.Criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e intimazione del licenziamento.
Una volta conclusa l’intera procedura (che non può durare + di 75 giorni), qualora rimanga la necessità di intimare tutti o soltanto alcuni dei licenziamenti inizialmente previsti nella comunicazione preventiva, il datore ha facoltà di individuare in concreto i lavoratori colpiti dal provvedimento espulsivo.
L’individuazione deve essere fatta secondo criteri che- a norma dell'art. 5, L. n. 223/1991- possono essere elencati in un accordo collettivo, oppure, in mancanza, si dovrà fare ricorso a quelli stabiliti in via sussidiaria dalla L. 223/1991 (esigenze tecnico-produttive ed organizzative, carichi di famiglia, anzianità).
I criteri (diversi da quelli legali) eventualmente previsti dall'autonomia collettiva devono essere predeterminati ed obbiettivi, generali ed astratti, con conseguente inammissibilità di criteri vaghi ed elastici. I contratti collettivi, in particolare, non possono concordare indirettamente col datore la lista dei licenziandi.
Nei confronti del lavoratore identificato come destinatario del provvedimento espulsivo, il datore potrà intimare il licenziamento, in forma scritta, col rispetto del prescritto preavviso, ma senza alcuna necessità di motivazione.
L’atto di recesso ai sensi della L. n. 223/1991 assolve anche un’altra funzione oltre a quella dismissoria; la funzione di immissione del lavoratore licenziato nelle liste di mobilità.
A valle dell'intimazione del licenziamento, sorge per il datore il dovere di informare sia la parte pubblica che le associazioni sindacali di categoria destinatarie della comunicazione introduttiva della procedure. L’informativa deve contenere i nominativi dei lavoratori licenziati, il luogo di residenza, la qualifica, il livello d’inquadramento, l’età, i carichi familiari e i criteri adottati nella scelta. Tale informativa assolve ad una duplice finalità. Nei confronti della parte pubblica funge da segnalazione per l’iscrizione dei lavoratori licenziati nelle liste di mobilità; nei confronti dei sindacati, riveste un ruolo di garanzia della trasparenza e di controllo eventuale sulle scelte datoriali, mettendo in condizione di potersi attivare in caso di violazioni di legge o di arbitri da parte dell'imprenditore, sul piano dell'autotutela collettiva, o attraverso azioni individuali.
5.Il sistema sanzionatorio.
La legge dispone che il licenziamento collettivo è viziato quando sia intimato senza l’osservanza delle forme previste, quando non siano state rispettate le procedure ed infine, quando vi sia stata la violazione o la non corretta applicazione dei criteri di scelta.
Il lavoratore colpito dal provvedimento di recesso che, ravvisando uno di tali vizi, voglia far valere le proprie ragioni, ha l’onere di impugnare il licenziamento nelle forme e con i termini di decadenza previsti dalla L. n. 604/1966 per il licenziamento individuale. Qualora il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, ne dichiara l’inefficacia (in caso di vizio di forma o di procedura) o l’annullabilità (in caso di violazione dei criteri di scelta), ed ordina, ai sensi dell’art. 18 St. lav., la reintegra del lavoratore.
Tuttavia nel (solo) caso in cui la violazione concerna i criteri di scelta, il datore ha facoltà di intimare il licenziamento ad un altro lavoratore (applicando stavolta correttamente i criteri di scelta) senza doversi sottoporre ad una nuova procedura; unico onere aggiuntivo sarà una comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali.
In sostanza la tutela reale, prevista per la violazione delle garanzie sostanziali e procedurali, finisce per operare con riguardo ad ogni impresa con più di 15 dipendenti. Nella configurazione legislativa la facoltà di sostituzione non incontra alcun limite temporale e quantitativo, per cui, almeno in teoria si potranno verificare casi di sostituzione a catena.
6. L'estensione della L. n. 223/1991 ai datori di lavoro non imprenditori. Il D.lgs. 8 aprile 2004, n. 110.
Quanto detto finora vale solo per i licenziamenti collettivi intimati da datori di lavoro imprenditori. Il D.lgs. 8 aprile 2004, n. 110 ha però esteso l'applicazione della disciplina sui licenziamenti collettivi dettata dalla L. n. 223/1991 anche ai datori di lavoro non imprenditori, anche se si tratta di un'estensione solo parziale. Il legislatore tuttavia, in seguito ad una condanna della Corte di giustizia dell’Unione europea (per la mancata ricezione della Dir 20 luglio 1998, n. 98/59 nella parte in cui prevedeva l'inclusione tra i destinatari della L. n. 223/1991 di tutti i datori di lavoro e non solo degli imprenditori), è stato obbligato ad estendere la disciplina dei licenziamenti collettivi a tutti i datori di lavoro, includendo così anche i non imprenditori, originariamente non inclusi.
