Decentramento produttivo

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Decentramento produttivo

IL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO.
1. Il distacco.
Decentrare vuol dire scorporare o comunque commissionare a terzi pezzi del processo produttivo necessario per produrre il bene o servizio proprio dell'attività di una certa impresa.
Dopo aver analizzato la triangolazione, passiamo a considerare un altro fenomeno interpositorio lecito, il distacco consistente  nell’invio di un dipendente di un datore di lavoro (distaccante) presso un diverso datore (distaccatario), con il permanere della titolarità del rapporto e dell’obbligo retributivo e contributivo in capo al primo, anche se il lavoratore distaccato viene assoggettato al potere direttivo, di controllo ed eventualmente disciplinare del secondo. Si tratta dunque  di un’ipotesi di somministrazione di lavoro, che, seppur posta in essere non da un’agenzia autorizzata, costituisce comunque uno strumento lecito di decentramento produttivo
Regolamentato dal legislatore proprio nell'ambito del pubblico impiego fin dal 1957 (D.P.R. n. 3 artt. 56 e 57) e ammesso dalla prassi giurisprudenziale nell'impiego privato fin dagli anni '70, oggi trova disciplina generale nell'art. 30 del D.lgs. n. 276/2003. Quest'ultimo considera il distacco come ipotesi legittima di somministrazione di lavoro posta in essere da un soggetto che non esercita professionalmente attività di fornitura di lavoro altrui.
Lo schema è sempre quello della triangolazione, in quanto anche col distacco si realizza quella temporanea dissociazione tra datore formale e utilizzatore della prestazione di lavoro. Un datore di lavoro distaccante, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente un proprio lavoratore (o più di uno) a disposizione di altro soggetto (distaccatario) per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa pur rimanendo direttamente responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore.
Il D.lgs n. 276/2003 ha introdotto nuovi elementi, consentendo, da un lato di ammettere il distacco anche da parte di datori non imprenditori purché dotati di un'autonoma struttura organizzativa; dall'altro, all'oggetto della prestazione del lavoratore distaccato che deve essere determinata.
Elemento di continuità con il passato è l'interesse proprio del datore distaccante che la norma richiede per configurare legittimo il distacco. A metà tra continuità e innovazione si pone il requisito della temporaneità del distacco, cioè non definitività, che pare acquistare maggiore autonomia rispetto all'elaborazione giurisprudenziale precedente la quale ne aveva svalutato la portata o considerandolo compreso nello stesso interesse del distaccante o dandone un'interpretazione decisamente estensiva.
Alcuni elementi della definizione di distacco data dal legislatore, consentono di distinguere il distacco da una semplice ipotesi di somministrazione non autorizzata (e quindi illecita): a)l’interesse proprio dal datore distaccante – se il distacco perseguisse l’interesse dell’impresa del distaccatario, troveremmo dinanzi ad una somministrazione non autorizzata; b)determinatezza dell’attività oggetto della prestazione del lavoratore distaccato – il lavoratore deve essere distaccato per una specifica attività, non riducibile alla generica messa a disposizione di manodopera; c)temporaneità del distacco – la durata del distacco può essere anche lunga, ma non può coincidere con tutta la durata del rapporto di lavoro. In assenza di questi requisiti, il distacco configura un’ipotesi illecita di decentramento produttivo ed è punito con la stessa sanzione civile che accompagna la somministrazione illecita (ossia la possibilità per il lavoratore di ottenere, tramite apposita domanda, l’imputazione del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore).
A tutela del lavoratore distaccato sono poi previste 2 regole corrispondenti a due limiti imposti al potere del distaccante:
-Il distacco che comporti un mutamento di mansioni del lavoratore distaccato, richiede il consenso dello stesso;
-Il distacco che comporti un trasferimento del lavoratore ad un’unità produttiva distante più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito, deve essere giustificato da ragioni tecniche, organizzative o produttive.
La L. n. 236/1993 attribuisce agli accordi sindacali, al fine di evitare le riduzioni di personale, la facoltà di regolare il comando o distacco di uno o più lavoratori da un'impresa all'altra e tutto ciò per evitare il licenziamento.
Infine un cenno ad un fenomeno in crescente diffusione, soprattutto nell'ambito di gruppi di imprese multinazionali: il distacco del lavoratore all'estero. Al fine di regolamentare il fenomeno del distacco di lavoratori da uno stato estero è stato emanato il D.lgs. n. 72/2000.
