Cos' è il franchising aprire un negozio

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Cos' è il franchising aprire un negozio

 

La competizione su scala globale ed i rapidi progressi tecnologici verificatesi negli ultimi decenni hanno creato grandi opportunità per le aziende, ma hanno anche causato l’aumento degli investimenti necessari per poter dare inizio ad attività di business rendendo così sempre più difficile per le aziende la possibilità di trarre vantaggi economici in modo autonomo.
In questa nuovo modello di economia, ad emergere sono così le forme di organizzazione “a rete”, nell’ambito delle quali il franchising svolge un ruolo di rilievo, sia per il crescente successo che ha incontrato in molti mercati, sia per i vantaggi che esso comporta. Questa tipologia di contratto permette infatti la cooperazione tra grandi imprese e piccoli imprenditori che si aiutano reciprocamente a svilupparsi in mercati sempre più competitivi creando rapporti di alleanza, accordi e strutture di servizi comuni. Il franchising permette inoltre di integrare i vantaggi della grande organizzazione - quali efficienza, stabilità, affidabilità e controllo - con quelli dei piccoli sistemi - come flessibilità, innovazione, creatività e apprendimento -. I primi permettono di approfondire le conoscenze e l’esperienza, i secondi consentono di allargare, attraverso lo sviluppo delle capacità di relazione, il campo di attività.
Il franchising è un fenomeno commerciale nato negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale , periodo in cui la scarsità di mezzi finanziari ostacolava l’espansione commerciale di piccole e medie imprese, e si affermò proprio in quanto presentava vantaggi sia per il franchisee (o affiliato) che per il franchisor (o affiliante).
Con il passare del tempo, il franchising ha trovato frequente applicazione anche in Europa: in un primo momento si è verificato uno “sfruttamento” del mercato europeo da parte dei franchisor americani, mentre in una seconda fase, anche le imprese europee hanno iniziato a stipulare tali contratti, sia tra imprese di uno stesso Stato, che tra imprese di Stati differenti.
Tuttavia, lo sviluppo del franchising nel mercato europeo è profondamente diverso da quello statunitense: infatti il franchisee americano opera con l’obiettivo finale di diventare imprenditore autonomo, mentre il franchisee europeo è maggiormente attento a limitare il rischio d’impresa . Questa diversità emerge non soltanto perchè il franchising rappresenta un nuovo istituto nei paesi europei, ma anche per il fatto che sono diverse le esigenze cui è preposto: infatti mentre negli Stati Uniti esso rappresenta un’alternativa alla grossa distribuzione, in Europa accade esattamente il contrario, ossia sono le grosse catene di distribuzione che vi ricorrono al fine di espandersi e penetrare in mercati in cui sarebbe difficile entrare.
Anche in Italia lo schema del franchising è sempre più utilizzato: i dati forniti in merito dall’Associazione italiana del franchising (Assofranchising) nel 2003 contavano 665 insegne, un numero di affiliati di 41.901 unità, per un giro d’affari complessivo superiore a 15 milioni di euro. Confrontando tali dati con quelli relativi al 2006 si può notare come tale rete continui ad espandersi: il numero delle insegne è salito a 778 (con previsione di una crescita del 10% per il 2007), il numero degli affiliati è salito a 45.340 unità (con previsione di una crescita tra il 5% e il 7% per il 2007) per un giro d’affari complessivo superiore a 20 milioni di euro (con previsione di una crescita tra il 5% e il 7% per il 2007) .
Questa costante crescita ed evoluzione riscontrata nel mercato italiano e la rilevanza economico-sociale acquisita da tale tecnica commerciale rappresentano le principali ragioni che hanno indotto il legislatore all’elaborazione del provvedimento normativo del 2004 , finalizzato a garantire la massima trasparenza nei rapporti contrattuali, sia attraverso l’imposizione di specifici obblighi informativi durante la fase precontrattuale, sia con la previsione di un contenuto essenziale minimo nel contratto, senza però, nel contempo, imporre rigidi schemi contrattuali che porterebbero a compromettere quella elasticità e flessibilità tipica del franchising, capace di adattarsi alle svariate esigenze del sistema economico .
La presente opera ha lo scopo di studiare approfonditamente il contratto di franchising, anche alla luce della nuova legislazione italiana emanata nel 2004, cui la dottrina, tuttavia, non ha risparmiato pesanti critiche.
In particolare, il primo capitolo è dedicato all’analisi evolutiva del franchising, partendo dal secondo dopoguerra, periodo in cui tale figura iniziò a svilupparsi, con l’esame la storica sentenza “Pronuptia” che dettò le prime basi giurisprudenziali in materia, arrivando successivamente ai Regolamenti emessi in ambito comunitario con lo scopo di regolare il franchising, per poi occuparsi dei primi commenti alla Legge n. 129 del 2004 italiana sul franchising.
Il secondo capitolo è riservato allo studio della disciplina del franchising, e al confronto con altri contratti tipici del nostro ordinamento, descrivendo le diverse tipologie esistenti di tale istituto, la struttura, gli elementi caratteristici e i soggetti coinvolti.
Il terzo capitolo, invece, affronta la tematica centrale concernente la Legge n. 129 del 2004, il primo intervento normativo italiano in materia di franchising, molto criticato a causa delle scarse novità apportate, in quanto non regola compiutamente il contenuto di tale contratto, ma si limita a dettare alcune norme in materia di tutela del contraente più debole.
L’intento è, quindi, quello di analizzare a fondo tale Legge, col supporto delle osservazioni provenienti dalla dottrina italiana, cercando anche di valutare se si manifesti la necessità di un nuovo intervento del Legislatore in materia di franchising, seguendo la nuova proposta di legge presentata lo scorso anno che, se approvata, abrogherebbe la normativa appena entrata in vigore.

 

CAPITOLO 1: ORIGINE ED EVOLUZIONE DEL CONTRATTO DI FRANCHISING.

1.1 Aspetti definitori del franchising

Il termine “franchising” deriva dal francese “franchise” che significa libertà, privilegio, esclusiva, ed è stato poi tradotto “franchising” in inglese. Si tratta di vocaboli che designano, appunto, una situazione di privilegio: il franchisee, infatti, acquista, dietro corrispettivo, il “privilegio” di sfruttare la formula commerciale del franchisor .
Esso consiste in una tecnica di distribuzione di prodotti effettuata attraverso l’utilizzazione, nei punti di vendita, del marchio e dei segni distintivi del produttore-distributore. Quest’ultimo, anziché effettuare la vendita diretta, attraverso esercizi commerciali e dipendenti organizzati direttamente e a proprio rischio, decide di costruire la sua rete di vendita mediante accordi di franchising con imprenditori locali (i franchisee) i quali si impegnano a vendere, spesso in esclusiva, i prodotti del franchisor, utilizzando anche il marchio di quest’ultimo, simboli e insegne, e spesso seguendo lo stesso allestimento dell’esercizio imposto.
Il franchisor si impegna a fornire i prodotti da rivendere e ad accollarsi servizi di assistenza ed altri eventuali costi, come per esempio le spese di pubblicità, le spese iniziali di allestimento dell’esercizio commerciale ecc.. Il corrispettivo del franchisor è composto da una parte fissa (entry fee o front fee) e da una parte variabile in proporzione alle vendite realizzate (royalty).
Il franchisee si obbliga ad acquistare una quantità minima di prodotti e ad osservare le modalità di vendita imposte dal franchisor .
Fornire una definizione precisa e univoca di franchising risulta però difficile, in quanto in passato sono state fornite diverse definizioni; si potrebbe, perciò, adottare la descrizione in senso sostanziale dell’Associazione Italiana del Franchising (Assofranchising), che lo considera, “una forma di collaborazione continuativa per la distribuzione di beni o servizi fra un imprenditore (franchisor) e uno o più imprenditori (franchisee) giuridicamente ed economicamente indipendenti uno dall’altro, che stipulano un apposito contratto attraverso il quale l’affiliante concede all’affiliato l’utilizzazione della propria formula commerciale, comprensiva del diritto di sfruttare il suo know-how ed i propri segni distintivi, unitamente ad altre prestazioni e forme di assistenza atte a consentire all’affiliato la gestione della propria attività con la medesima immagine dell’impresa affiliante; l’affiliato si impegna a far proprie politica commerciale e immagine dell’affiliante nell’interesse reciproco delle parti medesime e del consumatore finale, nonché al rispetto delle condizioni contrattuali liberamente pattuite” . Un’altra definizione è fornita dal Codice Deontologico della Federazione Italiana del Franchising in cui si descrive il franchising come “una forma di collaborazione contrattuale tra parti giuridicamente ed economicamente indipendenti, di pari dignità” .
Il franchising costituisce perciò un “pacchetto di probabilità di successo” che il franchisor mette a disposizione del franchisee; lo scopo principale dell’accordo tra le parti è quello di procurare benefici ad entrambi i soggetti mediante la combinazione delle loro risorse, mantenendo come preciso obiettivo l’interesse del consumatore finale. Lo scopo del franchising rappresenta perciò una collaborazione fiduciaria tra due partners; ciò che essi devono fare è “stabilire chiare regole di gioco” relativamente flessibili, mantenendo però rigidi i principi fondamentali della cooperazione, della collaborazione, del dialogo e dell’equilibrio di diritti e doveri delle parti. La filosofia di base, dettata anche dall’U.E., è quella di evitare il predominio di uno sull’altro.
Il contratto di franchising appartiene ai contratti cosiddetti “di integrazione” , cioè quei contratti di durata in cui un imprenditore affida in tutto o in parte la fase della produzione dei propri beni o della distribuzione degli stessi ad un altro imprenditore, il quale effettua investimenti e acquisisce conoscenze per poter eseguire tale attività. Quest’ultimo viene perciò stabilmente inserito nel ciclo economico del primo; viene perciò “integrato” nel processo produttivo o distributivo dell’altro imprenditore, il quale trasmette licenze di know-how, di marchio, di insegna, di brevetto e ne organizza e indirizza il lavoro attraverso precise direttive riguardanti le modalità della distribuzione o della produzione. L’obiettivo principale di tali contratti è, quindi, quello di creare agli occhi del consumatore un’immagine di unità e omogeneità tra i soggetti coinvolti .
I costi sopportati per raggiungere l’integrazione nella struttura organizzativa del partner contrattuale comportano che l’eventuale interruzione del rapporto collaborativo si presenti all’integrato come un fatto da evitare; si viene perciò a creare un barriera all’uscita costituita dalle spese per il mancato ammortamento dei costi sostenuti e dalle nuove risorse che quest’ultimo dovrebbe spendere per intraprendere una nuova attività imprenditoriale. Tutto questo può costringere il soggetto ad accettare condizioni contrattuali svantaggiose in sede di rinnovo del contratto pur di proseguire il rapporto collaborativo con l’imprenditore al quale è “integrato” .
Caratteristica degli “imprenditori integrati” è quindi quella di subire una notevole ingerenza del soggetto al quale sono legati contrattualmente, pur essendo giuridicamente autonomi ed economicamente indipendenti: infatti il soggetto “integrato” si procura da sé i mezzi per lo svolgimento della propria attività e si assume personalmente il rischio d’impresa .
In realtà, spesso accade che l’imprenditore integrato risulti di fatto economicamente dipendente, in quanto spesso “costretto” ad accettare i “suggerimenti” circa i prezzi da praticare o le strategie commerciali da adottare nella consapevolezza che questi consigli permetteranno il buon funzionamento dell’intera catena distributiva o produttiva, attribuendo a se stesso, sia pure di riflesso, dei vantaggi economici.
La condizione di debolezza dell’imprenditore integrato è rappresentata anche dal fatto che la sua clientela è a lui legata solo fino a quando disporrà dei segni distintivi dell’imprenditore concedente; dopo la conclusione del rapporto, non potendo più esibirli, perderà inevitabilmente buona parte della clientela.
L’imprenditore integrato pertanto può essere destinatario dell’art. 9 della Legge 192/98 che disciplina l’abuso di dipendenza economica, come si esaminerà nel prossimo capitolo.

1.2 Gli anni Settanta
Il fenomeno commerciale del franchising ebbe inizio negli Stati Uniti nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale e rappresentò una possibilità di crescita in un periodo caratterizzato da scarsità di risorse e mezzi finanziari.
Il successo si estese negli anni Settanta anche in Europa sull’onda dei buoni risultati raggiunti oltreoceano. Da subito, ci si pose il problema di come poter disciplinare tale contratto e, pertanto, vennero avviate dalla Commissione Europea le prime riflessioni in ordine alla predisposizione di alcune regole guida a fronte della crescita del franchising, con l’obiettivo di fornire qualche elemento di certezza, in assenza di un quadro regolamentare.
Nel 1976, presso la Commissione Europea venne istituito un gruppo di lavoro con il compito di valutare l’opportunità di prevedere una disciplina specifica del franchising, ma, dopo due anni, la sua attività venne terminata in quanto si giunse alla conclusione che le problematiche andavano affrontate nel quadro delle regole di concorrenza e che i tempi erano ancora poco maturi perché la Commissione dettasse una regolamentazione a livello europeo.
La stessa Commissione ribadì, tuttavia, la necessità che gli imprenditori, mediante l’individuazione di una serie di regole, adottassero comportamenti uniformi nel mercato europeo. Ciò che interessava maggiormente era la questione del rispetto delle regole di concorrenza, soprattutto per quanto riguardava le garanzie che potevano evitare ripercussioni negative sulle parti e sui concorrenti esterni alla rete coinvolti nel mercato; le questioni prettamente civilistiche, invece, andavano momentaneamente lasciate all’autonomia contrattuale delle parti .
La mancanza di un adeguato apparato normativo contribuì perciò alla graduale affermazione di una disciplina convenzionale e di meccanismi di autoregolamentazione, che trovarono la loro massima espressione nell’elaborazione di codici deontologici : nel 1978 l’Assofranchising propose un proprio Codice deontologico che assunse maggiore rilevanza nel 1995 grazie all’adozione di un Regolamento vincolante per i soci dell’associazione ; nel 1981 venne pubblicato il “Codice europeo di deontologia del franchising” presentato dalla European Franchising Federation ed elaborato in collaborazione con la Commissione Europea ed i principali esperti in materia . L’obiettivo di quest’ultimo era quello di regolare in modo uniforme i rapporti di franchising esistenti in tutti i Paesi europei, sia da un punto di vista strettamente commerciale ravvisando in tale contratto “un sistema di commercializzazione di prodotti e/o servizi e/o tecnologie basato su una stretta e continuativa collaborazione tra imprese legalmente e finanziariamente separate ed indipendenti” , sia in una prospettiva di stampo giuridico ponendo l’accento sul contenuto del contratto, in forza del quale l’affiliante concedeva ai suoi affiliati il diritto, ed imponeva loro l’obbligo, di intraprendere un’attività economica in base al sistema elaborato dall’affiliante. Tale diritto legittimava e obbligava l’affiliato, in cambio di un corrispettivo finanziario diretto o indiretto, ad usare il nome commerciale e/o i marchi commerciali e/o i marchi relativi a prestazioni di servizi, il know-how, i metodi commerciali e tecnici, le procedure e altri diritti di proprietà industriale e/o intellettuale dell’affiliante, collegati ad una prestazione continuativa di assistenza commerciale e tecnica, secondo le condizioni di un contratto di affiliazione scritto, concluso tra le parti .
Tali codici erano stati elaborati al fine di predisporre un insieme di regole comportamentali, ispirate ai principi di correttezza e professionalità, la cui ottemperanza favoriva l’instaurazione e lo svolgimento di un rapporto di franchising corretto. Oltre a delineare i criteri da osservare ai fini della stipulazione del contratto, i codici deontologici stabilivano in modo preciso e chiaro anche le obbligazioni nascenti a carico di entrambe le parti, nonché gli elementi volti a costituire il contenuto minimo essenziale del contratto.
L’inosservanza di tali regole non aveva però nessuna conseguenza giuridica immediata nei rapporti tra le parti contraenti; tuttavia, la previsione dell’esclusione dall’associazione dei soci che disattendevano quanto previsto dal Codice rappresentava un’adeguata sanzione da un punto di vista economico, oltre a un danno lesivo di immagine per l’imprenditore . Nel frattempo, alcuni Paesi europei come Francia e Spagna cercavano già di fornire un’impostazione legislativa orientata ad assicurare ai potenziali affiliati il maggior numero di informazioni possibili circa l’attività ad essi proposta, in modo da riequilibrare la disparità informativa tra parti al momento della conclusione del contratto .
Grazie a tutte queste iniziative, il panorama regolamentare europeo iniziava a trovare una certa stabilità, anche grazie alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso “Pronuptia” , che gettò le basi giuridiche della materia, e al Regolamento della Commissione n. 4087/1988 di esenzione per categoria degli accordi di franchising .
In mancanza, quindi, di una legge specifica che disciplinasse il franchising, il maggiore problema era quello di fornire una definizione di tale istituto troppo vasta nella quale potevano anche rientrare una serie di schemi contrattuali diversi quali l’agenzia, la somministrazione, la concessione a vendere, la licenza ecc. .
Da qui ebbe inizio il periodo di maggiore interesse giurisprudenziale per il franchising, di cui ci occuperemo nei paragrafi che seguono.

1.3 La sentenza “Pronuptia”
Come precedentemente affermato, già negli anni Settanta erano state fornite le prime definizioni del contratto di franchising, ma solo nel 1986, con l’intervento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, si riuscì a migliorare il quadro; la sentenza “Pronuptia” , infatti fornì le basi giurisprudenziali in materia affermando che, nell’ambito di un sistema di franchising in materia di distribuzione, l’impresa che si sia stabilita su di un mercato come distributore e abbia così potuto mettere a punto un insieme di metodi commerciali concede, dietro corrispettivo, a dei commercianti indipendenti la possibilità di stabilirsi su altri mercati utilizzando l’insegna ed i metodi commerciali della prima. La Corte però, rilevò che, sebbene il franchising rappresentasse, per l’impresa, un modo di sfruttare economicamente, senza investire i propri capitali, un patrimonio di cognizioni, sotto un altro punto di vista, questo sistema avrebbe consentito ai commercianti sprovvisti dell’esperienza necessaria di avvalersi di metodi che essi avrebbero potuto acquisire solo dopo una lunga e laboriosa ricerca e di giovarsi della reputazione del segno distintivo del concedente.
La Corte evidenziò, inoltre, il fatto che i contratti di franchising in materia di distribuzione si differenziano dai contratti di concessione di vendita o da quelli che vincolavano i rivenditori autorizzati in un sistema di distribuzione selettiva, i quali non contemplavano né l’uso della stessa insegna, né l’applicazione di metodi commerciali uniformi né il pagamento di compensi per i vantaggi concessi.
Come si può notare, la Corte descrisse in maniera molto dettagliata la funzione economica del contratto, facendo espresso riferimento soltanto ai contratti aventi per oggetto la distribuzione di prodotti, caratterizzati dal fatto che il franchisor trasmette al franchisee dei metodi di vendita (know-how commerciale) nonché la possibilità di utilizzare l’avviamento collegato ad un segno distintivo che contraddistingue la rete.
Ciò significa che i principi della sentenza non sono necessariamente applicabili a situazioni diverse da quelle considerate, come ad esempio il franchising di servizi o forme di franchising basate unicamente sull’immagine della rete non implicanti la cessione di know-how commerciale. Inoltre, la sentenza aveva sottolineato la differenza tra franchising di distribuzione e concessione di vendita; questo problema sorgeva esclusivamente nei paesi europei, ma non negli Stati Uniti, poiché, la concessione di vendita non esisteva all’interno dei Paesi di civil law .
La sentenza ha sollevato un grande problema: ci si chiedeva, infatti, se il franchising fosse contrario alle regole comunitarie in quanto limitativo della concorrenza.
La Corte, nella sua pronuncia, decise che il franchising non arrecava pregiudizio alla concorrenza e non ricadeva quindi nel divieto dell’art. 81 del Trattato CE nel caso in cui il franchisor “suggerisse” i prezzi di vendita al franchisee, senza quindi imporli. La decisione della Corte di non considerare il franchising contrario all’art. 81 del Trattato CE realizzava due obiettivi considerati fondamentali: da un lato, consentire che il know-how potesse essere trasferito ai franchisee senza che lo stesso andasse a vantaggio dei concorrenti del concedente, dall’altro, permettere che venisse preservata l’uniformità e la reputazione della rete.
In questo modo, la Corte ha fatto ricorso allo strumento della rule of reason che consiste in un bilanciamento tra aspetti positivi e negativi di un determinato fenomeno; tale strumento è stato utilizzato valutando una possibile restrizione concorrenziale all’interno dell’art. 81 del Trattato CE ammettendo che il franchising potrebbe essere da un lato lesivo della concorrenza, ma dall’altro, se visto nel suo complesso potrebbe essere in grado di apportare benefici al mercato.
Inoltre, la Corte ha individuato un elenco di clausole potenzialmente restrittive che potevano considerarsi, nel contesto di un contratto di franchising, non sottoposte al divieto dell’art. 81 del Trattato CE.
Si tratta, in particolare, delle clausole seguenti.
a) Obbligo di non concorrenza: si tratta del divieto imposto al franchisee “di aprire durante la vigenza del contratto o durante un adeguato periodo dopo la scadenza dello stesso, negozi per l’esercizio di attività identiche o simili in zone in cui egli possa trovarsi in concorrenza con commercianti aderenti alla rete di distribuzione” .
Sembrerebbe quindi che la Corte si preoccupi di impedire la divulgazione del know-how della rete vietando al franchisee di entrare in rapporti contrattuali con eventuali concorrenti del franchisor. Tuttavia, questa interpretazione non si concilia con la limitazione territoriale dell’obbligo di non concorrenza, essendo evidente che per la divulgazione del know-how è irrilevante che il franchisee operi per il concorrente in una zona piuttosto che in un’altra . Effettuando un’analisi più approfondita è possibile ritenere che la Corte intendesse invece proteggere il franchisor dal pericolo di uno sviamento della clientela a favore dei concorrenti: infatti, quando la Corte afferma che l’obbligo di non concorrenza serve ad evitare che i concorrenti possano giovarsi, anche indirettamente, delle tecniche e dei metodi del concedente, si presume che intenda riferirsi non tanto al know-how in quanto tale, ma all’avviamento costruito grazie a questo.
Questo dovrebbe spiegare il fatto per cui si vieti al franchisee lo svolgimento di un’attività concorrente unicamente nelle zone in cui operano altri affiliati, in cui esiste quindi un avviamento da tutelare, e per quanto riguarda anche il divieto postcontrattuale, solo per un periodo di tempo limitato .
b) Obbligo di vendere esclusivamente prodotti forniti dal franchisor. Nell’ottica di consentire il controllo sull’omogeneità della rete, la Corte ha ritenuto che debba essere consentito al franchisor di controllare l’assortimento di tipologie merceologiche offerte al franchisee, in modo da garantire che il cliente possa trovare presso ogni negozio affiliato merce della stessa qualità. In alcuni casi però (ad es. per gli articoli di moda) risulta impossibile stabilire criteri oggettivi, mentre in altri (ad es. quando la rete è composta da un numero molto elevato di franchisee) il controllo può rivelarsi troppo costoso; la Corte ha perciò concluso che “in tali circostanze la clausola che impone all’affiliato di vendere solo merci fornite dal franchisor o da fornitori scelti dallo stesso va considerata necessaria alla tutela della reputazione della rete distributiva” e quindi compatibile con l’art. 81 del Trattato CE, purché non si impedisca all’affiliato di procurarsi le merci anche presso altri franchisee . L’affermazione della Corte consente quindi, almeno nei casi in cui il controllo sulla qualità dei prodotti non appaia possibile, non solo di vietare al franchisee la vendita di prodotti concorrenti con quelli del concedente, ma anche di condizionare l’assortimento di prodotti non concorrenti venduti nel negozio affiliato.
c) Divieto di cessione del negozio: la Corte definisce “l’obbligo del concessionario di non cedere il negozio senza il consenso del concedente” riferendosi soprattutto alla cessione a terzi dei locali, cioè del luogo che la clientela ricollega all’immagine della rete di franchising. Detta clausola – ritenuta ammissibile dalla Corte - mira ad evitare che i concorrenti si giovino indirettamente del patrimonio di cognizioni e di tecniche fornito e dell’assistenza prestata al concessionario. Infatti, uno dei rischi maggiori per il franchisor è quello che un concorrente possa creare un punto vendita negli stessi locali in cui operava precedentemente un membro della rete, deviando a proprio vantaggio la clientela del primo titolare del punto di vendita.
d) Obbligo di applicare i metodi commerciali elaborati dal franchisor: si tratta “dell’obbligo del concessionario di applicare i metodi commerciali elaborati dal concedente e di avvalersi del patrimonio di cognizioni e di tecniche fornitegli” che rappresenta la conseguenza logica del carattere unitario della rete. Anche se non è detto espressamente, la pattuizione non consente di coprire l’imposizione di obblighi altrimenti incompatibili con le norme sulla concorrenza (ad es. l’imposizione dei prezzi).
e) Obbligo di vendere esclusivamente dai locali autorizzati: si tratta di una limitazione posta al franchisee al fine di garantire l’uniformità e la reputazione della rete. Il concessionario ha quindi l’obbligo di “vendere le merci oggetto del contratto solo nei locali allestiti e decorati in base alle istruzioni del concedente” e di “non cambiare l’ubicazione del negozio senza il consenso del concedente” .
La clausola in esame sembrerebbe inoltre implicare che l’affiliato non possa neanche aprire nuovi negozi in franchising senza il consenso del concedente; infatti, se lo spostamento dell’ubicazione del negozio esistente richiede l’assenso del franchisor, ciò dovrebbe valere anche per l’apertura di un nuovo punto vendita. La norma non chiarisce però se il controllo del franchisor possa spingersi oltre quanto necessario a garantire l’uniformità e la reputazione della rete: questo aspetto costituisce proprio uno dei punti più discussi e controversi della sentenza.
f) Divieto di cedere il contratto e scelta discrezionale dei franchisee: non è contrario all’art. 81 del Trattato CE “il divieto, imposto al concessionario, di trasferire diritti ed obblighi derivanti dal contratto, senza il consenso del concedente”, in quanto ciò serve a salvaguardare “il diritto di quest’ultimo di scegliere liberamente i concessionari” . Questo punto, oltre a confermare la liceità del divieto di cedere il contratto, chiarisce che nel contesto del franchising anche una selezione dei rivenditori puramente discrezionale, e quindi tipicamente quantitativa , non ha carattere restrittivo.
g) Controllo sulla pubblicità: la Corte ha considerato compatibile con l’art. 81 del Trattato CE l’eventuale clausola “che subordini qualsiasi pubblicità da parte del concessionario al consenso del concedente”, purché tale controllo si riferisca soltanto “alla natura della pubblicità” . Il riferimento dovrebbe riguardare soltanto il modo di fare pubblicità, e non il suo contenuto, per evitare che si venga a controllare la politica dei prezzi del franchisee, la quale non può essere sottoposta a limitazioni.
L’apertura mostrata dalla Corte nell’applicazione della rule of reason ad una serie di pattuizioni tipiche del contratto di franchising è stata controbilanciata da un atteggiamento estremamente restrittivo riguardo alla clausola che consente di attribuire al franchisee una zona esclusiva, proteggendolo dalla concorrenza intra-brand degli altri membri della rete. Il testo della sentenza afferma che esistono clausole restrittive della concorrenza tra i componenti della rete di distribuzione che in realtà non sono necessarie per la protezione del patrimonio di cognizioni e di tecniche fornite o per la preservazione dell’identità e della reputazione della rete. È questo il caso delle clausole che ripartiscono i mercati fra concedente e concessionari o fra concessionari, o che impediscano a questi ultimi di farsi concorrenza tra loro al livello dei prezzi.
A questo proposito, occorre richiamare l’attenzione sulla clausola che fa obbligo al concessionario di vendere le merci oggetto del contratto solo nel locale di quest’ultimo e che vieta allo stesso di aprire un altro negozio. La sua reale portata emerge se essa viene esaminata in relazione all’impegno del concedente di garantire al concessionario l’uso esclusivo del segno distintivo concessogli in una determinata zona. Per “onorare” questo impegno assunto nei confronti del concessionario, il concedente non solo deve obbligarsi a non stabilirsi nella zona considerata, ma deve inoltre esigere che gli altri
concessionari si impegnino a non aprire altri negozi.
La combinazione di clausole di questo tipo si risolve in una ripartizione di mercati fra il concedente e i concessionari o fra concessionari e quindi restringe la concorrenza nell’ambito della rete di distribuzione.
Una tale restrizione costituisce una limitazione della concorrenza ai sensi dell’art. 81 del Trattato CE, qualora concerna un segno distintivo già molto diffuso. Potrebbe, infatti, verificarsi che il potenziale concessionario decidesse di non affrontare il rischio di entrare a far parte della catena di distribuzione investendo il proprio denaro, pagando un diritto d’ammissione relativamente elevato e impegnandosi a versare un cospicuo compenso annuale se non potesse sperare, grazie ad un determinato grado di protezione contro la concorrenza del 21 concedente e di altri concessionari, nella redditività del suo esercizio commerciale .
In sostanza, la Corte precisa una clausola che obbliga il franchisee a vendere la merce solo nel negozio menzionato nel contratto e gli impedisce di aprire altri negozi senza il consenso del franchisor, ma quest’ultimo deve impegnarsi a garantire l’uso esclusivo dei segni distintivi all’interno di una determinata zona. Anche questa affermazione della Corte però è molto criticata dalla dottrina, in quanto si afferma che bisognerebbe fornire un’interpretazione più estensiva di quest’ultima: quindi il fatto di vincolare il franchisee ad operare in un certo ambito territoriale, non permettendogli di espandersi attraverso l’apertura di nuovi punti vendita, sarebbe contrario all’art. 81 del Trattato CE in quanto porterebbe ad una ripartizione di zone tra franchisee .
Seguendo tale interpretazione, tutti i contratti di franchising che prevedano il divieto per il franchisee di aprire nuovi punti vendita senza il consenso del franchisor , necessiterebbero di un’autorizzazione e potrebbero essere considerati legittimi solo se conformi al Regolamento di esenzione 2790/99 . Esiste, però, anche un’altra interpretazione fornita dalla dottrina, secondo cui il divieto di aprire nuovi negozi sarebbe contrario all’art. 81 del Trattato CE, soltanto nel caso in cui sia riconosciuta ai franchisee una zona esclusiva; perciò solo i contratti di franchising senza esclusiva di zona che non contengano ulteriori clausole restrittive, potrebbero essere considerati legittimi.
Per completare il quadro giurisprudenziale degli Anni Ottanta è possibile citare altri due casi riguardanti il franchising: il primo riguarda la vicenda della G. Coll. del 1986 nella quale i giudici hanno riscontrato nel presunto franchising un uso illegittimo. La G. Coll. aveva stipulato con undicimila soggetti un contratto denominato franchising, chiedendo ad ognuno di essi il versamento di una somma in parte destinata per poter usufruire di un campionario di prodotti di scarso valore e in parte a titolo di entry fee. L’impegno per ogni franchisee consisteva non solo nella vendita dei pochi prodotti che avevano potuto acquistare, ma anche nel reclutamento di nuovi aderenti da inserire nell’organizzazione.
I giudici valutarono perciò che tale attività non poteva rientrare nella categoria del franchising ma consisteva in una vendita piramidale giuridicamente inammissibile .
L’altro caso riguarda invece l’azienda Benetton in cui si è discusso se fosse ammissibile un rapporto contrattuale che prevedeva l’esclusiva territoriale a favore di un solo contraente e non dell’altro:il franchisee non poteva cioè vendere nella città di Lecce prodotti diversi da quelli del franchisor, ma quest’ultimo poteva aprire nella stessa città altri punti vendita in concorrenza con il primo. Il Tribunale di Lecce è stato quindi chiamato a giudicare il caso del franchisor che, sia in prima persona che mediante società collegate operi a pochi metri di distanza dall’esercizio commerciale già esistente di un altro franchisee.
I giudici hanno stabilito in questo caso che l’esclusiva reciproca non è un effetto naturale del contratto di franchising, ma deve, di volta in volta, essere prevista dalle parti .

1.4 Il Regolamento CEE n. 4087/88 sugli accordi di franchising
Il passo successivo rispetto al caso “Pronuptia” è stato il Regolamento n. 4087/88 , entrato in vigore nel 1989, dedicato specificamente al franchising; esso forniva una definizione di tale figura basata sull’applicazione delle norme sulla concorrenza piuttosto che una definizione civilistica del contratto ; e lasciava perciò ampio spazio all’autonomia negoziale in sede di determinazione delle regole contrattuali .
Tale regolamento, infatti, non nasceva con l’intento di fornire una disciplina organica al fenomeno contrattuale, ma con l’obiettivo di stabilire quali obbligazioni all’interno di un accordo di franchising fossero da considerarsi lesive della concorrenza, e dunque vietate. L’art. 1.3 del Regolamento definiva il franchising come un “accordo per mezzo del quale un’impresa, il franchisor, accorda ad un’altra, il franchisee, in cambio di diretta o indiretta compensazione finanziaria, il diritto di utilizzare un franchise allo scopo di commercializzare specifici tipi di beni e/o servizi”.
Pertanto, tale figura contrattuale comprende gli obblighi per l’affiliato di utilizzare una denominazione o un’insegna commerciale comune al franchisor e di effettuare una presentazione uniforme della sede e, per l’affiliante, gli obblighi di comunicazione del know-how e di prestare un’assistenza continua in campo commerciale o tecnico per l’intera durata dell’accordo.
Lo stesso articolo forniva una definizione di franchising descrivendolo come “un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know-how o brevetti da utilizzare per la rivendita di beni o per la prestazione di servizi ad utilizzatori finali” e proprio tale nozione ha poi portato i singoli Paesi Europei a cercare di uniformarsi adattando le proprie legislazioni nazionali.
È da osservare che la Commissione considerava il franchising come un sistema per sfruttare finanziariamente un insieme di conoscenze , piuttosto che come sistema di produzione.
Il Regolamento individuava tre gruppi di clausole contrattuali ricorrenti nei contratti di franchising, in base al grado di interferenza rispetto alle regole comunitarie di concorrenza.
Il primo gruppo, indicato come “white list” , era costituito da un elenco non tassativo di clausole ricorrenti che, di regola, non costituivano restrizioni della concorrenza e che comunque erano essenziali per tutelare la reputazione e l’identità comune della rete o per impedire che il know-how e l’assistenza andassero a creare un vantaggio per i concorrenti.
Il secondo gruppo, la “grey list” , era costituito da un elenco di clausole che prevedevano obblighi restrittivi della concorrenza, ma che rendevano possibile l’instaurarsi di una rete coerente e, quindi, godevano dell’esenzione, purché fossero rispettate certe condizioni volte a salvaguardare l’autonomia del franchisee.
Il terzo gruppo, denominato “black list” , era costituito da una serie di clausole la cui previsione escludeva il contratto di franchising in questione dall’esenzione automatica, perché comportavano restrizioni che rientravano nel disposto dell’art. 81 del Trattato CE e, al tempo stesso, comportavano effetti negativi per la produzione, la distribuzione, il progresso tecnico ed economico.
Dette clausole comprendevano la fissazione del prezzo da parte del franchisor, il divieto per il franchisee di rifornirsi presso altri produttori di prodotti equivalenti a quelli del franchisor, di contestare la validità dei diritti di proprietà intellettuale o industriale trasmessigli o di utilizzare il know-how alla scadenza del contratto, ove fosse divenuto, non per fatto del franchisee, noto o di facile accesso .
Il Regolamento, inoltre, distingueva tre tipologie di franchising, riprendendo comunque la tradizionale ripartizione utilizzata nella prassi commerciale: il franchising “industriale”, che riguardava la produzione di beni, il franchising “in materia di distribuzione”, che riguardava la vendita di merci e il franchising “in materia di servizi”, che si riferiva alla “prestazione di servizi in conformità con le istruzioni del concedente e sussidiariamente alla fornitura di beni direttamente connessa con la prestazione di servizi” .
Il Regolamento in esame è scaduto il 31 dicembre 1999 .