L’estensione tuttavia non è assoluta, giacché vi sono alcune differenze nella disciplina. I dipendenti di datori di lavoro non imprenditori infatti, pur potendo iscriversi nelle liste di mobilità, si trovano in una condizione deteriore rispetto ai dipendenti di imprese, giacché non possono godere degli ammortizzatori sociali (in particolare dell’indennità di mobilità) né delle agevolazioni contributive a favore del nuovo datore di lavoro (in caso nuova assunzione).
Il trattamento di fine di fine rapporto. 
Il TFR è un’indennità che spetta al lavoratore in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro. Si calcola dividendo per 13,5 tutto quello che il lavoratore ha percepito nel corso dell’anno a titolo non occasionale e con esclusione dei rimborsi spese. La cifra va rivalutata con l’applicazione di una maggiorazione annua composta da un tasso fisso dell’1,5% e inoltre del 75% dell’aumento dell’indice ISTAT.
1.L'evoluzione legislativa.
L’anzianità di servizio presso il medesimo datore di lavoro assume particolare rilevanza quando, in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, è dovuta al lavoratore un’indennità commisurata, tra l’altro, alla durata del rapporto.
L’evoluzione della disciplina è determinata da una progressiva modificazione della sua natura e funzione. Alle origini e per molto tempo la c.d. “indennità di anzianità” ha rappresentato una sorta di premio fedeltà per il lavoratore. Riconosciuta inizialmente solo agli impiegati e negata a chi si dimetteva o veniva licenziato per giusta causa, essa contribuiva a valorizzare una concezione fiduciaria e paternalistica del rapporto di lavoro. Successivamente essa fu estesa anche agli operai e a tutte le cause di cessazione del rapporto, finendo così per assumere una finalità latu sensu previdenziale (per far fronte alle esigenze del lavoratore nel momento del venire meno di una stabile fonte di guadagno). La disciplina attuale dell’istituto, oggi denominato TFR (trattamento di fine rapporto), è contenuta nella L. 297/1982, n. 297.
2.I nuovi criteri di calcolo
Il meccanismo di calcolo della vecchia indennità di anzianità consisteva nella moltiplicazione dell’ultima retribuzione per un coefficiente proporzionale alla durata del rapporto.
Secondo l’attuale disciplina invece, per ciascun anno di servizio occorre considerare la retribuzione annuale complessiva e dividerla per 13,5 (quindi una quota poco superiore alla retribuzione mensile). Nella retribuzione annuale vanno computate tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale con esclusione dei soli rimborsi spese.
Per evitare fenomeni di super-liquidazioni e quindi ingiustificate sperequazioni, la legge vieta alla contrattazione (collettiva o individuale) di abbassare il divisore 13,5. L’autonomia collettiva è invece libera di espungere alcune voci retributive dalla retribuzione annuale e dunque di comprimere l’entità del TFR (magari nell’ambito di una strategia tesa a valorizzare la retribuzione corrente rispetto a quella differita). L'ART. 5, 5° comma, L. n. 297/1982 ha consentito inoltre, a partire dal 31 dicembre 1989, una piena equiparazione del trattamento previsto per impiegati ed operai.
Le quote della retribuzione annuale vanno poi rivalutate annualmente con l’applicazione di un tasso costituito dall’1,5% in misura fissa e dal 75% dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo ISTAT. Il meccanismo di indicizzazione è stato costruito in modo che la sua efficienza risulti inversamente proporzionale al tasso di inflazione. I nuovi criteri di computo presentano il vantaggio di riflettere fedelmente la storia retributiva di ciascun lavoratore, impedendo manovre o effetti sperequativi a vantaggio di chi presenta dei picchi di carriera nella fase terminale del rapporto.
Il nuovo sistema di computo del TFR concerne solo le indennità maturate dopo il 31 maggio 1982. i rapporti di lavoro in corso all’entrata in vigore del nuovo sistema vengono assoggettati ad un meccanismo di computo differenziato (il vecchio sistema per il periodo anteriore al 1982, il nuovo computo per il periodo successivo).