2. Il rapporto di lavoro nei gruppi di impresa e in imprese collegate.
Un fenomeno strettamente connesso al comando o distacco è rappresentato dal collegamento fra più imprese, società di persone o di capitali. Si parla in questo caso di “gruppo di imprese” o di “imprese di gruppo”. Nel nostro ordinamento non esiste una nozione giuridica unitaria di gruppo.
In linea di massima si ritiene che il mero collegamento economico-societario tra più società non integri ai fini lavoristici un unico datore di lavoro, salvo che non emerga con molta chiarezza la presenza di un unico centro decisionale per la gestione del personale e dei rapporti sindacali. La Corte di Cassazione ritiene che le varie società collegate debbano essere considerate unitariamente quando vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di una attività tra le varie entità societarie. Ciò che viene accertato allorquando si riscontri: a)unicità della struttura organizzativa e produttiva; b)integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c)coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune, d)utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese.
In tale scenario si innestano alcune disposizioni legislative che danno rilievo al rapporto di collegamento esistente tra imprese o al fine di ampliare l'ambito dei destinatari di determinate tutele e prevenire le frodi o con l'obbiettivo di consentire l'accentramento in capo alla società capogruppo degli adempimenti burocratici “in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei lavoratori dipendenti”.
3. Il trasferimento d'azienda (o di ramo d'azienda).
La disciplina del trasferimento d’azienda (o di un suo ramo) ad un terzo mira a garantire, di massima, la prosecuzione del rapporto di lavoro presso l’acquirente con una forma di garanzia dei diritti dei lavoratori rafforzata, coinvolgendo sia il cedente che il cessionario dell'azienda nelle posizioni debitorie nei confronti dei lavoratori.
I ripetuti interventi del legislatore comunitario e nazionale, sono ispirati dalla volontà di rafforzare le tutele dei lavoratori e ampliarne la portata applicativa perché il trasferimento d’azienda rappresenta uno strumento sempre più utilizzato per realizzare il decentramento produttivo (outsourcing), o per esternalizzare attività non appartenenti al nucleo essenziale (core business) del ciclo produttivo ed affidarle a terzi, fenomeni che possono sfociare in licenziamenti collettivi o possono determinare riflessi sulle condizioni di vita e lavoro dei lavoratori.
La normativa base del trasferimento d'azienda è ancora oggi racchiusa nell'art. 2112 c.c. e nell'art. 47 L. 428/1990 (attuazione della direttiva n. 77/187/CE) sui quali ha inciso in maniera sensibile il D.lgs. n. 18/2001 (di attuazione alla Direttiva n. 98/50/CE) e l'art. 32 del D.lgs. n. 276/2003.
Il principio base delle suddette direttive è quello del mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda e di conservazione del posto, che si realizza garantendo il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare dell’azienda o del suo ramo. La ratio è quella di garantire una sostanziale indifferenza dei rapporti di lavoro rispetto alle vicende circolatorie dell’azienda, cioè rispetto a vicende attinenti alla proprietà o alla titolarità dell'azienda.
Si tratta di trovare un punto d’equilibrio tra la libertà di iniziativa economica privata e la tutela dei lavoratori coinvolti nei processi di trasferimento dell’azienda.
Si è parlato di crisi di identità dell'art. 2112 c.c., poiché detto articolo, nato per garantire il mantenimento dei diritti dei lavoratori e la continuità dell'occupazione, oggi viene sovente utilizzato per ridimensionare o dismettere da parte dell'imprenditore settori di attività e quindi i dipendenti a questi addetti senza sottostare alla procedura e agli oneri previsti per i licenziamenti collettivi e a prescindere dal consenso dei lavoratori ceduti.
Il fenomeno dell'esternalizzazione (outsourching) si accompagna spesso a quello della internalizzazione (insourcing). Ciò accade quando l'acquirente del segmento aziendale esternalizzato si impegna con il cedente- mediante un contratto di appalto- a fornirgli beni o servizi realizzati mediante il segmento ceduto.
Nel tentativo di accompagnare e disciplinare il decentramento produttivo nel suo duplice aspetto il legislatore del 2003 aggiunge un 6° comma all'art 2112, con il quale dispone, per il caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avvenga utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, che appaltante e appaltatore siano obbligati in solido verso i lavoratori dipendenti dell'appaltatore entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto.