1.5 Il Regolamento CEE n. 2790/99 sulle intese verticali
È noto che, nel caso in cui due o più imprese definiscano in modo interdipendente le loro strategie ed il loro comportamento all’interno di un mercato, si viene a creare un danno per la concorrenza; per questo motivo esistono alcune norme che vietano l’esistenza di tali intese, tra i quali il Regolamento CEE n. 2790/99.
Con il termine “intese verticali” ci si riferisce, quindi, agli accordi conclusi tra imprese operanti a diversi stadi della catena produttiva che hanno per oggetto le condizioni di acquisto, vendita e rivendita allo scopo di restringere la concorrenza .
Prima dell’emanazione dei Regolamenti n. 4087/88 e n. 2790/99 ci si basava sulle regole di concorrenza comunitarie stabilite dall’art. 81 del Trattato CE nel quale, però, non era chiaro se il divieto di intese restrittive in esso contenuto riguardasse anche le intese verticali. Si sosteneva che tali accordi, non essendo stipulati tra imprese in competizione tra loro, non restringessero realmente la concorrenza; non era dello stesso parere la Corte di Giustizia che, con la sentenza Grundig-Consten , chiarì che non doveva essere effettuata nessuna distinzione tra imprese concorrenti allo stesso stadio economico e imprese non concorrenti.
Dopo l’abrogazione del Regolamento n. 4087/88 sugli accordi di franchising, già esaminato nel paragrafo precedente, il 22 dicembre 1999 è stato approvato in sua sostituzione il Regolamento CEE n. 2790/99 , relativo all’applicazione dell’art. 81 par. 3 del Trattato CE, a categorie di accordi verticali e pratiche concordate efficace fino al 31 maggio 2010.
Va, comunque, osservato che tale Regolamento non disciplina specificamente il franchising, ma ha portata generale e regolamenta tutto il mercato della distribuzione all’interno del territorio europeo.
Esso, infatti, ha sostituito non solo il precedente Regolamento n. 4087/88 sugli accordi di franchising, ma ne ha sostituiti contemporaneamente altri riguardanti differenti tematiche ; gli operatori del franchising non trovano più, quindi, un  precisa definizione delle parti così come accadeva in precedenza, poiché nel nuovo testo s’impiegano i termini “acquirente” e “fornitore” di portata generale
Inoltre, il Regolamento n. 2790/99 presenta un’impostazione totalmente atipica, sia rispetto al Regolamento precedente che ad altre normative comunitarie: si presenta in forma di breve articolato con soltanto tredici articoli, da integrare con le “Linee direttrici sulle restrizioni verticali” pubblicate il 13 ottobre 2000 sulla G.U.C.E., che si occupano specificamente del franchising in alcuni punti e che stabiliscono le obbligazioni necessarie per la realizzazione di tali accordi; tali obblighi sono considerati necessari per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale contenuti in un istituto come il franchising.
Gli accordi verticali di cui si occupa il Regolamento n. 2790/99 sono quelli che la Commissione considera relativi all’acquisto o la vendita di beni o servizi, nei casi in cui tali accordi siano conclusi tra imprese non concorrenti, fra talune imprese concorrenti o da talune associazioni di dettaglianti di beni. Si includono in questa categoria di accordi anche quelli che contengono disposizioni accessorie relative alla cessione o all’uso di diritti di proprietà intellettuale, mentre sono esclusi gli accordi verticali contenenti restrizioni gravemente concorrenziali, come l’imposizione di un prezzo di rivendita minimo (o prefissato) per beni e servizi o la presenza di zone di protezione territoriale non comprese nelle quote di mercato delle imprese interessate.
È comunque da rilevare che, rispetto ai regolamenti sostituiti, il Regolamento n. 2790/99, ha ridotto il numero delle clausole ritenute lesive della concorrenza non esentabili a prescindere dalla quota di mercato.
Il franchising rientra nell’ambito di applicazione di questo Regolamento in quanto accordo di restrizione verticale che contempla obblighi di non concorrenza in relazione ai prodotti oggetto dell’accordo e contiene precise indicazioni relativamente alle località di insediamento o alle zone di competenza esclusiva. Gli accordi di franchising, secondo la Linee direttrici consistono nella concessione di una licenza relativa ad un insieme di diritti di proprietà immateriale che riguardano in particolare marchi o insegne e know-how, per l’uso e la distribuzione di beni o servizi. Oltre alla licenza sui diritti di proprietà immateriale, il franchisor fornisce al franchisee un’assistenza tecnica o commerciale durante tutto il periodo di vigenza del contratto e quest’ultimo paga un corrispettivo per l’utilizzazione della specifica formula commerciale del franchisor.
Le licenze nell’ambito degli accordi di franchising rientrano nell’esenzione per categoria, nella misura in cui l’accordo o le clausole contenute in esso siano necessarie e direttamente connesse alla vendita di beni o servizi.
Il Regolamento, all’art. 3, descrive l’esenzione generale in base alla “quota di mercato detenuta”; per quanto riguarda il franchising, l’esenzione per tale accordo si applica se, considerando il volume di vendita dei franchisee ove sussiste l’obbligo di fornitura esclusiva, il franchisor o fornitore esclusivo per la rete, detiene una quota di mercato non superiore al 30% del mercato rilevante in cui opera.
Nel caso in cui la quota superi tale limite , l’esenzione automatica del Regolamento non sarà applicabile e gli accordi di franchising interessati dovranno chiedere un’autorizzazione specifica alla Commissione.
La quota di mercato in questione si calcola sulla base delle vendite di beni o sulla fornitura di servizi oggetti del contratto, in relazione ai volumi delle vendite sul mercato. Qualora non siano disponibili dati relativi al valore delle vendite, la quota di mercato dell’impresa interessata può essere stabilita utilizzando stime basate su altre affidabili informazioni di mercato .
Secondo le Linee direttrici, però, esistono accordi verticali di importanza minore che non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 81 del Trattato CE ; pertanto, il Regolamento non riguarda gli accordi di franchising relativi ad una quota di mercato inferiore al 10% che possono non avere un effetto significativo sul commercio tra gli Stati dell’Unione Europea o non costituiscono una limitazione sensibile alla concorrenza .
Il Regolamento, inoltre, vieta al franchisor di imporre all’affiliato un prezzo di rivendita dei beni , ma ammette soltanto la facoltà del primo di imporre un prezzo massimo o di suggerire un prezzo di vendita . Inoltre, il Regolamento permette ai franchisee di poter realizzare delle vendite “passive”, definite dalle Linee direttrici come le operazioni effettuate tramite Internet per la pubblicità e la vendita dei prodotti , anche se il franchisor ha la possibilità di limitare tale attività per ragioni obiettive .
Il nuovo Regolamento, così come il precedente, mantiene il divieto delle clausole che vietano al franchisee di vendere o di approvvigionarsi, attraverso altri affiliati, dei prodotti commercializzati dalla rete; inoltre, esso mantiene la possibilità di concedere dei territori in esclusiva o clientela esclusiva ai franchisee in origine riservate al franchisor.
È anche possibile inserire nel contratto la proibizione di realizzare delle vendite attive al di fuori del locale del franchisee .
Gli accordi possono prevedere l’obbligo imposto agli affiliati di approvvigionamento in esclusiva presso il franchisor, ma solo se è necessario per mantenere l’identità della rete di franchising e comunque quelli che prevedono una quota maggiore dell’80% non possono avere una durata superiore a cinque anni; trascorso tale periodo, il franchisee potrà comunque includere nella gamma di prodotti un 20% di articoli estranei alla rete.
L’art. 5 consente di inserire nei contratti di franchising un obbligo che imponga al franchisee, una volta giunta la scadenza del contratto, di non produrre, acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi nell’anno successivo; quest’obbligo post-contrattuale, indispensabile per proteggere il know-how , deve però essere limitato ai locali dove ha operato il soggetto durante il periodo contrattuale e solo nella misura in cui esso sia indispensabile per proteggere il know-how trasferito .
Inoltre, le Linee direttrici forniscono un ampio elenco di comportamenti che il franchisee dovrebbe rispettare allo scopo di tutelare i diritti di proprietà immateriale del franchisor , egli, infatti, sarà tenuto a non intraprendere, direttamente o indirettamente, attività simili, a non rivelare a terzi tali informazioni finché il know-how non sia divenuto di dominio pubblico, a comunicare al franchisor qualsiasi esperienza acquisita sfruttando il franchising, a segnalare le violazioni dei diritti di proprietà intellettuale sotto licenza e intraprendere azioni legali contro i trasgressori, a non utilizzare il know-how concesso in licenza a fini diversi dallo sfruttamento del franchising e, infine, a non cedere i diritti e gli obblighi derivanti dall’accordo senza il consenso del franchisor.
L’applicazione del Regolamento in esame può essere revocato dalla Commissione qualora constati la presenza di pratiche anticoncorrenziali; lo stesso potere spetta ad autorità competenti degli Stati membri (in Italia all’Antitrust, qualora ravvisi tali effetti nel proprio territorio) .
La nuova impostazione adottata per il Regolamento n. 2790/99 è il frutto dell’intenzione della Commissione di utilizzare un approccio maggiormente attento agli aspetti economici rispetto ai precedenti regolamenti. Il regime delle intese verticali presenta il vantaggio di assicurare una maggiore certezza giuridica per quanto riguarda il contenuto dell’accordo, nonché una maggiore flessibilità ed adattabilità alle esigenze emergenti nel settore della distribuzione.

1.6 La nuova legge italiana sul franchising: Legge n. 129 del 2004
Decorsi più di trent’anni dall’ingresso del franchising sulla scena economica italiana, e nonostante la sua diffusione soprattutto a partire dagli anni Novanta, gli operatori del settore sembravano condividere la scelta di non regolare tale fattispecie .
Questo perché il franchising si sviluppò molto velocemente raggiungendo un notevole grado di espansione e si temeva che, con l’introduzione di una disciplina unitaria e rigida, si sbloccasse lo sviluppo e l’adattabilità alle diverse esigenze.
Si temeva, inoltre, che una legge in questo campo, come successe in altri ambiti, caricasse gli operatori di oneri burocratici troppo elevati e inutili .
La normativa comunitaria appena esaminata, invece, fornì una grande spinta verso la volontà di redigere una vera e propria legge che regolasse in modo specifico ed uniforme il franchising in tutti i Paesi europei.
Per quanto riguarda l’Italia, molti progetti di legge sono stati presentati nel corso delle precedenti legislature al Parlamento italiano; tra i più importanti è opportuno ricordare il progetto di legge n. 2093 presentato al Senato nel 1997 che pone l’accento sul pagamento di una fee d’ingresso e di royalties da parte dell’affiliato con l’obbligo di assistenza gravante sull’affiliante, nonché quello di concedere vari diritti di proprietà industriale e di trasmettere il proprio know-how.
Ulteriore intervento legislativo si è avuto nel 2000 con il decreto legislativo approvato il 4 luglio 2000 dalla Commissione industria, commercio e turismo, che ha introdotto alcune novità importanti in tema di strumenti di incentivazione all’auto-impiego e conseguentemente ai fruitori del contratto di franchising .
Successivamente, furono presentati altri quattro disegni legge che vennero unificati e diedero vita alla nuova legge italiana sul franchising del 6 maggio 2004 denominata “Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale” , entrata successivamente in vigore il 25 maggio 2004.
Si tratta di un testo legislativo composto da un numero ridotto di articoli , ma che, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe apportare correttezza e trasparenza nei rapporti di franchising e bilanciare il maggiore potere contrattuale del franchisor cercando di tutelare l’affiliato mediante una serie di prescrizioni e formalità da osservare nel momento della stipula del contratto e nei suoi contenuti .
Parte della dottrina sostiene che gli obiettivi principali sono quindi la salvaguardia di entrambe le parti e la volontà di garantire la libera espressione dell’autonomia privata .
La legge concerne quindi determinati obblighi precontrattuali di disclosure da parte dell’affiliante e dell’aspirante affiliato, vale a dire la necessità che ciascuna parte fornisca all’altra informazioni ritenute indispensabili , o comunque dati “necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto” in questione .
Anche se non sembra immediatamente evidente, un’altra parte della dottrina sostiene che la legge tutela anche il franchisor poiché gli consente di operare in un contesto chiaro e di poter ragionare compiutamente sui notevoli investimenti che comporta la decisione di costituire e gestire una rete di distribuzione in franchising .
Tuttavia, molte critiche sono state rivolte a questa legge da parte della dottrina , poiché questa sarebbe meramente “definitoria” rispetto al franchising e proprio per questo motivo apparentemente inutile : i caratteri del contratto infatti erano già stati ampiamente definiti dagli interventi legislativi precedenti e soprattutto dalla prassi del mercato. I critici sostengono che questa legge ordina e regola in modo organico il franchising, ma non aggiunge nessun tipo di novità rispetto a ciò che era stato affermato in passato, precisando che la Legge n. 129/2004 non rappresenta la vera legge sul franchising , ma vuole soltanto evitare che aspiranti imprenditori vengano indotti a corrispondere somme ai franchisor senza ottenere nulla in cambio.
La legge si sofferma soltanto sulla fase di formazione del contratto e non contiene disposizioni che regolino veramente il contratto, come, per esempio, lo scioglimento dello stesso, l’obbligo del franchisee di utilizzare marchi ed insegne del franchisor ecc..
Inoltre, la legge si occupa di una parte ristretta delle problematiche operative legate a questa figura e si concentra soltanto sulla disciplina del contenuto e delle formalità di conclusione del contratto .
Sebbene le norme che compongono la legge abbiano natura imperativa , parte della dottrina dichiara che le sanzioni per la loro violazione sono differenziate; infatti, se vengono violate le norme che pongono obblighi di informazione, sorgerà una responsabilità per danni, salvo che siano fornite informazioni false ; se non viene rispettata la prescrizione di forma, il contratto risulterà nullo; se il franchisor violasse la norma che impone di aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale, o la norma che implicitamente impone di fornire un know-how, il contratto sarebbe parimenti nullo .
In conclusione, la Legge n. 129/2004 si inquadra in una specifica linea tesa a favorire la conoscenza e la trasparenza informativa nell’ambito contrattuale perseguita nel nostro ordinamento - sulla scia del legislatore comunitario – a partire dalla Legge n. 216 del 1974 in tema di sollecitazione del pubblico risparmio, ed attuata in misura sempre crescente soprattutto negli ultimi anni .
L’intenzione generale del legislatore è quella di consentire ai contraenti di essere informati con congruo anticipo circa i termini e le condizioni del contratto a loro proposto, così da permettergli di disporre del tempo necessario per valutare lo stesso. È sentita, quindi, l’esigenza di garantire un’informazione il più possibile completa ed esauriente soprattutto nei casi in cui, come nel franchising, i rapporti prenegoziali fra le parti sono viziati da “asimmetrie informative” in favore dell’una ed a svantaggio dell’altra, tali da provocare il rischio che l’esito delle trattative si riveli oneroso o insoddisfacente a discapito del soggetto meno informato .

1.7 Il Decreto ministeriale n. 204 del 2005
Il Decreto Ministeriale 2 settembre 2005, n. 204 , anche se in ritardo rispetto al termine di 90 giorni dall’entrata in vigore della Legge n. 129/2004, ha completato il quadro normativo dedicato agli obblighi di informazione precontrattuali gravanti sul franchisor.
Tali obblighi di informazione costituiscono, unitamente alla fase precontrattuale, l’elemento centrale della legge italiana sul franchising, nella quale tre dei nove articoli complessivi sono dedicati proprio alla fase precedente alla conclusione del contratto .
Nel Decreto Ministeriale n. 204/2005 sono stati precisati i contenuti di alcuni degli obblighi di informazione per quei franchisor che abbiano svolto in precedenza la propria attività all’estero; è stata quindi effettuata una differenziazione tra coloro che siano già operanti in Italia al momento della sottoscrizione del contratto e coloro che avessero invece sino a quel momento operato esclusivamente all’estero .
Per capire meglio questa scelta del legislatore, appare opportuno analizzare il contenuto dell’art. 4 della legge sul franchising in alcuni suoi punti concernenti gli obblighi in capo al franchisor e che sono descritti, in particolare ai punti d), e), f).
Per quanto riguarda il punto d), esso concerne l’obbligo di presentazione di una lista dei franchisee attivi appartenenti alla rete , così come la sua esatta composizione, comprensiva dei punti vendita di proprietà del franchisor, suddivisa per singoli Stati .
Il punto e) prevede, invece, la descrizione della variazione, anno per anno, del numero dei franchisee e del loro posizionamento in termini di ubicazione nell’ultimo triennio, con suddivisione per singoli Stati, mentre il punto f) descrive i procedimenti giudiziari o arbitrali, se esistenti, da chiunque promossi nei confronti del franchisor in relazione al sistema di franchising e che siano conclusi negli ultimi tre anni .
La maggiore preoccupazione del legislatore era, infatti, quella di evitare che, con l’imposizione di un obbligo di informazione troppo ampio, il potenziale affiliato di un franchisor che fino a quel momento avesse operato esclusivamente all’estero, fosse sommerso da una grande quantità di informazioni non selezionate e relative a tutti i mercati esteri nei quali il soggetto aveva esteso la propria rete .
Ulteriore problematica, sollevata in dottrina , era quella di indicare un termine oltre il quale l’attività del franchisor in Italia poteva ritenersi sufficientemente consolidata, con la conseguente omissione dei dati relativi ai Paesi esteri; questione non risolta dal Decreto n. 204/2005 che non ha disciplinato questo aspetto.
Nel silenzio legislativo perciò, secondo alcuni giuristi , le soluzioni interpretative potrebbero essere due.
Tra queste, la prima è basata sul contenuto del decreto secondo il quale il franchisor cesserebbe di essere considerato come “operante esclusivamente all’estero” e come tale soggetto al Decreto n. 204/2005, dal momento in cui abbia concluso ed eseguito un primo contratto di franchising in Italia; da quel momento, infatti, la sua attività verrebbe svolta anche in Italia e dunque non più “esclusivamente” all’estero.
Interpretazione, questa, che non appare, a parere di alcuni , convincente, in quanto suscettibile di eliminare di fatto qualunque distinzione tra franchisor e di porre, quindi, il potenziale franchisee del soggetto che abbia sino a quel momento operato prevalentemente all’estero nella condizione di non avere informazioni precontrattuali sufficientemente complete.
La seconda possibilità è quella di dedurre dal contenuto degli obblighi di cui all’art. 4 della Legge n. 129/2004 una durata minima che possa considerarsi in linea con il completo adempimento degli stessi: in pratica un franchisor che abbia operato solo all’estero potrà considerarsi consolidato in Italia, e come tale non più soggetto agli obblighi informativi precisati dal Decreto n. 204/2005, qualora la sua permanenza nel nostro Paese gli consenta di soddisfare correttamente tutti gli obblighi informativi di cui ai punti d), e) ed f) dell’art. 4 della Legge n. 129/2004 sopra esplicitati.
Il punto d) non crea particolari problemi in quanto riferito genericamente ai punti vendita diretti e agli affiliati presenti nella rete al momento della consegna del contratto.
Il punto e) prevede l’obbligo di indicare, anno per anno, la variazione del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni; per fornire queste informazioni la presenza del franchisor in Italia dovrebbe essere non inferiore a due anni, posto che il termine di tre anni sia espressamente indicato come riconducibile in funzione dell’effettivo inizio dell’attività.
Il punto f) invece, riferito alla conclusione di eventuali procedimenti, sembrerebbe far propendere per un allungamento a tre anni del periodo minimo di permanenza in Italia .
In conclusione, seguendo la seconda tesi interpretativa, la durata minima per poter considerare consolidata in Italia la presenza di un franchisor che abbia in precedenza operato esclusivamente all’estero può individuarsi in un triennio .
Un altro problema che sorge mettendo in relazione il Decreto n. 204/2005 con la Legge n. 129/2004 è legato al contenuto dell’art. 9 di quest’ultima che dispone la sua applicazione “a tutti i contratti di affiliazione commerciale in corso nel territorio dello Stato alla data di entrata in vigore della legge stessa”. Tale disposizione implicherebbe la mancata applicazione di tale legge ai contratti internazionali di franchising nei quali il franchisee svolga la sua attività in Italia e la conseguente violazione del principio generale di libertà nella scelta ad opera delle parti, così come previsto dalla Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali . L’art. 3 di tale Convenzione precisa che la scelta delle parti è il criterio principale di regolamentazione dei contratti internazionali e consente alle stesse di individuare la legge applicabile ad una parte soltanto del contratto. Applicando questa normativa, laddove in un contratto internazionale le parti abbiano scelto una determinata legge, le relative disposizioni saranno applicabili, a meno che non risultino contrarie all’ordine pubblico o in contrasto con norme nazionali di applicazione necessaria .
Attribuire questa regola alle disposizioni della Legge n. 129/2004 significherebbe quindi imporne l’applicazione anche a tutti i contratti internazionali di franchising nei quali sia stata legittimamente effettuata una scelta sul diritto applicabile.
Parte della dottrina sostiene che tale legge in apparenza potrebbe essere ritenuta di scarsa rilevanza in relazione ai problemi di validità ed efficacia dei contratti internazionali di franchising, in quanto essa si occupa soltanto di obblighi di informazione precontrattuali tralasciando le disposizioni dedicate alla vera e propria disciplina del contratto.
In realtà, secondo questa parte di dottrina, alla legge deve affiancarsi una complessa attività interpretativa che possa individuare anche le parti mancanti collegando le sue diverse disposizioni.
Il Decreto n. 204/2005 precisa che il proprio ambito di applicazione è limitato nei casi in cui il contratto sia sottoposto al diritto italiano chiarendo che, in riferimento ai contratti internazionali, può essere applicato solo nei casi in cui il contratto sia regolato dal diritto italiano in applicazione dei principi di cui alle norme di diritto internazionale privato.
Non sarà quindi sufficiente che il franchisee svolga la propria attività in Italia in favore di un franchisor che sino a quel momento abbia operato all’estero, ma il relativo contratto di franchising dovrà essere regolato dal diritto italiano.
Questa disposizione esclude, quindi, un’implicita qualificazione delle norme di cui alla Legge n. 129/2004 in termini di disposizioni di applicazione necessaria; l’ambito di applicazione del decreto sarebbe quindi relativo a tutti i contratti da eseguirsi sul territorio italiano, indipendentemente da quale sia la legge regolatrice scelta dalle parti.
Il legislatore italiano ha deciso invece di non considerare la Legge n. 129/2004 di applicazione necessaria, con la conseguenza che il Decreto n. 204/2005 è invocabile soltanto nei casi in cui il contratto possa considerarsi sottoposto al diritto italiano sulla base dell’operatività delle norme di diritto internazionale privato italiane.
Per tutte queste ragioni, interpretando l’art. 9 della legge sul franchising, è possibile dedurre che essa appare applicabile soltanto ai contratti in corso nel territorio italiano al momento della sua entrata in vigore, a condizione inoltre che gli stessi siano sottoposti al diritto italiano.
Per quanto riguarda i contratti internazionali di franchising, l’applicazione del diritto italiano non deriva dalla qualificazione alla stregua di norme di applicazione necessaria delle disposizioni della Legge n. 129/2004, ma dall’operatività degli ordinari principi di diritto internazionale privato .
Anche in tali contratti internazionali svolti in Italia è così affermata la normale operatività dei principi generali in tema di diritto internazionale, senza che debba attribuirsi una particolare valenza alle disposizioni di cui alla Legge n. 129/2004, con la conseguenza che il franchisor straniero può indicare l’applicazione del suo diritto nazionale per la regolamentazione del rapporto disapplicando le disposizioni di diritto italiano .
Ciò presuppone quindi che il rapporto sia effettivamente qualificabile come contratto internazionale, al contrario del Decreto n. 204/2005 il quale non è riferito necessariamente ai contratti internazionali, ma alla semplice operatività del franchisor all’estero.
Una parte della dottrina è, invece, contraria a tale deduzione, affermando che ci si trova di fronte ad una lacuna legislativa e proponendo una diversa soluzione interpretativa: i franchisees stranieri avrebbero la possibilità di limitarsi ad osservare le disposizioni legislative del proprio Paese, a condizione, però, che gli obblighi di informazione precontrattuali vigenti siano in grado di assicurare agli stessi un livello di tutela almeno paritario a quello fornito dalla Legge n. 129/2004 .
In conclusione, anche se vi sono contrasti in dottrina, il contributo più significativo del Decreto n. 204/2005 è quello relativo all’implicita esclusione della qualificazione in termini di norme di applicazione necessaria delle disposizioni della legge italiana sul franchising.

CAPITOLO 2: Disciplina generale del franchising

2.1 Nozione
Il rapporto di franchising è inquadrato all’interno della categoria dei “contratti di distribuzione”, che riunisce tutti quei rapporti in cui sono presenti imprenditori operanti a diversi stadi del processo economico di produzione e distribuzione .
Caratteristica distintiva di tali contratti è la promozione, da parte del distributore, delle vendite dei beni del produttore, attività che può consistere nel contattare i potenziali acquirenti proponendogli l’acquisto, o nel porre in essere una campagna pubblicitaria predeterminata, almeno nelle sue linee essenziali, dal produttore, o nell’attrezzare le vetrine e l’arredamento del locale secondo le direttive di quest’ultimo. Si tratta di contratti di durata caratterizzati da una certa stabilità e continuità del rapporto, in cui si realizza un’integrazione fra produttore e distributore e fra tutti i distributori facenti capo allo stesso produttore .
La figura centrale di questa categoria è la concessione di vendita, che sarà messa in relazione con il franchising in questo paragrafo.
I contratti di distribuzione possono essere distinti in base al grado di integrazione economica che favoriscono tra le parti, che è tanto più elevato nei rapporti caratterizzati, oltre che dalla continuità e dall’esclusiva, dall’ulteriore elemento della condivisione tra le parti dei segni distintivi e, talvolta, delle metodologie commerciali: in questa categoria rientrano perciò la concessione di vendita e le sue varianti.
Al massimo grado di integrazione economica si colloca il franchising cui si affianca, oltre agli elementi indicati precedentemente, il coordinamento continuativo tra i componenti della rete.
Per quanto, più in particolare, riguarda la concessione di vendita, essa è definita come un contratto a prestazioni corrispettive di durata intercorrente tra imprenditori, fondato su un nesso indissolubile di scambio e collaborazione, in base al quale il concessionario, agendo in veste di acquirente-rivenditore, assume stabilmente l’incarico di seguire la commercializzazione dei prodotti del concedente, in cambio di una posizione privilegiata nella rivendita . In base a tale convenzione, si realizza la cosiddetta “distribuzione integrata verticale”, secondo la quale il produttore non rivende direttamente alla clientela (distribuzione diretta) , né si affida ad agenti ed intermediari (distribuzione indiretta) , ma vende al distributore, con il quale instaura uno stretto rapporto di collaborazione .
Il concessionario si assume l’obbligo di promozione delle vendite organizzando campagne pubblicitarie, svolgendo attività di assistenza e garanzia post-vendita nei confronti della clientela , allestendo il locale adibito per la rivendita secondo gli standards impartiti dal concedente e mantenendo il magazzino sempre rifornito.
Il concedente conserva poteri di controllo e indirizzo sull’attività svolta dal concessionario, che si esplicano nell’imporre determinate strategie di mercato, consigliare o imporre prezzi da praticare ecc. .


Alcuni ritengono sia nato molto tempo prima, ma mancano le testimonianze per dimostrarlo.
Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pag.2.

Cfr. A. Frignani, Factoring, Leasing, Franchising, Venture Capital, Leveraged buy-out, Hardship clause, Countertrade, Cash & Carry, Merchandising, Know-how, Securitization, 6^ ed., Torino, 1996, pagg. 130 ss..

In Italia la nascita del franchising risale al settembre 1970, anno nel quale venne creato a Fiorenzuola (Pc) il primo affiliato della azienda Gamma, un’impresa della grande distribuzione, assorbita poi dalla Standa.

Assofranchising è, come indicato dall’art. 3 del proprio Statuto, un’associazione senza scopo di lucro che si propone di “rappresentare gli interessi generali del franchising in Italia e all’estero”, nonché di “rappresentare, difendere e promuovere, in Italia e all’estero, gli interessi economici, sociali e professionali dei suoi Soci Franchisors”, oltre che promuovere iniziative e scambi di informazione al fine di qualificare e valorizzare il franchising.

Dati reperiti dal sito www.assofranchising.it/informazioni_statistiche.htm

Per l’analisi di tale provvedimento si rimanda al Capitolo 3

Tali erano le intenzioni del legislatore durante i lavori preparatori come per esempio la Relazione alla proposta di Legge n. 1523, presentata alla Camera dei Deputati il 24 agosto 2001, e la Relazione al d.d.l. n. 19 d’iniziativa dei Senatori Maconi, Grosso, Pasquini e Piatti, comunicato alla Presidenza del Senato il 30 maggio 2001. Queste intenzioni, così come si potrà leggere nello svolgimento del testo, secondo molti studiosi del diritto non si è realmente concretizzato nella redazione della Legge del 2004.

Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studiami Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.

Che a sua volta deriva dalla radice franco renana “ frank”.

Cfr. A. Finessi., La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.

Cfr. M. Bessone, Lineamenti di diritto privato, 6^ ed., Torino, 2006, pagg. 582-583.

Cfr. www.assofranchising.it alla voce “Che cos’è il franchising”.

Cfr. www.assofranchising.it alla voce “Codice deontologico della federazione italiana del franchising”, art. 1.

Cfr. A. Luminoso, Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore V., Torino, 2001, pag. 905, secondo cui, nell’ambito dei contratti di distribuzione, si è venuta a creare una gamma sfumata di modelli organizzativi che permettono di coordinare variamente la fase produttiva con quella distributiva, attraverso un fenomeno economico di “integrazione verticale”.

La distribuzione può avere ad oggetto non solo beni ma altresì servizi.

Ad esempio su come arredare i locali in cui si svolge la vendita; oppure circa quali materiali usare per la fabbricare i beni.

Cfr. L. Delli Priscoli, La posizione dominante come presenza di una barriera, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1999, fasc. 2, pag. 223.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Più precisamente presso la sezione Direzione generale “Mercato interno”.

Cfr. E.M. Tripodi, La disciplina italiana del franchising; brevi note alla legge 6 maggio 2004, n. 129 in Disciplina del commercio e dei servizi, 2004, fasc. 3, pagg. 511-526.

I codici deontologici, o codici di condotta, o di autodisciplina, sono un fenomeno tipico delle associazioni di imprenditori e degli ordini professionali. Essi stabiliscono, spesso in assenza di normative specifiche, o ad integrazione di esse, le regole di condotta cui gli associati o i professionisti debbono attenersi, non avendo, quindi, valore normativo erga omnes.

Associazione italiana del franchising.

Tale Regolamento è oggi denominato Codice Deontologico consultabile sul sito internet www.assofranchising.it. Esso tiene conto dell’evoluzione della disciplina legislativa, giurisprudenziale ed autodisciplinare del quadrante europeo.

Dopo una prima versione del 1972.

Nacque il problema di come gestire i rapporti tra il codice europeo e i diversi codici deontologici emessi dai singoli Paesi. La dottrina sosteneva che, trattandosi di norme di comportamento fatte proprie dalle associazioni di categoria, la disciplina da applicare dovesse ritenersi quella basata su norme meno severe.
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 167-175.

Cfr. art. 1 del Codice Deontologico europeo del franchising.

Il testo del codice deontologico è stato ampiamente criticato sia sotto il profilo della struttura che quello della tecnica redazionale. Ad esempio, esaminando il testo il lingua inglese (che risulta essere stata la lingua di lavoro nell’ultima fase preparatoria del codice, il quale invece prima portava lingua e impronta francesi) non risultava chiaro cosa doveva intendersi per “rules concernine the contract”, essendo menzionate sia regole formali che sostanziali. Oltre a ciò, nella versione pubblica distribuita a cura della Commissione CEE, la traduzione italiana risultava non solo infedele rispetto ai testi inglesi e francesi, ma altresì erronea nei termini giuridici utilizzati.
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 167-175.

28 Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.

Per la Francia cfr. la legge Doubin (legge n. 89-1008 del 31 dicembre 1989) che, per quanto riguarda i contenuti informativi da presentare al potenziale affiliato, rinvia ad un décret d’application n. 91-337 del 4 aprile 1991. Per la Spagna cfr. l’art. 62 della legge 15 gennaio 1996, n. 7 che, oltre a prevedere un registro pubblico in cui devono essere iscritti i franchisor, introduce i prospetti informativi assimilabili a quelli delle imprese sottoposte a controlli amministrativi.

Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986, pag. 353 e ss..

Regolamento Cee della Commissione del 30 novembre 1988, n. 4087/1988 concernente l’applicazione dell’art. 85, par. 3 del Trattato a categorie di accordi di franchising.

Il franchising veniva definito come “un sistema di collaborazione tra un produttore (o rivenditore) di beni od offerente di servizi (franchisor) ed un distributore (franchisee), giuridicamente ed economicamente indipendenti l’uno dall’altro, ma vincolati da un contratto, in virtù del quale il primo concede al secondo la facoltà di entrare a far parte della propria catena di distribuzione, con il diritto di sfruttare, a determinate condizioni e dietro il pagamento di una somma di denaro, brevetti, marchi, nome, insegna o anche una semplice formula o segreto commerciale a lui appartenente; inoltre il primo si obbliga a rifornire bene o servizi, mentre il secondo si obbliga a conformarsi ad una serie di comportamenti prefissati dal primo”. L’elemento essenziale sembrava dunque la trasmissione dal franchisor al franchisee di una facoltà che il secondo non aveva, a fronte di una controprestazione prevalentemente, ma non essenzialmente, monetaria.
Cfr. A. Frignani, Factoring, Leasing, Franchising, Concorrenza, 2^ ed., Torino, 1983, pag. 125.

Anche negli Stati Uniti esisteva lo stesso problema e la dottrina affermava che “il termine franchising è stato applicato indiscriminatamente a rapporti tra loro molto diversi, da impedire ogni definizione. Ad un estremo esso è la mera concessione, che una pare fa all’altra, di vendere i propri prodotti. All’estremo opposto è un accordo commerciale globale in cui il franchisor conferisce la licenza del suo marchio e del suo trade name; comunica, sotto il vincolo segreto, il suo know-how e, su base continuativa, fornisce guida e dettagli relativi al modo preciso in cui il franchisee deve gestire il suo punto di vendita”. Si è quindi concluso che il termine franchising “tende a coprire l’interezza dei contratti di distribuzione”.
Cfr. G. Santini, Il commercio, Bologna, 1979, pagg. 53 ss..

Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986, pag. 353 e ss.. La causa riguarda una grande azienda francese, Pronuptia, che vende abiti da cerimonia. L’azienda aveva stipulato un contratto di franchising con un commerciante tedesco che aveva tre sedi: Amburgo, Oldemburg e Hannover. Nel corso della lite per il pagamento delle royalties arretrate, i giudici tedeschi si rivolsero alla Corte di Giustizia della Comunità Europee per chiedere se le clausole di quel particolare contratto di franchising fossero in contrasto con le norme comunitarie in tema di concorrenza. Si trattava in particolare di clausole che prevedevano l’approvvigionamento esclusivo dei prodotti presso il franchisor e il divieto di pubblicità se non dietro approvazione del franchisor.

Per l’analisi della differenza tra franchising di distribuzione e franchising di servizi si rimanda al Capitolo 2.

Cfr. G. De Nova, voce “Franchising” in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale, volume IV, Torino, 1991, pagg. 296-308.

Ex art. 85 del Trattato CEE.

L’art. 81 del Trattato CE recita: “Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune ed in particolare quelli consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione,
b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti,
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento,
d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza,
e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.
Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto.

Cfr. L. Di Via, Alcune riflessioni sulla rule of reason e il concetto di consistenza di una restrizione della concorrenza, in Diritto commerciale internazionale, 1996, pag. 289.

Sentenza Pronuptia, paragrafo 16.

Lo stesso vale per la limitazione temporale dell’obbligo di non concorrenza postcontrattuale: se lo scopo fosse quello di proteggere la riservatezza del know-how, il divieto dovrebbe valere fino a quando questo non diventi di dominio pubblico.

Infatti, è soprattutto nel periodo immediatamente successivo al passaggio del franchisee ad un’altra rete che si presenta il rischio di uno sviamento della clientela.

Molti critici hanno osservato che nel testo italiano della sentenza è stato tradotto “di conseguenza” invece di “in tali circostanze” trattandosi perciò di un evidente errore di traduzione delle parole “in such circumstances” del testo inglese e “dans de telles conditions” del testo francese. L’errata traduzione snatura decisamente il senso delle parole della Corte, dando l’erronea impressione che le successive affermazioni abbiano carattere assoluto, mentre in realtà esse sono subordinate alla presenza dei presupposti citati sopra.

La Corte afferma il principio di libertà di vendite “incrociate” tra i membri della rete.

Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 18. Le istruzioni solitamente sono contenute nel manuale operativo che fissa le procedure che il franchisee deve seguire nella gestione del negozio.

Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 19.

Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 20.

La selezione dei rivenditori è definita “quantitativa” poiché la clausola permette al franchisor di poter decidere un numero massimo di affiliati per la propria rete. In passato questo tipo di selezione è stata molto criticata e considerata elemento negativo dalla giurisprudenza, anche se ora essa risulta essere autorizzata in base al regolamento 2790/99 analizzato successivamente al par. 1.5.

Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 22.

Cfr. sentenza “Pronuptia”, paragrafi 23 e 24.

Cfr. F. Bortolotti, Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, 2^ volume, Padova, 2007, pagg. 251-260.

Rientrerebbe quindi quasi la totalità dei contratti di franchising.

Nei casi in cui il regolamento 2790/99 non venga applicato, dovrebbero essere allora conformi ai requisiti previsti dall’art. 81, 3° comma il quale recita “Tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate inapplicabili:
- a qualsiasi accordo o categoria di accordi fra imprese;
- a qualsiasi decisione o categoria di decisioni di associazioni di imprese e
- a qualsiasi pratica concordata o categoria di pratiche concordate che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di:
a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi;
b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.

Tribunale di Firenze, 30 maggio 1986, in Impresa commerciale industriale, 1988, n. 21, 2980.

Infatti, la legge stabilisce che, mentre la vendita diretta ha lo scopo di avvicinare il produttore al consumatore finale, le vendite piramidali tendono, al contrario, a moltiplicare i livelli di vendita. Ciò che si compra non è infatti un prodotto od un servizio ma semplicemente l’accesso alla “catena”, ovvero la posizione di venditore in sé e per sé. Mentre una società che opera attraverso forme di vendita diretta retribuisce i propri agenti o venditori riconoscendo loro delle provvigioni direttamente proporzionali alla quantità o al valore del prodotto venduto, in un organismo piramidale il prodotto è solo il pretesto per reclutare altri venditori che pagheranno all'agente esclusivamente la posizione di rivenditore all'interno della piramide.
Cfr. M. Barbuto, Il franchising nella giurisprudenza prima della Legge 129/2004, in Guida al diritto (allegato a Sole 24ore), 5 giugno 2004, n. 22. Il testo può essere visualizzato anche al sito internet www.cobrand.ilsole24ore.com.

Caso Pantaleo/Benetton, Pretura di Lecce 24/10/1989 in Giurisprudenza italiana, 1991 e Tribunale di Lecce 9/2/1990 in Il Foro italiano, 1990, 2987 con nota di C. Vaccà, Interpretazione ed integrazione dei contratti di franchising.

Se n’è occupata anche la stampa italiana: cfr. F. Paggio, Tutti contro Luciano. I negozi associati contestano Benetton “Non rispetta le norme del franchising ed i punti vendita spuntano come funghi” in La Repubblica, 19 agosto 1993.

Questa situazione oggi è regolata dall’art. 3, comma 4, lettera c della legge 129/2004.

Regolamento CEE n. 4087/88 della Commissione del 30 novembre 1988 concernente l’applicazione dell’art. 85, par. 3 del trattato a categorie di accordi di franchising, GUCE n. L 359/4 del 28-12-1998.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 38-39.

Proprio per questo il Regolamento ha ricevuto molte critiche in quanto non prevedeva né obblighi di informazione, né regole specifiche riguardo al regime dello scioglimento del contratto. Tra i critici che negano il fatto che il Regolamento abbia legalmente tipizzato il franchising possiamo indicare Frignani il quale precisa che la definizione dettata dal Regolamento all’art. 1 “è priva anche dell’intenzione di precisare i contorni della figura contrattuale in quanto tale, ma solo come intesa potenzialmente restrittiva della concorrenza”.
Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pag. 5.

Cfr. G. De Nova, voce “Franchising” in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale, volume IV, Torino, 1991, pagg. 296-308.

Art. 3 del Regolamento.

Art. 2 del Regolamento.

Art. 5 del Regolamento.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 46 ss..

Definizione fornita nel “Progetto di Regolamento” n. 5, GUCE n. C 229/3 del 27-8-1987.

Dopo la scadenza è stato prorogato fino al 31 maggio 2000.

La dottrina ha sottolineato il fatto che non rientrano in tale definizione la concorrenza intrabrand (tra prodotti della stessa marca) e la concorrenza interbrand (tra prodotti dello stesso settore merceologico ma di marche diverse). Infatti, un’intesa tra distributori di prodotti della stessa marca, pur restringendo la concorrenza intrabrand, ha carattere orizzontale, non verticale, poiché le parti si trovano su uno stesso livello. Queste intese, talvolta, possono risultare sia orizzontali che verticali contemporaneamente: è questo il caso degli accordi di esclusiva collettiva stipulati tra più produttori concorrenti con un gruppo di intermediari o di utilizzatori, e degli accordi collettivi di prezzi imposti aventi per oggetto la rivendita dei prodotti di più fabbricanti.
Cfr. A. Frignani e M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, pag. 220.

Ex art. 85 del Trattato.

Sentenza della Corte di Giustizia del 13 luglio 1966, Consten e Grundig c/Commissione, cause riunite 56 e 58/64, in Racc. 1966, pag. 458.

Il Regolamento è entrato in vigore il 1° giugno 2000.

Oltre al precedente Regolamento riguardante il franchising, esso ha sostituito anche quelli della distribuzione esclusiva (Regolamento n. 1983/83 del 22 giugno 1983) e dell’acquisto esclusivo (Regolamento n. 1984/83 del 22 giugno 1983).

Chiamate anche Guidelines. Esse non hanno valore normativo ma offrono un grande supporto per la corretta applicazione del Regolamento n. 2790/99.

Punti 30, 35, 42, 43, 44, 95, 199, 200 e 201.

Punto 42.

È importante rilevare che il limite del 30% non è facilmente superabile se si tiene conto della difficoltà, per la maggioranza delle reti di franchising presenti oggi sul territorio europeo, di detenere più di quella percentuale.

Art. 9 del Regolamento.

Definiti accordi verticali de minimis.

Va, a tale proposito, osservato che al di sotto di tale soglia si trova la maggioranza delle reti di franchising operanti in Italia.

Tale clausole è definita “hard core restriction”.

Art. 4 del Regolamento.

Mentre non sono compresi i messaggi di posta elettronica inviati a singoli clienti.

Tramite le vendite passive un franchisee facente parte di una rete di franchising riesce a vendere i prodotti a consumatori proveniente da territori soggetti all’esclusiva di un altro franchisee. Per questo motivo il franchisor può limitare tale attività.

Le linee direttici definiscono le vendite attive quelle realizzate attraverso l’apertura di punti vendita e qualunque attività di comunicazione, contatto o propaganda diretta nei confronti di un consumatore individuale o di un gruppo specifico.

Le clausole possono essere diverse a seconda della tipologia di accordo: nell’ipotesi di franchising “selettivo” sarà vietato al franchisee di vendere prodotti a rivenditori non facenti parte della rete e può essere obbligato a vendere i prodotti unicamente in quello specifico negozio; nel caso invece di franchising “non selettivo” il franchisee è libero di vendere a rivenditori non facenti parte della rete i beni, ma può essere a loro vietato di effettuare vendite attive nei territori di altri affiliati o essere obbligati a rifornirsi esclusivamente presso il franchisor.

L’obbligo di non concorrenza postcontrattuale potrà essere ammesso solo in presenza del trasferimento di un know-how segreto, sostanziale ed individuato.

Si pongono così dei limiti più ristretti di quelli affermati precedentemente dalla Corte in occasione della Sentenza Pronuptia: il Regolamento prevede che il know-how debba essere segreto, sostanziale ed individuato, mentre per la Corte non dettava queste caratteristiche; il Regolamento limita la possibilità di impedire l’attività concorrenziale solo per quel negozio specifico, mentre la Corte permetteva di inibire qualsiasi attività concorrenziale nelle zone in cui operava la rete; il Regolamento fissa il limite di un anno, mentre la Corte parlava di un “adeguato periodo” dopo la scadenza del contratto. Considerato tutto ciò, il franchisor avrà interesse a puntare su clausole più ampie, conformi alla giurisprudenza della Corte.

