Gruppo di lavoro e lavoro di gruppo

Gruppo di lavoro e lavoro di gruppo

 

 

 

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Gruppo di lavoro e lavoro di gruppo

 

Dinamiche di gruppo e gestione dei conflitti in contesti educativi

(a cura di Giuseppina Speltini)

La vita di gruppo e in gruppo può sembrare, talvolta, qualcosa di caotico e disorganizzato, mentre invece possiede una sua "geometria" che pur nelle sue diversificazioni possiede alcune costanti su cui è importante riflettere.
Quando si parla di “struttura di gruppo” ci si riferisce ad alcuni fenomeni di gruppo che possiedono una certa stabilità (pur non essendo immutabili) e permettono di costruire quell’architettura entro la quale si svolge la vita del gruppo. Il gruppo non potrebbe esistere se non vi fossero regole che rendono ordinato, prevedibile, controllabile, gestibile il grande flusso di scambi di un insieme di individui che si incontrano per i motivi più diversi. Stare in gruppo non è la stessa cosa che relazionarsi ad una o due persone ed è, per tanti versi, più complesso. Ci sono certamente persone più capaci, più abili a stare in gruppo di altre; ciò è dovuto soprattutto a quanta esperienza si è fatta di vita di gruppo, più che a caratteristiche naturali.
In molte professioni è necessario raccordarsi con altri colleghi, arrivare a decisioni comuni, lavorare su progetti che richiedono lavoro di gruppo. E certamente non è un fatto raro che proprio le difficoltà di stare in gruppo costituiscano delle perdite di processo, creando difficoltà sia sul piano strettamente produttivo, sia su quello del clima complessivo del contesto lavorativo, con ripercussioni sulla soddisfazione lavorativa e sul benessere del professionista. Proprio nella consapevolezza di quanto sia importante saper lavorare in gruppo, nella formazione di molti professionisti sono previsti dei training specialistici che dispongono ad una rapidità di lettura dei fenomeni gruppali e alla capacità di intervenire attivamente nelle dinamiche sociali che vengono attivate. Ma anche senza training specialistici, ogni esperienza che ci ha posto per tempi più o meno lunghi in gruppi di varia connotazione ci rende degli attori più esperti nel capire cosa sta succedendo, nello scegliere un ruolo consonante con le nostre aspettative, nel rapportarci agli altri membri secondo le regole di una grammatica sociale, che viene appresa direttamente sul campo.
In queste pagine verranno discussi alcuni elementi della dinamica dei gruppi sociali, quali le differenziazioni di status e di ruolo, le norme, la comunicazione in gruppo, gli aspetti conflittuali e le possibilità di affrontarli.

 