Il ripetuto intervento innovatore del 2001 e del 2003, nell'incidere sull'art 2112 c.c., ha dato vita all'ampliamento del concetto di trasferimento d'azienda, sotto l'influenza della Corte di Giustizia CE. Per trasferimento d’azienda si intende  “qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità dell’azienda (o di un ramo della stessa), a prescindere dallo schema negoziale utilizzato”. Quindi, qualunque sia lo strumento negoziale utilizzato per realizzare il trasferimento (cessione, usufrutto, affitto, leasing), è consentito all’imprenditore cedente di trasferire automaticamente i dipendenti addetti all’entità trasferita.
Per quanto riguarda l’oggetto del trasferimento, il concetto d’azienda viene ampliato e oggi per azienda si intende “un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità”. Tale definizione consente di allentare ogni aggancio con la nozione di azienda dell’art. 2555 c.c., nel quale la nozione di azienda appare imperniata sul complesso di beni organizzati dall’imprenditore (con tutto il carico di materialità da questi evocato) e sposta l’accento sull’attività e sull’organizzazione.
Il nuovo dato normativo induce a ritenere sufficiente, ai fini dell'applicazione dell'art 2112 c.c., anche la traslazione di un'attività realizzata solo mediante l'impiego di un insieme di lavoratori all'uopo organizzati, senza il supporto di un apparato strumentale, a condizione che non si tratti di una mera sommatoria di prestazioni lavorative e che l'attività traslata si caratterizzi per un'amalgama organizzativo. Una simile lettura smaterializzata dell'azienda consente di estendere l'art. 2112 c.c., anche al trasferimento di attività caratterizzate da elevato “contenuto umano”.
Resta aperta la dibattuta questione concernente l'applicabilità dell'art. 2112 c.c. e dell'art 47 L. n. 428/1990, ai datori di lavoro non imprenditori. Di fronte all'attuale formulazione del 5° comma dell'art. 2112 c.c., come novellato dal D.lgs. n. 276/2003, che definisce l'azienda “come un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro” dopo aver eliminato la specificazione prevista dal D.lgs. n. 18/2001 “al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi”, ha portato certa dottrina ad includere nel campo di applicazione della norma anche il caso in cui il cessionario sia un soggetto non imprenditore.
Una nozione legale di ramo d'azienda, ribattezzato “parte dell'azienda”, è stata introdotta dal D.lgs. n. 18/2001 e modificata dal D.lgs. n. 276/2003 (art 32). Essa consiste in “un’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento”.
Il D,lgs. n. 18/2001 richiedeva come requisiti per l'identificazione della “parte dell'azienda” la sua preesistenza rispetto al trasferimento e la conservazione della propria identità nel trasferimento.
Con le modifiche apportate con il D.lgs 276/2003 il legislatore ha inteso rispondere alle accuse di inutile rigidità rivolte alla definizione di parte dell'azienda sorte nella vigenza del D.lgs. n. 18/2001 ed ha stabilito che per l'applicazione dell'art. 2112 c.c. è sufficiente che la porzione di attività ceduta sia dotata di autonomia funzionale, cioè di coesione funzionale e organizzativa, che può sorgere anche solo al momento del trasferimento. La definizione di ramo o parte d'azienda viene quindi resa meno rigida, con l'eliminazione dei requisiti previgenti (preesistenza rispetto al trasferimento e la conservazione della propria identità nel trasferimento).
Se in concreto ricorrono gli elementi identificativi dell’azienda o del ramo, il passaggio del lavoratori addetti (ma non necessariamente tutti) sarà governato dall’automatismo e dalle garanzie previste dall’art. 2112 c.c., senza il consenso dei lavoratori. In caso contrario (ad es, trasferimento di una porzione di attività non idonea alla produzione di beni o servizi o di un segmento aziendale privo di autonomia funzionale) si rientrerà nell’ipotesi di cessione di singoli beni e di singoli contratti di lavoro (art. 1406 c.c.), che richiede il consenso del contraente ceduto, sicché il passaggio dei lavoratori al nuovo titolare resterà subordinato al loro consenso, ma non opereranno in loro favore le garanzie previste dall’art. 2112 c.c.
Il novellato art. 2112 c.c. revede la conservazione di tutti i diritti già maturati presso il cedente (conservazione dell’anzianità di servizio maturata, scatti, tfr, ecc.). Il rapporto in sostanza prosegue immutato in tutti i suoi aspetti e si considera unitariamente, senza alcuna interruzione dovuta alla modificazione dei soggetti (cedente e cessionario).