Le Linee direttrici si riferiscono in generale ai diritti di proprietà intellettuale, e possono quindi
riguardare anche situazioni che non implichino il trasferimento di know-how e quindi riguardano anche
contratti basati unicamente sull’immagine (marchio, insegna ecc.).

Punto 44 delle Linee direttrici.

Art. 6 del Regolamento.

Art. 7 del Regolamento.
Cfr. L. Barrameda, Analisi della normativa europea in materia di franchising, dal sito internet www.infoeuropa.it/franchising/files.
Cfr. anche F. Bortolotti, Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, 2^ volume, Padova, 2007, pagg. 261-270. Parte della dottrina sostiene che se ogni Stato detiene questo potere, si potrebbe dare luogo a interpretazioni e trattamenti differenziati relativamente ad una stessa intesa.

In assenza di una normativa specifica sul franchising, ci si basava sul principio di autonomia negoziale privata prevista dall’art. 1322 c.c. che recita: “Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e dalle norme corporative. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 2-3.

Il disegno di legge è disponibile sul sito del Senato all’indirizzo www.senato.it/leg/13/BGT/Testi/Ddlpres/00002151.

Il decreto prevede che lo Stato si impegna a fornire benefici finanziari e di tutoraggio, per il primo anno a chi voglia aprire un’attività in franchising, purché sia disoccupato e residente nei territori dei nuovi obiettivi indicati dall’Unione Europea nel Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006, o nelle aree individuate dal Ministero del Lavoro in cui esiste un forte squilibrio tra domanda e offerta di lavoro.

Legge pubblicata sulla G.U. del 24 maggio 2004, n. 120, entrata in vigore il giorno successivo.

Si può notare come il legislatore abbia tradotto il termine franchising in “affiliazione commerciale”.

Soltanto 9 articoli.

Cfr. E.M. Tripodi, La disciplina italiana del franchising; brevi note alla legge 6 maggio 2004, n. 129 in Disciplina del commercio e dei servizi, 2004, fasc. 3, pagg. 511-526.

Questo provvedimento costituisce il terzo intervento del legislatore nel settore commerciale basato sul presupposto della maggiore debolezza di una delle imprese contraenti. I precedenti interventi riguardavano la legge sulla subfornitura e il decreto legislativo in tema di ritardi nei pagamenti.

Cfr. E. Tanzarella, La nuova disciplina del franchising in Rassegna di diritto civile, 2005, fasc. 2, pagg. 559-597.

Si tratta di obblighi informativi che il franchisor deve fornire al potenziale affiliato prima della conclusione del contratto, affinché quest’ultimo possa valutare a fondo tutti i rischi e i benefici derivanti dalla futura attività.

Principalmente si tratta di obblighi precontrattuali riguardanti informazioni che il franchisor deve fornire riguardo se stesso, la storia ed i risultati della sua catena di franchising e l’oggetto della formula commerciale proposta.

Art. 6, 1° comma, Legge n. 129/2004.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pag. 2-3.

Cfr. INDIS (Istituto Nazionale Distribuzione e Servizi - Unioncamere), Il franchising: le prospettive dopo la legge n. 129/2004, Rimini, 2006, pag. 2.

Cfr. F. Toschi Vespasiani, Prime note di commento alla L. 6 maggio 2004, n. 129, recante norme per la disciplina del contratto di affiliazione commerciale, o franchising in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1350-1355.

Una parte della dottrina invece ha accolto favorevolmente questo intervento legislativo.
Cfr. G. Colangelo, Franchising: la legge quadro. Finalmente? in Il foro italiano, 2004, parte IV e V, pagg. 41-43.

Cfr. anche G. De Nova, La nuova legge sul franchising in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.

La legge non disciplina il momento dello scambio dei beni dell’affiliato contro un prezzo: si ritiene pertanto che possono continuare a trovare applicazione le norme in tema di somministrazione, compreso l’art. 1570 c.c., che stabilisce che si applicano a quest’ultima anche le regole che disciplinano il contratto a cui corrispondono singole prestazioni.
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione in
Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Cfr. G. De Nova, La nuova legge sul franchising in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.

In questo caso il contratto risulterà annullabile.

Cfr. G. De Nova, La nuova legge sul franchising in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.

Cfr. V. Pandolfini, Gli obblighi informativi nella nuova legge sul franchising in I contratti, 2005, fasc.
1, pagg. 71-89.

Cfr. V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, pagg. 421-424.

D. M. 2 settembre 2005, n. 204, Regolamento recante norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale di cui all’articolo 4, comma 2, della Legge 6 maggio 2004, n. 129, pubblicato in G.U. il 4 ottobre 2005, n. 231.

Termine previsto dall’art. 4, comma 2, della Legge n. 129/2004.

Art. 4, 6 e 8. Per l’analisi si rimanda al Capitolo 3.

La valorizzazione della fase precontrattuale rappresenta la caratteristica essenziale sia della normativa statunitense sia della disciplina francese e spagnola dedicate al contratto di franchising.

Tali obblighi devono essere adempiuti almeno 30 giorni prima della sottoscrizione del contratto.

La differenziazione non è stata effettuata in base a contratti nazionali e contratti internazionali di
franchising.

La lista può essere trasmessa in via informatica o resa reperibile sul sito internet del franchisor. Nel caso in cui si tratti di un soggetto che opera anche all’estero dovrà quindi presentare la propria intera rete internazionale. Se il potenziale franchisee ne faccia richiesta, il franchisor dovrà inoltre presentare una lista con i dati relativi all’ubicazione e alla reperibilità di almeno venti affiliati operanti (o di tutti quelli esistenti, qualora inferiore a venti).

Il franchisor è obbligato a presentare la propria intera rete nazionale. A condizione che vi sia un’espressa richiesta del potenziale franchisee, è tenuto, inoltre, a presentare una lista con i dati relativi all’ubicazione ed alla reperibilità di almeno venti affiliati (o di tutti quelli esistenti, se inferiori a venti).

Sia da franchisees, sia da terzi privati o da pubbliche autorità.

La descrizione può essere sintetica, ma deve almeno indicare il nominativo delle parti, dell’organo giudicante, le domande e il dispositivo. E’ da sottolineare che esso include anche i procedimenti iniziati dal franchisor nei confronti degli affiliati, che sembrerebbero invece esclusi dall’art. 4 che cita soltanto i procedimenti promossi nei confronti del franchisor.

Cfr. R. Baldi, A. Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, Milano, 2008, pagg. 173-176.

Cfr. A. Frignani, Il regolamento che definisce gli obblighi dei franchisors esteri in I contratti, 2005, fasc. 12, pagg. 1161-1165.

Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.

Cfr. R. Baldi, A. Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, Milano, 2008, pagg. 173-176.

Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising
in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.

Si tratta comunque di un’ipotesi interpretativa, che necessiterebbe di un confronto giurisprudenziale.
Cfr. R. Baldi, A. Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, Milano, 2008, pagg. 173-176.

Tale Convenzione è parte integrante del nostro sistema di diritto internazionale privato, così come recepita dall’art. 57 della legge di riforma del diritto internazionale privato Legge 31 maggio 1995, n. 218.

Inteso come ordine pubblico internazionale, cioè l’insieme di quei principi che debbono considerarsi di importanza fondamentale per l’ordinamento nazionale, alla luce delle caratteristiche economiche, sociali, morali e politiche dell’ordinamento stesso.

Si intendono per “norme nazionali di applicazione necessaria” quelle che risultano comunque applicabili, indipendentemente dalla legge regolatrice del contratto.

Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.

Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.

Conforme su tale punto è il Consiglio di Stato con il proprio parere dell’ 11 luglio 2005.

Cfr. A. Frignani, Il regolamento che definisce gli obblighi dei franchisors esteri in I contratti, 2005, fasc. 12, pagg. 1161-1165.

I “contratti di distribuzione” comprendono l’agenzia, la somministrazione per la rivendita (art. 1568 comma 2 c.c.), la concessione di vendita, il franchising di distribuzione (di beni o di servizi, escluso il franchising di produzione, ove l’affiliato non ha il compito di distribuire beni o servizi ai consumatori, ma di produrre beni seguendo le istruzioni tecniche trasmessegli dall’affiliante).

Cfr. L. Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Si parla di posizione “privilegiata” poiché, esistendo una clausola di esclusiva a favore del concessionario, è posto a suo favore il privilegio di rappresentare l’unico che può usufruire del diritto a rivendere un determinato bene in una determinata zona,
Cfr. F. Bortolotti, Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, 2^ volume, Padova, 2007, pagg. 54 ss..

La distribuzione diretta è caratterizzata dal passaggio immediato del bene dal produttore al consumatore.

La distribuzione indiretta è contraddistinta da una pluralità di fasi con conseguente trasferimento del bene dal produttore ad un altro soggetto, il quale si impegna a rivenderlo al consumatore.

Cfr. F. Di Lorenzo, La natura giuridica del contratto di concessione di vendita, dal sito internet www.diritto.it .

Servizio che il concedente non potrebbe assolvere in via diretta a causa delle difficoltà logistiche ed organizzative che ne deriverebbero.

È da rilevare che il concedente, vendendo le merci al distributore, beneficia del decentramento del rischio d’impresa, dato che il rischio dell’invenduto ricade sulla controparte.

Tale rapporto dà luogo ad una pluralità di atti di scambio tra i due soggetti, che si succedono nel tempo; per questo motivo, nella prassi vengono regolati le modalità degli ordini del concessionario, i termini di consegna, i prezzi, gli sconti, le modalità di spedizione e di assicurazione ecc.. Talvolta, vengono concordati quantitativi massimi e minimi per ogni singolo acquisto, e può essere imposto al concessionario l’obbligo di garantire un minimo di acquisti periodici.
Nel nostro ordinamento giuridico la concessione di vendita è un contratto atipico e, proprio per questo motivo, si riscontrano molte difficoltà nello stabilire a quali disposizioni deve essere sottoposta; in un primo momento, si è inquadrata la concessione di vendita nella somministrazione , considerata, quest’ultima, la tipica figura di scambio di durata. Questa tesi è stata progressivamente abbandonata, dato che nei contratti di distribuzione rileva non solo il momento dello scambio, ma anche quello della collaborazione, che non trova riscontro nella struttura della somministrazione .
Per i motivi opposti, non è stata nemmeno accettata l’opinione secondo cui la concessione di vendita sia riconducibile al contratto di agenzia, dato che in quest’ultimo vengono disciplinati soltanto i profili della collaborazione e non quelli di scambio. Inoltre, nel modello di agenzia, esiste un’obbligazione a carico dell’agente di promuovere la conclusione dei contratti, stipulati poi dal preponente, mentre il concessionario, pur svolgendo un’attività promozionale, opera per rivendere, in proprio, i prodotti oggetto del contratto .
Si è poi cercato di affiancare la concessione di vendita al contratto di mandato, ma è stato osservato che il concessionario è tenuto a svolgere un’attività non giuridica, diretta alla promozione delle vendite e alla rivendita dei prodotti acquistati dal concedente, in nome e per proprio conto, differenziandosi dal mandato in cui tale attività può essere svolta per conto di altri soggetti.
L’impossibilità di ricondurre la concessione di vendita ai contratti espressamente designati nel Codice Civile non esclude, però, che alcune disposizioni codicistiche siano applicabili analogicamente: la maggior parte della dottrina sostiene, infatti, che le norme della somministrazione, della vendita e dell’agenzia costituiscono la base normativa da cui ricavare in via analogica la disciplina di qualunque contratto .
La concessione di vendita rimane, comunque, una figura atipica che pone il problema della determinazione della struttura di tale contratto: in mancanza di uno schema tipico, la questione si risolve soltanto attraverso l’interpretazione della volontà delle parti nel caso concreto.
Ulteriore questione riguarda l’applicabilità a tale schema contrattuale della normativa antimonopolistica della CEE, rivolta alla categoria di intese di cui all’art. 81 del Trattato CE, che individua “gli accordi tra imprese” vietati in relazione al fatto che “possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”.
Proprio in base a tale affermazione, ci si chiede se il contratto di concessione di vendita con esclusiva sia valido a livello europeo, visto che, oltre all’obbligo di esclusiva, il Trattato CE, stabilisce che non possono essere imposte altre restrizioni alla concorrenza. La Commissione Europea, inoltre, ha affermato che “la clausola di esclusiva può comportare una riduzione dell’offerta e/o della domanda di mercato sul quale i rappresentanti di commercio offrono i loro servizi per la negoziazione o la conclusione di affari”.
Nella stessa comunicazione la Commissione traccia anche una rigida contrapposizione tra agenzia e concessione di vendita e raccomanda che sia sempre esercitato un attento controllo al fine di “smascherare” eventuali concessioni “camuffate” da contratto di agenzia.
La questione delle relazioni e differenze intercorrenti tra concessione di vendita e franchising, si è posta soprattutto in quei Paesi di civil law nei quali la prima è diventata una figura contrattuale tipica, come in Belgio, o comunque entrata da tempo nella prassi contrattuale ottenendo una tipicizzazione sociale, come in Italia, Francia e Germania: in questi ordinamenti il franchising si è sovrapposto o affiancato alla concessione di vendita, ritagliandosi un proprio spazio di autonomia .
La prassi oggi considera il franchising adottato nei Paesi europei come un’evoluzione della concessione di vendita; è utile, però, sottolineare che tra le due figure sussistono evidenti differenze tra cui, in particolare, l’obbligo di espressione di insegna ed altri segni distintivi, essenziale nel franchising , e non necessario, invece, nella concessione di vendita .
Ulteriore differenza è riscontrabile nel fatto che il franchising prevede il trasferimento di un know-how commerciale a fronte del quale è corrisposta una royalty, mentre tale elemento è spesso mancante nella concessione di vendita.
Inoltre, mentre il concessionario solitamente non è tenuto a rispettare regole di comportamento imposte dal concedente, il franchisee è strettamente vincolato alle prescrizioni contenute nel cosiddetto “manuale operativo”, così da uniformarsi completamente agli standards praticati dal franchisor, che devono contraddistinguere l’intera rete . L’azienda del franchisee perde, quindi, di individualità, per presentarsi agli occhi del pubblico secondo i canoni di un’immagine unitaria .
Il concessionario può utilizzare marchi propri ed esporre un’insegna personale, mentre nel franchising è sempre obbligatorio l’utilizzo del marchio e dei segni distintivi del franchisor da parte del franchisee .
Inoltre, il concessionario non è tenuto, di regola, a versare né un diritto di entrata, né le royalties, obbligatori invece per il franchisee.
Infine, ulteriore differenza, è riscontrabile nell’oggetto contrattuale, poiché mentre la concessione opera prevalentemente nel campo della vendita dei beni materiali , ed in particolare di beni recanti il marchio del concedente, il franchising ha una portata più ampia potendosi sviluppare sia nella distribuzione di beni sia nella prestazione di servizi.
Rispetto alla concessione di vendita il franchising rappresenta quindi un modello caratterizzato da una maggiore completezza di elementi, con un’area di maggiore applicabilità.
In giurisprudenza è stato affermato che, quando la concessione di vendita viene “portata ad estreme conseguenze, per quanto riguarda il grado di integrazione fra due imprese” , il rapporto di concessione di vendita si trasforma in franchising. Il franchising, infatti, realizza una maggiore integrazione tra le parti e il franchisor detiene un largo potere di controllo sull’affiliato, la cui posizione in tema di iniziativa imprenditoriale è molto ridotta . Il grado di integrazione reciproca spesso è così stretto da creare agli occhi della clientela la convinzione che ci si trovi di fronte ad un’unica realtà d’impresa e sarebbe proprio la forte integrazione che porta a definire il franchising come evoluzione della concessione di vendita .
Le distinzioni tra franchising e concessione di vendita sono inoltre state individuate dalla dottrina italiana fin dai primi anni Settanta e un significativo contributo è stato fornito anche dalla Corte di Giustizia CE, nel caso “Pronuptia” .
Nonostante la sussistenza di obiettive differenze, però, parte della dottrina sostiene tuttavia che un gran numero degli attuali contratti di concessione di vendita (soprattutto quelli che prevedono l’esclusiva di prodotto) possono ricadere sotto l’ambito di applicazione della Legge n. 129/2004 in tema di franchising, tutte le volte in cui sia possibile riscontrare una licenza di know-how ed una presentazione interna ed esterna uniforme in tutta la rete .
Un’altra parte , invece, sostiene che le differenze tra franchising e concessione di vendita non sono rilevanti e andrebbero trascurate , mettendo in rilievo, al contrario, il fatto che ambedue le figure sono riconducibili ai contratti di distribuzione e conservano, perciò, la medesima ragione economico-sociale che consiste nel disciplinare i rapporti di integrazione tra imprese. In entrambi i contratti l’affiliato si assume i rischi imprenditoriali della distribuzione, sollevando dagli stessi il produttore e, per mezzo della concessione delle licenze, si realizza una distribuzione integrata . Si sostiene, inoltre, che è inutile effettuare studi per individuare le differenze tra i due contratti poiché non ha nessun senso svolgere un’indagine così complessa, se non per un’analisi a livello comunitario alla luce dei Regolamenti n. 4087/88 e n. 2790/99 .
In particolare, sotto il regime del Regolamento n. 4087/88, era importante distinguere la concessione di vendita dal franchising poiché solo per quest’ultimo, ricorrendo alcuni requisiti minimi, si disponeva l’esenzione dall’applicazione dell’art. 81 del Trattato CE sul divieto di intese anticoncorrenziali. A fronte di questa “discriminazione” vennero sollevate molte critiche, in quanto la scelta appariva ingiustificata a chi considerava i contratti di distribuzione come categoria unitaria. Infatti, chi sosteneva che tra le due figure non erano riscontrabili tratti distintivi, non accettava il fatto che vi fosse un trattamento giuridico così diverso; con riferimento all’art. 3 della Costituzione, che impone di disciplinare giuridicamente in modo analogo situazioni analoghe, si contestavano le profonde differenze di trattamento a livello comunitario.
Con il Regolamento n. 2790/99, che ha sostituito il precedente, il legislatore comunitario ha cambiato completamente atteggiamento nei confronti delle intese restrittive sulla concorrenza. Prima di tale riforma, infatti, a fronte del divieto generale imposto dall’art. 81 del Trattato CE, era stata emanata una serie di regolamenti di esenzione per categoria, che poneva l’operatore giuridico di fronte ad un intricato complesso di disposizioni normative, anche a causa della non facile distinguibilità delle singole intese.
Con il nuovo Regolamento, invece, è stato scelto un meccanismo di esenzione generalizzata per tutte le intese che abbiano determinati requisiti , senza più distinguere tra i diversi contratti.
E’ utile, a tale proposito, richiamare il contenuto dell’art. 2, par. 1, il quale recita “conformemente all’art. 81 paragrafo del 3 del Trattato […] il paragrafo 1 di detto articolo è dichiarato inapplicabile agli accordi o alla pratiche concordate conclusi tra due o più imprese, operanti ciascuna, ai fini dell’accordo, ad un livello differente della catena di produzione o di distribuzione, e che si riferiscono alle condizioni in base alle quali le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi”. Si tratta di un’ampia definizione all’interno della quale rientrano i contratti di distribuzione in genere, senza distinzione tra concessione di vendita e franchising.
È possibile concludere, quindi, che, in passato, a livello comunitario, esisteva una distinzione tra franchising e concessione di vendita, ma grazie all’introduzione del Regolamento n. 2790/99 la diversificazione tra le due figure non ha più utilità pratica neppure alla luce del diritto comunitario .
Ulteriore problematica sorta in giurisprudenza è stata quella di capire se il contratto di franchising, in alcuni casi, possa essere utilizzato al fine di simulare un rapporto di vera e propria subordinazione.
La dottrina è concorde sul fatto che l’affiliato non può essere assimilato ad un lavoratore subordinato, anche se alcuni sostengono che tale possibilità non è del tutto priva di fondamento . Infatti, analizzando le molteplici obbligazioni che gravano sul franchisee, è possibile osservare che quest’ultimo risulta essere sottoposto alle direttive ed al controllo del franchisor, trovando così ridotta la propria autonomia imprenditoriale.
Ci si chiede, quindi, se tale riduzione di autonomia, che in misura maggiore o minore, si trova in ogni contratto di franchising, sia sufficiente per poter considerare il franchisee paragonabile ad un lavoratore subordinato.
Il pensiero prevalente è negativo rispetto a tale ipotesi poiché la presenza di un potere di direzione e di controllo esercitato dal franchisor è indispensabile in un rapporto di franchising, potendo essere esercitato in modo legittimo se finalizzato al mantenimento di un interesse comune d’impresa dei due soggetti coinvolti.
La direzione e il controllo, in altre parole, possono risultare in alcuni casi estremamente pregnanti, ma entro i limiti in cui sono diretti al mantenimento e ad un maggiore funzionamento dell’organizzazione comune, non snaturano il franchising fino al punto da renderlo assimilabile ad un rapporto di lavoro subordinato .
Il franchisee, pur trovandosi ad operare nell’ambito di un’organizzazione predisposta e controllata dal franchisor, conserva comunque un proprio spazio, più o meno esteso, nel quale è libero di esercitare la propria autonomia imprenditoriale sostenendo, quindi, parzialmente il rischio d’impresa .
Quanto affermato sino ad ora non esclude però che, al fine di evitare l’applicazione della legislazione gravante sul rapporto di lavoro subordinato, maggiormente “onerosa” per il datore di lavoro, possano essere stipulati contratti di franchising, che in realtà mascherano un rapporto di lavoro subordinato.
In tale ipotesi sarà il giudice a decidere a quale delle due tipologie possa essere ricondotto il contratto in questione, considerando il reale assetto di interessi contrattuali.

2.2 I soggetti
All’interno delle varie definizioni di franchising fornite in campo comunitario e nazionale, si è spesso utilizzato l’espressione “soggetti giuridici” per definire chi può partecipare ad un contratto di franchising, ma è opportuno precisare che con tale espressione non si allude alle persone giuridiche in senso “tecnico” e che, pertanto, le parti possono essere anche persone fisiche.
Inoltre, si deduce che debba trattarsi necessariamente di imprenditori , poiché chi commercializza beni o servizi (franchisee) non può non avere lo status di imprenditore, esattamente come chi offre una pluralità di licenze di beni di proprietà intellettuale (franchisor) .
In linea generale, possiamo definire il franchisor (o affiliante) come il soggetto che propone il progetto, cioè il produttore di un certo bene, il quale concede ad altri soggetti, i franchisee, di commercializzare i prodotti, in cambio di una percentuale sulle vendite.
Il franchisor, dopo aver sperimentato la sua formula attraverso uno o più punti vendita “pilota”, predispone il piano di sviluppo sul mercato e ne impone ai franchisees il rispetto assoluto.
Requisiti fondamentali per tale ruolo sono, quindi, l’esperienza, la competenza, un’immagine ben definita e, quando possibile un marchio ben noto e apprezzato dal pubblico.
Il franchisor deve essere in grado, inoltre, di mettere a disposizione risorse economiche, strutture organizzative e competenze manageriali adeguate, allo scopo di costituire una rete di franchising.
La principale motivazione che spinge un soggetto a costituire una rete di franchising è costituita dalla spinta verso una maggiore crescita ed espansione della propria attività, sfruttando anche economie di scala ; inoltre, pur dando luogo ad un grande impresa, è possibile, grazie alla presenza dei franchisee, operare a livello locale rafforzando la propria presenza in ogni parte del territorio.
Il franchisee (o affiliato), è il soggetto che riconosce nel progetto proposto dal franchisor alcune qualità in relazione ai prodotti, ai servizi, al know-how, all’insegna, all’immagine di marca, all’assistenza fornita, e decide di aderirvi.
Il potenziale franchisee deve avere, tra i suoi primi requisiti, un forte spirito di gruppo e la convinzione che, per ottenere successo nei mercati attuali, è preferibile il gioco di squadra a quello individuale.
Per poter partecipare a tale progetto, il franchisee deve disporre di un negozio con determinate caratteristiche dimensionali e di ubicazione, arredandolo e facendo pubblicità in modo da uniformarsi agli altri franchisee. Essi appaiono, così, al pubblico dei consumatori, quasi come dipendenti del franchisor.
Il franchisee, una volta entrato nella rete di franchising, composta dal franchisor e da tutti gli affiliati, svolge però un’attività in proprio e non è subordinato all’affiliante, pur offrendo quest’ultimo un aiuto, ma non essendo coinvolto né giuridicamente né societariamente nella gestione.
Le motivazioni che spingono un imprenditore ad avvicinarsi al franchising come potenziale affiliato sono molteplici: la prima è una maggiore convenienza economica dovuto al risparmio di costi rispetto ad una gestione diretta dell’attività, la seconda è una motivazione psicologica, poiché un soggetto affiliato percepisce maggiore sicurezza dall’alleanza sviluppata con un franchisor, soprattutto se sul mercato è presente una forte concorrenza; un’altra motivazione riguarda il “prestigio della catena” di cui il soggetto entra a far parte, a cui corrisponde un marchio di qualità apprezzato dai consumatori. Entrambi i soggetti sono sottoposti a varie obbligazioni: da un lato, il franchisor si impegna a concedere l’uso dei propri segni distintivi per il periodo contrattuale, dall’altro, il franchisee è, a sua volta, obbligato ad esporre l’insegna e il marchio del franchisor fino al termine del contratto .
I contratti prevedono poi il trasferimento di conoscenze ed esperienze e la prestazione di servizi di assistenza e consulenza da parte del franchisor, fino a giungere, nei sistemi di franchising più avanzati, alla fornitura di un completo “package” dal contenuto materiale ed immateriale.
La prassi distingue poi tra assistenza una tantum, prestata nella fase di apertura dell’esercizio dell’affiliato ed avvio della relativa attività, ed assistenza successiva, su base continuativa, riferita alla gestione del punto vendita in franchising. Il contenuto di tali prestazioni da parte del franchisor è variabile ed assume maggiore o minore consistenza a seconda del settore.
E’ frequente la previsione di una clausola che impegna lo stesso ad assicurare pari assistenza a tutti i suoi franchisee.
Questi ultimi sono tenuti sempre al pagamento di un corrispettivo nei confronti del proprio franchisor, il quale può prevedere diverse tipologie: può essere prevista una entry fee (o diritto d’ingresso nel sistema), costituita normalmente da una somma una tantum corrisposta al momento della stipulazione del contratto , oppure un pagamento periodico inteso o come fee di mantenimento del rapporto, o come royalty percentuale calcolata sulla base del fatturato del franchisee, fino ad arrivare all’ipotesi in cui siano previste entrambe le forme di corrispettivo. All’opposto, vi sono casi in cui non è previsto il pagamento di alcuna somma da parte del franchisee.
Ulteriore obbligo a carico del franchisee è quello di attenersi alle modalità operative imposte dal franchisor, e di sottostare ad ispezioni e controlli sulla propria attività e amministrazione del punto vendita .
La Legge n. 129/2004 italiana che regola il franchising, precisa che i soggetti del contratto devono essere “economicamente e giuridicamente indipendenti”; la dottrina sostiene che si tratta di una specificazione importante per due motivi:
si è voluto innanzitutto differenziare nettamente il contratto di franchising da qualsiasi forma di lavoro subordinato e, ulteriore effetto è che i soggetti terzi rispetto al franchisee (fornitori, dipendenti, clienti finali) possono esercitare azioni direttamente nei suoi confronti.
Altro problema sorto in giurisprudenza riguarda la qualificazione del franchisee alla stregua di consumatore, ossia l’applicabilità al contratto di franchising degli artt. 33 ss. del Codice del Consumo . Il problema non si pone se l’aspirante affiliato è un imprenditore già operante sul mercato, ma solo se si tratta di un soggetto senza esperienza nel settore e senza alcuna attività d’impresa o organizzazione già attiva.
La stipulazione di un contratto da parte di chi non è ancora imprenditore rientra negli “atti di organizzazione”, ossia quegli atti che vengono compiuti e quei rapporti giuridici a cui viene data esecuzione in vista della predisposizione dei beni produttivi e delle relazioni contrattuali che andranno a costituire l’organizzazione imprenditoriale. Sembrerebbe quindi che, anche se la sola stipula del contratto di franchising non fosse ritenuta sufficiente a far acquistare all’aspirante affiliato la qualifica di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 c.c. , questo atto costituisca comunque un indizio evidente della nascita di un’impresa, sufficiente ad escludere la possibilità che il futuro franchisee possa essere considerato come consumatore .
Alla stessa soluzione è pervenuta la Corte di Giustizia CE , la quale ha affermato che è definito come consumatore finale privato, colui che non è impegnato in attività commerciali o professionali.
L’unica norma della Legge n. 206/2005 che potrebbe risultare applicabile anche ad un soggetto non consumatore è l’art. 36, 4° comma, secondo cui “il venditore ha diritto di regresso nei confronti del fornitore per i danni che ha subito in conseguenza della declaratoria di nullità delle clausole dichiarate abusive”. Quindi, nel caso di un contratto di franchising che preveda l’obbligo per il franchisee di inserire, nei contratti che questi stipula con i consumatori finali, delle clausole inefficaci ai sensi dell’articolo citato, questi avrà diritto di regresso verso il franchisor, per l’ottenimento dei danni subiti a seguito della dichiarazione di nullità delle clausole vessatorie.
Quella appena descritta appare, però, come un’ipotesi non realistica, essendo difficilmente prospettabile nella prassi una situazione in cui il franchisor imponga contrattualmente ad un proprio franchisee di inserire nei contratti con i consumatori delle clausole vessatorie, poiché una condotta di questo genere non gioverebbe a nessuna delle due parti .
Dopo aver analizzato i soggetti e le loro caratteristiche, è possibile concludere che il franchising permette di perseguire vantaggi per entrambe le parti: da un lato, infatti, il franchisor ha la possibilità di ampliare la propria presenza sul mercato e di imporre la propria immagine senza effettuare investimenti diretti, con conseguente abbattimento di costi e relativi rischi economici, mentre il franchisee, inserendosi in una rete collaudata ed avviata , ha la possibilità di intraprendere un’attività giovandosi dell’affidamento che il franchisor ha già acquisito presso i consumatori, limitando, così, sia i rischi connessi all’inizio di una nuova attività, sia i costi inerenti la gestione .