3. Le anticipazioni e il Fondo di garanzia. L'indennità in caso di morte.
Il lavoratore con almeno 8 anni di servizio presso le stesso datore può ottenere, in pendenza del rapporto, un’anticipazione del TFR non superiore al 70% del trattamento già maturato.
La legge però pone vincoli finalistici alla domanda di anticipazione (spese sanitarie per terapie o interventi straordinari; acquisto della prima casa per se o per i figli, ecc) e limita il numero dei beneficiari, onde non esporre le aziende ad ingenti ed improvvisi esborsi di liquidità (non più del 10% degli aventi diritto e in ogni caso non più del 4% del numero totale dei dipendenti).
La legge (art. 2, L. n. 297/1982) prevede un fondo di garanzia, alimentato da contributi datoriali e destinato a sostituire il datore nell’erogazione del TFR in alcuni casi di insolvenza o di inadempienza e segnatamente in caso l’azienda incorra in procedure concorsuali (fallimento, concordato preventivo, liquidazione amministrativa coatta o amministrazione straordinaria). L'istituzione del Fondo risponde ad un'esigenza di “socializzazione del rischio dell'insolvenza”.
Una volta accertati (secondo le regole generali delle procedure concorsuali) esistenza e ammontare del credito, il fondo erogherà l’ammontare immediatamente e, surrogandosi a lavoratore, sopporterà le lungaggini e i rischi della procedura concorsuale.
L’intervento del fondo è esteso anche ai lavoratori che dipendono da datori di lavoro non soggetti a procedure concorsuali nonché ai soci delle cooperative di lavoro, e in tal caso il lavoratore potrà inoltrare la domanda al fondo solo dopo l’inutile esperimento della procedura di esecuzione forzata.
In caso di morte del lavoratore il TFR e l’indennità di mancato preavviso (ai sensi dell'art. 2122 c.c) spettano al coniuge e ai figli e, se vivevano a carico del lavoratore, ai parenti entro il 3° grado e agli affini entro il 2°.
Tali indennità non possono essere oggetto di patti anteriori alla morte del lavoratore, il quale può disporne per testamento solo in mancanza dei superstiti suindicati.
4. Prospettive di riforma.
Le prospettive di riforma del TFR appaiono strettamente intrecciate con l'evoluzione del sistema pensionistico e, in particolare, col finanziamento della previdenza complementare d cui al D.lgs. n. 124/1993 (cosiddetti fondi pensione).
Il D.lgs 17 agosto 1999, n. 299 prevedeva, in via sperimentale, la c.d “cartolarizzazione” del TFR : in alternativa al versamento in contanti del TFR ai fondi pensione, il debito debito dell'impresa costituito dalle quote annuali di TFR poteva essere trasformato in strumenti emessi della impresa stessa o attribuiti al fondo pensione. Tali strumenti finanziari potevano consistere in azioni, obbligazioni convertibili in azioni, o altri titolo cum warrant. L'operazione, consentita dal 1999 e solo per i 3 anni successivi, richiedeva in ogni caso il consenso scritto del lavoratore.
La L. d. 23 agosto 2004, n.243 (Riforma Maroni) mira, tra l'altro, a facilitare l'afflusso del TFR ai fondi pensionistici complementari, di cui al D.lgs n. 12471993. A riguardo non viene previsto un vero e propri obbligo di conferimento, ma una forma di silenzio-assenso. In altri termini resta fermo il principio di volontarietà dell'adesione al fondo pensione, solo che adesso la volontà del lavoratore di non aderirvi deve essere espressa entro 6 mesi dall'assunzione, altrimenti il silenzio del lavoratore è considerato come volontà di aderire ad un fondo pensione (e di conferirvi il TFR). Tuttavia, se il silenzio del lavoratore non si accompagna anche alla scelta del fondo pensione, sono previste modalità tacite di conferimento del TFR stesso a favore di fondi istituito o promossi dalle regione, tramite loro strutture pubbliche o a partecipazione pubblica all'uopo istituite o in base a contratti o accordi collettivi; in loro mancanza il TFR andrà destinato alle forme pensionistiche costituite presso enti di previdenza obbligatoria.
Per le imprese, a fronte della perdita di disponibilità del TFR quale importante fonte di autofinanziamento, la legge delega citata prevede misure compensative “in termini di facilità di accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, di equivalente riduzione del costo del lavoro e di eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto.

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

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