È inoltre prevista una responsabilità solidale tra cedente e cessionario in ordine ai crediti maturati dal lavoratore nel corso del rapporto col primo. È comunque consentito che il lavoratore possa liberare dalla responsabilità solidale uno dei due coobbligati ma, trattandosi di ipotesi di cosiddetta volontà individuale assistita, ciò dovrà avvenire secondo modalità precise: nei confronti del cedente alla commissione di conciliazione prevista dai contratti collettivi o istituita presso ciascuna Direzione Provinciale del lavoro o in sede sindacale, nei confronti del cessionario (solitamente il più interessato ad ottenere la liberazione) ai sensi dell'art. 2113 c.c.
L’art. 2112 c.c, novellato dal D.lgs. n. 18/2001, garantisce ai lavoratori ceduti l’applicazione dei contratti collettivi che disciplinavano il rapporto di lavoro prima del trasferimento, conferendo a tali contratti collettivi una sorta di ultrattività (in deroga alle disposizioni civilistiche sull’efficacia del contratto), visto che la pattuizione collettiva continuerà a produrre effetti (fino alla scadenza) nei confronti di un soggetto, il cessionario, che non è parte dell’accordo.
Tuttavia se il cessionario applica uno specifico contratto collettivo, tale disciplina prevale e sostituisce quella del contratto collettivo in precedenza applicato dal cedente. Ma ciò solo nel caso in cui i 2 contratti siano dello stesso livello. Ciò per evitare i potenziali effetti pregiudizievoli che una indiscriminata sostituzione di contratti collettivi con contratti aziendali potrebbe cagionare ai lavoratori.
Per agevolare il rilevamento ed il salvataggio di aziende in crisi (crisi aziendale o dichiarazione di fallimento con accertamento del Ministero del Lavoro) oggetto di procedure concorsuali, il legislatore ha stabilito una deroga alle garanzie in favore dei lavoratori, fin qui descritte. In tali casi, se viene raggiunto un accordo sindacale circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione da parte del cessionario, le garanzie di conservazione di tutti i diritti, di mantenimento dei trattamenti collettivi pregressi, nonché l’obbligazione solidale tra cedente e cessionario, possono essere azzerate o graduate dal medesimo accordo sindacale.
Sempre l’art. 2112 stabilisce altresì che in caso di trasferimento di azienda il rapporto di lavoro continua con il concessionario e che il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento (ciò all’evidente scopo di evitare che il trasferimento d’azienda vanga usato come espediente per procedere a licenziamenti senza osservare la disciplina prevista dal legislatore). Ciò significa che l'imprenditore cedente può licenziare i propri dipendenti solo se ricorre un'autonoma giusta causa o un giustificato motivo. Il lavoratore non ha diritto a rimanere alle dipendenze del cedente, quindi, se non accetta il trasferimento, non gli resta che rassegnare le dimissioni, naturalmente con preavviso. Tuttavia, nel caso in cui le condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica per effetto del trasferimento, il lavoratore ha la facoltà di dimettersi entro 3 mesi dal trasferimento con gli effetti propri del “recesso per giusta causa” (art. 2119 c.c.), ossia senza dover dare preavviso e ricevendo l’indennità sostitutiva del preavviso.
L'art. 47 della L. n. 428/1990 prevede nel caso il trasferimento coinvolga un’azienda (o un suo ramo) con meno di 15 dipendenti una speciale procedura di consultazione sindacale.
Almeno 25 gg. prima che sia perfezionato l’atto di trasferimento, cedente e cessionario hanno l’obbligo di comunicare il trasferimento ai sindacati (RSU o RSA, e sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nell’impresa interessata). I sindacati, ricevuta la comunicazione, possono richiedere che si apra un confronto con cedente e cessionario, ed in tal caso, questi ultimi saranno obbligati ad aprire un esame congiunto a tal uopo. La consultazione si intende esaurita qualora, decorsi 10 gg. dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo.
Il mancato rispetto da parte del cedente o del cessionario degli obblighi di informazione e di esame congiunto costituisce condotta antisindacale, ai sensi dell’art. 28 St. lav. La violazione tuttavia non inciderà sulla validità del negozio traslativo.
Per i lavoratori che non passano alle dipendenze del cessionario è comunque previsto un diritto di precedenza nelle assunzioni che quest'ultimo effettuati entro un anno dalla data del trasferimento o entro il maggior periodo stabilito negli accordi collettivi (art. 47, 6°comma, L. n. 428/1990).

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

Sito web da visitare: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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