2.3 Il contenuto: diritti ed obblighi dei contraenti
Il franchising è un contratto sempre più utilizzato nella distribuzione commerciale di prodotti e servizi.
Per distribuire un prodotto o un servizio, il franchisor, anziché limitarsi a vendere i propri prodotti a distributori che lo collocano sul mercato secondo i loro piani strategici, può imporre la propria politica commerciale ai franchisees, in cambio della trasmissione agli stessi della sua esperienza tecnico commerciale e dei suoi segni distintivi, in modo da poter controllare l’intero processo distributivo del prodotto o del servizio senza sostenerne interamente i costi.
Per assumere la posizione di franchisor occorre, quindi, una lunga esperienza, una profonda conoscenza del mercato ed una provata capacità organizzativa, requisiti che consentono di trasmettere alle aziende affiliate quei criteri organizzativi e di gestione idonei ad assicurare una razionale attività.
La scelta dei franchisee è ovviamente essenziale ai fini della riuscita di un sistema di imprese collegate in franchising; la selezione non deve essere basata soltanto sulla disponibilità finanziaria dei soggetti, ma anche sulle capacità imprenditoriali, quantomeno potenziali, ed sulla capacità di uniformarsi ai criteri impostati sulla collaborazione .
Il franchisee, pur limitando in parte la propria autonomia nelle scelte d’impresa e accettando di attenersi alle prescrizioni del franchisor, trae numerosi vantaggi dall’attività di vendita di un prodotto o di offerta di un servizio di successo, servendosi di tecniche commerciali già sperimentate che gli consentano di essere successivamente identificato dai consumatori con il produttore stesso.
E’ importante ricordare l’appartenenza di ogni franchisee ad una rete , di cui il franchisor è la casa madre e la “matrice”; essa si caratterizza, non per la presenza di vincoli di natura societaria, per l’indipendenza esistente tra i soggetti .
Tra gli affiliati appartenenti alla rete non intercorre nessun rapporto contrattuale, ma, nonostante questo, chi esercita un comportamento non coerente o non in osservanza degli standards richiesti, può danneggiare, oltre che l’immagine del franchisor, anche gli altri affiliati .
Il vincolo che porta, invece, all’assimilazione del franchisee rispetto al franchisor è fondato su un’identità d’immagine, elemento molto importante nei confronti della clientela che avrà la percezione collettiva nel considerare le due imprese, così come tutte le altre legate al medesimo franchisor, come appartenenti ad un unico ramo. Questo risultato viene raggiunto attraverso il conferimento, da parte del franchisor, dell’altro elemento fondamentale del franchising: la cosiddetta “franchise”, cioè l’esclusiva e il privilegio consistenti nel diritto riconosciuto al franchisee di utilizzare, nell’esercizio della propria attività economica, i segni distintivi e la formula distributiva o industriale del franchisor .
Nel contratto di franchising è importante la definizione della “clausola di esclusiva”, solitamente reciproca tra i due soggetti, che vincola da una parte il franchisee a non vendere beni in concorrenza con quelli del franchisor, e dall’altra, obbliga quest’ultimo a non servirsi nello stesso territorio di altri franchisee. Scopo della clausola è di tutelare gli investimenti effettuati dal franchisee consentendogli il recupero, in tempo medio, degli stessi e di creare una rete omogenea di franchising . L’esclusiva a carico del franchisee può non essere assoluta, nel senso che gli può essere consentito di trattare anche beni o servizi di natura diversa, purché non in concorrenza .
Il problema dell’esclusiva assume particolare rilievo quando il franchisor intenda servirsi anche di altri canali , oltre al franchising, per far giungere i suoi beni ai consumatori finali, dovendo rivolgersi oltre che ai franchisee, anche ad altri dettaglianti. Se, da un lato, non si può negare al produttore il diritto di scegliere diversi canali distributivi, dall’altro è da rilevare che tale modo di operare potrebbe danneggiare i franchisee che si vedrebbero costretti a sopportare la concorrenza di altri rivenditori dei loro stessi prodotti. La dottrina sostiene, perciò, che il franchisor dovrebbe indicare esplicitamente nel contratto se intende operare anche attraverso altri canali e tenere conto di questa ipotesi in tutte le clausole sottoscritte con i suoi affiliati .
L’esclusiva, all’interno di un rapporto di franchising, si manifesta anche attraverso l’imposizione, nei confronti del franchisee, di rifornirsi dei prodotti esclusivamente presso il franchisor, o presso rivenditori da quest’ultimo indicati. Lo scopo dell’obbligo di acquisto esclusivo imposto al franchisee è riscontrabile nel fatto che il franchisor intende evitare che beni provenienti da fornitori terzi, sottratti a qualsiasi controllo qualitativo da parte del franchisor stesso, vengano offerti ai consumatori all’interno di punti vendita contraddistinti dai segni distintivi della rete di franchising, accanto ai prodotti contrattuali. Qualora, infatti, tali prodotti provenienti da terzi non rispecchiassero la stessa qualità rispetto a quelli contrattuali, la loro presenza presso il punto vendita del franchisee potrebbe comportare un immediato danno all’immagine commerciale dell’intera rete, diminuendo il prestigio e la fiducia dei quali questa gode da parte di consumatori .
La struttura del rapporto è, dunque, bilaterale poiché prevede due parti , il franchisor da un lato, e il franchisee dall’altro; da tale rapporto entrambi i soggetti possono beneficiare di numerosi vantaggi: il franchisor ha la possibilità di organizzare una rete di distribuzione, occupando una quota di mercato rilevante in un tempo breve, servendosi anche delle capacità e delle conoscenze imprenditoriali dei franchisee, i quali potranno, per contro, approfittare della reputazione e dell’esperienza del primo, beneficiando della facilitazione dell’accesso al mercato. Anche i consumatori potrebbero rilevare aspetti positivi da questa tipologia di contratto e dall’esistenza di una rete di distribuzione in grado di soddisfare le loro esigenze .
L’effetto di tale struttura si manifesta anche in relazione alla molteplicità di rapporti che vengono a crearsi tra ogni singolo franchisee e il franchisor, non traducendosi, però, in un rapporto plurilaterale; infatti, i franchisee non sono tra loro collegati da vincoli di tipo contrattuale e non danno vita, dunque, a forme di tipo consortile.
I due soggetti si obbligano, pertanto, ad un rapporto di stretta collaborazione, in base al quale il franchisor concede al franchisee la facoltà di entrare a far parte della propria catena di distribuzione, con il diritto di sfruttare brevetti, marchi, insegna e formule commerciale a lui appartenenti, a fronte del pagamento di un corrispettivo, che può consistere in un canone fisso di ingresso, la cosiddetta entry fee, ed eventualmente in una provvigione da calcolarsi in base al fatturato del franchisee, vale a dire una royalty .
Il franchisor si impegna a rifornire il franchisee dei beni previsti all’interno del contratto, a consentirgli l’uso dei propri segni distintivi, a fornirgli assistenza tecnica  e commerciale, a garantirgli l’esclusiva per la zona o il settore commerciale.
Il franchisee, invece, si obbliga a predisporre ed arredare una sede adeguata per la vendita dei prodotti, ad acquistare una quantità minima di beni, a rispettare le direttive commerciali a lui impartite e a pagare il corrispettivo richiesto.
La dottrina ha cercato anche di fornire una definizione economica di tale istituto, arrivando alla conclusione che il franchising rappresenta uno strumento che si inserisce nella strategia di crescita a rete di un’impresa, favorendone lo sviluppo attraverso una complessità di rapporti associativi legati al valore simbolico del marchio: tramite la concessione in licenza dei segni distintivi, il franchisor trasferisce sostanzialmente ai franchisee la sua immagine al fine di costituire una rete commerciale che presenti un’uniforme immagine commerciale agli occhi del pubblico. Tutto ruota attorno allo sfruttamento commerciale di un’immagine accreditata presso i consumatori ed al legame tra reputazione del prodotto ed affidamento della clientela. L’interesse principale del franchisor è quello di tutelare il proprio marchio, assicurandosi il rispetto degli standards qualitativi e promozionali: se, infatti, il valore del marchio è determinato dal comportamento complessivo di tutti i franchisee, il successo dell’intera operazione è messo in pericolo da comportamenti occulti dei singoli affiliati, che proiettano esternalità negative sull’intera rete .
Entrambi i contraenti devono obbligatoriamente rivestire la qualità di imprenditore; il contratto di franchising è dunque un contratto “necessariamente d’impresa” , nel senso che non è possibile, per un soggetto che non sia imprenditore, stipulare un contratto di franchising, sia come franchisor che come franchisee, per il semplice fatto che, per svolgere entrambe le funzioni, occorre un’organizzazione imprenditoriale, sia pure minima nel caso del franchisee .
Per “contratti d’impresa” si intendono normalmente quei contratti nei quali almeno una delle parti assuma lo status di imprenditore e concluda il contratto nell’esercizio dell’attività d’impresa . Nell’ambito di tale categoria è possibile poi individuare un sottoinsieme di contratti che comprende tutti gli accordi conclusi esclusivamente tra imprenditori, del quale fanno parte anche tutte le tipologie di franchising. Essi hanno una forte caratterizzazione unitaria, rappresentata dal fatto di essere tutti diretti ad assicurare lo svolgimento di una fase produttiva o distributiva della vita dell’impresa.
Prima di procedere alla stesura di un accordo di franchising, spesso le parti ritengono opportuno sottoscrivere un contratto preliminare in cui stabiliscono un reciproco impegno ad addivenire alla successiva stipula del contratto vero e proprio; con questo, quindi, le parti definiscono obbligazioni, ripartizioni di compiti e costi e tutte le clausole che vincolano le parti nel periodo antecedente al contratto definitivo.
Il contratto preliminare spesso è accompagnato da un accordo di riservatezza sulle informazioni che verranno successivamente trasmesse; esso è costituito da una prima fase conoscitiva, in cui il candidato franchisee ha la possibilità di venire a conoscenza degli aspetti rilevanti del franchising e delle caratteristiche della rete.
Tale fase non deve essere confusa con le sperimentazioni del franchisor nelle fasi di avviamento della rete, denominate “pre-franchising” o “pilotage”, in cui vengono svolti esperimenti volti a collaudare la validità e la profittabilità della formula organizzativa, ossia del know-how commerciale, destinato poi ad essere trasferito ai futuri franchisee.
Nel “pre-franchising” il franchisor ed il franchisee partecipano congiuntamente alla sperimentazione della formula, in un periodo di tempo limitato, e, in caso di successo, divideranno i diritti di utilizzazione del knowhow; nel “pilotage”, invece, il franchisor detiene già una formula organizzativa, che affida ad un candidato franchisee perché sia quest’ultimo, il pilota appunto, a svilupparla temporaneamente in un’area definita . Durante la fase precontrattuale esiste, a carico del franchisor, l’obbligazione di disclosure, che ha lo scopo di garantire trasparenza nei confronti del candidato franchisee, e con la quale il franchisor fornisce informazioni importanti atte a consentire al futuro affiliato di valutare in modo consapevole e senza false o distorte rappresentazioni della realtà commerciale, la proposta a lui diretta; esiste, invece, a carico del franchisee l’obbligo di corresponsione di un anticipo sulla quota di “entry fee”.
Tale trasparenza spesso non è stata rispettata da parte dei franchisor, nonostante l’obbligo precontrattuale fosse previsto dai codici deontologici delle varie associazioni di franchising; la Legge n. 129/2004 ha così introdotto la disclosure come obbligo precontrattuale, imponendo al franchisor di consegnare all’aspirante affiliato, almeno trenta giorni prima della prevista conclusione del contratto, copia completa dello stesso da sottoscrivere corredato da una serie di allegati, con informazioni relative all’attività svolta nella rete di franchising, e all’attività del franchisor stesso.
Inoltre, come precedentemente affermato, è previsto l’obbligo per il franchisor di sperimentare sul mercato la propria formula commerciale prima di proporla ad altri soggetti; si vuole perciò assicurare, a beneficio dei potenziali affiliati, che siano loro proposti contratti di franchising con oggetto determinato o determinabile.
Altre obbligazioni sono previste, a carico del franchisor, durante la fase contrattuale: la principale è costituita dalla trasmissione del know-how e della licenza d’uso dei segni distintivi che costituiscono la “franchise”.
In particolare, il know-how è stato definito per la prima volta dal Regolamento comunitario n. 4087/88 come un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dal franchisor caratterizzato dal fatto di essere segreto, sostanziale ed accertato.
Per segreto, si intende il know-how, considerato come complesso di nozioni o nella precisa configurazione e composizione dei suoi elementi, non noto né facilmente accessibile da terzi.
Per sostanziale, si intende che esso deve comprendere conoscenze importanti per la vendita di beni o per la prestazione di servizi agli utilizzatori finali; deve, inoltre, essere utile al franchisee al fine di poter incrementare, alla data della stipulazione dell’accordo, la sua competitività, in particolare consentendogli l’accesso ad un nuovo mercato.
Per accertato, si intende che il know-how deve essere descritto in modo sufficientemente comprensibile, tale da consentire di verificare se corrisponde ai criteri di segretezza e di sostanziabilità; la descrizione del know-how può figurare nell’accordo di franchising, o in un documento separato.
Altri elementi caratterizzanti il franchising sono la trasmissione del marchio e dei segni distintivi: sia il regolamento dell’Assofranchising, sia il Codice Deontologico Europeo, prevedono che il franchisor, titolare del proprio marchio, deve trasmetterlo a tutti i suoi affiliati, dando luogo ad una “immagine di marca”.
In questo modo, il franchisor fornisce un avviamento commerciale e un vantaggio competitivo sin dall’inizio dell’apertura dei punti vendita; infatti, è proprio l’esistenza di una conosciuta immagine di marca che giustifica la richiesta da parte del franchisor di una entry fee .
Il franchisor deve, inoltre, impegnarsi a fornire una formazione iniziale a tutti i suoi affiliati nei confronti del personale addetto alle vendite, attività che può essere svolta da lui stesso, o da esperti selezionati. Attraverso questa attività vengono trasmessi i metodi, le conoscenze tecniche e commerciali, dando luogo ad un’omogeneità di “stile”.
La formazione del personale costituisce un elemento importante per la creazione dell’identità della rete, sia nel momento di avvio dell’attività dell’affiliato (formazione iniziale), sia durante tutto il corso della sua attività (formazione permanente).
A tale proposito il Codice Deontologico della Federazione Italiana del Franchising prevede che il franchisor debba assicurarsi preventivamente all’entrata in vigore del contratto, che il franchisee possieda la necessaria preparazione e, nel caso in cui manchi, si impegni ad acquisirla.
Per quanto riguarda la formazione permanente, cioè l’assistenza fornita dal franchisor nei confronti del franchisee durante l’intero periodo di durata del contratto, il primo deve stabilire strette e continue relazioni anche attraverso suoi delegati; il franchisee, cosciente di aver aderito ad un sistema di progresso ed evoluzione, si impegna, sia per se stesso che per il proprio personale, a partecipare a tutte le attività di miglioramento delle conoscenze a lui proposte .
È frequente la previsione di una clausola che impegna il franchisor ad assicurare pari assistenza a tutti i suoi affiliati.
La formazione permanente è intesa anche come assistenza e supporto da parte del franchisor a favore dei franchisee e deve essere svolta sotto tre punti di vista: la prima, l’assistenza tecnica è l’aspetto più importante del rapporto tra i soggetti e si realizza mediante la formazione dello stock iniziale di prodotti, le procedure di approvvigionamento, la gestione dell’invenduto ecc..
L’approvvigionamento può realizzarsi direttamente dal franchisor, nel caso in cui quest’ultimo sia il produttore dei beni o, nel caso in cui non sia lui stesso il produttore, attraverso una centrale d’acquisto gestita dal franchisor nella quale seleziona, acquista e immagazzina i prodotti, per poi inviarli successivamente ai suoi affiliati.
Il secondo aspetto che il franchisor è tenuto a curare è quello dell’assistenza commerciale fornita ai franchisees, che riguarda sia i punti di vendita , sia il personale che li gestisce.
Il terzo punto riguarda l’assistenza del franchisor fornita in campo amministrativo e contabile, che rappresenta uno dei maggiori vantaggi per gli affiliati, i quali spesso beneficiano di sistemi informatici e contabili messi a loro disposizione.
Altra obbligazione a carico del franchisor è quella di supportare il franchisee dal punto di vista pubblicitario organizzando campagne pubblicitarie, campagne promozionali e di comunicazione; l’immagine della rete deve, infatti, essere diffusa il più possibile promuovendo i prodotti distribuiti o i servizi forniti nei confronti del pubblico dei consumatori.
Solitamente il franchisor si riserva la programmazione dell’attività promozionale a livello nazionale con il contributo alle spese da parte dei franchisee, ma il primo può consentire ad ogni franchisee di realizzare a suo carico le stesse attività promozionali a livello locale. Può accadere che, in alcuni casi, il franchisor ridistribuisca i costi per la promozione e la pubblicità sugli affiliati, sottoforma di un prelievo percentuale sul fatturato di quest’ultimi.
Tra gli obblighi del franchisee, quello di maggior rilievo è di natura economica e consiste nel pagamento del canone d’ingresso (o entry fee) e delle royalties periodiche ; essi costituiscono il corrispettivo da corrispondere al franchisor come compenso per la concessione della “franchise”.
La quota di entry fee rappresenta il corrispettivo per la trasmissione del know how, dell’immagine di marca e della formazione iniziale.
La nozione di royalty corrisponde ad una percentuale che il franchisor richiede al franchisee commisurata al giro d’affari ed al fatturato di quest’ultimo, come corrispettivo per tutte le prestazioni che il franchisor è contrattualmente impegnato a fornire agli affilianti nel corso del rapporto, quali l’assistenza e la consulenza periodica; spesso, però, viene anche ricompresa una partecipazione alle spese per gli investimenti pubblicitari ed istituzionali. Il franchisee, inoltre, ha l’obbligo di rispettare gli standards qualitativi a lui imposti; la perfetta integrazione tra franchisor e franchisee si basa proprio sull’identificazione di quest’ultimo con l’immagine della casa madre. Questo elemento non è dato soltanto dall’allestimento del punto vendita, ma anche dalla corrispondenza dell’attività svolta dal franchisee in base ai requisiti stabiliti dal franchisor.
Spesso, per realizzare questo scopo, il franchisor predispone un manuale operativo contenente tutte le descrizioni relative al modo in cui dovrebbe operare l’affiliato. Più dettagliato e completo risulta il manuale operativo, tanto maggiori sono le possibilità per il franchisee di uniformarsi correttamente alle politiche del franchisor.
Ulteriori obbligazioni a carico del franchisee sono caratterizzate dal rispetto di clausole di non concorrenza e di riservatezza del know-how.
Per quanto riguarda le clausole che vietano la concorrenza durante il periodo contrattuale, esse si realizzano concretamente nella presenza di clausole di esclusiva territoriale e di prodotto all’interno del contratto. Si tratta perciò di clausole che impongono agli affiliati di non esercitare attività di promozione e distribuzione per altri franchisor o imprenditori.
Si discute se queste clausole debbano essere espressamente contenute nel contratto di franchising o se, invece, siano connaturate all’esistenza stessa di un tale rapporto, tali da non dover essere pattuite per iscritto. Parte della dottrina sostiene che la clausola di esclusiva debba essere approvata per iscritto, data la sua incidenza sulla libertà di iniziativa economica e sulla concorrenza tra operatori economici, soltanto quando essa comporta l’obbligo, assunto da una parte, di contrarre esclusivamente con l’altra in ordine alla prestazione di un bene o di un servizio determinato. Altra parte della dottrina sostiene, invece, che l’esclusiva reciproca non rappresenta un effetto naturale del contratto di franchising e dovrebbe, perciò, sempre essere prevista esplicitamente per iscritto dalle parti.
La legge italiana sul franchising, all’art. 3, comma 4, aderendo a quest’ultima tesi, prevede che le clausole di esclusiva territoriale, sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dal franchisor, devono essere pattuite per iscritto. La clausola di esclusiva inserita nei contratti di franchising, spesso è riferita reciprocamente ai due soggetti coinvolti: il franchisor è vincolato a non avvalersi, nella stessa zona, di altri franchisee, mentre il franchisee è vincolato a non distribuire altri prodotti se non quelli del franchisor stesso.
Si pone quindi il problema di valutazione della violazione di tale clausola; l’art. 1748 c.c., 2° comma, tutela l’agente , stabilendo che, in caso di violazione dell’esclusiva di vendita, è dovuta al soggetto la provvigione sugli affari compiuti direttamente dal preponente; ci si chiede allora se tale norma sia estendibile anche al franchising. La dottrina prevalente dubita di tale soluzione, data la particolare struttura del contratto di agenzia, che prevede la corresponsione di provvigioni dal produttore al distributore.
Nei contratti di distribuzione, invece, nel caso in cui si verifichi l’inadempimento del produttore nei confronti della clausola di esclusiva, è normalmente la controparte a richiedere la risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno; sembrerebbe quindi questa la soluzione estendibile al franchising.
Per quanto riguarda, invece, le clausole che prevedono la riservatezza del franchisee per il know-how ricevuto, è da ricordare la caratteristica di segretezza dello stesso, in quanto una divulgazione di esso comporterebbe un danno per il franchisor. Per contenere, almeno in parte, gli effetti negativi di tale divulgazione, è previsto che le informazioni riservate trasmesse dalla casa madre ai propri franchisees non possano essere in alcun modo riutilizzate o comunicate a terzi, se non nell’ambito della rete di franchising.
In caso di violazione in materia di segretezza del know-how, è riconosciuto, in favore del franchisor, il risarcimento del danno da parte del franchisee; l’entità di tale risarcimento deve comunque essere valutata in relazione al momento in cui si verifichi la violazione: se il mancato rispetto dell’obbligo di riservatezza del know-how si realizzi durante la fase contrattuale, il giudice potrà decidere per la risoluzione del contratto, oltre che per il risarcimento del danno subito.
Nel caso, invece, in cui tale violazione si realizzi nel momento in cui il contratto sia già terminato, il giudice potrà stabilire soltanto che il franchisee corrisponda al franchisor una somma a titolo di risarcimento del danno. Tale somma sarà valutata dal giudice, tenendo conto che, con il passare del tempo, la segretezza si affievolisce .
Un’altra importante obbligazione, spesso contenuta nei contratti di franchising, a carico del franchisee, è quella di impegnarsi nella partecipazione alla promozione ed allo sviluppo della rete costituita dal franchisor, cercando di diffonderne l’immagine e, quando richiesto, di reperire nuovi affiliati .
Oltre alle obbligazioni che gravano su entrambe le parti coinvolte in un contratto di franchising, esistono altri elementi caratteristici riguardanti la struttura di tale contratto; la dottrina è concorde sul fatto che il rapporto di franchising non può avere durata breve , ma deve essere stabilito un periodo sufficiente perché il franchisee possa ottenere un rendimento dagli investimenti sostenuti : normalmente, viene pattuito un tempo determinato con rinnovo automatico, ma è possibile stipulare anche contratti di franchising a tempo indeterminato ; solitamente il rinnovo tacito del contratto di franchising è considerata la regola generale, essendo vantaggiosa per entrambe le parti.
Il mancato rinnovo del contratto, l’eventuale scioglimento prematuro o la cessione dello stesso, rappresentano eventi che potrebbero generare delle grandi perdite economiche per entrambe le parti; per questo motivo è spesso previsto, a tutela del franchisor, che quest’ultimo possa recedere prima del termine contrattuale in caso di gravi inadempimenti del franchisee, come, per esempio, la mancata ottemperanza agli obblighi finanziari, la violazione dell’esclusiva di prodotto, la lesione dell’immagine della rete. Il recesso è giustificato anche nel caso in cui l’inadempimento del franchisee riguardi i suoi rapporti con i consumatori come quando, per esempio, non fornisca assistenza tecnica ai clienti, provocando un danno all’immagine dell’intera catena di franchising. Non rappresenta, invece, causa di recesso giustificato per il franchisor, il ritardato pagamento di un canone da parte del franchisee, poiché questo non crea, agli
occhi dei consumatori, una perdita d’immagine dell’intera catena.
Al franchisee, invece, è concesso di recedere anticipatamente in caso di sospensione delle forniture da parte del franchisor, o di grave inadempimento da parte di quest’ultimo ai propri obblighi di assistenza e comunicazione del know-how.
Inoltre, possono essere previste clausole con obbligazioni di riacquisto delle scorte a carico del franchisor, o clausole contenenti il diritto per il franchisee, in caso di mancato rinnovo del contratto, di ottenere il rimborso di una parte del canone di ingresso versato inizialmente.
Nel caso di recesso immotivato del contratto da parte del franchisee, può prevedersi una penale a carico di quest’ultimo a beneficio del franchisor.
I problemi sorgono anche nel caso di cessione di contratto di franchising, poiché questo è fondato sull’intuitus personae, vale a dire si tratta di un rapporto di collaborazione tra imprenditori nel quale prevale l’elemento personale: sono spesso previste, infatti, clausole che vietano al franchisee di cedere a terzi il contratto, ovvero di vendere o affittare a terzi la propria azienda, o clausole di opzione o prelazione a favore del franchisor, qualora il franchisee intenda alienare, dare in usufrutto o in affitto la sua azienda.
Nonostante la riconosciuta natura del contratto di franchising come rapporto di natura personale, è sempre opportuno che queste clausole siano contenute ed espressamente pattuite per iscritto nel contratto, per poter evitare la regola generale della cessione d’azienda che vede i contratti di cui è parte il cedente trasferiti insieme all’azienda ceduta .
La necessità di salvaguardare la natura fiduciaria del rapporto può manifestarsi anche nei confronti dell’affiliato: sono pertanto possibili clausole che legittimano il recesso anticipato del franchisee in caso di modifica della compagine sociale.
Dopo aver tracciato alcune problematiche riguardanti lo scioglimento e la cessione del contratto, è necessario definire quali obblighi sorgono in capo ai soggetti coinvolti dopo tali eventi.
Il problema degli obblighi successivi allo scioglimento del contratto di franchising costituisce, spesso, tema controverso e fonte di notevoli conflitti tra franchisor e franchisee; le obbligazioni prevalenti sono previste solitamente a carico del franchisee, tra cui il patto di non concorrenza, il divieto di nuove affiliazioni o costituzione di una rete di franchising concorrente e divieto di utilizzo del know-how acquisito.
In particolare, il patto di non concorrenza consiste in una clausola con la quale il franchisee si obbliga, eventualmente dietro compenso in denaro, a non esercitare un’attività che, in proprio o alle dipendenze di un altro franchisor, per la sua ubicazione geografica e per le caratteristiche dei beni o servizi venduti, risulti essere in concorrenza con quella del primo franchisor. Nel franchising, tale patto, oltre ad avere lo scopo di impedire che al momento dell’estinzione del rapporto parte della clientela segua l’affiliato, svolge anche la funzione di garantire la riservatezza delle cognizioni tecniche e/o commerciali trasferite al franchisee, evitando che vadano a profitto di operatori rivali.
Alcuni obblighi, però, possono anche riguardare il franchisor, come nel caso dell’obbligo di riacquisto dello stock dei beni venduti al franchisee, o nel caso dell’eventuale pagamento di un’indennità alla clientela.
Al termine del rapporto tra i soggetti, accanto alle rimanenze che si verificano normalmente, potrebbero risultare scorte di prodotti, di recente acquisizione, rimasti invenduti, a causa della prematura cessazione del rapporto contrattuale, circostanza che si verifica frequentemente, soprattutto quando a carico del franchisee vi sia un obbligo di acquisto minimo . Il franchisor dovrà quindi provvedere al ritiro di tale giacenze finali accompagnato dalla corresponsione, a favore del franchisee, di un importo pari al loro prezzo di acquisto, diminuito di una percentuale corrispondente all’effettivo deprezzamento subito nel periodotrascorso ; la riduzione del prezzo è stabilita dal giudice in via equitativa in base al livello di problematicità per il franchisor di rivendere le merci ritirate .
Qualora, però, il franchisor non intenda riacquistare le scorte , è necessario, da parte del franchisee, cercare di risolvere il conflitto creatosi, facendo leva sul dovere di buona fede nell’esecuzione contrattuale stabilito dall’art. 1375 c.c. e sul dovere di cura degli interessi della controparte che caratterizza i contratti di durata come il franchising.
In tutte le tipologie di franchising, può spesso accadere che il franchisor sia una grande impresa che conclude una molteplicità di contratti di franchising, avvalendosi di vere e proprie condizioni generali di contratto, predisposte unilateralmente per regolare una serie indefinita di rapporti. In questi casi, poiché l’affiliato non è libero di trattare le singole clausole contrattuali, ma è soltanto posto di fronte all’alternativa di aderire totalmente all’assetto negoziale già predisposto dalla controparte o di rifiutare, si pone il problema di verificare l’eventuale carattere vessatorio di alcune clausole ai fini di una loro specifica approvazione per iscritto, secondo quanto disposto dall’art. 1341, comma 2, c.c..
Il carattere vessatorio deve essere valutato tenendo conto dell’intera composizione di interessi che si realizza nel contratto, ovverosia alla luce del complessivo piano di distribuzione dei rischi.
In particolare, è frequente la prassi per cui il franchisor inserisce nelle condizioni generali del contratto alcune clausole risolutive espresse in considerazione di inadempimenti di lieve importanza , al fine di garantirsi di fatto maggiori possibilità di scioglimento del contratto. La dottrina è concorde nel ritenere vessatorie le clausole risolutive espresse , poiché potrebbero arrecare all’affiliato un danno economico in occasione dello scioglimento del contratto di franchising ad iniziativa del franchisor. È da ritenere che possano essere considerate inefficaci, e quindi come non
apposte, tutte quelle disposizioni, contenute entro condizioni generali di contratto, che non siano state specificamente approvate per iscritto e che attribuiscano al franchisor la possibilità di sciogliere il rapporto in caso di inadempimenti di scarsa importanza. In questi casi, è soltanto data la possibilità di sospendere temporaneamente l’esecuzione della prestazione, anche senza preavviso, purché vi sia equivalenza tra l’entità dell’inadempimento e il valore della prestazione rifiutata, e comunque la sospensione non sia contraria al principio di buona fede .
Ultimo profilo sotto il quale si pone l’esigenza di controllo del franchising, è quello riguardante la “tutela dei consumatori”, poiché tale figura contrattuale, rappresentando una tecnica distributiva, coinvolge i consumatori finali di beni e servizi. Per questo motivo quegli ordinamenti, come l’Italia , che hanno approntato strumenti di tutela a favore dei consumatori, ritengono indisponibili gli interessi degli stessi e, pertanto, qualsiasi accordo contrattuale tra franchisor e franchisee tendente ad eliminare o ridurre gli obblighi nei confronti dei consumatori finali, è da ritenere privo di efficacia . Quanto detto, deriva dall’applicazione, in via analogica, della disciplina in materia di responsabilità oggettiva del produttore, della disciplina in materia di vendita a domicilio e della disciplina in materia di pubblicità ingannevole .

2.4 Le tipologie
Il contratto di franchising ha subito nel corso dei decenni numerose evoluzioni e, se inizialmente questa forma di collaborazione tra imprese riguardava unicamente la distribuzione commerciale, attualmente la situazione risulta diversa. Infatti, la crescente concorrenzialità dei mercati, ha portato all’introduzione di nuove strategie.
Come conseguenza della complessità che oggi caratterizza il franchising, tale figura può essere classificata basandosi su una pluralità di variabili.
È possibile stabilire una prima distinzione in base al ruolo svolto da ciascun attore del sistema all’interno della filiera produttivo-distributiva: si distingue così tra accordi di tipo orizzontale, ossia tra operatori appartenenti allo stesso livello della filiera, ad esempio tra un’azienda di commercio al dettaglio e altre aziende minori dettaglianti che stabiliscono degli accordi per l’adozione di un’insegna comune con lo scopo ottenere un maggiore potere contrattuale, rispetto agli accordi di tipo verticale, ossia tra operatori collocati in fasi diverse della filiera, ma caratterizzati da un’interdipendenza sequenziale realizzabile tra un’azienda industriale e aziende di commercio al dettaglio
Una seconda distinzione, più diffusa in campo giuridico, è possibile utilizzando come criterio di discriminazione il settore di appartenenza degli operatori che si associano per costituire la rete di franchising. È possibile quindi distinguere tra:
a) Franchising di produzione o industriale: si realizza quando un produttore concede ad un imprenditore la facoltà di produrre determinati beni utilizzando i propri marchi, i processi necessari, la formula per la fabbricazione o la lavorazione di un prodotto , e la possibilità di rivenderli sul mercato secondo gli standards previsti dal franchisor, consentendo, però, al franchisee di mantenere una certa autonomia . Il franchisor, quindi, dispone un procedimento di fabbricazione di un prodotto originale identificato da un marchio e il franchisee acquista il diritto-dovere di produrlo, nei limiti quantitativi e nel rispetto delle modalità stabilite nell’accordo stipulato con il franchisor. A tal fine, quest’ultimo fornisce al franchisee il know-how ed eventuali licenze di brevetto , nonché la possibilità di apporre il proprio marchio sul bene; per contro, il franchisee trasmette il prodotto finito al franchisor.
Entrambi i soggetti devono quindi svolgere un’attività di tipo industriale.
La funzione di tale contratto appare riconducibile a quella del contratto di subfornitura di cui all’art. 1 della Legge n. 192 del 18 giugno 1998 , secondo cui “con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna […] a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati […] ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente […] in conformità di progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente”. Pertanto, la causa
del franchising di produzione, così come quella propria della subfornitura, ha contemporaneamente presenti la funzione dello scambio e quella della collaborazione; la prima, si realizza nella trasmissione, contro il pagamento di un prezzo, del prodotto dal fornitore al committente, mentre la seconda si concretizza in un momento antecedente, e consiste in un continuo flusso di informazioni, istruzioni, suggerimenti e aggiornamenti dal committente al fornitore su come realizzare al meglio il bene che poi lo stesso committente acquisterà.
b) Franchising di distribuzione di prodotti: si realizza quando l'oggetto dell'attività è la distribuzione dei prodotti e il franchisee è autorizzato a svolgere attività di rivendita degli stessi . Il franchisor può essere quindi sia un produttore che un distributore che distribuisce i beni attraverso la sua rete di franchising. Il franchisor, pertanto, dopo aver definito e sperimentato le tecniche e i metodi commerciali costituenti il know-how che trasferisce poi al franchisee, mette quest’ultimo in condizione di riprodurre l’immagine e la formula commerciale e di potersi approvvigionare presso il franchisor per poi rivendere i prodotti.
L’obbligazione principale del franchisee risulta, quindi, quella di distribuire i prodotti, garantendo al franchisor un margine di guadagno e versare un corrispettivo sotto forma di diritto di entrata e/o di canoni periodici, a fronte dell’utilizzo del marchio e delle tecniche e metodi commerciali costituenti il know-how a lui concesso. All'interno di questa tipologia di franchising è possibile distinguere, osservando le relazioni tra franchisor e franchisee e il livello di beni, servizi e informazioni scambiate, tra diversi sottotipi di franchising:
b1) “Business form at franchising: prevede il trasferimento da parte del franchisor non solo dei prodotti e dei segni distintivi, ma di un intero “pacchetto di franchising” standardizzato, comprendente ogni aspetto della formula imprenditoriale.
b2) Franchising di prodotto: prevede un minore livello di collegamento tra gli attori derivante dal fatto che il franchisor si limita ad autorizzare il franchisee a rivendere il suo prodotto.
b3) Trade-name franchising: si caratterizza per lo scarso livello di controllo sul prodotto distribuito dal franchisee, al quale il franchisor si limita ad autorizzare l'uso della propria marca.
c) Franchising di distribuzione di servizi: il franchisee offre la prestazione di servizi concepiti, messi a punto, e sperimentati dal franchisor . Quando l’oggetto del contratto è un servizio, il franchisee non rivende qualcosa che è prodotto dal franchisor, ma si tratta di qualcosa che deve realizzare lui stesso conformemente agli standards a lui impartiti . A differenza dal franchising di distribuzione di prodotti, in questa tipologia diventa determinante il trasferimento del know-how, poiché non è circoscritto, come nel franchising di distribuzione di prodotti, alle modalità per mezzo delle quali presentare ai clienti un certo bene confezionato totalmente dal franchisor, ma investe anche la stessa “produzione” del servizio, realizzato dal franchisee. Si realizza, quindi, un rapporto di collaborazione più stretto tra i due soggetti, in quanto il franchisor deve costantemente aggiornare il know-how e controllare la conformità del servizio fornito .
Nella prassi oggi è possibile anche osservare tipologie di franchising misti, come per esempio in Francia, in cui si è sviluppato il franchising di distribuzione di prodotti e quello di servizi promiscui .
Un’ulteriore classificazione può essere effettuata in base al fatto che l’attività venga esercitata in una sede fissa o meno distinguendo tra tre tipologie di franchising:
- Franchising convenzionale: il franchisee ha il diritto esclusivo di vendita del prodotto o di prestazione del servizio limitatamente ad un determinato territorio.
- Franchising itinerante: il franchisee opera sempre nell’ambito di un determinato territorio, ma senza costituire un’unità di vendita fissa, bensì spostandosi con l’impiego di autoveicoli acquistati o presi in locazione .
- Franchising internazionale: i contraenti hanno sede ed operano in due Stati diversi .
Inoltre, esistono altre tipologie di accordi classificabili come franchising tra cui il “multi-franchising” che offre la possibilità ad un franchisee di aprire più punti vendita sotto l’insegna di uno stesso franchisor.
Si parla, invece, di “pluri-franchising” quando esiste un’autorizzazione da parte del franchisor rivolta ad un franchisee per stipulare contratti anche con altri franchisors, che offrono prodotti o servizi complementari. Il franchisee apre, quindi, in franchising più punti vendita, ma sotto insegne diverse che non devono essere in concorrenza tra loro; inoltre è necessario che i singoli contratti non prevedano alcun tipo di esclusiva e che disciplinino le opportune forme di coesistenza tra più franchisors, in modo tale che ciascuno possa riservarsi il proprio spazio e preservare il proprio marchio.
Il “corner franchising” consiste, invece, nel predisporre, all’interno di un punto vendita, uno spazio privilegiato nel quale vengono venduti i prodotti del franchisor, secondo i modi di presentazione e le tecniche di vendita da lui definite . Questo sistema ha il vantaggio di permettere la distribuzione di prodotti oggetto di franchising in località in cui la densità della popolazione non giustificherebbe l’apertura di un punto vendita esclusivo. Lo svantaggio consiste invece, per il franchisor, nella maggiore difficoltà di controllo dell’immagine all’interno di un negozio in cui vi è una pluralità di marche.
Infine, il “master franchising”, è un accordo in base al quale un sub-franchisor assume in proprio la responsabilità per lo sviluppo e l’amministrazione di una rete di franchisees in una determinata area. Ogni franchisee, in questo caso, può operare a livello nazionale e ha la facoltà di stipulare contratti di affiliazione con vari sub-franchisees, i quali non hanno alcun rapporto contrattuale diretto che il franchisor. I sub-contratti di franchising saranno direttamente collegati al contratto principale di cui dovranno ripetere regole e contenuti . Ciò permette a quest’ultimo di decentrare la gestione della rete, usufruendo al tempo stesso, della conoscenza diretta del territorio dei franchisees .
E’ quindi possibile concludere che il franchising è un fenomeno economico complesso, caratterizzato da molteplici aspetti che danno luogo a varie tipologie.
Esso determina il sorgere una serie di obblighi contrattuali che non si esauriscono in una singola operazione di scambio, ma realizzano una collaborazione strutturata e continuativa, che spesso si traduce in una vera e propria integrazione tra le parti, e va oltre i confini della distribuzione commerciale nel senso tradizionale del termine.

 

CAPITOLO 3: La nuova legge italiana

3.1 Premessa
L’Italia, così come altri paesi europei, si è dotata, con la Legge n. 129 del 6 maggio 2004 , di una normativa in materia di franchising, colmando il vuoto legislativo esistente fino a quel momento.
La legge, nel momento della sua entrata in vigore, doveva essere applicata obbligatoriamente a tutti i contratti di franchising in corso, ossia anche quelli stipulati anteriormente a tale data .
L’esigenza di disciplinare tale istituto derivava dall’ampia diffusione del contratto di franchising negli ultimi decenni in tutto il mondo. La legge, però, è costituita da un ridotto numero di articoli e per tale motivo è stata molto criticata da gran parte della dottrina , la quale sostiene che lo scopo della normativa non è realmente quello di regolare il franchising, quanto piuttosto di predisporre particolari strumenti di tutela in favore dei franchisees, in quanto soggetti con minore forza contrattuale rispetto ai franchisors, soprattutto attraverso la previsione di obblighi informativi a carico di questi ultimi, tralasciando, invece, altri aspetti rilevanti del rapporto di franchising rilevabili soltanto indirettamente dal testo degli articoli .
Per questo motivo, secondo alcuni autori, la legge somiglia più che ad un testo normativo vero e proprio, ad un codice di comportamento impostato sull’enunciazione di principi di limitata rilevanza, anche perché privi di sanzioniin caso di mancato rispetto . Da rilevare è, in particolare, la mancanza di norme in caso di risoluzione del rapporto di franchising, cui fa riscontro un eccessivo spazio all’autonomia delle parti .
Alcuni criticano anche il fatto che nel testo non sia prevista l’istituzione, presso le camere di commercio, di un apposito elenco nel quale avrebbero dovuto iscriversi le imprese che costituiscano una rete di franchising, al fine di poter garantire un puntuale monitoraggio sullo sviluppo di tale figura economica oltre che un corretto e trasparente svolgimento dell’attività economica intrapresa .
Altra parte di dottrina , invece, ha accolto la legge come un passo favorevole e importante in materia di franchising e l’ha definita come una “disclosure law”, vale a dire una legge che soddisfa l’esigenza di offrire un quadro di regole finalizzate alla trasparenza nei rapporti, soprattutto in un periodo caratterizzato dal sorgere di un elevato numero di catene di imprese che provocano rischi gestionali e finanziari a causa della scarsa solidità strutturale, coinvolgendo, così, i piccoli imprenditori non opportunamente tutelati. In secondo luogo, si osserva che la legge ha lo scopo di garantire la massima trasparenza nei rapporti contrattuali, attraverso specifici obblighi informativi precontrattuali e clausole negoziali obbligatorie.
Questa parte di dottrina sostiene, al contrario della precedente, che la mancata regolamentazione di alcuni aspetti contrattuali è da intendersi come fatto positivo grazie all’assenza di inutili rigidità rispetto ai rapporti tra le parti, rispettando la loro autonomia. Si sostiene, inoltre, che, se si fossero regolati anche gli aspetti sostanziali del franchising, ne sarebbe risultata una normativa eccessivamente stringente che avrebbe prodotto una restrizione della libertà degli operatori determinando uno schema contrattuale rigido già predisposto a livello legislativo, che non avrebbe permesso alle parti la libertà di poter creare fattispecie contrattuali flessibili adattabili alla diverse tipologie di franchising , diminuendo le possibilità di sviluppo di tale figura .
Il motivo principale per cui è stata emanata una legge in favore del franchising, quindi, consiste nell’asimmetria informativa che, per la natura stessa del rapporto, caratterizza la posizione soggettiva del franchisee nei confronti del proprio franchisor: lo scopo è dunque quello di prevenire comportamenti scorretti della parte con maggiore potere contrattuale fissando vincoli minimi al contenuto del contratto.
Franchisee e franchisor, al momento dell’instaurazione del rapporto contrattuale, si trovano, infatti, in una situazione di squilibrio e disparità informativa; mentre il franchisor è generalmente dotato di competenze sufficientemente approfondite, tali da permettergli di valutare l’opportunità, la convenienza dell’affare e prevedere approssimativamente il risultato economico che riuscirà ad ottenere dalla conclusione dell’accordo, il potenziale franchisee si trova, invece, in una situazione tale da rendergli difficile una valutazione equilibrata e approfondita .
Quest’ultimo è spesso un soggetto privo di esperienza specifica, se non addirittura di esperienza commerciale generica, ed è quindi esposto ad una situazione di tendenziale dipendenza nei confronti del franchisor, col rischio di possibili comportamenti opportunistici, se non addirittura abusivi di quest’ultimo.
Sebbene la Legge n. 129 del 2004 non abbia rappresentato il primo intervento del legislatore in contratti tra imprenditori , tale compito risulta sempre caratterizzato da un’elevata difficoltà, poiché è necessario, in primo luogo, individuare la parte che necessita effettivamente di maggiore tutela, cosa non sempre facile da stabilire nel franchising, poiché in alcune situazioni, seppur marginali, è il franchisor a richiedere maggiore tutela. Per esempio, a favore dell’affiliante, è stabilito che l’aspirante affiliato debba rispettare obblighi di lealtà, correttezza e buona fede, oltre che di trasparenza nel corso delle trattative per evitare che il franchisor stabilisca rapporti contrattuali con soggetti di cui non può ottenere informazioni, essendo molti dati coperti dal rispetto della legge sulla privacy .
La legge sembrerebbe partire dal presupposto che uno dei contraenti sia meritevole di particolare tutela (in questo caso ci si riferisce al franchisee), ma analizzando più attentamente il testo risulta un bilanciamento degli obblighi contrattuali tra le parti, poiché la stessa legge stabilisce ed impone vincoli ad
entrambe le parti, e non solo al soggetto dotato di maggiore forza contrattuale.
Va precisato però che scopo della legge non è quello di garantire il raggiungimento di un equilibrio nella posizione economica dei soggetti, ma soltanto quello di fornire un adeguato grado di informazione .
Per quanto riguarda l’equilibrio fra le parti e l’eliminazione della disparità di potere contrattuale esistente, vengono prese in considerazione altre norme, tra le quali l’art. 9 della Legge n. 192 del 1998 .
Da quanto emerso in precedenza, è possibile osservare che la fase precontrattuale risulta essere il punto principale attorno al quale si snoda la legge italiana sul franchising; le relazioni che le parti intrattengono prima della stipulazione del contratto, infatti, hanno come obiettivo quello di permettere a ciascuna parte di ponderare adeguatamente la propria decisione di collaborare reciprocamente; per questo motivo, ciascun contraente necessita di un certo numero di informazioni nei riguardi della controparte.

3.2 La Legge n. 129 del 2004
All’art. 1 comma 1, la Legge n. 129 del 2004, definisce il contratto di franchising come un rapporto tra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti , in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, know-how, assistenza e consulenza tecnica e commerciale ecc., inserendo il franchisee in un insieme costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.
Tutti gli elementi descritti costituiscono il “package” che il franchisor deve trasferire a tutti i suoi affiliati, ma non risulta chiaro se esso debba contenere necessariamente tutti i fattori indicati. La maggioranza della dottrina risponde negativamente a tale quesito, indicando quale unico elemento essenziale, il knowhow .
La legge precisa inoltre che ogni affiliato deve essere inserito nell’intero sistema distributivo del franchisor; il contratto di franchising, infatti, rappresenta uno strumento appositamente ideato per creare un sistema a “rete” .
La specificazione ha rilievo sul piano dell’identificazione della causa del contratto, il quale viene a caratterizzarsi per l’incardinamento del singolo rapporto in un fascio di relazioni giuridiche simili, sebbene reciprocamente autonome, tese, nel loro insieme, alla creazione della rete destinata allo sfruttamento dell’unitaria formula commerciale .
Il concetto di rete è fondamentale all’interno della Legge n. 129 del 2004, dal momento che, fino a quando non si costituisce una rete commerciale non si può parlare di franchising , mentre, quando il franchisor inizia a costituirla inserendo i suoi affiliati, ogni contratto stipulato con detti soggetti dovrà sottostare alla disciplina legale, prima fra tutte la norma che impone di far precedere la sua conclusione da un’adeguata sperimentazione della formula commerciale : lo scopo principale di tali disposizioni consiste infatti nell’evitare che operatori non sufficientemente preparati diano luogo ad un rapporto di franchising.
Per la costituzione di tale rete, si precisa, all’art. 3, comma 2 della legge, che il franchisor deve precedentemente aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale, poiché è stato osservato che in passato “si sono espresse forme di improvvisazione e di inesperienza, che hanno alimentato un forte contenzioso” ; per questo motivo il legislatore ha deciso di adottare uno strumento che potesse ovviare a questo problema o, quantomeno, ridurne la portata, evitando che il franchisor utilizzasse la propria formula commerciale senza averla sperimentata a sufficienza .
La sperimentazione può avvenire attraverso degli “affiliati pilota” o “in proprio” aprendo in prima persona nuovi punti vendita; l’unità pilota può essere una filiale o un’unità locale del franchisor ma, perché si possa parlare di sperimentazione, occorre che essa funzioni in modo autonomo dal punto di vista economico e contabile.
I presupposti per avviare una fase di sperimentazione consistono nella titolarità, da parte del franchisor, del diritto all’uso esclusivo dei segni distintivi regolarmente registrati e del know-how; inoltre, il soggetto deve essere in grado di fornire agli “affiliati pilota” la formazione iniziale e la successiva assistenza tecnica, commerciale, di progettazione e di allestimento.
Durante la fase di sperimentazione il franchisor deve verificare i risultati raggiunti grazie all’uniformità di immagine dei soggetti e l’efficacia derivante dall’utilizzazione delle medesime attrezzature, dei medesimi criteri di formazione del personale e dei medesimi accordi di fornitura.
Non essendo stabilito un limite temporale entro il quale tale fase possa considerarsi conclusa, la dottrina sostiene che il franchisor può affermare di aver sperimentato la propria formula commerciale e, quindi, costituire una rete di affiliazione commerciale, quando è in grado di dimostrare che questa abbia prodotto buoni risultati in termini di efficacia in tutti i centri pilota .