Differenziazione di status nei gruppi

         In ogni gruppo esistono gerarchie, cioè posizioni diverse rispetto al potere. Questo è il sistema di status. Anche nei contesti scolastici in cui in linea teorica tutti gli insegnanti sono nella stessa posizione, occupano il medesimo ruolo, vi sono alcuni che conquistano una certa visibilità nell’istituzione (in virtù di loro capacità professionali o gestionali o politiche o relazionali), altri che restano più in ombra. 
Vediamo quali siano i criteri fondamentali per stabilire quale sia lo status di un componente del gruppo. Il primo criterio, forse il più immediatamente percepibile per coloro che partecipano alle interazioni, è la capacità di  prendere iniziative che sono poi seguite dal resto del gruppo. Ciò non vuol dire che tutti i membri non cerchino, prima o poi, di proporre delle cose nell’intento che vengano prese sul serio dagli altri; tuttavia,  alcuni riescono davvero a farsi ascoltare, a presentare idee, progetti, iniziative che vengono seguite dagli altri, mentre altri non riescono ad avere un seguito. Il secondo criterio si riferisce alla  valutazione consensuale del prestigio, il che significa che tutti gli appartenenti a quel gruppo, a quella istituzione  sono abbastanza d’accordo che un certo membro è un personaggio importante nel gruppo, mentre un altro “conta” poco e un altro ancora si pone in zone intermedie.
Il bisogno di distinguere fra le diverse posizioni di potere è una realtà che si presenta immediatamente in un gruppo, anche appena costituito. Pensiamo ad esempio ad una attività di formazione in cui siano coinvolti degli insegnanti che non si conoscono fra loro (provenienti, ad esempio, da scuole diverse) e che per esigenze dell’istituzione debbano svolgere un’attività di aggiornamento. Già dopo poco tempo cominciano ad abbozzarsi alcune differenze di posizione fra i membri: alcuni prendono la parola più spesso degli altri; di questi alcuni sono più ascoltati mentre altri, pur chiedendo spesso la parola, vengono rapidamente ignorati o valutati con sufficienza dal gruppo che non trova nei loro interventi niente di interessante. Alcuni cominciano ad essere più propositivi e a raccogliere maggiori consensi, mentre altri partecipanti restano più nell’ombra, sembrano più imbarazzati dalla situazione e  più reticenti ad esprimersi e, nel complesso, appaiono più marginali. Perché anche in un gruppo nascente e temporaneo si delineano già dalle prime interazioni delle differenze di posizione? Il parere degli studiosi si diversifica su questo punto. Secondo la “corrente etologica” sono molto importanti alcuni dati percettivi di natura somatica, come la statura, la muscolatura, l’espressione facciale, ma anche alcuni aspetti più sfumati, come la capacità di fissare una persona finché questa distolga per prima lo sguardo, il tono assertivo e sicuro della voce quando si fanno gli interventi. In pratica, fin dalle prime interazioni di gruppo si svolgerebbe una specie di competizione, basata su questi indicatori, che abbozzerebbe una prima gerarchia di status, che nel prosieguo dell’interazione potrà essere confermata o no dall’aggiungersi di nuove dati, come le capacità e le competenze delle persone. Questa corrente viene detta “etologica” in quanto sono stati proprio gli etologi (studiosi del comportamento animale in condizioni naturali) a mettere in luce come gli indici percettivi della dominanza fisica siano fondamentali per l’assegnazione di status non solo fra i primati, ma anche per altri animali che vivano in strutture di gruppo. A  volte vi sono altri indici somatici, diversi da quelli della dominanza, a stabilire una gerarchia di status, ad esempio la bellezza, la gradevolezza fisica (ciò succede soprattutto nei gruppi giovanili). Altri indicatori somatici possono essere, viceversa, degli ostacoli per il raggiungimento di uno status elevato, come il colore della pelle diverso da quello della maggioranza o un handicap fisico.
A differenza della corrente etologica, i teorici degli “stati d’aspettativa” sostengono che fin dai primi incontri di gruppo vi sono delle aspettative che riguardano la competenza dei vari membri a raggiungere gli obiettivi prefissati. In questo modo si darà importanza e saranno valutate positivamente quelle caratteristiche dei membri che sono congruenti con gli obiettivi del gruppo. In un team di ricerca si potrà accordare un credito maggiore a coloro che hanno già svolto numerosi esperimenti e abbiano al loro attivo diverse pubblicazioni ad alto “impact factor”; in un contesto scolastico potrà essere ascoltato maggiormente un insegnante che da molto tempo svolge attività e gode di un certo prestigio, in quanto si presume che possa avere un’esperienza consolidata sui temi del dibattito. L’assegnazione di status sulla base sia della congruenza delle caratteristiche personali con gli scopi di gruppo, sia dei dati percettivi (corrente etologica), è in ogni caso temporanea, provvisoria, nel senso che il o i membri su cui inizialmente si attestano le aspettative degli altri partecipanti possono nel seguito delle interazioni mostrarsi all’altezza o deludere queste attese, il che avrà effetti sulla gerarchia di status. Può succedere che un membro su cui inizialmente vi sono molte attese si dimostri non abbastanza adeguato per conservare il credito che il gruppo gli ha concesso; come pure può accadere che un partecipante che inizialmente viene considerato marginale, mostri nel seguito delle interazioni di avere più abilità e competenze di quanto veniva supposto. A proposito di quest’ultimo caso, succede spesso che l’individuo in questione debba faticare più del necessario per dimostrare le proprie capacità e affrancarsi dalla posizione bassa accordatagli inizialmente dal gruppo, come se fosse più difficile spostarsi da una posizione bassa ad una alta che il viceversa.
Le due correnti (etologica e degli stati d’aspettativa) non sono reciprocamente esclusive e forniscono entrambe una spiegazione della precocità con cui anche nei gruppi di nuova formazione si arriva ad abbozzare una gerarchia fra chi conta di più e chi conta di meno.
La gerarchia di status nelle organizzazioni è stabilita istituzionalmente, con l’attribuzione di funzioni diverse, che comportano stipendi differenziati e una serie di altri vantaggi materiali. Tuttavia, anche in questo caso non è detto che la gerarchia formale coincida esattamente con quella informale e può succedere che il gruppo di lavoro riservi una considerazione speciale ad un membro non ai vertici dell’organizzazione, ma in grado per le sue abilità di proporre iniziative o esprimere idee che vengono poi seguite dagli altri.
Nell’ambiente di lavoro è piuttosto frequente che si creino situazioni conflittuali a proposito di gerarchie interne di potere più o meno esplicite; i problemi di “invidia di status” fra alcuni componenti di un gruppo può creare una serie di disfunzioni e anche la creazione di sottogruppi. Nella scuola, ad esempio, designare un responsabile per un’area o un’altra, scegliere il vice-dirigente, consultarsi stabilmente con alcuni colleghi e non con altri da parte della dirigenza, può creare delle situazioni di invidia di status.
Vicino al concetto di status, vi è quello di leadership che si riferisce al processo di gestione del potere, essendo il leader la persona che influenza gli altri più di quanto sia essa stessa influenzata. Molte sono le teorie sulla leadership e le ricerche condotte su questo argomento. Ci preme in questa sede menzionare almeno la classica e storica ricerca di Lewin, Lippitt e White, sulle ripercussioni dello stile di leadership sulla produttività e il “morale” (o clima) di gruppo. La ricerca originaria (del 1939) è stata condotta su preadolescenti e la figura del leader assomigliava alla figura di un docente, ma è ovvio che i risultati di questa ricerca (ripetuti in una congerie di ricerche di questo tipo) si applicano anche ai contesti adulti. Vediamo dunque, come i gruppi di preadolescenti risposero ai tre differenti tipi di conduzione loro proposti:

  • Leadership autoritaria: l’insegnante detiene il potere in modo esclusivo, non permette che gli allievi interagiscano fra loro, dà ordini e si aspetta che vengano eseguiti senza discussione, non presenta agli allievi il percorso d’apprendimento da compiersi, fatto questo che creerebbe le basi di una certa autonomia di movimento e maggiore partecipazione. Il risultato di questo tipo di conduzione è alto sul piano della produttività, ma il clima di gruppo è negativo, essendo caratterizzato da tensione, aggressività che gli allievi spesso esprimono con i pari (non potendola manifestare col leader);
  • Leadership democratica: l’insegnante discute con gli allievi il progetto operativo, presenta in dettaglio le varie unità d’apprendimento, ascolta, è dialettico, non stronca le relazioni fra coetanei; questa vicinanza e interazione non significano, tuttavia, abdicare al proprio ruolo di responsabilità e di autorità. Il risultato è buono sul piano della produttività e buono sul piano del clima, che è caldo, interattivo, partecipativo;
  • Leadership permissiva (o laissez-faire); questo tipo di conduzione è più difficile da trovarsi allo stato puro nella scuola, ma è stata creata a fini sperimentali per meglio capire le ricadute degli stili di leadership sulla produttività e sul clima di gruppo. L’insegnante non dà particolari indicazioni, non si pone come punto di riferimento, lascia gli allievi un po’ abbandonati a se stessi; il risultato è ovviamente pessimo per quanto riguarda la produttività, ma anche il clima non sempre è piacevole, dato che manca un regolatore delle dinamiche fra pari.

Perché è importante che nei gruppi si delinei una gerarchia delle posizioni? La differenziazione di status in gruppo ha alcune funzioni psicosociali importanti:

  • crea ordine e prevedibilità all’interno dei gruppi, cioè contribuisce a creare una certa stabilità nella struttura del gruppo;
  • coordina le forze dei membri in vista del raggiungimento degli obiettivi, in quanto prevede una distribuzione di compiti e funzioni;
  • contribuisce all’autovalutazione di ciascun membro, che confrontando la propria posizione con quella degli altri membri si valuta e matura una serie di aspettative riguardanti le proprie capacità e valore.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, l’autovalutazione, ci sono almeno due considerazioni da fare. Da un lato, non è detto che un membro si accontenti della posizione che gli è accordata in un gruppo; egli potrà sforzarsi di raggiungere una posizione più elevata, potrà riuscirvi o meno, e sulla base dei risultati egli potrà decidere se restare o andarsene dal gruppo (se ciò è possibile). Dall’altro lato, è un fatto comune che i membri si adeguino alle aspettative che il gruppo nutre nei loro confronti, anche a rischio di fornire prestazioni ad un livello inferiore di quanto potrebbero fare.