F. Di Lorenzo, La natura giuridica del contratto di concessione di vendita, dal sito internet www.diritto.it

Artt. 1559 e seguenti Codice Civile. Le uniche norme riguardanti la somministrazione che possono essere applicate anche nei confronti della concessione di vendita sono gli artt. 1564 e 1565 c.c.; il primo, relativo alla risoluzione del contratto, è applicabile alla concessione di vendita in quanto riferibile a tutti i contratti a prestazioni periodiche o continuative. In tale contesto rientrano non solo gli inadempimenti relativi alle forniture, ma anche quelli afferenti l’obbligo promozionale a carico del concessionario. Il secondo, relativo alla sospensione del contratto di somministrazione da parte del somministrante, pur non trattandosi di norma comune ai contratti a prestazioni periodiche e continuative, dovrebbe valere anche nei confronti della concessione di vendita poiché, se il legislatore ammette che il somministratore possa interrompere la fornitura in presenza di un inadempimento, la stessa disciplina dovrebbe essere estendibile al rapporto di concessione.

Su questo punto sono stati approfonditi gli studi giuridici: i giuristi si sono chiesti se, nell’ambito della disciplina codicistica relativa alla durata del contratto di agenzia, la quale prevede un’indennità in caso dello scioglimento del contratto, se questa fosse applicabile analogicamente anche alla concessione di vendita. La risposta prevalente in dottrina è negativa in quanto la clientela dell’agente è, in primo luogo, clientela del preponente, mentre il concessionario rivende in nome e per proprio conto.

Cfr. F. Di Lorenzo, La natura giuridica del contratto di concessione di vendita, dal sito internet www.diritto.it

Comunicazione del 24/12/1962.

Il problema è invece sconosciuto nelle trattazioni americane poiché l’espressione “franchising” indica tutta la gamma degli accordi di distribuzione.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 51-53.

Ci si riferisce soprattutto al franchising di distribuzione.

Eccetto il caso di franchising di servizi svolto al di fuori di un punto vendita.

Eccetto l’esposizione del marchio che deve sempre avvenire.

Parte della dottrina critica questa differenza e sottolinea il fatto che anche nella concessione di vendita il concessionario deve adeguarsi ad alcune caratteristiche standards imposte dal concedente (anche se i vincoli sono più attenuati rispetto al franchising).

Cfr. R. Pardolesi, I contratti di distribuzione, Napoli, 1979, pag. 265.

Parte della dottrina critica questa differenza e sottolinea il fatto che anche nella concessione di vendita è spesso previsto l’utilizzo dei segni distintivi, poiché si configura come un interesse reciproco per entrambe le parti.
Cfr. F. Di Lorenzo, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet www.diritto.it .
Cfr. L. Delli Priscoli, I contratti di distribuzione come categoria unitaria in Giurisprudenza Commerciale, 1994, fasc. 2, pag. 801.
Cfr. G. De Nova, Nuovi contratti, Torino, 1994, pag. 247 ss..

La concessione non può avere per oggetto beni immateriali poiché non è possibile ricevere in fornitura un servizio e poi rivenderlo.

Tribunale di Crema, 23 novembre 1994, Ford Italiana S.p.a. contro Campopiano, in Contratti, 1996, 52.

Cfr. G. De Nova, Nuovi contratti, Torino, 1994, pag. 247 ss..

Pretura di Lecce, 24 ottobre 1989, in Giurisprudenza Italiana, 1991, 732.

Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 79-83.

Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986, pag. 353 e ss..

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 51-53.

Per esempio, il caso dei contratti per i distributori di benzina.

Cfr. F. Di Lorenzo, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet www.diritto.it

Spesso succede che le due diverse denominazioni vengano utilizzate in modo promiscuo e anzi, sempre più spesso, nella prassi commerciale viene preferito il termine “franchising” perché più “accattivante” e come tale in grado di offrire, ad un affiliante che si voglia diffondere sul mercato, maggiori possibilità di raccogliere adesioni da parte di potenziali affiliati.
Cfr. L. Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Cfr. L. Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Cfr. F. Di Lorenzo, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet www.diritto.it.

Per un’analisi più approfondita si rimanda al Capitolo 1 par. 5.

Cfr. F. Di Lorenzo, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet www.diritto.it.

Cfr. P. Zanelli, Impresa, lavoro ed innovazione tecnologica, Milano, 1985, pagg. 171 ss..

Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 62-66.

Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pag. 63.

Ad esempio il franchisee è libero di determinare il proprio margine di profitto attraverso opportune scelte gestionali organizzando i fattori della produzione in modo tale da ottenere la maggiore produttività possibile. Rappresentano, inoltre, estrinsecazioni dell’autonomia imprenditoriale del franchisee, la possibilità, pur nel rispetto delle aree territoriali di attività contrattualmente stabilite, di organizzarsi in modo tale da incidere favorevolmente sul volume delle vendite, sia la possibilità di porre in essere una politica volta alla minimizzazione dei costi di gestione.
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 62-66.

Il rischio d’impresa è comunque ridotto poiché l’affiliato, entrando a far parte della catena del franchisor, può godere di un mercato sicuro, di vantaggi connessi alla pubblicità e al marchio già affermato sul mercato.

In campo comunitario però è stato utilizzato il termine “impresa”, art. 1.3, lett. c), Regolamento n. 4087/88.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 47-49.

Denominato anche business plan.

Le economie di scala rappresentano il vantaggio economico che deriva dall’incremento della dimensione e della capacità produttiva dell’azienda, dato un certo livello di utilizzo della capacità stessa.

Il risparmio dei costi si realizza sia per i costi variabili che per i costi fissi; sui primi il franchisee riesce ad ottenere un risparmio grazie alle condizioni vantaggiose che riceve dal franchisor per quantoriguarda gli approvvigionamenti delle merci. Per quanto riguarda i secondi, è possibile ottenere unrisparmio soprattutto nella fase iniziale dell’attività poiché tali spese saranno sostenuto per gran parte dal franchisor.

La maggiore sicurezza deriva principalmente dal ricorso ad un know-how già sperimentato sul mercato, dall’assistenza continua del franchisor, dagli aiuti burocratici che quest’ultimo offre.

Per un’analisi più approfondita delle obbligazioni che gravano sulle parti si rimanda al paragrafo 4 di questo capitolo.

Il “package” è definibile come l’insieme dei diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica o commerciale.

Mentre in passato si rilevava che in Italia il pagamento di una entry fee era sconosciuto, oggi si può affermare che tale previsione si riscontra in quasi un terzo degli schemi contrattuali italiani di franchising.

Cfr. G. De Nova, voce “Franchising” in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale, volume IV, Torino, 1991, pagg. 296-308.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 47-49.

È noto che, prima della Legge n. 129/2004, in alcune occasioni degli affiliati insoddisfatti chiesero al giudice di dichiarare che effettivamente il loro rapporto fosse riconducibile al lavoro subordinato. I giudici conclusero che, nonostante la liberta di azione imprenditoriale dell’affiliato fosse ristretta, la libertà residua con il connesso rischio di impresa non potevano trasformare un’attività imprenditoriale in un rapporto di lavoro subordinato.
Cfr. Pretura Palestrina, 14 febbraio 1987, Bratti c. GES.COM., in Foro padano, 1988, fasc. I, pag. 549.

Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206.

L’art. 2082 c.c. fornisce la definizione di imprenditore recitando: “È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.

Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pagg. 17-21.

Corte di Giustizia CE, 3 luglio 1997, causa C-269/95, F. Benincasa c. Dentalkit S.r.l., in Europa e diritto privato, 1998, pag. 335.

Decreto legislativo del 6 settembre 2005, n. 206 denominato anche “Codice del Consumo”.

In questo caso deve trattarsi di franchising di distribuzione o di servizi, dato che nel franchising di produzione l’affiliato non ha contatti diretti con i consumatori.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 31-33.

È da sottolineare il fatto che il franchising inteso come tecnica commerciale, assume un significato rilevante solo se i singoli rapporti tra franchisor e franchisee vengono ad inserirsi in un unico contesto economico, organizzativo ed armonico.

Infatti il franchisee non sostiene per intero i costi di pubblicità, non deve occuparsi della selezione dei fornitori e del reperimento del materiale.
Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.

Cfr. A. Marrone, Il franchising, Milano, 2004, pagg. 33-38.

Il reclutamento dei franchisees può avvenire attraverso riviste specializzate o annunci su giornali di grande diffusione (a seconda se si desiderano soggetti già operanti nel settore con una certa esperienza, oppure operatori che presentino solo i requisiti generici di capacità e di iniziativa), oppure tramite franchisees già operanti in altre catene di franchising. In quest’ultimo caso, da un lato si ha il vantaggio di trovarsi di fronte a contraenti già informati sui vincoli contrattuali del franchising, ma dall’altro lato potrebbero sorgere problemi dovuti alla difficoltà con cui tali operatori si devono adeguare ad una nuova politica di gestione diversa da quella seguita fino a quel momento.

La rete di franchising è il risultato di più contratti di franchising stipulati tra il franchisor e un certo numero di franchisees sparsi nel territorio. La rete consente al franchisor una presenza capillare sul territorio, diffusione della notorietà del marchio, maggiori possibilità di comunicazione e di collaborazione.

Infatti il franchisor non ha alcun controllo in termini di quote di capitale sociale o di partecipazione alla gestione, rispetto al franchisee.

L’affermazione riveste un ruolo importante soprattutto nel mercato odierno in quanto le reti di franchising non sono costituite con l’unico scopo di coprire il territorio e di servire la clientela locale; nelmondo attuale i consumatori si spostano molto e, se si ritengono soddisfatti dai prodotti offerti da una certa marca, cercheranno di ritrovare, ovunque essi vadano, quell’insegna, nella speranza che la stessa garantisca loro quel livello di qualità che già conoscono.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 1-6.

Tanto più alti saranno gli investimenti, tanto maggiore dovrà essere la tutela a favore del franchisee (si pensi ad esempio ad una catena alberghiera).
Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pagg. 79-82.

Anche nel caso in cui, all’interno di un contratto di franchising, mancasse formalmente l’esclusiva territoriale, la stessa struttura economica del contratto impone che la rete di franchising sia gestita secondo i criteri propri della “distribuzione selettiva” in generale, ovvero che siano ammessi alla distribuzione dei prodotti contrattuali soltanto coloro che si trovino in possesso di requisiti qualitativi (spazio, ubicazione dell’esercizio commerciale ecc.) previsti per divenire franchisees. In questo modo, verrebbe comunque garantito che i prodotti contrattuali non siano distribuiti al di fuori della rete, a favore dell’insieme dei membri della quale verrebbe così a crearsi una sorta di “co-esclusiva di gruppo”.
Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pagg. 79-82.

Si parla in tal caso di franchising “impuro”.
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pag. 70.

Per esempio nel caso in cui si avvalga del contratto di concessione di vendita.

Oppure, può essere stabilito, all’interno del contratto, il divieto per il franchisor che distribuisca direttamente i propri prodotti, di svolgere politica attiva di vendita (tramite pubblicità o altre forme di ricerca della clientela) all’interno di una certa area territoriale prossima al punto vendita di ciascun franchisee. Inoltre, il franchisor, può obbligarsi a far rispettare un simile divieto ai rivenditori a lui legati da contratti di tipo diverso rispetto al franchising.
Cfr. A. Marrone, Il franchising, Milano, 2004, pagg. 57 ss..
Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pagg. 79-82.

È da sottolineare che un simile effetto dannoso si verifica indipendentemente dalla quantità di beni di provenienza estranea alla rete presente nel punto vendita, nonché dal carattere sistematico, o viceversa, occasionale, della rivendita di tali beni da parte del franchisee. L’effetto di discredito della catena di franchising, infatti, è altrettanto idoneo a propagarsi tra il pubblico dell’apprezzamento favorevole garantito dalla qualità dei prodotti o servizi distribuiti in franchising: così come ciascun franchisee si giova dei risultati ottenuti dagli altri, parimenti un difetto di qualità nei prodotti venduti anche solo sporadicamente da uno dei franchisees tenderebbe a riflettersi negativamente su tutti gli altri.
Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pagg. 104-106.

Le due parti risultano indipendenti l’una dall’altra; ciò comporta che, di norma, il franchisor non può essere chiamato a rispondere delle obbligazioni assunte dai franchisee nei confronti dei terzi.

Cfr. A. Frignani e M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, pag. 633.

Più raramente la royalty è sostituita da un canone periodico, mensile o trimestrale, predeterminato, come una sorta di corrispettivo della licenza d’uso dei segni distintivi e del know-how, che avvicinerebbe, secondo alcuni, il contratto di franchising ad una forma particolare di affitto di azienda, ipotesi però smentita dalla giurisprudenza. E’ stato affermato infatti che “il contratto di franchising prevede il trasferimento di alcune facoltà imprenditoriali specificamente determinate e non del complesso unitario di beni mobili ed immobili, materiali ed immateriali, concessi in godimento in quanto organizzati per la produzione di beni e servizi, per cui non può ritenersi che l’ipotesi contrattuale in questione realizzi una cessione (o affitto) dell’azienda”.
Cfr. Cassazione, sez. III, 23 agosto 1990.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 23-45.

Categoria proposta da A. Dalmartello, I contratti delle imprese commerciali, Padova, 1962, pagg. 432 ss..

Il franchisee può essere anche un piccolo imprenditore, mentre il franchisor dovrebbe dotarsi di un’organizzazione più strutturata.
Cfr. G. De Nova, Nuovi contratti, Torino, 1994, pagg. 247 ss..

E’ aperto il dibattito in dottrina circa l’effettiva necessità di enucleare la categoria dei contratti d’impresa, poiché alcuni sostengono che tale categoria assolverebbe ad una funzione soltanto descrittiva. Altri ritengono, invece, che parlare di contratti d’impresa sia utile per risolvere problemi interpretativi e colmare alcune lacune normative. Si discute anche sul fatto che, se per enucleare tale categoria di contratti, occorra fare riferimento all’aspetto oggettivo dell’interesse di imprese o, piuttosto, a quello soggettivo della presenza come parte di almeno un imprenditore. Molti sostengono che entrambi i punti di vista siano condivisibili poiché sostanzialmente coincidono, dato che tutte le volte in cui un imprenditore conclude un contratto per un fine diverso da quello d’impresa non lo fa in qualità di imprenditore ma di consumatore.
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 74-80.

Il “pilotage” è stato codificato, quale obbligo del franchisor, dalla Legge n. 129/2004, il cui art. 3, comma 2, prevede che “per la costituzione di una rete di affiliazione commerciale l’affiliante deve aver sperimentato, sul mercato la propria formula commerciale”, principio ripreso dal Codice Deontologico dell’Assofranchising, il quale prevedeva che “prima di costituire la propria rete di franchising, l’affiliante dovrà aver sperimentato sul mercato, con successo, la propria formula, per un periodo minimo di un anno, con almeno un’unità pilota, qualora applicabile”.

Dalle licenze d’uso derivano gli impegni a fornire assistenza tecnica e commerciale per avviare l’impresa del franchisee, a somministrare allo stesso i beni contrattualmente pattuiti, a fornire consulenza commerciale, promozionale e di marketing durante tutta la durata del rapporto, ad addestrare il personale che sarà impegnato nell’impresa del franchisee.

Cfr. A. Marrone, Il franchising, Milano, 2004, pag. 52.

La formazione del soggetto comporta normalmente uno stage preliminare in un punto vendita.

Art. 3 del Codice Deontologico della Federazione Italiana del Franchising.

Durante tale attività il franchisor aggiorna il franchisee sull’evoluzione delle tecniche di vendita, sulle modalità di presentazione dei prodotti attraverso corsi specifici destinati sia al personale addetto alle vendite, sia al personale amministrativo. Un’importanza particolare riveste la formazione nel franchising di servizi; si pensi per esempio alle reti di parrucchieri o di fast food, dove la qualità del servizio è garantita proprio dalla professionalità degli addetti ai lavori.

Soprattutto nel franchising di distribuzione, dove esiste un locale aperto al pubblico, è necessario che questo venga rinnovato periodicamente per attirare l’attenzione della potenziale clientela.

Il canone d’ingresso è costituito da una cifra fissa, rapportata al valore economico e alla capacità di sviluppo della rete. Qualora tale pagamento sia ritardato oltre i termini previsti dal contratto, sono previsti, a carico dell’affiliato, penalità ed interessi moratori.

Per quanto riguarda le royalties alcuni sostengono che il loro pagamento è da considerarsi elemento caratteristico del contratto di franchising, mentre altri ammettono che tale previsione possa mancare, senza che il contratto ne risulti snaturato.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 23-45.

Cfr. App. Bologna, 7 maggio 1994, in Diritto Industriale, 1995, pag. 370.

Cfr. Tribunale di Lecce, 9 febbraio 1990, in Foro Italiano, 1990, tomo I, pag. 2798.

Ci si riferisce al contratto di agenzia.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 23-45.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 23-45.

Il rischio in questo caso è che la rete di franchising si trasformi in una sorta di Marketing Multilivello, denominato anche “network marketing” rappresentato da un sistema di vendita diretta, nel quale i prodotti
e i servizi vengono forniti ai consumatori finali tramite una rete di incaricati alle vendite indipendenti (es.venditori free lance, non agenti) che ne promuovono la vendita. Costoro ricevono un compenso per le vendite realizzate, e per le vendite a consumatori realizzate dalla rete di ulteriori venditori, trovati e selezionati dagli incaricati stessi. In questo modo l’espansione della rete, che garantisce una capillarità della diffusione dei prodotti, è determinata dai venditori stessi.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004 in cui viene definito il contratto di franchising come “enduring relationship” cioè “rapporto durevole”, pag. 47.

I termini solitamente utilizzati variano da un minino di 3 anni a 9 anni ed oltre; la diversa lunghezza dipende normalmente dai diversi tempi necessari al franchisee per rientrare dagli investimenti effettuati. Alla scadenza di tale periodo minimo iniziale il contratto può essere rinnovato per periodi più brevi (anche solo un anno).

Anche se nella realtà ciò è piuttosto raro. Solitamente, infatti, le parti preferiscono fissare un periodo minimo per il vincolo, periodo che, nella maggior parte dei casi, varia tra i tre e i nove anni: si tratta dell’arco di tempo normalmente necessario per ammontare e rendere profittevoli gli investimenti effettuati dal franchisee. Alcune volte la durata minima può dipendere dall’applicazione di leggi speciali; si pensi per esempio ad un franchisor che sia proprietario di un immobile urbano concesso in locazione commerciale al franchisee. In questo caso il termine minino del contratto di franchising coinciderà con il termine minimo stabilito dalla legge per la locazione dell’immobile.

L’atto con cui si esercita il recesso è un negozio giuridico unilaterale con effetto estintivo: si tratta di una dichiarazione recettizia immediatamente impegnativa per entrambe le parti anche se l’efficacia ne è differita. Tale atto è irrevocabile dal momento in cui il destinatario ne abbia avuto notizia.

In tema di cessione d’azienda, l’art. 2558 c.c., nel disciplinare, in via generale, le vicende dei contratti in corso, stabilisce che, in assenza di diversa pattuizione, l’acquirente subentri nei contratti stipulati per l’esercizio d’azienda stessa che non abbiano carattere personale. Ne consegue che, per derogare alla regola generale ed evitare il conseguente subingresso dell’acquirente nei rapporti negoziali del cedente, occorre provare il “carattere personale” del rapporto stesso, ovvero l’esistenza del “patto contrario”.
Cassazione 7 marzo 2001, n. 3312, in Giustizia Civile 2001.

Il patto di non concorrenza richiede la forma scritta ad probationem e, qualora sia inserito nelle condizioni generali del contratto, è inefficace se non approvato specificamente per iscritto. La durata del patto di non concorrenza è, solitamente, stabilita in cinque anni.
Cfr. G. De Nova, Nuovi contratti, Torino, 1994, pagg. 247 ss..

Spesso, infatti, i franchisors inseriscono all’interno dei contratti di franchising, l’obbligo a carico dei propri franchisees di acquisto di un quantitativo minimo in relazione ad ogni ordine da essi effettuato.
Cfr. R. Pardolesi, I contratti di distribuzione, Napoli, 1979, pag. 305.

Tale obbligo nasce nel rispetto del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto sancito all’art. 1375 c.c..
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pag. 143-148.

Ad esempio, nell’anno 2009 il franchisor incontrerà delle difficoltà a vendere, direttamente o tramite altri franchisees, la collezione di abiti da lui stesso ideata e pubblicizzata per l’anno 2008.

La ripresa dello stock è inesistente, ovviamente, nel franchising di servizi.

Ad esempio nel caso di ritardato pagamento dei prodotti acquistati, oppure nel caso di realizzazione del volume d’affari inferiore al minimo prefissato dal franchisor.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pag. 87-89.

La norma fa riferimento, in via analogica, all’art. 1460, comma 2 c.c., relativo alla somministrazione.

Cfr. il Codice del Consumo, Decreto Legislativo n. 206 del 6 ottobre 2005.

Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pag. 129-131.

Per un’analisi più approfondita si rimanda al paragrafo 4 del Capitolo 4.

In questo caso si parla di “franchising manufacturing”.

In questo caso si parla di “franchising processing”.

Oltre alle conoscenze tecniche, sono richiesti all'affiliato importanti investimenti di capitale. Questo spiega la scarsa diffusione di questa tipologia in Italia, rappresentato soltanto dallo 0,5% degli affilianti. Dati disponibili sul sito internet www.assofranchising.it . Proprio per lo scarso successo sia il legislatore comunitario che quello nazionale italiano hanno escluso tale formula economica dal campo di applicazione della legge sul franchising.

Licenza mediante la quale il titolare del brevetto attribuisce ad un altro soggetto il diritto di utilizzare l’invenzione senza trasferire la titolarità del brevetto. Il brevetto è liberamente trasferibile indipendentemente dal trasferimento dell’azienda (art. 2589 c.c.). Il titolare del brevetto può concedere licenza di uso del brevetto stesso, con o senza esclusiva (nel caso di franchising si tratta solitamente di licenza senza esclusiva perché un franchisor stipula di norma più contratti contemporaneamente).

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 66-73.

Il franchising di distribuzione è la forma di franchising più utilizzata in Italia, secondo i dati dell'Assofranchising, con il 56,8% delle imprese affilianti. Dati disponibili sul sito internet www.assofranchising.it .

Questa tipologia di franchising è utilizzata nei settori della ristorazione, dell'attività alberghiera, degli istituti di istruzione e formazione, dell’intermediazione mobiliare, dell’autonoleggio ecc.. In Italia questa tipologia è rappresentata dal 42,7% degli affilianti. Dati disponibili sul sito internet www.assofranchising.it .

Alcuni suddividono tale categoria in due sottocategorie: il franchising di servizi di tipo terziario in cui l’investimento da parte del franchisor è essenzialmente intellettuale e commerciale (ad esempio una società di consulenza), e il franchising di tipo alberghiero in cui è richiesto anche un grande investimento materiale (si pensi ad esempio agli investimenti che vengono sostenuti per l’arredamento degli hotels).
Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 13-14.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 59-65.

Cfr. A. Dassi, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 7-10.

In questo caso, potendosi il franchisee spostare potenzialmente ovunque, le parti di un contratto di tipo itinerante, sono solite prestabilire le zone entro le quali il franchisee può legittimamente muoversi.

Un esempio è rappresentabile dai contratti stipulati da Benetton con franchisees di tutto il mondo. Altro esempio è quello del caso “Pronuptia” in cui il franchisor era un’impresa francese, mentre il franchisee era un’impresa tedesca.
Per un’analisi più approfondita del caso, cfr. Capitolo 1, par. 3.

Tale tipologia si è sviluppata a causa dell’ampliamento territoriale e dimensionale dei punti vendita della grande distribuzione, riflettendo l’interesse dei franchisors ad essere presenti in tali luoghi con “angoli” che ripetano, seppure in dimensioni ridotte, i punti vendita della loro catena.

Denominati anche master-franchisees. Tali soggetti non sono titolari originari dei segni distintivi, né del know-how o della formula commerciale destinata ad individuare la catena; tuttavia egli solitamente ne diventa il titolare nel proprio Paese in virtù di concessione o, più spesso, di licenza.

Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 177-181.

Questa tipologia di franchising è stata utilizzata da molti franchisors americani per l’espansione dei propri sistemi nei grandi spazi del continente nordamericano.

La legge è intitolata “Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 120 del 24 maggio 2004, entrata in vigore il giorno successivo.

Tali contratti avevano tempo un anno per adeguarsi alle nuove norme.

Alcune critiche sono basate anche sulla scarsa proprietà di linguaggio del legislatore per il ricorso alla terminologia anglosassone (know-how, royalties) che avrebbe, invece, potuto tradurre.
Cfr. M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Le nuove leggi civili commentate, 2004, fasc. 5, pagg. 1153-1182.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 2-3.

Cfr. G. Magri, Precetti e sanzioni nella nuova disciplina sull’affiliazione commerciale, in Giurisprudenza Italiana, 2006, fasc. 11, pagg. 2215-2224.

Cfr. C. Vaccà, Franchising una disciplina in cerca d’identità, in Contratto e Impresa, 2004, fasc. 2, pagg. 870-951.

Ad esempio lo si può notare all’art. 3, 4° comma, lettera g in cui si stabilisce che le parti sono libere di decidere le condizioni di rinnovo, risoluzione o cessione del contratto.

Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.

Il legislatore giustifica questa scelta spiegando che tale previsione si sarebbe tradotta in un appesantimento burocratico eccessivo e inadeguato rispetto agli obiettivi prefissati.
Cfr. Relazione alla proposta di legge n. 95 presentata alla Camera dei Deputati il 30 maggio 2001.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 24-30.

Non esiste infatti una tipologia contrattuale che si adatti a tutti i rapporti di franchising, ma le parti dovranno valutare, nel caso concreto, il settore in cui si svolge l’attività, la tipologia di franchising scelta, le condizioni di mercato esistenti per quel determinato bene o servizio.

Cfr. il giudizio di Asciutti nella seduta n. 193 della 10ª Commissione del Senato del 21 aprile 2004.

Cfr. V. Pandolfini, Gli obblighi informativi nella nuova legge sul franchising in I contratti, 2005, fasc. 1, pagg. 71-89.

Si veda la Legge n. 192 del 18 giugno 1998 intitolata “Disciplina della subfornitura nelle attività produttive”.

Decreto Legislativo n. 196 del 30 giugno 2003, denominato “Codice in materia di protezione dei dati personali”, entrato in vigore il 1 gennaio 2004.

Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 24-30.

Per l’analisi si rimanda al paragrafo 4 di questo capitolo.

Il generico riferimento all’indipendenza economica e giuridica dei contraenti, e la mancanza di un esplicito riferimento alla natura imprenditoriale dei soggetti, potrebbe rappresentare la conseguenza dell’esigenza di far rientrare nella nozione normativa di franchising anche i contratti stipulati con franchisees che, al momento della conclusione del negozio, non rivestano ancora la qualifica di imprenditore, peraltro spesso frequente nella prassi, proprio perché il franchising appare come uno strumento particolarmente adatto a consentire ed agevolare l’avvio di nuove attività. La riconosciuta possibilità che l’aspirante franchisee non sia ancora imprenditore al momento della stipulazione del negozio induce a ricordare come quest’ultimo non possa essere qualificato come consumatore, in quanto trattasi, comunque, di un contratto concluso per scopi riconducibili ad attività imprenditoriale, anche se inizi ad essere esercitata soltanto dopo la conclusione del contratto.
Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.
Cfr. G. De Nova, La nuova legge sul franchising, in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.

Un solo contratto di franchising non ha senso, a meno che non sia il primo stipulato da un franchisor. Cfr. G. De Nova, Nuovi contratti, Torino, 1990, pag. 146.

Cfr. M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Le nuove leggi civili commentate, 2004, fasc. 5, pagg. 1153-1182.

Art. 1 Legge n. 129 del 2004.

Cfr. Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Cfr. la relazione dell’Onorevole Gambini nella seduta della Commissione Attività produttive della Camera del 4 giugno 2003.

Nella formulazione odierna della legge è lasciata libertà di scelta rispetto al periodo di tempo in cui la formula debba essere sperimentata e le sue modalità; al contrario, nei disegni di legge proposti negli anni passati, era sempre indicato un periodo minimo di uno o due anni obbligatori e il dovere di sperimentazione in un qualsiasi Stato dell’Unione Europea.

Ci si chiede, poiché la legge non disciplina tale aspetto, quale contratto possa essere stipulato tra il franchisor e gli affiliati pilota.

Le proposte di legge precedenti stabilivano, invece, un periodo preciso di due anni, oggi però abolito poiché è stato osservato che con i ritmi attuali di imposizione di mode e gusti e della loro rapida variazione ed obsolescenza, questo lasso di tempo è considerato troppo lungo.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Questo dipenderà dalle diverse variabili di mercato, di luogo e di tempo in cui i soggetti si trovano ad operare. Ad esempio, nel caso di una catena di negozi di costumi da bagno, pare evidente che una sperimentazione semestrale durante i mesi invernali non potrà considerarsi indicativa, poiché le vendite risulteranno sensibilmente minori delle aspettative, come non potrà nemmeno esserlo se eseguita nei soli mesi estivi, periodo in cui il fatturato sarà sensibilmente maggiore e non indicativo dell’andamento annuale dell’attività.

Il problema sorge, però, quando un imprenditore viola questa disposizione non eseguendo la sperimentazione della propria formula commerciale e concludendo tuttavia ugualmente contratti di franchising, poiché la legge non prevede alcun tipo di sanzione; per questo motivo è necessario ricercare la disciplina applicabile all’interno delle norme del Codice Civile.
Si ritiene, a tal proposito, che possa trovare applicazione l’art. 1418, primo comma, c.c. che prevede la “nullità virtuale” del contratto , in base al quale, i contratti stipulati dal franchisor risulteranno colpiti da nullità in quanto contrari a norme imperative .
Occorre, a questo punto, domandarsi se tale disposizione possa realmente considerarsi come imperativa poiché il legislatore non è solito esplicitare il carattere imperativo delle norme, né si è preoccupato di fornire una definizione generale di tale concetto; le norme imperative devono, quindi, essere selezionate dall’interprete all’interno dell’ordinamento tra le disposizioni che impongono obblighi e divieti, secondo criteri elaborati in dottrina.
Secondo l’opinione rilevante in giurisprudenza, è da considerarsi imperativa la norma posta a tutela non degli interessi di un singolo contraente, ma di quelli comuni a tutti i consociati, volta, quindi, a realizzare fini di interesse pubblico .
Per capire, quindi, se la norma in esame sia da considerare come norma imperativa è necessario comprendere se questo corrisponda ad un interesse pubblico nei confronti di tutti i franchisors che non sottopongano la propria formula commerciale a verifiche sul mercato.
Dal contenuto generale della legge si desume che l’intento del legislatore era quello di disciplinare non tanto la vita del contratto di franchising, quanto il percorso che conduce alla sua stipulazione , cercando di evitare il rischio che franchisors inesperti operino sul mercato in modo illecito coinvolgendo piccoli imprenditori in fallimenti economici. Ne consegue, quindi, che la disposizione in commento può essere considerata come norma imperativa, idonea a comportare la nullità dei contratti conclusi in sua violazione, poiché lo scopo è quello di tutelare un interesse pubblico.
Successivamente, al 3° comma del primo articolo, vengono definiti i concetti di entry fee e di royalties. In particolare,la prima consiste una cifra fissa, rapportata al valore economico e alla capacità di sviluppo della rete, che il franchisee versa al momento della stipula del contratto , mentre la seconda una percentuale richiesta all’affiliato commisurata al giro d’affari del medesimo da versarsi periodicamente.
Non è chiaro, però, se entrambe debbano essere previste obbligatoriamente; la presenza delle royalties sembrerebbe risultare necessaria come contropartita dell’utilizzo costante dell’intero “package”, mentre potrebbe mancare la previsione di una entry fee ; non sembrano, però, sussistere ragioni per affermare che il corrispettivo debba necessariamente essere strutturato in questi termini. In linea teorica nulla esclude, ad esempio, che sia prevista esclusivamente la entry fee senza il pagamento di alcuna royalty .
Ci si pone anche il problema se risulti opportuno dover sempre valutare il contratto di franchising come contratto a titolo oneroso, dovendo necessariamente prevedere un corrispettivo da parte del franchisee come controprestazione del package ottenuto; la dottrina esclude l’ipotesi di nullità del contratto in difetto di qualsiasi controprestazione, accettando la possibilità che un franchisor interessato all’espansione della propria rete in aree territoriali vergini, possa essere inizialmente disposto ad accordare la propria formula commerciale ad un franchisee a titolo gratuito, accettando di rinviare la remunerazione solo a seguito dell’eventuale rinnovo del contratto.
L’art. 2 della legge definisce il corner franchising ed il master franchising estendendo l’applicabilità delle norme anche a queste due particolari tipologie contrattuali.
Tale precisazione appare inutile, poiché non sussisterebbe ragione di sottrarre tali tipologie di franchising alla nuova legge , essendo comunque caratterizzate dagli stessi elementi del contratto standard di franchising.
L’art. 3, invece, è dedicato alla forma ed al contenuto del contratto e prevede necessariamente il requisito della forma scritta ad substantiam e la relativa sanzione della nullità del contratto stesso .
Parte della dottrina collega la possibilità di far valere tale nullità in base alla finalità protettiva a favore del contraente debole, interpretandola così come una nullità relativa, vale a dire, esercitatile soltanto dal soggetto protetto, in questo caso il franchisee. Il contratto di franchising, infatti, viene solitamente redatto unilateralmente dal franchisor, il quale potrebbe stabilire obblighi molto onerosi
per l’affiliato; la previsione della forma scritta dovrebbe consentire a quest’ultimo di verificare se le clausole contrattuali presentino un livello di tutela sufficiente e siano conformi alle informazioni fornite dal franchisor nella fase precontrattuale.
La nullità relativa si pone, quindi, come strumento intermedio tra la nullità assoluta e l’annullabilità, mantenendo le caratteristiche della prima, ma con la legittimazione riservata soltanto a favore del contraente più debole.
Lo stesso articolo stabilisce che, nel caso in cui il contratto sia a tempo determinato, la durata dovrà essere tale da garantire al franchisee un periodo sufficiente all’ammortamento dell’investimento sostenuto dovutoall’adesione ad una rete di franchising ; la durata necessaria non viene, perciò, quantificata espressamente ma la sua determinazione è lasciata volta per volta all’interprete, in quanto, alle diverse tipologie di franchising, corrisponderanno tempi di ammortamento diversi .
La legge stabilisce comunque una soglia minima di tre anni, al di sotto della quale non può essere istituito nessun contratto di franchising, nemmeno nel caso estremo in cui, per l’altissima redditività dell’attività, gli investimenti iniziali vengano ammortizzati in un tempo inferiore.
Occorre domandarsi quali siano le conseguenze nel caso in cui la durata di un contratto di franchising sia stabilito sotto questa soglia; secondo l’interpretazione prevalente, la clausola di durata del contratto che preveda un termine inferiore sarebbe nulla in quanto contraria ad una norma imperativa ; si tratta di una “norma imperativa unilateralmente inderogabile”, nel senso che il contratto potrà prevedere un termine di durata maggiore, ma mai minore.
Altra interpretazione è quella di considerarla come nullità parziale, applicando, quindi, in sostituzione della durata originaria inferiore al minino previsto per legge, la reale durata necessaria per ammortizzare gli investimenti iniziali .
La legge riconosce , inoltre, ad entrambe le parti, la risoluzione anticipata del contratto per causa di inadempimento della controparte ; la precisazione contenuta dalla legge appare superflua, poiché, anche in caso di mancata specificazione, si sarebbe potuta applicare la disciplina di cui agli artt. 1453 s.s. c.c., norme di parte generale della disciplina contrattuale e, come tali, sempre applicabili in assenza di una volontà legislativa difforme .
La motivazione che ha spinto il legislatore a disciplinare comunque tale aspetto sembrerebbe quella di richiamare l’attenzione (soprattutto del franchisor, gravato dall’obbligo di garantire una durata minima del contratto) sull’opportunità di prevedere, all’interno del contratto, un elenco di prestazioni dell’affiliato che il primo ritenga importanti, e prevedere, per la loro violazione, una risoluzione automatica del contratto.
Inoltre, ragionando per analogia, c’è chi ritiene applicabile al contratto di franchising l’art. 1564 c.c., che, in tema di somministrazione, permette di chiedere la risoluzione del contratto solo se “l’inadempimento ha una notevole importanza ed è tale da menomare la fiducia nell’esattezza dei successivi inadempimenti”.
Trattandosi, quindi, di contratti di durata, che comportano normalmente notevoli investimenti da parte dei contraenti, la risoluzione potrebbe operare soltanto nel caso in cui venga meno la fiducia reciproca che costituisce la base del rapporto. In questo caso, per il franchisor risulterebbe difficile ottenere la risoluzione del contratto, soprattutto se l’inadempimento dell’affiliato riguardi, ad esempio, il mancato pagamento di un canone che non comporterebbe una perdita d’immagine dell’intera catena agli occhi dei consumatori.
Per evitare questa problematica, il franchisor ha la possibilità di prevedere delle clausole risolutive espresse evitando le possibile incertezze interpretative connesse alla valutazione della “gravità” dell’inadempimento all’interno di un contratto di franchising.
L’art. 3 della legge affronta tutte queste tematiche soltanto in ordine al caso in cui il contratto sia a tempo determinato, nulla prevedendo, invece, per l’ipotesi contraria. Anzi, il legislatore non chiarisce nemmeno se i contratti di franchising a tempo indeterminato possano essere conclusi.
La dottrina prevalente sostiene che la mancata previsione all’interno della legge non costituisce ragione sufficiente per proibire alle parti di contrarre senza un limite temporale, poiché una tale limitazione della libertà contrattuale avrebbe dovuto essere esplicitata .
È, quindi, necessario tutelare gli affiliati soggetti a contratti a tempo indeterminato identificando limiti alla possibilità di recesso da parte del franchisor: la soluzione prospettata si basa sull’operatività di un congruo preavviso . Si verrebbe ad ipotizzare, di riflesso, una barriera in grado di arrestare qualsiasi tentativo di recesso anche da parte del franchisee, almeno fino a quando non sia terminato il periodo minimo di ammortamento. La violazione del termine minimo, determinato sul congruo preavviso, sarebbe così inquadrata come inadempimento ai sensi dell’art. 1453 c.c. .
Collegato al problema della durata del contratto potrebbe essere rilevato anche quello del raggiungimento di determinati obiettivi economici, da parte del franchisee; spesso, infatti, i franchisors stabiliscono come futura data di risoluzione del contratto quella coincidente al momento in cui il franchisee raggiunga un obiettivo predeterminato.
Questo aspetto, riproposto marginalmente dall’attuale legge , aveva invece caratterizzato i passati disegni di legge, ma è oggi tralasciato, dati i pochi consensi espressi in dottrina, a causa di troppi elementi di incertezza posti a carico dei franchisees. Si tratterebbe, infatti, di sottoporre la prosecuzione del rapporto alla condizione risolutiva del raggiungimento a risultati della cui realizzabilità l’affiliato non ha certezza .
L’art. 3, comma 4 della legge si occupa del contenuto del contratto di franchising, elencando una serie di clausole che esso deve obbligatoriamente indicare.
Sorge, come primo quesito, il problema di considerare se la mancanza di uno di questi requisiti possa rendere nullo il contratto in questione, poiché la legge non prevede alcuna sanzione per la sua violazione; generalmente si ritiene opportuno individuare, all’interno dell’elencazione effettuata dal legislatore, quali siano gli elementi essenziali e quali no, utilizzando come parametro di riferimento la causa del contratto stesso di franchising .
In tal modo, è possibile concludere che la mancata indicazione della specifica del know-how o delle caratteristiche dei servizi offerti dal franchisor in termini di assistenza tecnica e commerciale o di formazione del personale, renda il contratto nullo per violazione del primo comma dell’art. 3 Legge n. 129 del 2004, in quanto tali elementi attengono alla causa tipica del contratto.
Quest’analisi porta quindi ad effettuare una distinzione tra elementi essenziali del contratto ed elementi secondari, importante anche per stabilire quali di essi possano essere oggetto di relatio, ossia essere contenuti in un documento esterno che viene richiamato dal contratto e ne costituisce integrazione.
Si ritiene, infatti, che la relatio non sia ammissibile nei contratti formali, quanto meno per il proprio contenuto minimo, che deve necessariamente risultare all’interno del contratto.
Le clausole accessorie, invece, quali per esempio le modalità operative e ogni altro elemento non essenziale, possono risultare da altri documenti, preesistenti o contestuali alla stipula del negozio, come, per esempio, il manuale operativo consegnato dal franchisor al franchisee, contenente tutte le istruzioni operative.
Quanto appena esposto porterebbe ad escludere, quindi, che gli elementi essenziali del contratto possano essere contenuti nel manuale operativo, non sottoscritto dalle parti e non costituente, perciò, parte integrante del contratto ; è , invece, valida la relatio relativa ad elementi non essenziali.
Gli elementi che la legge indica come obbligatori in un contratto di franchising, per i quali è necessario valutare se siano essenziali o meno, sono, dunque, i seguenti:
a) L’ammontare degli investimenti e delle eventuali spese di ingresso che l’affiliato deve sostenere prima dell’inizio dell’attività : tale elemento è necessario per rendere consapevole il franchisee che, per aderire ad una rete di franchising, è tenuto a sostenere alcune spese iniziali. Quanto pagato a favore del franchisor per l’acquisto dei beni, necessari per dare inizio all’attività, costituisce parte integrante del corrispettivo per entrare all’interno della catena di affiliazione. Per questa ragione, tali elementi sono da considerarsi come essenziali, da prevedersi, quindi, per iscritto all’interno del testo contrattuale, a pena di nullità.
b) Le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliante : è da notare, in questo caso, l’imperfezione normativa che, sembrerebbe riferirsi soltanto alle modalità di calcolo e pagamento delle royalties e non alla sussistenza delle stesse . Le royalties rappresentano il corrispettivo dei beni e dei servizi messi a disposizione dal franchisor e la legge prevede che siano indicati, all’interno del contratto, le percentuali e la periodicità in base alle quali le royalties devono essere pagate dal franchisee. Tale elemento è da considerarsi essenziale, in quanto costituisce corrispettivo della prestazione ricevuta.
c) L’ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali e unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante : tale clausola riveste una notevole importanza all’interno di un contratto di franchising poiché assicura al franchisee una quota di mercato protetta per poter vendere beni o servizi evitando la concorrenza di altri distributori e tutelando, allo stesso tempo, i guadagni che lo stesso si aspetta dalla stipulazione del contratto . Nella prassi, infatti, il franchisor riconosce ad ogni franchisee un territorio esclusivo di sua competenza, obbligandosi a non stipulare nella stessa zona altri contratti di franchising con altri soggetti, imponendo altresì agli altri affiliati di rispettare detta zona di esclusiva. La clausola in questione, anche in forza della formulazione utilizzata dal legislatore con l’aggettivo “eventuale”, parrebbe elemento non essenziale del contratto, anche se ne è elemento caratterizzante .
d) La specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato : il know how rappresenta l’oggetto del contratto di franchising, messo a disposizione dal franchisor nei confronti dei franchisees al fine di consentire loro la gestione del punto vendita con una formula commerciale collaudata e di ridurre, così, i rischi legati alla nascita di
un’impresa. Il know-how può consistere, quindi, in tecniche di vendita, di approvvigionamento, segreti commerciali, frutto spesso dell’esperienza e delle ricerche effettuate dal franchisor, concesse in licenza agli affiliati . Il know-how è considerato elemento essenziale del contratto, dovendo, perciò, essere indicato per iscritto nel testo contrattuale a pena di nullità, anche se può successivamente essere specificato, nelle sue modalità attuative concrete e pratiche, nel manuale operativo; la mancata indicazione di tale elemento all’interno delcontratto potrebbe portare alla sua nullità per mancanza dell’oggetto contrattuale, ovvero per sua indeterminatezza ed indeterminabilità in base all’art. 1346 c.c. .
e) Le eventuali modalità di riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato : una volta che l’affiliato si sia impadronito della formula commerciale, egli potrebbe, grazie alla sua esperienza e professionalità, modificarla e/o arricchirla, per mantenere o ampliare la sua efficacia. Questa attività potrebbe trovare riconoscimento economico da parte del franchisor sia sotto forma di riduzione delle royalties, sia sotto forma di remunerazione diretta. Anche in questo caso, a causa dell’utilizzo da parte del legislatore dell’aggettivo “eventuale”, la clausola sembra da non considerarsi essenziale .
f) Le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione : parte della dottrina critica tale disposizione in relazione alla scarsa proprietà di linguaggio utilizzata dal legislatore, che avrebbe potuto fare riferimento diretto ai servizi che il franchisor deve garantire, quali elementi del contratto, e non alle caratteristiche di questi .
L’assistenza tecnica rappresenta uno degli aspetti più importanti del rapporto di affiliazione e riguarda, per esempio, le indicazioni sull’assortimento dei prodotti, sulle procedure di approvvigionamento e riassorbimento, fino ad arrivare alla formazione e aggiornamento periodico del personale . Tale elemento è considerato come essenziale all’interno di un contratto, poiché strettamente attinente alla causa dello
stesso.
g) Le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto stesso : con la presente disposizione il legislatore ha voluto controllare che fosse disciplinata tra le parti la fase finale del contratto di franchising; le ipotesi di cessazione di un contratto sono la scadenza del termine finale di durata nei contratti a tempo determinato, il recesso e lo scioglimento per mutuo dissenso delle parti. Nel caso di cessazione del contratto per scadenza del termine finale di durata, le parti potrebbero avere interessi divergenti: per esempio, una parte potrebbe essere intenzionata al rinnovo del contratto contrariamente all’altra. In sede di formazione del contratto sarebbe, quindi utile, che le parti stabilissero anticipatamente di inserire opzioni di rinnovo poiché, in assenza di simili pattuizioni, il franchisee non godrebbe di alcun diritto rispetto al rinnovo del contratto. Per quanto riguarda il problema della cessione del contratto, è da ricordare che il contratto di franchising è considerato come un contratto intuitus personae e, proprio per questo motivo, la regola generale è che esso non possa essere ceduto a terzi. È, perciò, compito delle parti stabilire le eventuali condizioni di trasferimento dell’azienda del franchisee ad un altro soggetto, eventualmente subordinando detta cessione ad alcuni vincoli, come, per esempio, il gradimento del nuovo affiliato da parte del franchisor . Nonostante rivestano un’importanza fondamentale per la disciplina dei rapporti tra le parti, queste clausole non costituiscono, a parere della dottrina prevalente, elementi caratterizzanti la causa del contratto di franchising e non devono, quindi, risultare in forma scritta a pena di nullità.
Proseguendo nell’analisi della Legge n. 129 del 2004 ed analizzando l’art. 4 si ritrovano gli obblighi posti a carico del franchisor, a tutela del franchisee, in particolar modo per quanto riguarda la fase precontrattuale.
Le legge stabilisce che, almeno trenta giorni prima della sottoscrizione del contratto, il franchisor deve consegnare all’aspirante franchisee copia completa dello stesso , corredato da una serie di allegati , che comunque devono essere indicati nel contratto e che possono essere omessi solo laddove sussistano obbiettive e specifiche esigenze di riservatezza .
Scopo della norma è, quindi, quello di far sì che il maggior numero di informazioni raggiungano il franchisee con congruo anticipo rispetto al momento della sottoscrizione del contratto permettendo allo stesso di ponderare la decisione da assumere .
Il franchisor deve, infatti, indicare tutti i suoi dati, mentre è lasciata all’iniziativa del potenziale franchisee la richiesta di una copia del bilancio del franchisor degli ultimi tre anni o dell’intera attività, qualora inferiore al triennio; devono inoltre essere descritti con precisione i marchi utilizzati nel sistema e gli elementi dai quali possa dedursi la titolarità degli stessi e la legittimità di utilizzo da parte del franchisor. Devono altresì essere precisate in sintesi le caratteristiche principali dell’attività oggetto del contratto per poter fornire al potenziale franchisee un quadro completo delle potenzialità e degli oneri connessi all’ingresso nella rete.
Un ulteriore allegato dovrà contenere un elenco completo di tutti i franchisees già facenti parte della rete al fine di fornire al nuovo franchisee le informazioni per misurare la concreta consistenza della rete e per poter eventualmente contattare altri affiliati al fine di poter acquisire ulteriori informazioni; infine, dovranno essere descritti gli eventuali procedimenti, sia giudiziali che arbitrali promossi sia dai franchisees che da terzi contro il franchisor e relativi al sistema di franchising oggetto di valutazione.
La norma, in realtà, impone al franchisor un obbligo di informazione solo parziale; si dice, infatti, che i procedimenti devono essere promossi e conclusi negli ultimi tre anni, escludendo eventuali procedimenti in corso non ancora conclusi .
Dal punto di vista sanzionatorio, per l’ipotesi di violazione dell’obbligo di informazione da parte del franchisor, è possibile, per il franchisee, ricorrere dell’art. 8 della Legge n. 129 del 2004 che consente a quest’ultimo di richiedere l’annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1439 c.c. qualora il franchisor abbia fornito false informazioni, oltre che richiedere l’eventuale risarcimento del danno.
Tale previsione, tuttavia, sembrerebbe incompleta perché limitata all’ipotesi in cui il franchisor fornisca informazioni false, tralasciando, invece, la possibilità di essere applicata anche nel caso in cui quest’ultimo si sia limitato ad omettere di informare il franchisee .
Tutte le informazioni fino ad ora menzionate sono obbligatorie, tuttavia, come precisato dalla Legge n. 129 del 2004 all’art. 4, comma 2, soltanto in relazione alle attività svolte dal franchisor nel territorio italiano, lasciando totale libertà per quelle svolte all’estero. La scelta è giustificata dal fatto che la previsione, a carico del franchisor, di fornire informazioni dettagliate in relazione a ciascun Paese estero nel quale avesse operato in passato, avrebbe comportato grandi difficoltà per il franchisee in merito all’analisi di dati troppo complessi .
La norma in questione contribuisce, nonostante le critiche subite, a rendere maggiormente trasparenti le relazioni tra le parti durante la fase precontrattuale, in cui è maggiormente sentita l’esigenza di tutelare il potenziale franchisee, considerata come la parte debole del contratto.
All’art. 5 vengono definiti, invece, gli obblighi a carico del franchisee di cui il primo riguardante la sede della propria attività; si precisa infatti che, laddove la stessa sia indicata nel contratto, il franchisee è tenuto a richiedere il preventivo consenso del franchisor qualora intenda trasferirla .
Anche precedentemente alla norma in questione la prassi considerava le clausole attinenti alla sede del franchisee fondamentali, prevedendo di norma il divieto di variazione in assenza di espresso consenso scritto del franchisor, per un duplice ordine di motivi: il primo si spiega col fatto che la sede del punto vendita nel quale il franchisee esercita la propria attività ha un rilievo determinante nello sviluppo della rete. Il franchisor ne stabilisce di norma le caratteristiche essenziali sulla base di precise indagini di mercato, connesse con il posizionamento dei prodotti, oltre al valore del marchio, dei segni distintivi e le caratteristiche della rete.
In secondo luogo, si considera che spesso l’apertura di un punto vendita può comportare significativi investimenti, sia da parte del franchisor che del franchisee, ed è quindi necessario individuarne la collocazione non solo sulla base del potenziale bacino di utenza rispetto alla concorrenza, ma anche per garantire allo stesso franchisor, così come agli altri membri della rete, un’adeguata protezione territoriale in termini di esclusiva e conseguente redditività.
Si spiega quindi per quale motivo la prassi contrattuale inserisca di norma il divieto di trasferimento della sede, una volta individuata. Questo divieto consente altresì al franchisor di influire in maniera determinante sull’individuazione della nuova sede, così garantendo l’uniformità di immagine e il posizionamento della rete, fermo restando l’eventuale rispetto di esclusive di zona .
La disposizione dettata dalla Legge n. 129 del 2004 recepisce, quindi, una caratteristica del contratto già ampiamente affermata nella prassi, confermando l’importanza della sede del franchisee.
È allora possibile concludere che si tratta di una norma dispositiva e non imperativa poiché l’autorizzazione al trasferimento della sede è nella libera disponibilità del franchisor, che può quindi concederla di volta in volta su richiesta dei soggetti o, viceversa, derogare al divieto con un’apposita clausola contrattuale prevedendo la libera trasferibilità della sede .
L’art. 5 prosegue, poi, con il secondo obbligo a carico del franchisee, vale a dire l’impegno all’osservanza propria e dei propri collaboratori e dipendenti, anche dopo lo scioglimento del contratto, della massima riservatezza in ordine al contenuto dell’attività oggetto del contratto di franchising; è opportuno rilevare che non è previsto alcun limite temporale in ordine alla validità dell’obbligo dopo la cessazione del rapporto .
L’ambito di applicabilità del dovere di riservatezza appare molto ampio, in quanto sembrerebbe riferito a tutta l’attività oggetto del contratto di franchising, senza particolari delimitazioni; l’obbligo va però valutato di volta in volta in funzione della parte di attività per cui esista un’ipotesi di violazione. Ad esempio i manuali operativi, che, come è noto, costituiscono parte integrante del knowhow trasmesso su base continuativa dal franchisor al franchisee, sono coperti dalla più assoluta segretezza, anche dopo la cessazione del rapporto, con la conseguenza che il loro eventuale utilizzo e/o divulgazione, sia durante che dopo la cessazione del contratto, può essere considerato come violazione dell’obbligo, con il conseguente diritto del franchisor al risarcimento del relativo danno.
La vincolatività dell’obbligo va, inoltre, valutata diversamente a seconda che la sua violazione si realizzi durante o successivamente alla cessazione del rapporto, anche in relazione alle caratteristiche delle relative informazioni e/o dati la cui segretezza, col passare del tempo, si affievolisce .
Il dovere di riservatezza è esteso ai propri collaboratori e dipendenti, con la conseguenza che, qualora la violazione sia posta in essere da questi ultimi, appare ipotizzabile una responsabilità del franchisee per fatto commesso da un soggetto terzo; per questo motivo, dal punto di vista contrattuale, oltre ad adottare tutte le clausole necessarie per evitare che i propri collaboratori e dipendenti vengano a conoscenza di dati e informazioni riservate, il franchisee dovrebbe inserire apposite clausole generali a tutela della riservatezza nei contratti di collaborazione e di lavoro subordinato conclusi .
Rispetto al piano sanzionatorio, la violazione di tale disposizione può essere causa di risoluzione del contratto, potendo anche costituire fonte di risarcimento del danno subito dal franchisor soltanto nel caso in cui l’inadempimento avvenga durante la fase contrattuale; la questione sembrerebbe, invece, non estendibile nel caso in cui l’inosservanza sia successiva allo scioglimento del contratto.
Prima dell’entrata in vigore del provvedimento in esame, parte della dottrina riteneva che l’obbligo di non divulgazione non potesse sottrarsi ad un controllo di conformità con le norme poste a tutela della libertà di concorrenza; si è quindi ritenuto di poter ricondurre la violazione del suddetto obbligo nell’ambito di applicazione del decreto legislativo del 19 marzo 1996, n. 198 , ai sensi del quale configura atto di concorrenza sleale la divulgazione a terzi di informazioni aziendali e commerciali segrete, escludendo, però dalla sfera di operatività di tale divieto quelle conoscenze oggetto di know-how divenute nel frattempo di pubblico dominio. Tale interpretazione, atteso il silenzio legislativo in materia di franchising , può ritenersi valida e condivisibile.
L’art. 6 della legge sul franchising è considerato, invece, come uno degli aspetti più importanti affrontati dal legislatore, rappresentando esattamente lo scopo principale della legge; esso stabilisce che, il franchisor è tenuto a mantenere un comportamento ispirato a lealtà, correttezza e buona fede fornendo tempestivamente al franchisee ogni dato e informazione che lo stesso ritenga necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto, a meno che non si tratti di informazioni riservate la cui divulgazione costituirebbe violazione di diritti di terzi soggetti.
La norma, tuttavia, è alquanto criticata dalla dottrina poiché tutte le informazioni necessarie o utili ai fini della stipulazione del contratto pervengono già al franchisee grazie alle disposizioni di legge esaminate precedentemente . Gli stessi principi di lealtà, correttezza e buona fede sono imposti, dal terzo comma, anche al franchisee nei confronti della controparte; anche questa precisione è ampiamente criticata, in quanto la stessa non fa altro che ribadire e ripetere principi già stabiliti dall’art. 1337 c.c. in materia di contratti senza aggiungere nessun elemento di novità .
Ci si domanda cosa accada nel caso in cui una delle parti non fornisca all’altra le informazioni cui è tenuta, posto che la norma non prevede alcun tipo di sanzione per la sua violazione.
A tale proposito è necessario distinguere due ipotesi tra quelle che seguono nella prima, il soggetto inadempiente potrebbe violare tout court il disposto dell’articolo in commento, non adempiendo al precetto di lealtà, correttezza e buona fede, oltre a non fornire alla controparte le informazioni da questa richieste; in questo caso è opportuno ricorrere alle conseguenze che dottrina e giurisprudenza riconnettono alla violazione dell’art. 1337 del Codice Civile.
In particolare, l’opinione dominante in dottrina qualifica la violazione dell’obbligo in questione come fonte di responsabilità precontrattuale ; anche se esiste un’opinione contraria, sebbene minoritaria, che non contempla la sola sanzione risarcitoria, ma configura in aggiunta l’annullabilità del contratto .
Nella seconda ipotesi, invece, la violazione della buona fede precontrattuale potrebbe risultare “qualificata”: il soggetto potrebbe adempiere apparentemente all’obbligo informativo che grava su di lui, ma fornendo false informazioni. In questo caso non è necessario ricercare una sanzione, in quanto della fattispecie si occupa espressamente il successivo art. 8 della Legge n. 129 del 2004, al cui commento si rinvia.
Proseguendo l’analisi della legge in commento, ci si trova a valutare il contenuto dell’art. 7 in tema di conciliazione tra le parti in caso di controversie relative ai contratti di franchising; la norma prevede che le parti possano convenire che, prima di rivolgersi all’autorità giudiziaria o ricorrere all’arbitrato , venga posto in essere un tentativo di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel territorio in cui si trova la sede del franchisee.
Si tratta, quindi, non di un obbligo ma di una mera facoltà concessa alle parti dal legislatore nel rispetto della loro autonomia contrattuale. In ordine al procedimento di conciliazione, la norma richiama, in quanto compatibili, gli artt. 38, 39 e 40 del Decreto Legislativo del 17 gennaio 2003, n. 5 e sue successive modificazioni ; tale decreto è dedicato alla disciplina del processo in tutte le controversie relative ai rapporti societari, al trasferimento delle partecipazioni sociali, ai patti parasociali ed ai rapporti in materia di intermediazione mobiliare, bancaria e creditizia. Esso è richiamato in materia di franchising soltanto nei limiti di quanto previsto dal suo Titolo VI dedicato alla conciliazione stragiudiziale.
Si è rilevato come la previsione del tentativo di conciliazione rappresenti una mera facoltà concessa alle parti; è opportuno domandarsi, però, se alla scelta così come in ipotesi effettuata dai contraenti segua l’obbligatorietà del tentativo. La risposta al quesito è espressa dall’art. 40 del richiamato regolamento che appare di segno negativo; le parti, infatti, anche laddove abbiano concordato per un futuro tentativo di conciliazione all’interno del contratto nel caso di future controversie, esso può non essere utilizzato in seguito, senza alcuna conseguenza sull’esito del successivo giudizio .
Per contro, laddove le parti, nell’esercizio della loro autonomia, decidano di espletare effettivamente tale tentativo di conciliazione, si darà corso alla procedura nella quale, in caso di mancato accordo, andranno precisate la proposta del conciliatore e le rispettive posizioni delle parti, ovvero le condizioni alle quali ciascuna di esse è disposta a conciliare la vertenza .
Infine, qualora la conciliazione abbia esito finale positivo, della stessa verrà redatto apposito verbale che, sottoscritto dalle parti e dal conciliatore, e previo esame della sua regolarità formale, sarà omologato con decreto del presidente del Tribunale competente, e costituirà titolo esecutivo.
Tornando all’analisi della legge sul franchising, occorre ora analizzare l’art. 8 in tema di annullamento del contratto nel caso in cui una parte fornisca all’altra false informazioni, oltre al risarcimento del danno, se dovuto.
La possibilità, quindi, è riconosciuta ad entrambe le parti destinatarie di false informazioni, tutelando, in questo caso, al contrario della maggior parte delle altre norme previste dalla legge in commento, non solo il franchisee, ma anche il franchisor .
Il Codice Civile, all’art. 1439, prevede già una disciplina simile in tema di contratti, prevedendo l’annullabilità nel caso in cui la controparte agisca mediante inganno, soltanto nel caso in cui, però, i raggiri utilizzati siano tali che, senza di essi, la parte non avrebbe contrattato.
Il legislatore ha ritenuto che l’art. 1439 del Codice Civile non sia applicabile a tutte le ipotesi in cui i contraenti trattino false informazioni in tema di franchising. Si è ritenuto opportuno, quindi, dover disciplinare tali ipotesi con l’art. 8 della Legge n. 129 del 2004, che rende applicabile la disciplina codicistica anche ad ipotesi che non ricadrebbero nella norma prevista dal Codice Civile, ampliandone pertanto, nel caso del franchising, i confini di applicazione .
Risulta immediato il collegamento tra l’art. 6 e l’art. 8 della legge in esame; la prima norma indica i doveri positivi in capo a ciascuna delle parti, esplicitando le informazioni che sono rispettivamente tenute a fornire, la seconda, invece, impone alle parti di adempiervi lealmente senza fornire false informazioni, pena l’annullabilità del contratto.
Il legame tra i due articoli è evidente, ma già la mancanza di successione numerica delle disposizioni fa propendere per il possibile loro differente ambito applicativo .
Il divieto imposto dall’art. 8 di fornire false informazioni, infatti, non si riferisce alle sole informazioni indicate dall’art. 6, riguardando, invece, anche quelle che la parte fornisce spontaneamente .
L’ultimo articolo, a conclusione della legge, l’art. 9, definisce le norme transitorie e finali stabilendo che la legge, alla sua data di entrata in vigore, si applica a tutti i contratti di franchising in corso nel territorio dello Stato italiano; il secondo comma, però sembrerebbe mettere in discussione quanto appena affermato dichiarando che gli accordi di franchising anteriori alla data di entrata in vigore della legge, se stipulati verbalmente , devono essere formalizzati per iscritto secondo le disposizioni previste entro un anno dall’entrata in vigore della stessa: entro lo stesso termine in base alla legge, avrebbero dovuto essere adeguati i contratti anteriori stipulati per iscritto.
La legge crea una certa confusione, poiché o si ritiene che le disposizioni si applichino subito ai contratti in corso (quanto stabilito al primo comma), o si fornisce la possibilità di riscriverli secondo la nuova legge entro un anno dalla sua entrata in vigore (come stabilito dal secondo comma), dando attuazione alle nuove disposizioni nel momento in cui tutti i contratti si siano adeguati. Inoltre, la Legge n. 129 del 2004, afferma che le disposizioni sono applicabili a tutti i contratti “in corso nel territorio dello Stato italiano”; questo sembrerebbe significare che se uno straniero intendesse stipulare contratti di franchising da eseguire in Italia sia sottoposto alla Legge n. 129 del 2004, mentre un soggetto italiano vi sia sottoposto soltanto nel caso in cui stipulasse contratti da eseguire in Italia, ma ne sia escluso se i contratti siano eseguiti all’estero .
Tuttavia, nonostante le varie contraddizioni contenute, ciò che conta realmente, è che, l’articolo in questione, imponendo l’adeguamento dei contratti in essere alla nuova legge, conferma la propria natura imperativa.
Nonostante le critiche espresse nei confronti della legge e delle diverse lacune relative alle disposizioni in esame, la disciplina ha anche ottenuto ampi consensi, soprattutto tra gli operatori del settore, rassicurati da una disciplina snella senza troppi vincoli.
Tuttavia, è importante rilevare anche gli aspetti negativi, tra cui la mancanza di nuove disposizioni o definizioni rispetto alle normative già esistenti, l’imposizione di regole di portata troppo generale poco improntate alla tutela del soggetto debole, e il mancato richiamo al franchising di produzione, ipotizzando perciò che il legislatore non riconosca tale tipologia, utilizzata invece nella prassi contrattuale .

3.3 La nuova proposta di Legge del 2007
A distanza di tre anni dall’entrata in vigore della Legge n. 129 del 2004, è stata presentata alla Camera il 10 maggio 2007 una nuova proposta di legge intitolata “Disciplina del franchising” .
Il provvedimento, oltre a ribadire la definizione di franchising predisponendo una classificazione delle fattispecie contrattuali, propone alcune novità rispetto alla legge in vigore, come, ad esempio, l’obbligo in capo al franchisor di fornire al franchisee un prospetto illustrativo riguardante la futura attività, almeno venti giorni prima della conclusione del contratto.
Leggendo la relazione che accompagna la proposta di legge, non si trova però nessun cenno o riferimento alla legge vigente, ma anzi, senza alcuna motivazione, essa verrebbe dichiarata abrogata nel caso di approvazione del nuovo testo .
A tale proposito, la relazione esprime l’esigenza di adottare un nuovo testo legislativo poiché fortemente richiesta dal mondo delle imprese, sempre più bisognose di operare in un quadro normativo trasparente .
Ulteriore giustificazione fornita riguarda il fatto che la nuova proposta di legge segue i principi derivanti dalle esperienze legislative di altri Paesi, senza però specificare a quali di questi ci si riferisca tra i trenta che hanno legiferato in materia di franchising .
Ultima motivazione riguarda il fatto che la nuova proposta soddisfa le richieste provenienti dalla dottrina di maggior rilievo, affermazione però che secondo alcuni sarebbe tutta da dimostrare .
Passando all’analisi del testo, si riscontra subito all’art. 1, comma 1 un’affermazione poco chiara: si dichiara, infatti, che i contratti di franchising che non rispettino i principi di legge sono da considerarsi nulli, senza però specificare a quale tipo di nullità ci si riferisce. In mancanza di altre indicazioni si dovrebbe pensare che il riferimento sia alla nullità assoluta, vale a dire che questa potrebbe essere fatta valere da chiunque, anche se la dottrina spiega che sarebbe stato più opportuno prevedere, in questo caso, una nullità relativa a favore del contraente debole.
Ci si chiede, inoltre, se i “principi” ai quali si riferisce la norma siano da riferirsi a tutti gli otto articoli che compongono la nuova proposta di legge oppure soltanto alcuni di essi.
Ai commi 2 e 3 dello stesso articolo vengono fornite le definizioni di franchising e di contratto di franchising , ribadendo le stesse caratteristiche dettate dalla legge italiana in vigore tralasciando, però, alcuni aspetti fondamentali del franchising: non viene specificata, ad esempio, la previsione dell’assistenza tecnica e commerciale fornita dal franchisor al franchisee .
Altra lacuna riguarda l’inciso secondo il quale le parti devono essere “economicamente e giuridicamente indipendenti”, cosa che lascia pensare che sia ipotizzabile un franchising all’interno di un gruppo di imprese, contrariamente agli scopi dichiarati da sempre dal legislatore .
All’art. 2 della proposta di legge vengono enunciate le possibili tipologie di franchising esistenti sul mercato tra cui franchising di produzione, franchising di distribuzione e franchising di servizi , distinzione forse superflua, poiché non è previsto un trattamento differenziato tra le tre categorie.
Al secondo comma dello stesso articolo si precisa che non rientrano nell’ambito di applicazione della legge il franchising industriale e il franchising di distribuzione all’ingrosso ; la critica è espressa nei confronti del franchising industriale, identificato da molti come franchising di produzione, accettato da sempre dalla prassi contrattuale.
Molte critiche sono sollevate anche in relazione all’art. 3 della nuova proposta di legge, il quale definisce, al primo comma, gli obblighi previsti dal contratto, a pena di nullità, già stabiliti però all’art. 1 dando luogo, così, ad un’inutile ripetizione.
Al comma 2 dell’art. 3 vengono definiti gli elementi che costituiscono l’immagine di marca, tra i quali l’insegna, la denominazione commerciale, gli elementi decorativi ecc.; tale enunciazione tuttavia, da alcuni, è considerata erronea ed inconsistente .
Erronea perché la “denominazione commerciale”, cioè il nome del franchisor non viene mai concesso in licenza, a meno che si identifichi con il marchio o con l’insegna ; quanto alla “marca”, tale parola è inesistente all’interno del Codice della proprietà industriale, sia nei manuali di diritto industriale in genere, nei quali esiste solo la nozione di “marchio”.
Inconsistente, invece, perché l’immagine non è un bene aziendale in quanto tale , ma consiste nella valutazione che l’imprenditore fornisce al pubblico dei suoi prodotti, che può variare nel tempo e nei luoghi, pur permanendo i segni distintivi degli stessi; si tratta, dunque, di un concetto astratto.
Infine, la proposta di legge definisce gli “elementi decorativi” del punto vendita come elementi essenziali rispetto al contratto di franchising; tali elementi, però, in alcuni tipologie e settori di franchising possono essere inesistenti o irrilevanti : pare quindi scorretto considerarli come elementi essenziali del contratto la cui mancanza ne produce la nullità.
Il comma 3 sembrerebbe fornire una definizione di know-how molto simile a quella della legge del 2004, la quale ricalca le caratteristiche adottate dai regolamenti comunitari, e per questo divenute patrimonio comune di tutti i Paesi dell’Unione Europea.
Tuttavia, da un’analisi più accurata, ci si accorge che all’interno delle definizioni il legislatore italiano aggiunge nuovi termini contrari a quelli comunitari .
È stabilito, infine, che la descrizione del know-how può figurare nell’accordo di franchising o in un documento separato; la scarsa accuratezza del legislatore appare evidente, avendo utilizzato il termine “accordo” piuttosto che quello più appropriato di “contratto”, che ricorre, infatti, in tutto il resto della proposta di legge .

Proseguendo con l’analisi del testo si affronta l’art. 4, il più criticato, poiché ci si accorge subito dell’errore effettuato dal legislatore: è previsto che il franchisor debba consegnare all’aspirante franchisee un prospetto illustrativo con le informazioni utili a valutare la vantaggiosità dell’instaurazione del rapporto di franchising, ma l’articolo in questione non precisa, com

Per nullità virtuale si intende la nullità non espressamente dichiarata ma desumibile dal contrasto tra l’atto di autonomia e una norma imperativa.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5- 108.

Altra parte di dottrina sostiene, invece, che il ricorso alla nullità dovrebbe avvenire soltanto in casi eccezionali, applicando, invece come regola generale, soltanto l’istituto dell’azione risarcitoria, nel caso in cui la mancata sperimentazione abbia causato danni al franchisee.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Cfr. A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, pagg. 7 ss..

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Può anche essere convenuto tra le parti che, per ragioni finanziarie, sia concessa al franchisee la facoltà di versare la cifra in più soluzioni.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Cfr. M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Le nuove leggi civili commentate, 2004, fasc. 5, pagg. 1153-1182.

Cfr. A. Frignani, Il franchising, Torino, 1990, pag. 40.

Il contratto con cui un affiliato, in una determinata area messa a sua disposizione dal franchisor, allestisce uno spazio dedicato esclusivamente ai proprio prodotti.
Per un’analisi più approfondita si rimanda al Capitolo 2, paragrafo 4.

Il contratto con cui ogni franchisee può concludere personalmente altri contratti di franchising con altri soggetti, i quali, pur appartenendo alla rete di franchising, non hanno nessun rapporto contrattuale con il franchisor che predispone la rete.
Per un’analisi più approfondita si rimanda al Capitolo 2, paragrafo 4.

Cfr. M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Le nuove leggi civili commentate, 2004,
fasc. 5, pagg. 1153-1182.

Nel nostro ordinamento le norme che incidono sull’aspetto formale configurano eccezioni al generale
principio di libertà della forma, statuito dal comma 4 dell’art. 1325 del Codice Civile. Queste eccezioni
trovano giustificazione nei concreti interessi da tutelare e nella loro meritevolezza alla luce dei valori che
caratterizzano l’ordinamento.
Cfr. E. Tanzarella, La nuova disciplina del franchising, in Rassegna di diritto civile, 2005, fasc. 2, pagg.
559-597.
Cfr. P. Perlingieri, Istituzioni di diritto civile, Napoli, 2001, pag. 223.

Si tratta di una significativa novità introdotta dalla legge, poiché in precedenza il contratto poteva
essere redatto in forma libera.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004,
pagg. 5-108.

Non è la prima volta che il legislatore utilizza lo strumento della nullità relativa; si pensi, ad esempio,
all’art. 127 T.U.B. in materia bancaria e creditizia in cui la nullità può essere fatta valere soltanto dal
cliente della banca.

Le legge non esplicita il termine, perciò si pensa riferirsi alla definizione civilistica e non di quella
fiscale, con l’applicazione, quindi, delle disposizioni di cui all’art. 2426 del Codice Civile. Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Nel quale dovrebbero rientrare i costi d’impianto, compresivi del diritto d’ingresso.

La stessa regola è prevista dal Codice deontologico dell’Associazione Italiana del Franchising all’art.
7.

Precedentemente all’entrata in vigore della legge si parlava, invece, di periodi precisi compresi tra i 3 e i 9 anni.

Cfr. G. Gabrielli, Norme imperative ed integrazione del contratto, in Scritti in onore di Rodolfo Sacco, 1993, fasc. 2, pag. 493.

Cfr. A. Gentili, Nullità annullabilità efficacia, in Contratti, 2003, fasc. 1, pag. 205.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Art. 3, comma 3, Legge n. 129 del 2004.

La stessa regola è prevista dal Codice deontologico dell’Associazione Italiana del Franchising all’art. 7, comma 2.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pag. 81.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

La possibilità riconosciuta alle parti di poter stipulare contratti a tempo indeterminato non trova però il parere favorevole della dottrina.
Cfr. E. Tanzarella, La nuova disciplina del franchising, in Rassegna di diritto civile, 2005, fasc. 2, pagg. 559-597.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Quantificabile nei tre anni previsti per la durata del contratto a tempo determinato.

Cfr. E. Tanzarella, La nuova disciplina del franchising, in Rassegna di diritto civile, 2005, fasc. 2, pagg. 559-597.

All’art. 3, punto b) della Legge n. 129 del 2004 infatti si legge “le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato”.

Cfr. E. Tanzarella, La nuova disciplina del franchising, in Rassegna di diritto civile, 2005, fasc. 2, pagg. 559-597.

Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2003, pag. 895.

Quindi, se, ad esempio, nel manuale operativo si trova la descrizione del know-how, il contratto è nullo, salvo che detta descrizione non venga riportata, anche sinteticamente, nel testo del contratto e soltanto specificata nel manuale operativo.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5- 108.

Art. 3, comma 4, lettera a) della Legge n. 129 del 2004.

Art. 3, comma 4, lettera b) della Legge n. 129 del 2004.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Le royalties andrebbero rinegoziate periodicamente in un contratto di lunga durata poiché, con il passare del tempo il carattere innovativo del know-how diminuisce.

Art. 3, comma 4, lettera c) della Legge n. 129 del 2004.

Cfr. L. Delli Priscoli, Patto di esclusiva e rapporti tra franchisees, in Giurisprudenza Commerciale, 2001, fasc. 1, pag. 583.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Art. 3, comma 4, lettera d) della Legge n. 129 del 2004.

Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pag. 135.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Art. 3, comma 4, lettera e) della Legge n. 129 del 2004.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Art. 3, comma 4, lettera f) della Legge n. 129 del 2004.

Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pag. 135.

La tipologia di tali servizi è estremamente varia e differisce a seconda che si tratti di franchising di distribuzione o franchising di servizi. Per esempio nel primo i servizi offerti riguarderanno tutte le fasi connesse all’assortimento, alle modalità e tecniche di vendita; nel secondo prevarranno, invece, le modalità di insegnamento di come svolgere il servizio.

Art. 3, comma 4, lettera g) della Legge n. 129 del 2004.

Solitamente è il franchisee che ha il maggiore interesse affinché il contratto sia rinnovato. Il legislatore italiano non ha previsto il diritto al rinnovo automatico alla scadenza del contratto per evitare che il contratto di franchising si trasformasse in un rapporto “a vita” tra le parti. Inoltre la legge non stabilisce che il contratto, se rinnovato, debba avere le stesse condizioni di quello originario.

Nel caso invece in cui sia il franchisor a voler cedere la propria posizione solitamente non è richiesta l’accettazione da parte del franchisee; soltanto nel caso in cui per quest’ultimo la cessione comportasse cambiamenti in tema di gestione del contratto allora sarebbe suo diritto proporre reclamo.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Ci si chiede, però, cosa intenda il legislatore con tale espressione: il pensiero prevalente è che ci si riferisca alla bozza di contratto contente le condizioni generali predisposta dal franchisor durante la fase di trattativa, e non al contratto già completo di tutti gli elementi richiesti per legge (altrimenti si passerebbe già ad una fase conclusiva del contratto, tralasciando la fase preliminare).
Cfr. G. De Nova, La nuova legge sul franchising, in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.

La dottrina rileva che la lista dei documenti prevista dal legislatore italiano, contrariamente a diversi modelli stranieri, in particolare quelli statunitensi, è piuttosto breve ed essenziale al fine di evitare una quantità sterminata di informazioni per le quali viene prestata scarsa attenzione, risultando perciò inutili.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Caso tipico è costituito dai manuali operativi nei quali il franchisor precisa di norma una serie di indicazioni e dati relativi al know-how trasferito, e come tali riservate.

Nel caso in cui arrivi alla decisione finale di non concludere il contratto dovrà comunque darne motivazioni e giustificazioni poiché equivarrebbe sostanzialmente ad un recesso dalle trattative.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5- 108.
Cfr. G. D’Amico, Il procedimento di formazione del contratto di franchising secondo l’articolo 4 della legge 129/2004, in Rivista di diritto privato, 2005, fasc. 4, pagg. 769-783.

Potrebbe porsi poi il problema relativo all’interpretazione da dare al “procedimento concluso”, se da intendersi connesso al passaggio in giudicato di un’eventuale pronuncia o riferito a ciascun grado di giudizio.

Rispetto alle precedenti versioni di progetti di legge, è stata eliminata la necessità per il franchisor di inserire un allegato contenente un’ipotesi di bilancio previsionale, o business plan, fondata su esperienze di altri franchisees che si trovassero in posizione analoghe. Tale disposizione precisava però che la predetta ipotesi non poteva in alcun modo considerarsi come una garanzia di risultato e la dottrina aveva accolto favorevolmente tale scelta data la difficoltà di individuazione di dati attendibili. Il franchisor, infatti, è considerato come la persona meno adatta per redigere un business plan in quanto non è a conoscenza della realtà locale degli affiliati.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5- 108.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

È quindi da escludere l’ipotesi, avanzata da alcuni, che il legislatore abbia voluto trattare i franchisors stranieri in modo privilegiato rispetto a quelli italiani.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

L’articolo in questione è criticato poiché il suo contenuto appare anomalo rispetto a tutte le altre disposizioni della legge, basata sulla tutela precontrattuale tra le parti. L’art. 5 si occupa, invece, di comportamente contrattuali e postcontrattuali.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 60-127.

Il termine “sede” si riferisce all’ubicazione del punto vendita, al luogo di svolgimento dell’attività, cioè la sede operativa, e non alla sede legale del franchisee.

Viene però sollevato il problema di definizione della sede nel franchising itinerante, cioè non fisso in un determinato luogo; in questo caso la sede sarà intesa come il luogo in cui il franchisee gestisce i mezzi di trasporto utilizzati per lo sfruttamento del franchising o come il luogo in cui è reperibile per qualsiasi chiamata della clientela.
Cfr. Regolamento comunitario n. 4087/88, art. 1.3, lett. e.

Denominate anche “location clauses”.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

È da rilevare che tale ipotesi costituisce una mera possibilità teorica, considerando l’indubbia utilità della previsione per il franchisor e l’utilizzo di contratti standard, per adesione, da quest’ultimo predisposi.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.
Cfr. F. Toschi Vespasiani, Prime note di commento alla L. 6 maggio 2004, n. 129, recante norme per la disciplina del contratto di affiliazione commerciale o franchising, in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg.1350-1355.

Dovrà essere il giudice che, di volta in volta, valuterà il caso concreto.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Cfr. M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Le nuove leggi civili commentate, 2004, fasc. 5, pagg. 1153-1182.

In questo caso la sanzione applicata sarà costituita soltanto dal risarcimento del danno.

Il decreto legislativo è intitolato “Adeguamento della legislazione interna in materia di proprietà industriale alle prescrizioni obbligatorie dell’accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale concernenti il commercio – Uruguay Round”, in Gazzetta Ufficiale del 15 aprile 1996, n. 88.

Cfr. A. Finessi, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (seconda parte) in Studium Iuris, 2005, tomo I, pagg. 27-33.