2. I ruoli nel gruppo

 

         Nei gruppi oltre alla gerarchia di status, esiste un altro tipo di differenziazione rispetto alla posizione occupata dai membri: il ruolo. Il ruolo è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una certa posizione nel gruppo. Ad esempio, un insegnante si aspetta che l’allievo svolga i compiti assegnati, ascolti durante la lezione, parli quando è interpellato, esca dopo avere chiesto il permesso. Gli allievi, ugualmente, si aspettano sostanzialmente che uno studente si comporti come appena descritto (a prescindere dalla loro adeguatezza personale a queste attese). Gli studenti da parte loro si aspettano che il docente svolga lezioni, interroghi, tenga la disciplina in classe, valuti le loro prestazioni; anche gli insegnanti hanno lo stesso sistema di attese nei confronti dello svolgimento del loro ruolo. Questo costituisce l’aspetto della condivisione (c’è consenso sociale sul fatto che il ruolo vada svolto in un modo specifico); vi è inoltre l’aspetto della reciprocità, per cui ci si aspetta che un individuo con un certo ruolo si comporti in un determinato modo nei confronti del suo partner di ruolo, cioè di chi ricopre il “ruolo complementare” che è il ruolo che si relaziona in modo particolare ad un altro (esempi di partners di ruolo sono: insegnanti/allievi, medici/pazienti, figli/genitori, operai/capi reparto, ecc.).
Il ruolo, quindi, è una posizione all’interno del gruppo. Che differenza c’è allora con lo status? La differenza principale consiste nel valore attribuito: un ruolo può equivalere ad un altro nel senso che entrambi sono necessari per raggiungere l’obiettivo di gruppo, mentre lo status è per definizione valutato in modo diverso (il dirigente di una scuola ha uno status superiore rispetto ai docenti e al personale non docente). Questa affermazione, tuttavia, è da prendersi in modo relativo, nel senso che nei gruppi i ruoli sono spesso connotati da una valutazione diversa, il che è evidente soprattutto nei gruppi formali, come quelli professionali. In un reparto ospedaliero il ruolo del primario è valutato consensualmente come superiore rispetto a quello degli altri medici; il ruolo di infermiere, così necessario per tutto l’iter di cura, è tuttavia meno “prestigioso” di quello di medico.
A somiglianza dello status, il ruolo assolve alle seguenti funzioni psicosociali: a) crea ordine e prevedibilità all’interno di un gruppo; b) facilita il raggiungimento degli obiettivi attraverso una divisione dei compiti; c) fornisce all’individuo delle coordinate per autovalutarsi. Per non confondere, tuttavia, le due nozioni (status e ruolo) può essere utilizzata una metafora di tipo teatrale: ruoli e status sono le “parti” da recitare, indipendentemente dagli attori che le recitano; i ruoli possono essere considerati tutti importanti (mentre per definizione le posizioni di status sono differenziate in funzione del loro maggiore o minore prestigio) per costruire quel particolare spettacolo, anche se vi sono parti più centrali come quella del protagonista e dei comprimari (che hanno una visibilità e centralità maggiori), mentre scendendo sempre di più arriviamo a parti di “comparse”, ruoli in cui forse non sarà pronunciata nemmeno una parola.
La metafora teatrale ci è ancora utile per sottolineare che lo stesso ruolo non viene recitato nello stesso modo da tutti gli attori. Infatti, per quanto ci sia accordo sociale su come deve essere svolto un ruolo, ogni individuo introdurrà nella “recitazione” della propria parte degli elementi personali, specifici, che vengono chiamati stili di ruolo. Così dobbiamo riconoscere che nella nostra esperienza di studenti abbiamo incontrato insegnanti fra loro molto diversi, sia sul piano delle competenze didattiche e professionali, sia sul piano delle competenze sociali. Mentre il ruolo di per sé è un “copione” impersonale e può essere “recitato” dai più svariati individui, lo stile di ruolo si collega invece alle caratteristiche personali di ogni individuo, alla sua irripetibilità e unicità, ai suoi valori di riferimento. Così vi sono insegnanti particolarmente vicini agli allievi, in grado di svolgere funzioni di guida e di sostegno, altri molto distanti sul piano interpersonale ma molto competenti nella disciplina insegnata, altri ancora che non si segnalano per nessuna abilità specifica.
Nei contesti professionali non esistono solo i ruoli formali (nella scuola, ad esempio, vi sono i vari insegnanti, il dirigente, il personale non docente) seppure “giocati” in modo personale e fra loro diverso, vi sono anche dei ruoli informali, cioè non stabiliti dall’istituzione, ma che si creano quasi inevitabilmente nei gruppi. Alcuni di questi ruoli informali sono:

  • il leader, cioè qualcuno che riveste nel gruppo una funzione centrale, che ha una forte visibilità indipendentemente dalla posizione formale. Nei contesti lavorativi, non si deve confondere questa leadership informale da quella formale (ad esempio, in una scuola può succedere che il dirigente abbia meno seguito e impatto di un insegnante con ottima reputazione e con particolari caratteristiche personali);
  • il nuovo arrivato, cioè il neofita nell’organizzazione; egli deve cercare di capire le norme implicite ed esplicite dell’ambiente in cui entra, privilegiare nei primi tempi dell’entrata una posizione abbastanza defilata e osservativa per mettere in atto successivamente, quando il gruppo lo ha assimilato, delle azioni che possono mutare la configurazione del gruppo. Si tratta di un ruolo abbastanza consueto nell’istituzione scolastica, in cui il turn over è piuttosto elevato;
  • il capro espiatorio; si tratta di un ruolo piuttosto scomodo per chi lo riveste in quanto attira di continuo critiche e disapprovazioni. Per il gruppo è, invece, un ruolo molto utile, in quanto proprio sul capro espiatorio vengono proiettate dagli altri membri quelle caratteristiche che ognuno giudica indesiderabili per sé (pur possedendole). Così per mezzo del capro espiatorio vengono risolte varie situazioni problematiche: sarà quest’ultimo, ad esempio, a rendersi ridicolo in una situazione difficile, a mostrarsi sempre un po’ inadeguato, ad esplicitare timori ed esitazioni giudicate fuori luogo, situazioni e sentimenti che a turno magari tutti sperimentano, ma che è più facile attribuire ad un altro, tendenzialmente sempre lo stesso (o gli stessi). Così il capro espiatorio, senza saperlo e ad insaputa anche degli altri membri, assolve una funzione protettiva per il gruppo;
  • il clown (o buffone), un ruolo socio-emozionale che ha una certa importanza per allentare le tensioni inevitabili di gruppo con lo strumento delle battute umoristiche, degli scherzi, dell’ironia. Non di rado il clown può introdurre con la sua capacità di far sorridere anche temi delicati, critiche alla conduzione del gruppo che non potrebbero esprimersi direttamente se non a prezzo di conflitti e forse di scissioni nel gruppo.

Secondo Bales, uno studioso delle interazioni di gruppo, la differenziazione di status e ruoli si svolge lungo la dimensione strumentale-espressiva. Secondo questo autore, infatti, in ogni gruppo ci sono membri che sono prevalentemente centrati sul compito (dimensione strumentale), che cioè si impegnano principalmente sul raggiungimento degli obiettivi, e altri centrati sulle relazioni (dimensione espressiva o socio-emozionale). Il centraggio sulle relazioni può essere di tipo positivo (allentare le tensioni, dimostrare solidarietà agli altri, mostrarsi d’accordo) o negativo (disapprovare, esprimere tensione, mostrare antagonismo). Per Bales, i vari membri nel corso delle interazioni di gruppo si “specializzano” o nell’area del compito o in quella delle relazioni (positive o negative), entrambe importanti per l’equilibrio di un gruppo; anche il leader sarà prevalentemente centrato sull’una o sull’altra dimensione (difficile, per Bales, che lo sia su entrambe).

3. Le norme di gruppo

 

Le norme sono scale di valori, che definiscono ciò che è accettabile e non accettabile per i membri di un gruppo o di una comunità o di una società. Per Sherif, uno dei padri fondatori della psicologia sociale, l’essenza di un gruppo è costituita dal fatto di possedere una struttura, per cui i membri sono legati fra loro da rapporti di status e di ruoli, e dalle norme e valori comuni. L’aspetto normativo riguarda tutti i gruppi sia formali sia informali, anche se è importante sottolineare fin da subito una differenza: nei gruppi formali le norme si sono costruite nel corso del tempo e sono state formalizzate e stabilizzate dalle figure d’autorità, l’individuo che entra nel gruppo le trova già presenti e preesistenti alla sua entrata, il suo adeguarsi ad esse potrà essere variabile e dipenderà dal tipo di controllo che esercita il gruppo sui suoi membri. Queste norme sono definite istituzionali, non sono costruite dall’interazione dei componenti, sono a loro imposte e non sempre vengono rispettate (talora vengono seguite in modo superficiale e puramente di facciata); i membri del gruppo potranno modificarle gradatamente e, in ogni caso, in un range di libertà non troppo ampio, in quanto se così non fosse si snaturerebbe quel tipo di organizzazione o di istituzione. Nonostante questo minore coinvolgimento dei membri alla loro costruzione, esse hanno certamente una certa forza d’influenza sui comportamenti degli individui.
Nei gruppi informali le norme sono dette volontarie, in quanto sono costruite nell’interazione dei membri, sono un prodotto collettivo e costituiscono un requisito fondamentale se il gruppo vuole permanere nel tempo, in quanto costruiscono una comunanza di modi di espressione e di comportamento, che incrementano il senso di appartenenza al gruppo per i membri, mentre per i non-membri segnalano l’esistenza e i confini di quel gruppo.
Le norme non riguardano solo regole di comportamento cui i membri del gruppo devono attenersi, ma possono estendersi anche ad aspetti espressivi particolari, come il linguaggio o il gergo interno, l’abbigliamento, le stesse norme alimentari (come si osserva in certi gruppi religiosi o naturisti). Elementi come linguaggio, comportamento, abbigliamento possono rendere riconoscibili gli insegnanti anche al di fuori del loro ambiente di lavoro.  
Le norme differenziano enormemente i gruppi sociali, sia per quanto riguarda le regole di comportamento, sia per quanto attiene  agli aspetti espressivi, sia per quanto riguarda il loro carattere di “obbligatorietà”. Se in un gruppo di volontariato le regole principali si riferiscono ai comportamenti di solidarietà, di presa in carico degli altri, di accettazione,  in una banda di giovani devianti i comportamenti normativi potranno essere quelli della trasgressione sociale più o meno grave: dalla pratica del furto nei supermercati, agli scippi, alla violenza fine a se stessa su passanti, ai vandalismi sulle cose. Se in un gruppo naturale di adolescenti chi contravviene alle norme informali potrà essere cacciato senza appello, dato che la non osservazione delle regole indebolisce il senso di quel gruppo, in un ambiente lavorativo o in un’istituzione allargata sono sempre presenti delle sacche di resistenza passiva, quando non delle vere e proprie “sottoculture” ribelli alle norme istituzionali, l’esistenza delle quali è in genere nota alla dirigenza e tollerata fino a quando non diventa minacciosa per il buon funzionamento dell’organizzazione. Ad esempio, in una scuola si può essere a conoscenza che un insegnante ha modalità poco ortodosse di comunicazione con gli allievi, usando nomignoli e appellativi, violando la loro privacy, ridicolizzando certe loro caratteristiche, ma l’istituzione può fingere di ignorare la cosa finché un gruppo di genitori abbastanza agguerriti deciderà di intraprendere strade formali per arginare questo tipo di comportamento che lede il diritto di essere rispettati dei minori.
Le norme possono essere implicite o esplicite, centrali o periferiche.
Le norme esplicite si riferiscono a regole ben formalizzate, a volte scritte in un regolamento di riferimento o in un mansionario, come succede nei gruppi formali e nelle organizzazioni. Per alcune categorie professionali esiste una “deontologia” di riferimento (cioè un codice morale di comportamento) che, se violata nei suoi nodi più forti, può sancire l’espulsione del membro dall’ordine (ad esempio, medici, giornalisti, avvocati, ecc.). Per i medici una norma esplicita si riferisce al cosiddetto “giuramento d’Ippocrate” per cui un/una paziente non può essere fatto oggetto di attenzioni sessuali. Ugualmente nelle istituzioni scolastiche, una norma esplicita è quella del rispetto della persona dell’allievo, cui non si può fare violenza né diretta né indiretta.
Le norme implicite, invece, non sono scritte o espresse direttamente, nascono in genere in modo volontario (non sono, cioè, dettate da un’autorità esterna), ma hanno ugualmente una forza d’impatto e un’influenza importante sul comportamento dei membri di un gruppo. Le norme implicite possono avere il senso di una coloritura “locale”, nel caso delle istituzioni e organizzazioni formali. Ad esempio, se in linea di massima le norme esplicite sono le stesse per tutti i tipi e ordini di scuola, le norme implicite differenziano enormemente i vari istituti scolastici: vi saranno quelli in cui i rapporti fra colleghi (ad esempio) sono improntati ad un certo formalismo e distanza, altri in cui è quasi normativo avere relazioni cordiali e quasi amicali. Talora succede che un nuovo arrivato non assimili completamente l’esistenza di questi “impliciti” di gruppo e compia azioni non ammesse che saranno poi sanzionate con atteggiamenti di riprovazione o di ridicolizzazione, tanto da ricondurre l’incauto neofita negli alvei previsti.
Le norme centrali si riferiscono a regole fondamentali, tali per cui la loro trasgressione mette a repentaglio l’esistenza stessa del gruppo: in un gruppo di naturisti vegetariani è impensabile che di nascosto tutti consumino carne, in un gruppo di Alcolisti Anonimi (in cui si lavora per superare la dipendenza dall’alcool) è impossibile che i membri dopo la riunione vadano a farsi una bevuta collettiva di alcolici per festeggiare la buona riuscita dell’incontro. A scuola, una delle norme centrali riguarda la salvaguardia e l’educazione degli allievi, per cui l’insegnante che infranga questa regola (usando punizioni fisiche o avendo attenzioni sessuali nei confronti degli allievi) può essere sanzionato dall’autorità civile.
Le norme periferiche si riferiscono, invece, a regole più soft, considerate come più marginali, come potrebbe essere in un gruppo la puntualità negli incontri, oppure gli hobbies dei partecipanti.
I membri sono obbligati tutti allo stesso modo a seguire le norme di gruppo? Gli studiosi del fenomeno sottolineano che i leaders, i dirigenti sono più vincolati degli altri partecipanti a seguire le norme centrali, in quanto la loro testimonianza è un riferimento importante per la sopravvivenza e l’identità del gruppo, mentre sono più liberi di fronte alle norme periferiche, in virtù del loro status. I membri che si pongono in posizioni meno alte nella gerarchia sono obbligati a seguire sia le norme centrali sia quelle periferiche e sono rimproverati e puniti in caso di trasgressione più dei capi, sempre che questi ultimi siano fedeli alle norme centrali, in caso contrario anch’essi sono puniti e, nei casi estremi, allontanati dal gruppo. Questa situazione è stata messa in luce da Sherif a proposito delle norme volontarie dei gruppi naturali di adolescenti; per le norme istituzionali la situazione si differenzia a seconda del tipo di gruppo, del suo livello di coesione e di controllo operato sui partecipanti. Resta comunque valido il fatto che anche nei gruppi formali la non osservanza del leader delle regole centrali costituisce un fatto molto visibile e gravido di conseguenze sul gruppo.
Le funzioni psicosociali delle norme sono le seguenti:

  • permettono di raggiungere gli obiettivi stabiliti
  • mantengono unito il gruppo
  • contribuiscono a costruire una realtà condivisa
  • definiscono le relazioni con l’ambiente sociale, cioè le norme permettono di rapportarsi alla realtà esterna, fatta di altri gruppi, in termini di collaborazione, competizione, conflitto, solidarietà. In altri termini, la realtà sociale costruita nel gruppo permette di avere atteggiamenti abbastanza uniformi nei confronti di gruppi esterni, decidendo chi è amico, chi potenziale alleato, chi ineluttabilmente nemico.

4. La comunicazione in gruppo

            Non potrebbe esistere nessun gruppo se non fosse  possibile comunicare, cioè scambiare significati che vengono compresi da tutti. Anche per numerose specie animali, come hanno mostrato gli etologi, esistono codici comunicativi interni, che vanno dalle tracce odorose a segnali sonori, a comportamenti posturali che veicolano messaggi ben precisi: minaccia, difesa, corteggiamento, protezione del territorio, ecc.
Nella nostra specie la comunicazione ha un codice privilegiato nel linguaggio verbale, che fornisce una gamma molto ampia di espressione di contenuti, anche se non è meno potente un altro canale, quello dalle comunicazione non verbale (il linguaggio del corpo) che comprende gesti, posture, sguardi, mimica facciale, prossimità fisica e orientamento spaziale, segnali che completano, arricchiscono e a volte contraddicono la stessa comunicazione verbale. Esiste inoltre un codice “non verbale” del verbale, fatto di pause, esitazioni, tono della voce, borbottii, che offrono all’ascoltatore una serie di indicatori da cui potrà dedurre che il suo interlocutore è, ad esempio, imbarazzato, aggressivo, annoiato, poco sincero, condiscendente, inferiorizzato, spaventato, ecc.
Senza comunicazione non può esistere un gruppo. Gli aspetti strutturali (status, ruoli, norme), di cui abbiamo già discusso, sono costruiti nel corso di un ininterrotto fluire di comunicazioni, verbali e non verbali; si potrebbero studiare tutti i gruppi a partire dai processi comunicativi che si svolgono al loro interno. Immaginiamo di osservare dall’esterno una riunione di gruppo, cui sia stato “tolto l’audio”; noteremo subito alcune cose particolarmente evidenti: vi sono persone che parlano di più e altre di meno e altre ancora non dicono neppure una parola; vi sono persone che mentre parlano sono ascoltate da tutti con attenzione, mentre altre sono poco ascoltate (gli altri si distraggono, parlottano fra loro, non rivolgono lo sguardo verso chi parla). Noteremo inoltre che alcuni membri hanno un atteggiamento posturale che testimonia sicurezza, uno sguardo diretto sugli altri mentre parlano, la capacità di sostenere lo sguardo degli altri più a lungo, mentre altri esibiscono atteggiamenti meno assertivi, più difensivi. Potremo cogliere, se siamo in un buon punto di osservazione, che certi membri si scambiano occhiate e mezzi sorrisi fra di loro quando parla qualcuno, o fanno gesti di esasperazione, come se fossero molto disturbati dagli interventi di questa persona. Insomma, dopo un certo tempo di osservazione, avremo un po’ di idee su alcuni aspetti di quel gruppo; avremo informazioni, ad esempio, su chi conta di più e chi conta di meno (cioè sulla gerarchia interna), su quanti siano i membri che partecipano poco o sono addirittura marginalizzati, sul livello di coinvolgimento dei membri rispetto al lavoro comune, sul clima affettivo prevalente (caldo/freddo, interessato/disinteressato, collaborativo/competitivo, sereno/teso, ecc.). A questo punto si potrà accendere l’audio e nel corso degli scambi verbali potremo avere conferme di quanto ipotizzato. Potremo, ad esempio, accorgerci che quell’individuo che suscita sguardi fra i membri ed espressioni di noia è qualcuno che fa discorsi prolissi e poco chiari, cercando un consenso e una visibilità senza avere particolari abilità e competenze per meritarli.
Discutere, scambiare opinioni è molto importante non solo per i piccoli gruppi faccia-a faccia, ma anche per i gruppi estesi, come partiti, confessioni religiose, organizzazioni scientifiche, che hanno cura di riunire periodicamente i propri membri per scambi, dibattiti, convegni, in cui si consolida (talora pur tra conflitti) il senso di appartenenza a quel gruppo.
Nell’ambito della comunicazione, vi sono due concetti da distinguere: la rete di comunicazione e la struttura di comunicazioni:

  • la rete di comunicazione è l’insieme di canali comunicativi presenti in un gruppo; i “canali” sono le condizioni materiali che rendono possibile il passaggio delle informazioni. In altre parole, una rete è un insieme di possibilità materiali di comunicazione. Esempi di reti di comunicazione del passato sono i messaggeri a cavallo che assicurarono il passaggio di informazioni necessarie per governare alcuni imperi molto estesi, come quello Romano o quello del Katai, che tanto colpì Marco Polo per la sua efficacia nel tenere costantemente informato l’imperatore di quanto succedeva negli angoli più remoti del suo impero. Oggi, la rete informatica di Internet consente qualcosa che era impensabile solo alcuni anni fa: lo scambio di informazioni in tempo reale fra luoghi lontanissimi fra di loro;
  • la struttura di comunicazione è, invece, l’insieme di comunicazioni che sono state effettivamente scambiate in un gruppo. Possiamo dire che la rete è una possibilità di comunicazione, mentre la struttura è una realtà di comunicazione. Per osservare una struttura di comunicazione è necessario registrare la frequenza degli scambi fra emittenti e riceventi, il contenuto di tali scambi, il luogo e il momento in cui sono avvenuti. Bales ha messo a punto uno strumento per rilevare attraverso i processi comunicativi (contenuti verbali e non verbali) la struttura di relazioni nel gruppo e le tonalità affettive che le contraddistinguono.

Non è detto che avvenga uno scambio comunicativo anche se esistono i canali materiali (la rete) per farlo, mentre possiamo dire che se vi è una struttura di comunicazione esistono le possibilità materiali (le reti) per realizzarla.
Come sostengono gli studiosi della comunicazione, comunicare è sempre un’attività che comporta dei rischi. Rischi di fraintendimento, di acutizzazione di un conflitto già esistente, di  espressioni inadeguate, ecc. Uno degli elementi su cui i formatori di gruppo insistono è che bisogna lavorare sulle modalità con cui ci si esprime; molte volte non è tanto il contenuto ad essere offensivo quanto la modalità con cui è stato presentato quel contenuto. Si può dare all’altro un messaggio anche molto spinoso, ma la modalità adeguata di espressione può far sì che il destinatario non si senta offeso. In questo senso sono importanti, come elementi che migliorano la comunicazione interpersonale, l’ automonitoraggio continuo sulle nostre modalità comunicative e la capacità di accogliere i feed-back degli altri (che ad esempio ci dicono che le nostre espressioni verbali e non verbali sono spesso aggressive o poco chiare o poco decentrate).
Un altro elemento che incide sulla qualità della comunicazione è lo spazio, l’ambiente fisico in cui le persone si incontrano. Non è la stessa cosa interagire in gruppo in una stanza accogliente, con arredi gradevoli, comodamente seduti su poltrone, con la possibilità di vedersi tutti, o al contrario incontrarsi in un’aula anfiteatro, vasta e anonima, con le persone sedute in file parallele che fanno fatica a guardarsi reciprocamente in faccia. In molti dibattiti televisivi si cerca di riprodurre la situazione di un salotto, piuttosto che di un’aula, per rendere più vivaci gli scambi d’opinione. Alcuni insegnanti sensibili dal punto di vista psico-pedagogico cercano, proprio per creare climi interattivi più caldi, di cambiare l’ordine dei banchi e di metterli in cerchio, in modo che gli allievi possano vedersi e relazionarsi in modo continuativo. Quando vengono svolti corsi di formazione di gruppo, una consuetudine ormai ampiamente diffusa vuole che si lavori con le persone sedute in cerchio per consentire che tutti vedano tutti, in modo tale che la comunicazione “circoli” liberamente fra i componenti.
Questi fatti così conosciuti da ognuno di noi sono stati sottoposti a verifiche sperimentali: si è constatato, ad esempio, che gli individui interagiscono più attivamente e si coinvolgono di più quando stanno intorno ad un tavolo quadrato, in cui viene mantenuto costante il contatto visivo fra tutti, piuttosto che seduti l’uno di fianco all’altro, in una situazione di “allineamento”, che impedisce la spontaneità degli scambi. Non è solo la disposizione spaziale degli interlocutori a cambiare l’intensità della comunicazione; anche lo stesso ambiente fisico in cui ci  si pone contribuisce a ravvivare o a spegnere la discussione. In un esperimento i soggetti sperimentali dovevano svolgere un dibattito seduti sui due lati di un tavolo rettangolare, che in un caso era situato in un grande anfiteatro di circa 250 posti, nell’altro in una stanzetta che poteva contenere al massimo una trentina di persone. I risultati mostrano che la partecipazione al dibattito è molto più calda e intensa nella stanzetta, mentre nello spazio freddo dell’anfiteatro gli scambi si rivelano più formali e meno partecipativi.
Insomma, anche la tipologia dell’ambiente spaziale influenza i processi comunicativi; per questo in alcune associazioni la stanza delle riunioni viene arredata in modo da presentarsi come un luogo piacevole, accogliente, non troppo disturbato da rumori. Infatti, lo stress ambientale (rumori, temperatura inadeguata, spazio ristretto o troppo ampio, ecc.) viene considerato come uno dei fattori che incidono sulla qualità della comunicazione e della produttività di gruppo.