Ci si domanda se tali caratteristiche abbiano ciascuna un proprio autonomo significato o se il legislatore volesse utilizzarle come meri sinonimi.
Cfr. L. Guerrini, Sulla violazione degli obblighi di informazione in materia di affiliazione commerciale, in Contratto e impresa, 2005, fasc. 3, pagg. 1263-1277.

Ci si riferisce soprattutto all’art. 4 secondo il quale il franchisee ha diritto di ricevere la bozza del contratto almeno trenta giorni prima della sottoscrizione, accompagnato da una serie di allegati contenenti qualsiasi tipo di informazione a lui utile. Inoltre ci si chiede cosa significhi che le informazioni vanno fornite “tempestivamente” poiché non è chiaro in base a quale dato temporale ci si riferisca. Si può dedurre che la tempestività delle informazioni si possa misurare in base al momento in cui esse vengono richieste, anche se la legge non offre nessuna specificazione in merito.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5- 108.

La motivazione potrebbe essere giustificata dal fatto che tale articolo non è mai stato considerato come dovuto dalla giurisprudenza italiana che ha sempre fornito un’interpretazione estremamente riduttiva della norma, applicandola soltanto in rari casi.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Cfr. R. Sacco, Il contratto, in Trattato di diritto civile, 2004, tomo 1, pag. 621.

Il ricorso all’arbitrato è l’ipotesi più frequente all’interno dei contratti di franchising, rimettendo quindi le controversie ad un Collegio arbitrale (o ad un arbitro unico), la cui composizione e funzionamento è solitamente regolato dal contratto, sia direttamente che con l’eventuale richiamo di regolamenti arbitrali per arbitrati cosiddetti amministrati.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano (2004), pagg. 5-108.

Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 intitolato “Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 306”, in Gazzetta Ufficiale del 22 gennaio 2003, n. 3, entrato in vigore l’1 gennaio 2004.

Contenute in “Avviso di rettifica” pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 9 settembre 2003, n. 209, che ha modificato gli artt. 1, 2, 8, 11, 12, 16, 18, 19, 23, 24, 25, 27, 28, 31, 33, 34, 35, 40, 41 e42.

Mentre gli artt. 38 e 39 sono relativi agli organismi di conciliazione rispetto al regime fiscale applicabile ed alle indennità spettanti ai predetti organismi, l’art. 40 si occupa della vera e propria procedura.

La risposta è da riscontrare nel comma 6 dell’art. 40.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Nell’ipotesi in cui una delle parti non aderisca al tentativo, il conciliatore ne darà atto con apposito verbale. Le dichiarazioni delle parti non possono in qualsiasi caso essere utilizzate nel successivo giudizio né essere fatte oggetto di prova testimoniale.

Per il franchisor è importante conoscere a fondo la realtà imprenditoriale di chi sta entrando a far parte della sua catena commerciale, poiché questo contribuirà a fornire una migliore o peggiore immagine del marchio.

È da sottolineare, invece, che nei primi progetti di legge l’art. 8 della legge richiamava in causa l’art. 1439 del Codice riferendosi direttamente ad esso.
Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5- 108.

Cfr. G. De Nova, C. Leo, A. Venezia, Il franchising: Legge 6 maggio 2004 n. 129, Milano, 2004, pagg. 5-108.

Ad esempio se il franchisor comunica all’aspirante franchisee, durante le trattative, che sta per concludere un altro contratto di franchising con un imprenditore già noto sul mercato ricevendo da tale operazione importanti benefici. Questa notizia potrebbe spingere l’aspirante franchisee a concludere più velocemente il contratto, prestandovi meno attenzione. Il franchisor in questo caso non è obbligato dalla legge a fornire tale informazione, ma nel caso in cui decide di fornirla, deve corrispondere alla realtà. Un’informazione di questo tipo non è prevista dall’art. 6 della legge, ma ricade sotto l’ambito di applicazione dell’art. 8 nel caso in cui il franchisor dia informazioni non veritiere.

La dottrina critica tale previsione poiché nella realtà non si sono mai verificati casi di contratti di franchising conclusi verbalmente poiché era già previsto l’obbligo di forma scritta del contratto sia dall’art. 5 del Codice Deontologico Europeo, sia dall’art. 6 del Codice Deontologico dell’Associazione Italiana del Franchising. Nel caso di violazione di tali disposizioni non potevano essere previste sanzioniche incidessero sulla validità ed efficacia del negozio, ma l’inosservanza avrebbe comunque comportato l’applicazione di sanzioni con effetti pregiudizievoli sull’assetto economico e finanziario dell’impresa.
Cfr. E.M. Tripodi, La disciplina italiana del franchising: brevi note alla legge 6 maggio 2004, n. 129, in Disciplina del commercio e dei servizi, 2004, fasc. 3, pagg. 511-526.

In tal caso i suoi obblighi di disclosure saranno quelli stabiliti dalla legge di quell’ordinamento.

Nonostante la Corte di Giustizia europea con la sentenza “Pronuptia” avesse riconosciuto e dato piena legittimità al franchising di produzione, anche il Regolamento comunitario n. 4087/88 discriminava taleforma poiché caratterizzata da accordi tra produttori contraddistinti da un maggiore grado di rischio, in quanto accordi definiti “orizzontali”.
Cfr. E. Tanzarella, La nuova disciplina del franchising, in Rassegna di diritto civile, 2005, fasc. 2, pagg. 559-597.

Proposta di Legge del 16 maggio 2007, C. 2656.

Art. 8, comma 2 della proposta di legge.

Solitamente la prassi risulta che la nuova legge si presenti come emendatrice della vecchia dopo aver spiegato chiaramente cosa in quest’ultima non abbia funzionato e la motivazione del perché si propongono nuove soluzioni.
Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67-75.

È stato quindi interpellato il presidente dell’Assofranchising, l’associazione maggiormente rappresentativa del settore, sia per anzianità che per il numero dei suoi membri, il quale, però, non ha confermato questa esigenza, dimostrando, invece, grande apprezzamento per la Legge n. 129 del 2004 poiché ha fornito un grande contributo nel rendere trasparenti i rapporti soprattutto nella fase precontrattuale. Anche l’esperienza effettuata nei tre anni di applicazione della legge ha fornito buoni risultati, infatti, nessun franchisee si è mai rivolto alle aule dei tribunali.
Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67-75.

Effettuando una breve analisi di alcuni Paesi europei è possibile osservare che Belgio (Legge 19 dicembre 2005, in vigore dal 1 febbraio 2006) e Svezia (Legge 26 maggio 2006, in vigore dal 1 ottobre 2006) hanno approvato leggi molto simili alla legge italiana in vigore, prevedendo informazioni minime da inserire nei contratti. In Grecia un progetto di legge simile è attualmente in discussione in Parlamento, per cui, uno dei maggiori studiosi italiani del franchising, Aldo Frignani, è stato richiesto come consulente per la comparazione tra il progetto greco e la legge italiana vigente.

Al contrario, da un’indagine effettuata da Frignani (De Nova, Venezia, Leo, Bortolotti, Tripodi) risulta che nessuno in dottrina chiede l’abrogazione della Legge n. 129 del 2004, anche se alcuni di essi in passato hanno espresso critiche a riguardo.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

La proposta di legge afferma che “per franchising si intende un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know-how o brevetti da utilizzare per la rivendita di beni o per la prestazioni di servizi ad utilizzatori finali”.

La proposta di legge dichiara che “per contratto di franchising si intende un accordo con il quale un’impresa, affiliante, concede ad un’altra, affiliata, dietro corrispettivo finanziario diretto o indiretto, il diritto di sfruttare un franchising allo scopo di commercializzare determinati tipi di beni e servizi”.

Elemento considerato, dalla Sentenza “Pronuptia” del 1986, come caratteristica essenziale che non deve mai essere tralasciata. Esso viene poi ripreso dall’art. 3, comma 1, lettera c) tra gli elementi obbligatori in un contratto di franchising, ma un conto è definirlo come obbligo contrattuale, un altro è considerarlo come elemento essenziale dalla nozione del contratto.
Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67-75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Per un’analisi approfondita si rimanda al paragrafo 4 del Capitolo 2.

La legge del 2004, invece, allo stesso articolo estendeva l’applicazione delle norme al “master franchising” ed al “corner franchising”, a cui la nuova proposta non fa cenno. Non si capisce se ciò sia dovuto a dimenticanza o a scelta precisa; se fosse vera quest’ultima ipotesi, la proposta produrrebbe effetti negativi, cioè l’esenzione dalla disclosure di tipologie di franchising molte utilizzate sul mercato.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Al contrario, spesso viene fatto espresso divieto al franchisee di presentarsi sotto il nome del franchisor.

Non è un bene iscrivibile a bilancio.

Per esempio nel franchising itinerante per il quale non è prevista una sede fissa in cui viene svolta l’attività.

Nel definire quando il know-how è da ritenere “segreto” il legislatore sottrae alla comune definizione il criterio di giudizio e cioè “considerato come complesso di nozioni o nella precisa configurazione e composizione dei suoi elementi”, aggiungendo “e impossibile da ottenere al di fuori dell’impresa affiliante”, affermazione, quest’ultima, apparentemente in contraddizione con la definizione comunitaria.L’aggettivo “impossibile” sembrerebbe contraddittorio con l’espressione “non facilmente accessibile”utilizzata dai regolamenti comunitari. È possibile dare una spiegazione più approfondita fornendo unesempio: si pensi al caso di un software per la gestione contabile: il franchisee può ottenerne un altroaltrettanto efficiente rivolgendosi ad un programmatore di sua fiducia, dovendo, però, sostenere maggioricosti e tempi di attesa maggiori rispetto a quello offertogli dal proprio franchisor.Anche la qualificazione del know-how come “sostanziale” si differenza da quella comunitaria e da quelladella Legge n. 129 del 2004; viene, infatti, sostituita la caratteristica di “indispensabilità” con il termine“importanza”.
Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67-75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

È stabilito, infine, che la descrizione del know-how può figurare nell’accordo di franchising o in un documento separato; la scarsa accuratezza del legislatore appare evidente, avendo utilizzato il termine “accordo” piuttosto che quello più appropriato di “contratto”, che ricorre, infatti, in tutto il resto della proposta di legge .
Proseguendo con l’analisi del testo si affronta l’art. 4, il più criticato, poiché ci si accorge subito dell’errore effettuato dal legislatore: è previsto che il franchisor debba consegnare all’aspirante franchisee un prospetto illustrativo con le informazioni utili a valutare la vantaggiosità dell’instaurazione del rapporto di franchising, ma l’articolo in questione non precisa, come prevede invece la Legge n. 129 del 2004, che debba essere consegnato all’aspirante affiliato anche il testo del contratto.
Il secondo comma dello stesso articolo specifica i contenuti informativi da fornire all’aspirante franchisee, indicati invece sinteticamente dalla Legge n. 129 del 2004:
a) Data di costituzione dell’impresa con menzione delle fasi principali del suo sviluppo: ci si domanda come si potrebbe interpretare questa disposizione nel caso in cui l’azienda fosse di antica costituzione sebbene entrata nel franchising solo di recente, chiedendosi se la descrizione del suo sviluppo debba riguardare tutta la vita dell’impresa oppure soltanto il momento in cui si è affacciata al franchising. Inoltre, per un impresa che operi, oltre che nel franchising, anche all’interno di altri settori di attività, la descrizione dovrà essere effettuata solo per il primo o anche per tutti gli altri? La norma proposta non ha tenuto conto della realtà economica ove spesso gli stessi beni possono essere distribuiti anche con altri canali (es. somministrazione di vendita, grande distribuzione organizzata). Di questa possibilità si è, invece, resa conto la Legge n. 129 del 2004 che fa obbligo di indicarli tutti.
b) La titolarità di marchi, brevetti e licenze: la formulazione appare troppo generica e i dati sembrerebbero irrilevanti se non collegati direttamente ai beni di proprietà industriale oggetto del franchising .
c) La situazione generale e locale del mercato dei prodotti o dei servizi che costituiscono oggetto del contratto e le prospettive di sviluppo di tale mercato: nel caso in cui il franchisor fosse un’impresa straniera, però, non si capisce che cosa potrebbe intendersi per “situazione generale” da prendere in considerazione. Inoltre, nel caso di nuovo franchisor che non abbia mai operato sul territorio, ci si domanda come faccia questo soggetto a conoscere il mercato. Quanto alle “prospettive di sviluppo”, se la norma proposta intende riferirsi a studi di mercato questi potrebbero risultare troppo costosi; infine ci si domanda quale potrà poi risultare il loro valore giuridico non potendo certamente costituire una promessa di risultato .
d) La situazione economica dell’impresa come risulta dai bilanci annuali degli ultimi due esercizi: si tratta di un dato non sempre utile all’aspirante franchisee poiché troppo generico ; inoltre non si comprende perché nella proposta si faccia riferimento agli ultimi due esercizi, anziché tre esercizi come previsto dalla legge del 2004, diminuendo il livello di tutela a favore dell’aspirante franchisee.
e) La presentazione della rete di franchising comprendente l’elenco delle imprese che ne fanno parte con l’indicazione per ciascuna di esse del sistema gestionale convenuto: ci si chiede se sia veramente utile tale lista per quanto riguarda le rete di grandi dimensioni.
f) Il numero delle imprese: non si capisce perché, in questo caso, il legislatore abbia utilizzato il termine “imprese” e non “affiliati” come all’interno di tutto il testo legislativo. Sembrerebbe, quindi, che se il franchisor svolgesse anche altre attività con altre forme di contratto (es. somministrazione, concessione a vendere), dovrebbe, in caso di sostituzione della precedente normativa con quella qui analizzata, indicare anche queste.
g) La durata del contratto, le condizioni di rinnovo, di risoluzione e di cessione, ambito di esclusiva: la prima osservazione è che questi dati dovrebbero obbligatoriamente far parte del contratto, così come indicati dalla legge del 2004 dall’art. 3, comma 4, lettera g), non avendo senso, infatti, inserirli soltanto nel prospetto informativo; quest’ultimo infatti svolge soltanto una funzione precontrattuale, consentendo ai soggetti di valutare la possibilità di concludere il contratto, ma non va confuso con il contratto vero e proprio che disciplina le obbligazioni tra le parti.
h) Le spese e gli investimenti riferiti all’immagine di marca che l’affiliato deve impegnare prima di iniziare l’attività: la nozione sembrerebbe non significare nulla, visto, come già spiegato precedentemente, che l’affermazione “immagine di marca” è priva di significato; bisognerebbe perciò riferirsi agli investimenti specifici relativi alla relazione contrattuale come nel caso di attrezzature speciali o di formazioni specifiche.
L’art. 4, al terzo comma, prevede che l’aspirante franchisee, debba consegnare un prospetto informativo al franchisor contenente informazioni sulla propria impresa, sulla propria solidità economica, sulle conoscenze che egli ha del mercato e sull’esperienza professionale nel settore, sulla disponibilità dei locali per lo svolgimento dell’attività e le loro caratteristiche. All’interno del prospetto il franchisee può fare richiesta di informazioni al franchisor sull’esistenza di eventuali procedimenti giudiziari promossi negli ultimi tre anni nei suoi confronti.
Questa disposizione rappresenta una novità non solo rispetto alla legge italiana in vigore, ma anche rispetto al panorama legislativo internazionale.
Potrebbero essere sollevate delle obiezioni sull’informazione prevista a carico del franchisee di descrivere la propria impresa e la propria attività, poiché, come ribadito più volte, molti affiliati non hanno avuto precedenti esperienze imprenditoriali e diventano imprenditori soltanto al momento della stipula del contratto di franchising; inoltre, anche se fossero stati titolari di un’impresa, le informazioni potrebbero comunque risultare di scarsa utilità, perché con il franchising si dà inizio ad un’attività completamente nuova .
Per quanto riguarda, invece, l’informazione riguardante la disponibilità dei locali per lo svolgimento dell’attività da parte del franchisee, il legislatore non ha tenuto conto che quasi sempre questo soggetto, al momento della stipula del contratto, non ha ancora la disponibilità dei locali, e che, anzi, proprio la disponibilità dei locali costituisce solitamente uno dei primi obblighi contrattuali.
Infine, per quanto concerne l’eventuale richiesta che il franchisee rivolge al franchisor per ottenere informazioni riguardanti i procedimenti giudiziari promossi nei suoi confronti, se confrontata con la legge del 2004, sembrerebbe essersi compiuto un passo all’indietro, poiché in questo caso si parla di procedimenti “promossi”, al contrario della Legge n. 129 del 2004 che si riferisce ai soli procedimenti “conclusi” .
L’art. 5 della proposta di legge affronta la durata del contratto di franchising, affermando che i contratti possono essere stipulati a tempo determinato o a tempo indeterminato, dovendo garantire, nel primo caso, una durata minima necessaria all’ammortamento dell’investimento e delle spese sostenute dal franchisee.
È quindi prevista una durata minima, ma senza ulteriori specificazioni, come invece accade nella legge oggi in vigore, che, come già ribadito, fissa espressamente la durata in tre anni.
Lo stesso articolo afferma che le parti, di comune accordo, possono condizionare la durata del contratto al raggiungimento, entro un dato periodo di tempo, di determinati obiettivi economici, purché ragionevoli e fondati su esperienze precedenti documentate dal franchisor. Questa eventuale previsione è già molto criticata in giurisprudenza , poiché solitamente il mancato
raggiungimento di determinati obiettivi può portare al mancato rinnovo del contratto successivamente alla data di scadenza o altre soluzioni meno gravi, ma non al condizionamento della durata stessa del contratto.
L’art. 6 della proposta di legge si occupa, invece, dello scioglimento del contratto, momento a partire dal quale, il franchisee avrebbe diritto a restituire al franchisor le scorte di magazzino a condizione che sia prevista nel contratto una clausola che ne impone l’accumulo o che sia limitativa della libertà di concorrenza; non si capisce però cosa si intende per queste ultime affermazioni perciò la norma rischia di restare in operativa: ci si domanda, infatti, cosa si intende con l’affermazione “ne impone l’accumulo”, poiché, per ogni affiliato, costituire un magazzino di scorte rappresenta una “normale” condizione.
Quando, allora, le scorte di magazzino cesseranno di essere “normali” per assumere la qualifica di “accumulo”?
La stessa norma prevede sempre in caso di scioglimento del contratto, la possibilità per il franchisee di restituire al franchisor i beni strumentali utilizzati per l’esercizio dell’attività, a condizione che gli stessi non siano stati ancora ammortizzati o che, per caratteristiche proprie o per espressa previsione contrattuale, non possano essere riutilizzati dal franchisee per lo svolgimento di un’attività diversa o similare.
Per queste due ipotesi è previsto l’obbligo a carico del franchisor di corrispondere all’affiliato il prezzo relativo ai beni strumentali a lui restituiti; la dottrina considera inaccettabile tale obbligazione, poiché il prezzo da pagare dovrebbe considerare soltanto il valore residuo di mercato sia per le scorte, sia per i beni strumentali, previsione non espressa dalla legge .
Di carattere totalmente innovativo rispetto alla legge del 2004 appare l’art. 7 della proposta di legge, la quale prevede la possibilità che il contratto di franchising contenga una limitazione della libertà di concorrenza a carico del franchisee, precisando che sono invece vietate le clausole che precludono allo stesso la possibilità di esercitare un’attività analoga o similare a quella del franchisor al di fuori dell’ambito territoriale che gli era stato attribuito in esclusiva. Da una prima lettura della normativa sembrerebbe quindi percepire che il legislatore intendesse applicare tale disposizione soltanto dopo la cessazione del rapporto, anche se, in realtà, tale intenzione non è stata precisata.
La norma si conclude dichiarando che sono vietate le clausole che limitano la libertà di concorrenza per un periodo superiore a cinque anni; tale affermazione appare contraria alla disciplina comunitaria poiché le Linee direttrici della Commissione Europea sulle restrizioni verticali , coscienti della peculiarità del franchising rispetto agli altri contratti di distribuzione, hanno esplicitamente affermato che “un obbligo di non concorrenza relativo ai beni o servizi acquistati dall’affiliato non rientra nell’art. 81.1 del Trattato CE quando esso è necessario per mantenere la reputazione e l’identità comuni della rete di franchising. In tali situazioni, anche la durata dell’obbligo di non concorrenza è irrilevante ai sensi dell’art. 81.1, a condizione che essa non superi la durata dell’accordo stesso di franchising” .
Il legislatore italiano avrebbe previsto, dunque, una regola contraria al diritto comunitario della concorrenza.
La nuova proposta di legge si conclude con l’art. 8 che rimanda, per tutto quanto non previsto dalla stessa, alla disciplina sui contratti prevista dal Codice Civile, alla disciplina comunitaria, e alla disciplina vigente in materia di diritti di proprietà industriale ed intellettuale.
Riferendosi alla disciplina comunitaria non viene però specificato se debba essere considerata tale quella riguardante i contratti, quella sul franchising o quella riguardante la concorrenza.
La norma prevede, inoltre, l’abrogazione della Legge n. 129 del 2004, considerata dalla dottrina una previsione negativa ; la nuova proposta di legge infatti, rispetto alla precedente non prevede più gli obblighi contrattuali di comportamento previsti dal vecchio art. 6, considerato il fulcro della vecchia normativa, oltre a non prevedere più la possibilità di conciliazione in caso di controversie di cui all’ art. 7 della Legge n. 129 del 2004, gli obblighi a carico dell’affiliato riguardanti il dovere di riservatezza previsti art. 5 della Legge n. 129 del 2004 ed infine, non si prevede più l’onere della sperimentazione dell’art. 3, comma 2, della Legge n. 129 del 2004 che impone l’obbligo di collaudare la rete di franchising prima di poterla effettivamente istituire.
In sostanza, verrebbe abrogata una legge studiata appositamente in favore dei franchisee, considerati come parte debole del rapporto; la nuova proposta di legge non prevede più, infatti, nessun tipo di disposizione della stessa natura, ma concentra la propria attenzione su questioni totalmente differenti.
In conclusione, la nuova proposta di legge è ampiamente criticata poiché mal formulata e mal predisposta, contenente disposizioni inutili e al di fuori delle esigenze richieste dai contraenti di questa tipologia di contratto.
Sarebbe stato più opportuno rivedere la legge del 2004, rimaneggiarla apportando alcune modifiche tenendo in considerazione le critiche subite in questi anni, piuttosto che proporre un nuovo testo legislativo completamente inadatto alle esigenze delle parti; si tratta, comunque, di una mera proposta che, allo stato dei fatti, non si è ancora tradotta in una nuova disciplina legislativa.

3.4 Abuso di dipendenza economica e pubblicità ingannevole in relazione al franchising
All’interno di qualsiasi rapporto di franchising il franchisee è un imprenditore incaricato di assolvere alla distribuzione o alla produzione dei beni o dei servizi di un altro imprenditore, il franchisor.
Da questa situazione deriva spesso inevitabilmente una dipendenza economica del franchisee nei confronti del franchisor: quest’ultimo, infatti, adotta solitamente un sistema di distribuzione o di produzione diverso rispetto a quello di tutti gli altri franchisors esistenti sul mercato, facendo in modo che il franchisee sia costretto ad acquisire conoscenze ed a compiere investimenti che risulteranno utili soltanto nei rapporti con quel determinato franchisor, difficilmente riutilizzabili nei confronti di altri imprenditori che si avvalgano di diversi sistemi.
Si comprende, pertanto, come in molti casi la fine del rapporto di franchising possa rappresentare un rilevante danno economico per il franchisee.
Al contrario, per un franchisor l’estinzione del rapporto con un singolo affiliato non provoca solitamente grandi perdite, visto che i suoi risultati globali sono legati ad un alto numero di contratti; lo scioglimento di uno di questi non risulta alquanto rilevante ed è comunque facilmente sostituibile con un altro franchisee. Per il franchisor i franchisees sono normalmente “fungibili” .
Potrebbero verificarsi, quindi, alcune situazioni in cui il franchisor approfitti di questo potere nei confronti dei suoi affiliati, dando luogo a stati di abuso di dipendenza economica .
Le caratteristiche salienti della dipendenza economica sono rintracciabili nella specificità del bene, nelle carenze informative, nell’incompletezza del contratto, con l’effetto di “imprigionare” il contraente più debole esponendolo al rischio di comportamenti opportunistici della controparte; tale situazione è aggravata dal fatto che il soggetto debole, legato alla sua scelta contrattuale per la carenza di altre controparti, si trova esposto al rischio di estorsione da parte del contraente forte che, tramite la minaccia di porre fine al rapporto, ha l’opportunità di ottenere vantaggi a proprio carico.
L’abuso di dipendenza economica si riferisce a rapporti tra imprenditori ed è regolato dall’art. 9 della Legge n. 192 del 1998 , che ha lo scopo di proteggere l’imprenditore debole, vietando ogni comportamento consistente in un’oggettiva manifestazione di approfittamento derivante da una situazione di monopolio sostanziale da parte del contraente dotato di maggiore potere contrattuale.
Tale situazione potrebbe manifestarsi anche all’interno di un rapporto di franchising, in cui la dipendenza del franchisee nei confronti del franchisor non è quasi mai preesistente al momento della stipula del contratto, ma si realizza dopo la conclusione dello stesso; deve quindi ritenersi che l’art. 9 della legge sulla subfornitura, che disciplina il divieto di abuso di dipendenza economica, offra un valido strumento di tutela a favore del franchisee che si trovi in una situazione di dipendenza economica nei confronti del proprio franchisor contro eventuali abusi da parte di quest’ultimo.
Analizzando il testo legislativo è possibile individuare, al primo comma dell’art. 9, il divieto di abuso da parte di una o più imprese, dello stato di dipendenza economica nel quale si trova un’impresa cliente o fornitrice. Secondo tale norma è da considerarsi come dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo “anche” conto della reale possibilità per l’impresa che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti .
È, quindi, possibile affermare che il divieto di abuso di dipendenza economica è volto a impedire l’abuso di una situazione di forza, ovvero di una posizione di monopolio, di una parte nei confronti di un’altra che si trovi nell’impossibilità di reperire sul mercato valide alternative .
Tuttavia, è da osservare che l’abuso di dipendenza economica prende anche in considerazione l’ipotesi in cui l’aspirante franchisee abbia teoricamente delle migliori alternative sul mercato, ma, per una distorta o incompleta informazione sulle altre offerte o per una non perfetta comprensione della portata delle clausole accettate al momento della conclusione del contratto , il franchisor abbia ugualmente la possibilità di determinare un significativo squilibrio di diritti ed obblighi .
Il difetto di corrette informazioni può, infatti, determinare la costituzione di una dipendenza economica definita “putativa”, nel caso in cui, cioè, un soggetto economico ritenga, erroneamente, di non avere altre alternative sul mercato rivolgendosi, perciò, ad un soggetto che pratichi prezzi vicini a quelli che si formerebbero in una situazione di monopolio, pur avendo a disposizione situazioni migliori . Deve pertanto ritenersi che si venga a creare un abuso di dipendenza economica anche in questo caso, purché il difetto di informazioni o l’incapacità di valutare correttamente non dipenda da un comportamento negligente dell’imprenditore, ma derivi da una difficoltà a procurarsi situazioni migliori esistenti sul mercato, pur utilizzando l’ordinaria diligenza .
Tale interpretazione si giustifica per il fatto che la norma afferma che la dipendenza economica va valutata “anche” in relazione all’esistenza di valide alternative sul mercato, lasciando intendere che lo squilibrio di diritti ed obblighi possa determinarsi anche in assenza di una situazione di monopolio in senso strettamente economico.
In ogni caso, l’applicabilità dell’art. 9 della Legge n. 192 del 1998 richiede la prova sia di una dipendenza economica , anche se “putativa”, sia del relativo abuso, non sempre semplice da fornire . Inoltre, anche trascurando il problema probatorio, l’abuso di dipendenza economica presuppone un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi, che non sempre si realizza.
L’articolo in questione, anche se contenuto in una legge specifica, quale quella della subfornitura, può essere considerato applicabile anche a tutti gli altri contratti stipulati tra imprenditori, grazie alla terminologia utilizzata: il legislatore, infatti, ha utilizzato il termine generico di “impresa” e non si è rivolto specificamente al committente ed al subfornitore .
La forza espansiva della disposizione è dimostrata anche dalla sua originaria collocazione all’interno della legge antitrust, ove tale disposizione prescindeva ovviamente da qualsiasi riferimento al contratto di subfornitura; infatti il primo progetto di legge sulla subfornitura prevedeva che il divieto di abuso di dipendenza economica dovesse trovare la sua collocazione e disciplina all’interno della Legge n. 287 del 1990 nell’art. 3-bis, in considerazione del fatto che le condotte vietate dall’abuso di dipendenza economica erano le stesse che venivano proibite dalla legge antitrust .
Nel testo definitivo della legge è stato scelto, invece, di collocare l’abuso di dipendenza economica all’interno del contratto di subfornitura. La questione fu molto dibattuta in sede di lavori parlamentari; la collocazione della norma nell’ambito della legge antitrust avrebbe infatti comportato l’attribuzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, della competenza a giudicare circa l’esistenza o meno di situazioni di abuso di dipendenza economica, mentre nella sua sistemazione attuale questa valutazione risulta di pertinenza del giudice ordinario .
Uno dei motivi per i quali è stato deciso di non inserire questa norma all’interno della legge antitrust è dovuto all’opinione negativa che la stessa Autorità Garante della concorrenza aveva espresso in merito a tale questione.
Infatti, con parere emesso, ai sensi dell’art. 22 della Legge n. 287 del 1990, in data 11 febbraio 1998 , l’Autorità per la concorrenza, partendo da una distinzione tra disposizioni di carattere generale dirette a tutelare il mercato nel suo assetto concorrenziale, al cui rispetto essa sovrintende, e regole specifiche inerenti la disciplina dei rapporti contrattuali fra le parti, che si collocano nella tematica dell’equilibrio contrattuale e che pertanto riguardano la sfera di azione del giudice ordinario, ha correttamente inquadrato l’abuso di dipendenza economica in quest’ultimo gruppo di norme, suggerendo al Parlamento di non inserire tale figura nella legge antitrust.
L’art. 9 della Legge n. 192 del 1998 disciplina, effettivamente, rapporti di carattere prettamente privatistico, tra singoli determinati imprenditori, non creando ripercussioni di carattere pubblicistico senza provocare, se non raramente, restrizioni consistenti della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante .
Può ritenersi, pertanto, che la norma riguardante l’abuso di dipendenza economica sia applicabile anche a tutte le tipologie di franchising; l’art. 9 non è da considerarsi, infatti, norma di carattere eccezionale in quanto derogatoria rispetto al principio dell’autonomia negoziale, ma costituisce, invece, espressione dei principi di buona fede, solidarietà contrattuale, correttezza nei rapporti tra imprenditori e di tutela del principio costituzionale della libera iniziativa economica e, pertanto, suscettibile di applicazione analogica al contratto di franchising .
In difetto di una previsione specifica all’interno della Legge n. 129 del 2004 riguardante il franchising, l’art. 9 in tema di abuso di dipendenza economica, assume un ruolo importante introducendo una regola di comportamento limitativa nei confronti delle imprese dotate di un forte potere contrattuale nei confronti di contraenti deboli .
La norma consente al franchisee, qualora questi riesca a dimostrare di trovarsi in una situazione di dipendenza economica, di ricevere un’efficace tutela a fronte di comportamenti contrattuali abusivi posti in essere dal franchisor come, per esempio, il fatto di essersi avvalso di clausole risolutive espresse per inadempimenti di scarsa importanza al solo scopo di sciogliere un contratto ritenuto non più conveniente ; in questo caso il franchisee potrà chiedere al giudice di provvedere alla dichiarazione di nullità del patto.
Esistono, però, altre due ipotesi: la prima riguarda il caso in cui il franchisee riesca a dimostrare che il franchisor abbia receduto senza congruo preavviso pur in assenza di giusta causa, mentre la seconda si riferisce al caso in cui il franchisee dimostri che il franchisor non abbia proceduto al rinnovo del contratto anche se i precedenti rapporti, per la loro regolarità e periodicità, avevano suscitato nel franchisee un certo affidamento circa il loro rinnovarsi nel futuro, creando una legittima aspettativa del franchisee in questo senso : nel caso in cui si verifichi una di tale ipotesi, il franchisee potrà richiedere al giudice il risarcimento del danno subito.
Riguardo alla nullità, prevista nel caso in cui il franchisor si avvalga di clausole risolutive espresse per inadempimenti di scarsa importanza al solo scopo di sciogliere un contratto ritenuto non più conveniente, esistono due scuole di pensiero: la prima considera tale nullità applicando le regole generali dell’art. 1419 del Codice Civile, in ragione del quale la nullità parziale del contratto si ripercuote sull’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte di contenuto colpita da nullità. In questo caso il franchisor riuscirebbe a dimostrare facilmente che non avrebbe stipulato il contratto senza la parte relativa all’abuso di dipendenza economica, portando il franchisee nella condizione di far valere la nullità del contratto che produrrà effetti sull’intero patto, provocando conseguenze negative in termini economici.
L’unica alternativa di evitare tali effetti, sarebbe dunque quella di accettare la condizione di abuso di dipendenza economica.
La seconda scuola di pensiero considera tale nullità come “di protezione” , la quale pone regole precise a tutela della parte debole prevedendo una sanzione per colui che approfitti della propria situazione di maggiore forza. Una volta che sia riconosciuto dal giudice l’esistenza di abuso di dipendenza economica, il franchisee avrà diritto, secondo i principi generali di cui agli artt. 1218 e 2043 del Codice Civile, al risarcimento del danno, che dovrà comprendere tanto il danno emergente che il lucro cessante , oltre che all’interruzione arbitraria delle relazioni in atto.
Un possibile problema, riguardo all’abuso di dipendenza economica, si pone quando il contraente debole non sia in grado di reperire sul mercato alternative al rapporto con la controparte perché questo gli sia vietato da una clausola del contratto espressamente prevista dalle parti. È utile domandarsi se questa situazione vada effettivamente considerata come dipendenza economica o se debba considerarsi come una libera scelta del contraente assunta con il contratto, di rinunciare ad altre alternative proposte dal mercato.
La dottrina ritiene che il giudice non dovrebbe entrare nel merito della valutazione rispetto alla posizione dell’imprenditore che abbia subito l’abuso di dipendenza economica; il giudice, infatti, non è tenuto a stabilire se l’imprenditore soggetto ad abuso avesse potuto, con una condotta più attenta, evitare di porsi in una situazione di dipendenza economica, perché teoricamente tutte le situazioni di questo tipo sarebbero evitabili semplicemente sottraendosi alla stipula di contratti di subfornitura e franchising.
È quindi possibile concludere che, pur essendo tale disposizione applicabile in via analogica al franchising, il ricorso al predetto principio non appare del tutto agevole nell’ambito di tale figura contrattuale; risulta infatti difficoltoso poter dimostrare, per il contraente debole, la situazione subita di abuso di dipendenza economica, la quale abbia altresì provocato un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi.
Un altro problema, che merita una breve analisi, riscontrabile all’interno di un rapporto di franchising riguarda la possibile pubblicità ingannevole esercitata dal franchisor; le false informazioni di cui può essere destinatario il frachisee, senza necessariamente dover assumere rilevanza penale , possono avere ugualmente un rilievo pubblicistico, ed essere oggetto di attenzione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, sotto il profilo della violazione della disciplina prevista dai decreti legislativi n. 145 e 146 del 2007, che sanzionano la cosiddetta “pubblicità ingannevole”, ovverosia una pubblicità idonea ad indurre in errore le persone e conseguentemente a pregiudicarne il proprio comportamento economico .
L’intervento dell’Autorità si giustifica quando, per la vastità della diffusione della pubblicità ingannevole, siano stati messi in pericolo interessi di carattere pubblico.
La disciplina in questione ha come finalità quella di tutelare non solo i consumatori, ma anche gli imprenditori; peraltro, in tema di franchising, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha definito gli aspiranti franchisee proprio come consumatori poiché questi, prima di concludere i relativi contratti, trovandosi nella maggior parte dei casi alla prima esperienza imprenditoriale, possono certamente essere considerati come consumatori.
In tema di franchising, infatti, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato è spesso intervenuta per sanzionare come ingannevole la pubblicità dei franchisor che pubblicizzavano la propria catena distributiva ingigantendone in modo scorretto il numero di affiliati, il giro d’affari globale, le potenzialità di guadagno, la fornitura di assistenza tecnica e commerciale, facendo credere agli affiliati che l’investimento richiesto e i canoni da pagare fossero di importo molto ridotto .
Rispetto ai canoni da pagare è possibile ricordare il provvedimento Fruscio Franchising esaminato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, a seguito della richiesta di un consumatore che rilevava la scorrettezza di una comunicazione pubblicitaria apparsa sulle pagine di un mensile , ove tra le altre informazioni, acquistavano particolare importanza alcune affermazioni tra cui quella relativa alla “libertà di entrata, nessun diritto di entrata né royalty”.
Dalla documentazione acquisita nel corso dell’istruttoria è risultato che, a dispetto del contenuto del messaggio pubblicitario, i franchisee dovevano versare periodicamente delle royalties, ed effettuare un versamento annuale qualunque fosse stato il volume d’affari.
Alla luce di tali considerazioni sono risultati evidenti l’ingannevolezza della pubblicità realizzata ed il comportamento scorretto assunto dal franchisor durante la fase precontrattuale.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha, quindi, deliberato che il messaggio diffuso dal franchisor fosse ingannevole, posto che la falsa informazione concerneva una caratteristica dell’offerta tanto rilevante da doversi ritenere determinante del consenso; la possibilità di aderire ad un’iniziativa economica conveniente quale l’ingresso in una rete di franchising, infatti, in assenza di costi aggiuntivi fissi a scadenza periodica, quali le royalties, poteva condizionare, ed in maniera alquanto rilevante, il processo di scelta di qualsiasi soggetto stimolato ed indotto in errore dalla comunicazione in discorso .
Altro caso sottoposto all’attenzione del garante è rappresentato dal caso “Agenzia Nuovi Incontri” in cui un concorrente segnalò all’Autorità garante della concorrenza e del mercato la presunta ingannevolezza di messaggi pubblicitari diffusi dalla società in questione attraverso un settimanale locale, all’interno dei quali l’istituto vantava una “ventennale esperienza” sul mercato, quando invece esso risultava iscritto nel Registro delle Imprese della propria città soltanto da cinque anni.
L’Autorità garante ha ritenuto, anche in questo caso, ingannevole tale forma di pubblicità, posto che la stessa lasciava supporre l’attribuzione del pregio costituito dalla nominata “esperienza ventennale”, invece inesistente.
Riguardo all’istituto del franchising, è da rilevare però, che il limite della disciplina in tema di pubblicità ingannevole è costituito dal necessario utilizzo dello strumento pubblicitario e dal coinvolgimento di interessi pubblici: per questo motivo il singolo episodio di inesatta o scorretta informazione molte volte sfugge all’Autorità garante della concorrenza e del mercato .
In qualsiasi caso caratterizzato da pubblicità ingannevole da parte del franchisor, risulta utile rilevare che ogni qualvolta il franchisee concluda un contratto con un terzo soggetto, ad esempio di vendita del bene o servizio caratterizzante l’attività della rete di franchising, risulterà coinvolto anche quest’ultimo, pur essendo estraneo al rapporto di affiliazione, a causa della subita lesione dei propri interessi.
Il fatto di aver creato tale situazione in capo ad un soggetto estraneo al rapporto contrattuale, esclude la responsabilità contrattuale, ma rende applicabile la responsabilità aquilana o extracontrattuale; gran parte della dottrina precisa come, innanzi a tali situazioni possa parlarsi di danno da informazione del terzo, sottolineando come tale elemento non sia attinente alla validità del rapporto contrattuale conclusosi tra franchisee e consumatore del bene, bensì alla validità economica dell’affare commerciale. In altri termini, occorre fare riferimento a quel particolare tipo di “contatto sociale” che lega l’autore della dichiarazione pubblicitaria e il suo destinatario, seppure tra i due non via sia alcun tipo di vincolo negoziale.
Appare chiaro, quindi, che nel rapporto tra la responsabilità di colui che fornisce informazioni, il franchisor, e colui che le riceve vi sia una forte disparità in virtù delle diverse posizioni, conoscenze e capacità imprenditoriali. Lo scopo dei nuovi decreti legislativi in materia di pubblicità ingannevole risulta proprio quello di tutelare qualsiasi tipologia di soggetto destinatario di false o erronee informazioni.
CONCLUSIONI
Negli ultimi decenni la competizione e la concorrenza hanno dato origine in tutto il mondo, e specialmente nei Paesi Europei, a problemi legati all’aumento degli investimenti sostenuti dalle imprese per poter dare inizio a nuove attività di business, provocando grandi difficoltà per i piccoli imprenditori dotati di scarse possibilità economiche.
All’interno di questo nuovo scenario economico si sono affermate nuove forme di organizzazioni “a rete”, tra cui il franchising, grazie ai numerosi vantaggi che tale tipologia contrattuale comporta nei confronti di piccoli imprenditori; il franchising permette, infatti, la cooperazione di tali soggetti con imprese di maggiori dimensioni attraverso rapporti di alleanza basati su strutture di servizi comuni.
Da recenti studi risulta che, nonostante l’attuale crisi economica che stanno affrontando tutti i Paesi europei e la crisi dei consumi che ha colpito il settore delle vendite al dettaglio, il franchising è l’unico settore in continua crescita, con un aumento, per l’anno 2007, dell’8,7% rispetto all’anno precedente .
Anche il numero dei marchi ha registrato una forte crescita (+7,8%), così come il numero dei punti vendita istituiti attraverso la formula commerciale del franchising (+7,2%), oltre ad un conseguente aumento del personale occupato (+8,7%) .
Per quanto concerne, in particolare, il nostro Paese, dall’analisi della distribuzione territoriale e settoriale dei punti vendita, emerge che la maggiore densità di punti vendita istituiti attraverso la figura contrattuale del franchising si concentra nelle province lombarde e venete, mentre la Sardegna e la Valle d’Aosta rappresentano le regioni con la più bassa diffusione.
Tra i settori che si avvalgono maggiormente di questa formula commerciale prevalgono il commercio al dettaglio (soprattutto abbigliamento) e i servizi, di cui in media il 25% dei punti vendita sono gestiti direttamente dai franchisors, mentre i restanti tre quarti affidati a franchisee.
Spinti dall’aumento dei costi che sta interessando tutti i Paesi europei, sono aumentati, però, anche gli investimenti iniziali richiesti ai propri affiliati da parte dei franchisors (da 70 mila a 80 mila euro ). Inoltre è anche in aumento il numero di franchisors che richiedono ai propri affiliati un diritto di entrata, mentre è in diminuzione la percentuale di coloro che richiedono il pagamento delle royalties .
Questo costante sviluppo del contratto di franchising, è stato incentivato ulteriormente, negli ultimi anni, dall’intervento legislativo di cui alla Legge n. 129 del 2004, che ha contribuito alla crescita del numero di affiliati, grazie al maggior grado di tutela offerta.
Nei Paesi in cui non si è proceduto all’adeguamento normativo la crescita del franchising non ha infatti seguito ritmi così elevati come in Italia .
Nel nostro Paese, invece, a seguito dei numerosi codici di
autoregolamentazione e deontologici emessi dalle varie associazioni di categoria, il legislatore ha deciso di stabilire delle regole certe attraverso un vero e proprio intervento legislativo in grado di regolamentare un fenomeno che, con la sua estesa diffusione, percepiva l’esigeva di una regolamentazione .
L’iniziativa legislativa ha cercato di soddisfare l’esigenza, richiesta dall’interesse pubblico, di un ambiente favorevole all’esplicazione di iniziative imprenditoriali, che fossero in grado di conferire un valore aggiunto alle combinazioni produttive d’impresa esistenti sul mercato.
La nascita di nuove imprese, mediante il ricorso ad una formula innovativa come il franchising, infatti, costituisce un preciso interesse dell’ordinamento, rivolto a favorire la “natalità” imprenditoriale.
Il franchising rappresenta, infatti, un istituto particolare, in cui imprese spesso di nuova costituzione, e pertanto ancora prive di credibilità aziendale spendibile sul mercato, aspirano ad acquisirla entrando a far parte di una rete con una solida e più longeva esperienza ; per un piccolo imprenditore agli esordi della propria attività avvalersi dell’esperienza di un’impresa di grandi dimensioni consolidata, significa poter impostare da subito la propria attività su basi organizzative e gestionali già sperimentate.
Scopo del legislatore italiano è stato, quindi, quello di fornire un livello di garanzia adeguato in favore di questi soggetti deboli, per evitare che il rapporto di franchising potesse rischiare di diventare improduttivo per gli affiliati; in sostanza, la legge italiana ha consentito di riequilibrare un rapporto contrattuale altrimenti squilibrato a favore dei franchisor.
La legge si inserisce, pertanto, in un quadro normativo volto alla tutela del contraente debole, riaffermando la tendenza del legislatore ad abbandonare l’antico dogma della tutela assoluta della volontà delle parti, per passare, invece, al nuovo paradigma, di matrice europea, che vede come centro di interesse e di tutela il contraente debole .
La normativa italiana ha stabilito regole soprattutto per  quanto riguarda la fase precontrattuale, prevedendo informazioni obbligatorie che il franchisor deve fornire a tutti i suoi aspiranti franchisee; è stata quindi creata una discosure law basata su un percorso di informazione che il franchisor deve fornire ai suoi affiliati prima della sottoscrizione del contratto .
Il legislatore ha successivamente affermato le stesse regole, con il Decreto Ministeriale n. 204 del 2005, nel caso in cui il franchisor avesse operato esclusivamente all’estero, stabilendo precisi adempimenti anche a favore della tutela degli affiliati italiani nei confronti di franchisors esteri.
La legge del 2004 ha ottenuto anche il parere favorevole della Federazione Italiana del Franchising, che da tempo chiedeva maggiore sicurezza e trasparenza nei rapporti tra le parti; la Federazione ha apprezzato soprattutto il fatto, criticato invece dalla dottrina , di aver creato una legge fondata sull’informazione tra le parti, tralasciando invece norme riguardanti il contenuto del contratto, dal momento che ogni formula di franchising detiene caratteristiche particolari difficilmente inseribili all’interno di un unico quadro normativo.
La stessa Federazione afferma che il complesso di informazioni che, secondo la legge, il franchisor è tenuto a fornire al franchisee prima della sottoscrizione del contratto, consente di fare chiarezza sul profilo dell’azienda con cui si sta concludendo l’accordo, rappresentando un’importante forma di garanzia per il franchisee.
Un altro aspetto positivo della Legge n. 129 del 2004, secondo la Federazione, riguarda la possibilità di ricorrere ai servizi di conciliazione camerale offerti dalle Camere di Commercio, prima di adire l’autorità giudiziaria. La Federazione, inoltre, considera molto efficaci i servizi offerti dalle stesse Camere di Commercio, soprattutto per quanto riguarda la tempistica e per quanto concerne la maggiore vicinanza alle esigenze ed alle problematiche aziendali.
La legge italiana sul franchising non è stata, invece, accettata con favore dalla dottrina, la quale non considera tale normativa come una vera e propria disciplina del contratto di franchising, ma piuttosto come la regolamentazione di alcuni specifici aspetti di tale istituto; questa tecnica legislativa rischierebbe, secondo alcuni , di creare maggiori problemi.
I giuristi affermano, inoltre, che la legge contiene affermazioni inutili, termini troppo vaghi ed obblighi che già esistevano nel nostro ordinamento, mostrando allo stesso tempo scarsa coerenza con il Codice Civile.
È definita, perciò, come una legge scritta “d’impulso”, in cui sono presenti disposizioni che rappresentavano già principi generali e regole specifiche all’interno del nostro ordinamento giuridico e che, pertanto, non necessitavano di alcun richiamo per essere considerate applicabili anche alla fattispecie dell’affiliazione commerciale .
Altro aspetto non adeguatamente affrontato dalla legge è quello relativo al rapporto reciproco tra i franchisee appartenenti ad una stessa rete; in caso, ad esempio, di franchising di servizi esistono, infatti, margini di competizione tra gli affiliati, con rischi di caduta di efficienza di interi comparti della rete, che potrebbero essere superati con un’adeguata previsione normativa .
Per tutti questi motivi, gli studiosi ritengono che la Legge n. 129 del 2004 possa contribuire a creare maggiori incertezze tra le parti proprio a causa di uno strumento legislativo che, invece, avrebbe dovuto eliminare tali dubbi.
Quest’ultima opinione non è tuttavia, assolutamente pacifica in dottrina, poiché una parte della stessa ritiene che, nonostante tutti i difetti evidenziati, la Legge n. 129 del 2004 sia riuscita a colmare un vuoto normativo relativo al difetto di tutela dell’imprenditore debole durante la fase precontrattuale che né il divieto di abuso di dipendenza economica, né la disciplina del Codice Civile, né quella in materia di pubblicità ingannevole, né, infine, quella in tema di contratti del consumatore, erano in grado di riempire.
Inoltre, questa parte di dottrina dichiara che la legge appare molto chiara nel delineare la propria finalità, comune alle parti, di un corretto rapporto di franchising, imponendo una forte dose di rinunce per entrambi: il franchisor è tenuto, infatti, a limitare il proprio profitto a vantaggio dei componenti della catena di franchising, mentre il franchisee è costretto a rinunciare alla sua totale indipendenza operativa ed accettare le regole comuni a tutti i componenti .
È, comunque da ricordare anche il progetto di legge presentato nella scorsa legislatura, che, se ripreso in considerazione, potrebbe offrire l’occasione per apportare alla normativa sul franchising gli opportuni correttivi, in linea con le indicazioni fornite dalla dottrina e dagli operatori del settore.