5. Il conflitto

Nel modo di pensare comune, il conflitto quasi inevitabilmente rimanda a qualcosa di negativo, che spezza l’armonia di un gruppo e che introduce divergenze se non spaccature fra posizioni diverse. In realtà, è importante sottolineare fin dall’inizio che vi sono conflitti distruttivi, che rompono l’equilibrio e la coesione del gruppo, e conflitti costruttivi, che comportano attraverso la disamina e la negoziazione di posizioni diverse un arricchimento e un’evoluzione positiva della vita di gruppo.
Il conflitto è, in ogni caso, una realtà sempre possibile in qualunque tipo di gruppo. Per quali motivi? In linea di massima, possiamo dire che il conflitto si genera per la situazione di disuguaglianza fra i membri, per quanto la disparità di condizione sia un dato di base di tutti i gruppi che si strutturano nel tempo e in qualche misura necessario perché l’insieme possa funzionare. Abbiamo visto, infatti, che nella struttura del gruppo vi sono posizioni differenziate, sia per quanto riguarda lo status, sia per quanto riguarda i ruoli svolti. In altre parole, la disuguaglianza fra i componenti è un elemento fondante della strutturazione e della relativa stabilità del gruppo e nello stesso tempo costituisce anche una permanente possibilità di conflitto, in quanto le gerarchie e le differenziazioni non sono date una volta per tutte e nella storia del gruppo possono presentarsi situazioni o eventi particolari che sconvolgono gli assetti stabiliti e richiedono la ricerca di nuovi equilibri. L’entrata di nuovi membri, l’uscita di altri, la variazione di alcune norme, l’introduzione di nuovi traguardi da raggiungere, la salita nella cerchia di status di un componente e non di un altro, possono rimettere in causa la stabilità del gruppo.
Pensiamo ad esempio cosa significhi per ogni scuola il continuo turn over degli insegnanti, con l’entrata ogni anno di nuovo personale e l’uscita di altri. I nuovi arrivati possono essere, ad esempio, insegnanti che hanno già una notevole esperienza lavorativa, hanno consolidato nel tempo un proprio stile di ruolo, provengono da scuole in cui il clima relazionale e normativo era piuttosto diverso da quello della nuova scuola. Questi nuovi insegnanti possono sentirsi in diritto di porsi in modo abbastanza assertivo nei consigli di classe e nei consigli d’istituto, non ritenendosi dei “novellini” del mestiere, mentre per il resto del gruppo essi sono dei neofiti piuttosto disturbanti, che pensano subito a farsi valere e a conquistare in modo troppo accelerato una certa credibilità e un po’ di visibilità. Tutto questo può innescare delle contrapposizioni latenti, delle divergenze più o meno strutturate, che possono più tardi sfociare in conflitti manifesti.
Proviamo a vedere più in dettaglio quali potrebbero essere gli elementi che scatenano il conflitto dentro al gruppo.

  • Vi può essere il caso dell’accesso a risorse limitate; è la classica situazione della competizione per cui solo ad alcuni membri viene dato un premio (che può essere materiale o simbolico, come la stima e l’approvazione del leader) o un riconoscimento per la propria prestazione.
  • Un’altra possibile fonte di tensione (vicina alla precedente) è legata ad una distribuzione ineguale delle opportunità fra i membri: alcuni hanno maggiore spazio di iniziativa, oppure vengono concesse loro più risorse o sono più ascoltati o si presentano come meglio attrezzati degli altri alle dinamiche sociali o sono più “sponsorizzati” da membri interni ed esterni al gruppo; a volte sono “sponsorizzati” dal capo stesso del gruppo, creando in tal modo delle disuguaglianze che creano occasione permanente di tensione. Si tratta di situazioni che spesso si presentano negli ambiti lavorativi.
  • Vi può essere, poi, la disuguaglianza delle idee e delle opinioni rispetto a qualcosa che è importante per il gruppo; si tratta di contrasti di opinione o di conflitti intellettuali che sono sempre presenti nei gruppi, in quanto essi non sono mai delle realtà totalmente omogenee e compatte. Nel caso delle decisioni di gruppo, ma anche nelle routine quotidiane vi sono inevitabilmente delle divergenze nel modo di concepire determinati problemi e nel delinearne soluzioni. Ad esempio, fra gli insegnanti vi è spesso una notevole differenza nel modo di concepire il proprio stile di ruolo, la propria autorità e la propria responsabilità verso gli allievi, e tutto ciò costituisce una permanente ragione di conflitto.
  • Oltre a questi aspetti, il conflitto può generarsi per la distribuzione ineguale del potere interno, per cui alcuni membri mettono in discussione le graduatorie di prestigio già consolidate e prospettano dei cambiamenti nella gerarchia di status. In questo senso, può succedere che si creino tensioni interne per l’opposizione del gruppo al proprio capo, che viene giudicato non adeguato al ruolo che ricopre. Ciò può creare malcontento diffuso, demotivazione al lavoro, tensioni che vengono scaricate su capri espiatori, soprattutto quando non è possibile agire la rivolta contro la leadership per rispetto alle regole formali o per oggettiva impossibilità di modificare la situazione.