NORMATIVA
Legge 6 maggio 2004, n. 129
"Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale"
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 24 maggio 2004
Art. 1.
(Definizioni)
1. L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi.
2. Il contratto di affiliazione commerciale può essere utilizzato in ogni settore di attività economica.
3. Nel contratto di affiliazione commerciale si intende:
a) per know-how, un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante, patrimonio che è segreto, sostanziale ed individuato; per segreto, che il know-how, considerato come complesso di nozioni o nella precisa configurazione e composizione dei suoi elementi, non è generalmente noto né facilmente accessibile; per sostanziale, che il know-how comprende conoscenze indispensabili all’affiliato per l’uso, per la vendita, la rivendita, la gestione o l’organizzazione dei beni o servizi contrattuali; per individuato, che il know-how deve essere descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di verificare se risponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità;
b) per diritto di ingresso, una cifra fissa, rapportata anche al valore economico e alla capacità di sviluppo della rete, che l’affiliato versa al momento della stipula del contratto di affiliazione commerciale;
c) per royalties, una percentuale che l’affiliante richiede all’affiliato commisurata al giro d’affari del medesimo o in quota fissa, da versarsi anche in quote fisse periodiche;
d) per beni dell’affiliante, i beni prodotti dall’affiliante o secondo le sue istruzioni e contrassegnati dal nome dell’affiliante.

Art. 2
(Ambito di applicazione della legge)
1. Le disposizioni relative al contratto di affiliazione commerciale, come definito all’articolo 1, si applicano anche al contratto di affiliazione commerciale principale con il quale un’impresa concede all’altra, giuridicamente ed economicamente indipendente dalla prima, dietro corrispettivo, diretto o indiretto, il diritto di sfruttare un’affiliazione commerciale allo scopo di stipulare accordi di affiliazione commerciale con terzi, nonché al contratto con il quale l’affiliato, in un’area di sua disponibilità, allestisce uno spazio dedicato esclusivamente allo svolgimento dell’attività commerciale di cui al comma 1 dell’articolo 1.

 

Art. 3.
(Forma e contenuto del contratto)
1. Il contratto di affiliazione commerciale deve essere redatto per iscritto a pena di nullità.
2. Per la costituzione di una rete di affiliazione commerciale l’affiliante deve aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale.
3. Qualora il contratto sia a tempo determinato, l’affiliante dovrà comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. È fatta salva l’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempienza di una delle parti.
4. Il contratto deve inoltre espressamente indicare:
a) l’ammontare degli investimenti e delle eventuali spese di ingresso che l’affiliato deve sostenere prima dell’inizio dell’attività;
b) le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato;
c) l’ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante;
d) la specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato;
e) le eventuali modalità di riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato;
f) le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione;
g) le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto stesso.

Art. 4.
(Obblighi dell’affiliante)
1. Almeno trenta giorni prima della sottoscrizione di un contratto di affiliazione commerciale l’affiliante deve consegnare all’aspirante affiliato copia completa del contratto da sottoscrivere, corredato dei seguenti allegati, ad eccezione di quelli per i quali sussistano obiettive e specifiche esigenze di riservatezza, che comunque dovranno essere citati nel contratto:
a) principali dati relativi all’affiliante, tra cui ragione e capitale sociale e, previa richiesta dell’aspirante affiliato, copia del suo bilancio degli ultimi tre anni o dalla data di inizio della sua attività, qualora esso sia avvenuto da meno di tre anni;
b) l’indicazione dei marchi utilizzati nel sistema, con gli estremi della relativa registrazione o del deposito, o della licenza concessa all’affiliante dal terzo, che abbia eventualmente la proprietà degli stessi, o la documentazione comprovante l’uso concreto del marchio;
c) una sintetica illustrazione degli elementi caratterizzanti l’attività oggetto dell’affiliazione commerciale;
d) una lista degli affiliati al momento operanti nel sistema e dei punti vendita diretti dell’affiliante;
e) l’indicazione della variazione, anno per anno, del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni o dalla data di inizio dell’attività dell’affiliante, qualora esso sia avvenuto da meno di tre anni;
f) la descrizione sintetica degli eventuali procedimenti giudiziari o arbitrali, promossi nei confronti dell’affiliante e che si siano conclusi negli ultimi tre anni, relativamente al sistema di affiliazione commerciale in esame, sia da affiliati sia da terzi privati o da pubbliche autorità, nel rispetto delle vigenti norme sulla privacy.
2. Negli allegati di cui alle lettere d), e) ed f) del comma 1 l’affiliante può limitarsi a fornire le informazioni relative alle attività svolte in Italia. Con decreto del Ministro delle attività produttive, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono definite le informazioni che, in relazione a quanto previsto dalla predette lettere d), e) ed f), dovranno essere fornite dagli affilianti che in
precedenza abbiano operato esclusivamente all’estero.

Art. 5.
(Obblighi dell’affiliato)
1. L’affiliato non può trasferire la sede, qualora sia indicata nel contratto, senza il preventivo consenso dell’affiliante, se non per causa di forza maggiore.
2. L’affiliato si impegna ad osservare e a far osservare ai propri collaboratori e dipendenti, anche dopo lo scioglimento del contratto, la massima riservatezza in ordine al contenuto dell’attività oggetto dell’affiliazione commerciale.

 

Art. 6.
(Obblighi precontrattuali di comportamento)
1. L’affiliante deve tenere, in qualsiasi momento, nei confronti dell’aspirante affiliato, un comportamento ispirato a lealtà, correttezza e buona fede e deve tempestivamente fornire, all’aspirante affiliato, ogni dato e informazione che lo stesso ritenga necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto di affiliazione commerciale, a meno che non si tratti di informazioni oggettivamente riservate o la cui divulgazione costituirebbe violazione di diritti di terzi.
2. L’affiliante deve motivare all’aspirante affiliato l’eventuale mancata comunicazione delle informazioni e dei dati dallo stesso richiesti.
3. L’aspirante affiliato deve tenere in qualsiasi momento, nei confronti dell’affiliante, un comportamento improntato a lealtà, correttezza e buona fede e deve fornire, tempestivamente ed in modo esatto e completo, all’affiliante ogni informazione e dato la cui conoscenza risulti necessaria o opportuna ai fini della stipulazione del contratto di affiliazione commerciale, anche se non espressamente richiesti dall’affiliante.
Art. 7.
(Conciliazione)
1. Per le controversie relative ai contratti di affiliazione commerciale le parti possono convenire che, prima di adire l’autorità giudiziaria o ricorrere all’arbitrato, dovrà essere fatto un tentativo di conciliazione presso la camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui territorio ha sede l’affiliato. Al procedimento di conciliazione si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 38, 39 e 40 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, e successive modificazioni.

Art. 8.
(Annullamento del contratto)
1. Se una parte ha fornito false informazioni, l’altra parte può chiedere l’annullamento del contratto ai sensi dell’articolo 1439 del codice civile nonché il risarcimento del danno, se dovuto.

Art. 9.
(Norme transitorie e finali)
1. Le disposizioni della presente legge si applicano a tutti i contratti di affiliazione commerciale in corso nel territorio dello Stato alla data di entrata in vigore della legge stessa.
2. Gli accordi di affiliazione commerciale anteriori alla data di entrata in vigore della presente legge se non stipulati a norma dell’articolo 3, comma 1, devono essere formalizzati per iscritto secondo le disposizioni della presente legge entro un anno dalla predetta data. Entro lo stesso termine devono essere adeguati alle disposizioni della presente legge i contratti anteriori stipulati per iscritto.
3. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quella della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

CAMERA DEI DEPUTATI N. 2656
PROPOSTA DI LEGGE
d’iniziativa del deputato CARLUCCI
Disciplina del franchising
Presentata il 16 maggio 2007
ONOREVOLI COLLEGHI ! — Il franchising, in questi ultimi anni, ha avuto nel nostro Paese uno sviluppo notevolissimo. Il segreto della sua forte diffusione va sicuramente individuato soprattutto nella sua formula, innovativa e competitiva, che lo caratterizza e lo propone in funzione di anticrisi rispetto alle tendenze negative che attualmente minano la tenuta strutturale del commercio e in particolare quello di piccole dimensioni. Il franchising, infatti, rappresenta una vera e propria strategia commerciale che richiede uomini specializzati, investimenti e conoscenza del mercato. Esso nasce proprio per dare una risposta soddisfacente e completa alle nuove domande e ai nuovi problemi del settore distributivo.
L’esigenza di una nuova regolamentazione in materia è fortemente avvertita dal mondo delle imprese, sempre più bisognose di operare in un quadro normativo certo e
trasparente.
La presente proposta di legge cerca di dare una risposta a tale esigenza seguendo i principi derivanti, da un lato, dalla prassi ormai consolidata e, dall’altro, dalla regolamentazione comunitaria e dalle esperienze legislative di altri Paesi.
Il principio fondamentale che promana, non solo dall’esperienza applicativa in Italia ma, soprattutto, dalla legislazione vigente in altri Paesi, è quello che altrove è chiamato “disclosure” ossia trasparenza. Ed è proprio questo il principio posto a base della presente proposta di legge, trovando formale riconoscimento all’articolo 4. Dall’altra parte la ratio della presente proposta di legge è proprio quella di prevenire comportamenti scorretti di una parte a danno dell’altra e favorire, nello stesso tempo, quella collaborazione solidale che è la condizione fondamentale per il successo e la vantaggiosità del franchising.
Per tale ragione si ritiene necessario, nel rispetto – come già ricordato – dell’autonomia negoziale delle parti, fissare dei vincoli minimi al contenuto del contratto, a garanzia soprattutto dell’affiliato che rappresenta, oggettivamente, la parte più debole del rapporto. A tal fine è previsto (articolo 5) che il contratto a tempo determinato abbia una durata minima che consenta all’affiliato l’ammortamento delle scorte; è altresì previsto (articolo 6) il diritto dell’affiliato a restituire all’affiliante, a determinate condizioni, le scorte di magazzino e i beni strumentali. Si stabilisce infine (articolo 7) una disciplina ragionevole delle clausole limitative della libertà di concorrenza.
Da ultimo preme sottolineare che la presente proposta di legge tiene conto non solo della dottrina più autorevole, ma soprattutto della giurisprudenza già consolidata in materia di franchising.

PROPOSTA DI LEGGE
Art. 1
1. I contratti di franchising devono rispettare, a pena di nullità, i principi contenuti nella presente legge.
2. Per franchising si intende un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know-how o brevetti da utilizzare per la rivendita di beni o per la prestazione di servizi ad utilizzatori finali.
3. Per contratto di franchising si intende un accordo con il quale un’impresa, affiliante, concede ad un’altra, affiliata, dietro corrispettivo finanziario diretto o indiretto, il diritto di sfruttare un franchising allo scopo di commercializzare determinati tipi di beni e servizi.

Art. 2
1. Il franchising può essere dei seguenti tipi:
a) franchising di produzione, in cui l’affiliante è un’impresa industriale che, al fine di assicurare uno sbocco alla produzione, commercializza i propri prodotti attraverso affiliati raggruppati sotto una comune immagine di marca;
b) franchising di distribuzione, in cui l’affiliante opera un assortimento di prodotti, che egli seleziona presso fornitori e produttori esterni, che acquista e inserisce nel proprio stock, mettendoli a disposizione degli affiliati;
c) franchising di servizi, in cui l’affiliato non vende alcun prodotto, ma fornisce la prestazione di servizi concepiti, elaborati, messi a punto e sperimentati dall’affiliante.
2. Non rientrano nell’ambito di applicazione della presente legge il franchising industriale e il franchising di distribuzione all’ingrosso di prodotti.

Art. 3
1. Il contratto di franchising comprende, a pena di nullità, gli obblighi connessi:
a) all’uso dell’immagine di marca dell’affiliante da parte dell’affiliato;
b) alla comunicazione da parte dell’affiliante all’affiliato di un know-how;
c) alla prestazione permanente, da parte dell’affiliante all’affiliato, di una assistenza in campo commerciale o tecnico per la durata dell’accordo.
2. L’insegna, la denominazione commerciale, gli elementi decorativi interni ed esterni del punto di vendita o degli automezzi, nel caso di franchising mobile, costituiscono l’immagine di marca.
3. Per know-how si intende un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove eseguite dall’affiliante. Tale patrimonio è:
a) segreto, ovvero non generalmente noto, né facilmente accessibile e impossibile da ottenere al di fuori dell’impresa affiliante;
b) sostanziale, ovvero comprendente conoscenze importanti per la vendita di beni o per la prestazione di servizi agli utilizzatori finali, in particolare per la presentazione di beni a scopo di vendita, la loro trasformazione per la prestazione di servizi, nonché i rapporti con la clientela e in materia di amministrazione e di gestione finanziaria;
c) identificato, ovvero descritto in modo sufficientemente comprensibile, tale da consentire di verificare se corrisponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità; la descrizione del know-how può figurare nell’accordo di franchising o in un documento separato.

Art. 4
1. L’affiliante, venti giorni prima della firma del contratto, deve fornire all’affiliato un prospetto illustrativo con le informazioni utili a valutare la vantaggiosità dell’instaurazione del rapporto di franchising.
2. Le informazioni di cui al comma 1 devono riguardare la data di costituzione dell’impresa con una menzione delle fasi principali del suo sviluppo; la titolarità di marchi, brevetti e licenze; la situazione generale e locale del mercato dei prodotti o dei servizi che costituiscono l’oggetto del contratto e le prospettive di sviluppo di tale mercato; la situazione economica dell’impresa come risulta dai bilanci annuali degli ultimi due esercizi; la presentazione della rete di franchising comprendente l’elenco delle imprese che ne fanno parte con l’indicazione per ciascuna di esse del sistema gestionale convenuto; il numero delle imprese che, essendo legate alla rete con uno dei contratti della stessa natura di quello la cui conclusione è prevista, hanno cessato di fare parte della rete nel corso dell’anno precedente a quello del rilascio del documento in questione, con la precisazione se il contratto è venuto a scadenza o se è stato risolto o annullato; l’indicazione della durata del contratto proposto, delle condizioni di rinnovo, di risoluzione e di cessione, come l’ambito di esclusiva. Il prospetto deve, inoltre, precisare la natura e l’ammontare delle spese e degli investimenti che si riferiscono all’immagine di marca che l’affiliato deve impegnare prima di iniziare l’attività.
3. L’affiliato, entro il termine di cui al comma 1, deve fornire all’affiliante un prospetto illustrativo contenente informazioni sulla propria impresa; sulla propria solidità economica; sulle conoscenze che egli ha del mercato e sull’esperienza professionale nel settore; sulla disponibilità di locali per l’attività oggetto del contratto con l’esatta estensione degli stessi e la loro precisa ubicazione. Il prospetto può contenere altresì la formale richiesta di informazioni all’affiliante sull’esistenza di eventuali procedimenti giudiziari promossi negli ultimi tre anni nei confronti della sua impresa da parte di affiliati o di terzi.
4. I prospetti previsti dal presente articolo costituiscono parte integrante e sostanziale del contratto di franchising.
5. Qualora taluna delle parti abbia fornito false informazioni, l’altra parte può chiedere l’annullamento del contratto ai sensi dell’articolo 1439 del codice civile, a condizione che le false informazioni siano state tali da determinare la volontà della controparte alla conclusione del contratto. In ogni caso la parte ingannata può chiedere il risarcimento dell’eventuale danno subito.

Art. 5
1. Il contratto di franchising può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato.
2. Qualora il contratto sia a tempo determinato, l’affiliante deve comunque garantire all’affiliato una durata minima necessaria all’ammortamento dell’investimento e delle spese sostenute. È fatta salva l’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento di una delle parti.
3. Le parti, di comune accordo, possono condizionare la durata del contratto al raggiungimento, entro un dato periodo, di determinati obiettivi economici, purché siano ragionevoli e fondati su esperienze precedenti adeguatamente documentate dall’affiliante.

Art. 6
1. Il contratto di franchising deve disciplinare dettagliatamente i casi di scioglimento
dello stesso.
2. A seguito di scioglimento del contratto, anticipato o per scadenza del termine, l’affiliato ha diritto a restituire all’affiliante le scorte di magazzino a condizione che esista nel contratto una clausola che ne impone l’accumulo o che sia limitativa della libertà di concorrenza; l’affiliato ha altresì diritto a restituire all’affiliante i beni strumentali utilizzati per l’esercizio dell’attività a condizione che gli stessi non siano stati ancora ammortizzati o che, per caratteristiche loro proprie o per espressa previsione contrattuale, non possano essere riutilizzati dall’affiliato per lo svolgimento di una attività diversa o similare.
3. Nei casi previsti dal comma 2 l’affiliante è obbligato a pagare all’affiliato il relativo prezzo.
Art. 7
1. Il contratto di franchising può prevedere una limitazione della libertà di concorrenza a carico dell’affiliato.
2. Sono vietate le clausole che precludono all’affiliato la possibilità di esercitare un’attività analoga o similare a quella dell’affiliante al di fuori dell’ambito territoriale che in precedenza gli era stato attribuito in esclusiva.
3. In ogni caso sono vietate le clausole che limitano la libertà di concorrenza per un periodo superiore a cinque anni.

Art. 8
1. Per quanto non previsto dalla presente legge si applicano la disciplina sui contratti prevista dal codice civile, la disciplina vigente in materia di diritti di proprietà industriale e intellettuale, la legge 10 ottobre 1990, n. 287, e successive modificazioni, nonché la disciplina comunitaria in materia.
2. La legge 6 maggio 2004, n. 129, è abrogata.

 

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Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Il punto potrebbe portare a scontri tra le parti, in quanto il franchisee nel caso ottenesse nel tempo risultati insoddisfacenti, tenderà a recriminare le promesse passate come obbligazioni di risultato non adempiute, al contrario del franchisor che negherà tale qualificazione.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67-
75.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67-
75.

Il prezzo di cessione iniziale del bene strumentale, infatti, perde valore nel tempo.

Le “Linee direttrici sulle restrizioni verticali”, pubblicate il 13 ottobre 2000 in G.U.C.E. sono state create allo scopo di affiancare il Regolamento CEE n. 2790/99 tutt’oggi in vigore.
Per un’analisi più approfondita si rimanda al paragrafo 5 del Capitolo 1.

Punto 200 delle “Linee direttici sulle restrizioni verticali”.

Cfr. A. Frignani, Franchising: c’è bisogno di una nuova legge?, in I contratti, 2008, fasc. 1, pagg. 67- 75.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

L’approfittamento dello squilibrio contrattuale rappresenta l’incapacità del mercato di fornire ai soggetti deboli alternative adeguate per sottrarsi alla situazione di dipendenza. Inoltre è possibile affermare che qualsiasi rapporto di franchising è permeato da un conflitto di interessi (principal-agent dilemma): i franchisees, infatti, sono soliti tendere a risparmiare sulla qualità dei beni e servizi offerti ai consumatori, al fine di contenere i costi ed accrescere i margini di profitto; questo non  incontrerà il parere favorevole dei franchisors che, svolgendo un controllo sulle scelte commerciali dei suoi affiliati, potrà contrastare tali scelte determinando forti conflitti. Inoltre il controllo effettuato dal franchisor, se da un lato è giustificato dall’interesse di salvaguardare la reputazione dell’intera rete, per un altro può determinare una distorsione della concorrenza.
Cfr. G. Colangelo, Il lungo cammino della dipendenza economica, in Danno e Responsabilità, 2004, fasc. 1, pagg. 67-72.

Legge n. 192 del 18 giugno 1998 intitolata “Disciplina della subfornitura nelle attività produttive”, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 143 del 22 giugno 1998.

La legge afferma che la dipendenza economica è valutata tenendo conto “anche” della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti: la norma lascia quindi intendere che la dipendenza economica possa dipendere da una situazione di monopolio, come anche da altri motivi (non indicando però quali).
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

Ci si domanda quale sia il reale significato di tale affermazione e cosa s’intenda per alternative “soddisfacenti”. Inoltre non risulterà mai possibile stabilire se esistono delle alternative, senza che prima si siano determinati i mercati geografici e merceologici di riferimento.
Cfr. A. Frignani, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pagg. 191-197.

Cfr. L. Delli Priscoli, ll divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Normalmente il franchisee è una piccola impresa con scarsa esperienza; pertanto, al momento in cui decide di intraprendere un contratto di franchising non è sempre in grado di comprendere la portata e le conseguenze del rapporto che sta per instaurarsi. Le difficoltà sono accentuate dal fatto che la situazione di dipendenza si realizza solitamente non al momento della conclusione del rapporto, ma in quello dello scioglimento e della conseguente decisione circa il suo rinnovo.
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Nel caso in cui il franchisee abbia ricevuto tutte le informazioni necessarie e sia stato messo nelle condizioni di valutarle correttamente, non deve essere ritenuto meritevole di tutela.
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Si ha dipendenza economica quando la propria attività imprenditoriale sia dedicata ad un unico produttore; essa consiste nell’astratta capacità di esercitare il proprio potere contrattuale per imporre ad un'altra impresa condizioni eccessivamente gravose per quest’ultima a proprio esclusivo vantaggio.
Cfr. Tribunale di Bari, 17 gennaio 2005, in Contratti, pagg. 893 ss.

La fattispecie “abuso di dipendenza economica” può essere, infatti, idealmente scomposta di due momenti, entrambi necessari: la “dipendenza economica”, che rappresenta la traduzione giuridica di una situazione economica in cui un soggetto si trova a dover contrattare con una parte che, nei suoi confronti, si presenta come monopolista o quasi monopolista, e che si traduce dunque in un minor potere contrattuale, e il suo “abuso”. Pertanto, nella valutazione della sussistenza o meno della fattispecie di abuso di dipendenza economica, vi è il rischio di guardare solo al risultato finale della contrattazione (ovverosia la presenza di un contratto fortemente squilibrato), dimenticando di valutare anche la sussistenza della dipendenza economica, con la conseguenza che il giudice potrebbe intervenire nel correggere un contratto anche quando lo squilibrio non sia stato determinato da una maggiore debolezza di una delle due parti, ma semplicemente dall’inettitudine di una di queste nel far valere i propri interessi. La dipendenza economica si ha dunque non tutte le volte in cui vi sia un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi, ma quando questa situazione sia stata determinata effettivamente dal maggiore potere contrattuale di una delle due parti.
Cfr. L. Delli Priscoli, ll divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Cfr. L. Delli Priscoli, ll divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Cfr. L. Delli Priscoli, La posizione dominante come presenza di una barriera, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1999, fasc. 2, pag. 223.
Cfr. G. Colangelo, Il lungo cammino della dipendenza economica, in Danno e Responsabilità, 2004, fasc. 1, pagg. 67-72.

Anche se comunque, in alcuni casi l’abuso di dipendenza economica, strettamente collegato al concetto di buona fede, non impedisce una sua connessione con la tutela del mercato, tutte le volte in cui la condotta abusiva, per le sue dimensioni, tali da giustificare l’intervento dell’Autorità garante della concorrenza, acquisti appunto un rilievo per il mercato. Sia il principio di buona fede che quello della tutela del mercato sono espressioni di valori costituzionali: la tutela del mercato è riconosciuta dagli artt. 41 e 117 lettera e) della Costituzione, mentre il principio di buona fede gode di un implicito riferimento costituzionale nell’art. 2, secondo cui la Repubblica richiede l’adempimento a dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Il divieto di abuso di dipendenza economica costituisce, infatti, espressione del principio di buona fede, che impone di non trarre vantaggi eccessivi da una situazione di debolezza rispetto ai propri contraenti.
Cfr. L. Delli Priscoli, ll divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Parere pubblicato sul Bollettino dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato n. 5, del 16 febbraio 1998, pag. 15.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

Cfr. L. Delli Priscoli, ll divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

Cfr. G. Adamo, Contratto di franchising, abuso di dipendenza economica, “abuso di diritto” e tutela del contraente “debole”, dal sito internet www.diritto.it.

In questo caso il franchisee dovrà dimostrare, a tal fine, oltre al fatto di trovarsi in una situazione di dipendenza economica, anche che il proprio inadempimento, pur soggettivamente lieve, non incida su interessi del franchisor meritevoli di tutela in maniera tale da giustificare una richiesta di risoluzione di quest’ultimo e rappresenti, invece, solo il pretesto per sciogliere un contratto la cui continuazione non sia più ritenuta conveniente.
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

Cfr. G. Nicolini, Subfornitura e attività produttive, Milano, 1999, pagg. 130-131.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

Cfr. G. Passagnoli, Nullità speciali, Padova, 1995, pagg. 214 ss. secondo cui ogniqualvolta la nullità sia posta a tutela di un interesse particolare, il soggetto tutelato risulterebbe il più delle volte privo di tutela se la nullità si estendesse all’intero contratto.

Il calcolo di tale danno risulterà particolarmente complesso nel caso di responsabilità extracontrattuale per interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto consistita nella mancata stipula di un nuovo contratto, nonostante il legittimo affidamento suscitato circa una sua conclusione. Infatti, dovendosi escludere il rimedio di cui all’art. 2932 c.c., non essendosi il franchisor in alcun modo obbligato a concludere un nuovo contratto, sembrerebbe doversi versare in un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di risarcimento del relativo danno, che sarebbe limitato alle spese sostenute ed alle occasioni perdute durante le trattative, non estendendosi anche alle spese sostenute per gli investimenti effettuati durante il pregresso rapporto. Quest’ultima soluzione sembrerebbe però accettabile soltanto in assenza della norma di cui all’art. 9 della Legge n. 281/1998: poiché, però, tale norma ha espressamente previsto come ipotesi di responsabilità quella dell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, deve conseguenzialmente ritenersi che il risarcimento sia esteso all’interno del danno subito, in virtù del principio generale di cui all’art. 2043 c.c., che prevede il completo ristoro del danno quando, dolosamente o colposamente, si sia provocato un danno ingiusto (ovverosia la lesione di una situazione giuridica protetta dalla legge, in questo caso dall’art. 9).
Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising e tutela dell’affiliato, Milano, 2000, pagg. 117-131.

Cfr. L. Delli Priscoli, ll divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.

L’art. 640 del Codice Penale punisce chiunque, con artifizi e raggiri, induca qualcuno in errore procurando così a sé un ingiusto profitto.

Applicata alla disciplina nei confronti dei professionisti.

Che aggiorna il Codice del Consumo negli artt. da 18 a 27.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163-  1185.

Cfr. Provvedimento n. 5012, Marvin franchising, in Boll. n. 20 del 1997, secondo cui il potenziale franchisee deve essere considerato un consumatore del bene a lui offerto.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Cfr. Provvedimento n. 12113, pubblicato sul Bollettino n. 24/2003.

Il mensile in questione era “EKO Millionaire” del dicembre 2002.

Cfr. A. Caputo, G. Adamo, Contratto di franchising, pubblicità ingannevole e tutela dei diritti del terzo, dal sito internate www.diritto.it .

Cfr. Provvedimento n. 14015, pubblicato sul Bollettino n. 5/2005.

Cfr. L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163-
1185.

Cfr. A. Caputo, G. Adamo, Contratto di franchising, pubblicità ingannevole e tutela dei diritti del terzo, dal sito internate www.diritto.it .

Dati reperiti da Il Sole 24ore del 12/04/2008.

Dati reperiti da Il Sole 24ore del 12/04/2008.

L’investimento è molto più elevato per quanto riguarda i grossi punti vendita della grande distribuzione. In ogni caso a questa cifra, che rappresenta la spesa necessaria per aprire il negozio, vanno aggiunti i costi fissi come per esempio l’affitto del locale ecc..
Dati reperiti da Il Sole 24Ore del 10/12/2007.

Dati reperiti da Il Sole 24Ore del 12/04/2008.

Ad esempio in Austria non esiste una legge specifica per l’istituto del franchising, così come in Germania e in Regno Unito.
Cfr. www.franchising-net.org .

Cfr. INDIS (Istituto Nazionale Distribuzione e Servizi - Unioncamere), Il franchising: le prospettive dopo la legge n. 129/2004, Rimini, 2006, pagg. 85-88.

Cfr. INDIS (Istituto Nazionale Distribuzione e Servizi - Unioncamere), Il franchising: le prospettive dopo la legge n. 129/2004, Rimini, 2006, pagg. 85-88.

Il contraente debole è stato tutelato dapprima come consumatore, poi attraverso la legge sulla subfornitura, per arrivare al franchising, per il quale il legislatore ha preso atto del fatto che anche l’imprenditore può essere considerato contraente debole e, come tale, potenziale vittima delle imposizioni della controparte più forte.
G. Magri, Precetti e sanzioni nella nuova disciplina sull’affiliazione commerciale, in Giurisprudenza Italiana, 2006, fasc. 11, pagg. 2215-2224.

Cfr. INDIS (Istituto Nazionale Distribuzione e Servizi - Unioncamere), Il franchising: le prospettive dopo la legge n. 129/2004, Rimini, 2006, pagg. 49-53.

A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 47-49.

Per gli aspetti che la legge non disciplina, come per esempio un determinato regime sanzionatorio, dovrebbe sussistere la libera interpretazione dottrinale. Ne consegue, però, che spesso l’interprete si trovi di fronte ad una grande difficoltà. Il ruolo di tale soggetto è proprio quello di colmare le lacune del legislatore, indicando alla giurisprudenza le possibili scelte interpretative adottabili; nel fare ciò non va dimenticato che con la Legge n. 129 del 2004 il legislatore ha inteso soprattutto tutelare l’affiliato in quanto contraente debole. Di fronte a più possibili opzioni interpretative, quindi, andrà sempre prescelta quella che offre un maggiore grado di tutela nei confronti del franchisee e che, con riferimento specifico alla tematica delle sanzioni, assicura il maggior rispetto delle norme a sua tutela.
G. Magri, Precetti e sanzioni nella nuova disciplina sull’affiliazione commerciale, in Giurisprudenza Italiana, 2006, fasc. 11, pagg. 2215-2224.

Cfr. G. De Nova, La nuova legge sul franchising, in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 129-132.

Ad esempio l’art. 4, comma 1, lettera c), parla di “una sintetica illustrazione degli elementi caratterizzanti l’attività oggetto dell’affiliazione commerciale”; andrebbe però interpretato cosaintendesse dire il legislatore con il termine “sintetica illustrazione”, visto che un’espressione simile sipresta ad un notevole ventaglio di possibili interpretazioni.

Come l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nelle trattative già previsto all’art. 1375 c.c..
Cfr. A. Frignani, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 129-132.

Cfr. G. Cassano, G. Vaciago, La nuova legge sul franchising: prime annotazioni, in Giurisprudenza Italiana, 2005, fasc. 2, pagg. 440-442.

L. Delli Priscoli, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.

Cfr. G. Cassano, G. Vaciago, La nuova legge sul franchising: prime annotazioni, in Giurisprudenza Italiana, 2005, fasc. 2, pagg. 440-442.

Fonte: http://martinez-novebaci.it/Files%20upload/libri/Il%20Franchising.doc

Sito web da visitare: http://martinez-novebaci.it/

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