         Il conflitto è, dunque, una realtà immanente di ogni gruppo, proprio per le differenze e ineguaglianze che lo caratterizzano; possiamo tuttavia sottolineare che non tutti i gruppi lo affrontano nello stesso modo; vediamo i tre casi più evidenti:

  • evitamento del conflitto : vi sono gruppi che si specializzano nell’evitare sistematicamente il conflitto, anche quando è ormai vicino a scoppiare e sarebbe necessario affrontarlo per l’equilibrio stesso del gruppo. Questo evitamento ha delle conseguenze, in quanto produce demotivazione in una parte dei componenti, affievolisce i sentimenti di appartenenza e di fiducia nei confronti del gruppo e può avere ripercussioni sull’efficacia e il “morale” complessivo del gruppo;
  • riduzione del conflitto : in questo caso il conflitto è già scoppiato e i membri del gruppo (o almeno una parte di essi) cercano le strategie per ridurne la portata destabilizzante. Una modalità può essere quella per cui il dirigente risolve d’autorità la questione; questo modo può essere efficace se gli vengono riconosciuti carisma e competenza da una larga parte del gruppo, ma se la leadership non ha queste caratteristiche, il conflitto non si risolverà con questo tipo d’intervento. Altra modalità di ridurre il conflitto può essere il ricorso a votazioni, che non è sempre efficace perché spesso non si basa su di un autentico confronto di opinioni e di posizioni reciproche, ma si fonda unicamente sulla dialettica maggioranza-minoranza. Più produttive sono, invece, le negoziazioni che nascono dopo un’ approfondita disamina delle ragioni conflittuali, in uno scambio di conoscenze e di informazioni;
  • creazione del conflitto : in questo caso il gruppo crea intenzionalmente un conflitto o lo acuisce. Questa situazione non è necessariamente negativa, anzi può produrre innovazione e spinta a cambiamenti produttivi; vi sono autori che sostengono la necessità anche nelle culture aziendali di opporsi all’omologazione e di “sfruttare” produttivamente la diversità delle posizioni e opinioni.

E’ probabile che questi tre meccanismi vengano usati in momenti diversi della storia di un gruppo. Ad esempio, in genere si attenuano le tensioni interne quando si è vicini ad un’importante scadenza o a un confronto con un gruppo esterno. In un gruppo di pubblicitari a corto di idee per il lancio di un nuovo prodotto, potrebbe rivelarsi produttivo esaltare la divergenza e la conflittualità dei punti di vista per arrivare ad una “trovata” creativa.
E’ possibile, anche, che i vari gruppi si specializzino in uno o l’altro dei tre meccanismi che abbiamo evocato. Chi di noi non ha avuto l’esperienza di appartenere a gruppi che sistematicamente evitano il conflitto? Pensiamo, ad esempio, ad un motivo molto comune di conflitto nei gruppi, quello della divergenza di opinioni. Come rilevano gli autori che si sono occupati di questo tema, in questo caso il modo per evitare il conflitto passa attraverso delle tecniche di “controllo del pensiero”, che può avere due modalità: controllo del proprio pensiero o controllo del pensiero degli altri. Nel primo caso, l’individuo non esplicita quello che pensa o cerca il più possibile di avvicinarsi al modo di pensare degli altri; si tratta della tendenza al conformismo presente in tutti i gruppi. Nel secondo caso, possono essere usate varie tecniche per controllare il pensiero degli altri e che, in buona sostanza, si riassumono in un uso abbastanza manipolatorio delle discussioni di gruppo, quali: ridurre la durata degli interventi “contrari”, non dare la parola ai dissidenti, indire le riunioni quando si sa che non potranno intervenire coloro che portano avanti posizioni divergenti, introdurre regole restrittive nella discussione, dare un’interpretazione falsata del dissenso per ridurne la portata eversiva (“in fondo, siamo tutti abbastanza d’accordo su…”), adottare sistematicamente il compromesso.
Gli studiosi dei fenomeni di gruppo sottolineano l’importanza dello scambio comunicativo autentico, in cui i membri sono in grado di reggere l’impatto delle posizioni diverse e anche contrarie fra loro. La vera discussione (che può anche sfociare nella controversia) permette di mettere a confronto pensieri, conoscenze, esperienze pur creando in prima istanza sentimenti di incertezza e disagio; da questo confronto, se non diventa polemica personale fra alcuni membri, nascono delle riflessioni e curiosità conoscitive che permettono una riformulazione del problema e la scoperta di soluzioni creative. E’ chiaro che questi scambi impegnativi sembrano poco desiderabili perché richiedono un apporto di energia e di coinvolgimento personali; inoltre, in termini di dinamica di gruppo essi sono “costosi” perché prendono più tempo e creano un clima di gruppo apparentemente disordinato e sicuramente più difficile da disciplinare.
Quando esiste una situazione di conflitto nel gruppo, è necessario che per poterla gestire vi sia consapevolezza da parte dei componenti della difficoltà che si è venuta a creare. Questa consapevolezza non interessa tutti i membri contemporaneamente e con la stessa intensità; è possibile che alcuni componenti del gruppo ignorino a lungo una situazione difficile, per vari motivi: difese percettive (il “non voler vedere” la situazione), diversa distribuzione della conoscenza fra i componenti del gruppo (alcuni hanno accesso più di altri alle fonti d’informazione), presenza di sottogruppi che cominciano ad avere una vita sempre più indipendente l’uno dall’altro all’interno del gruppo. A volte succede che lo stesso leader del gruppo ignori la presenza di un conflitto già attivo da qualche tempo, magari proprio a causa del suo comportamento eccessivamente favorevole nei confronti di alcuni componenti e discriminante nei confronti di altri.
Oltre al problema dell’essere consapevoli della presenza di un conflitto, vi è un divario fra tale consapevolezza e la capacità di gestire efficacemente e creativamente gli aspetti conflittuali alla ricerca di soluzioni accettabili per tutti i componenti. Spesso fra la presa di coscienza dell’esistenza di un conflitto e la decisione di affrontarlo passa un tempo lungo, in cui i membri “fanno come se” non ci fossero problemi (evitamento) nella speranza che le cose possano aggiustarsi da sole. Tuttavia, l’evitare di far fronte ai conflitti crea, spesso, più problemi di quanti ne risolva. Il tacere ed evitare diventano strategie alla lunga disfunzionali, in quanto generano passività, inerzia, perdita di investimento o, anche, piccoli sottogruppi di membri che si alleano in modo sotterraneo, magari solo per “sparlare” della dirigenza e degli altri componenti.
La via di uscita da una situazione conflittuale di gruppo è, inevitabilmente, la capacità di discuterne senza reticenze, accettando l’aspetto “costoso” di tale operazione e il rischio di constatare che certe posizioni sono difficilmente conciliabili. Moscovici e Doise sostengono che i processi di partecipazione consensuale, in cui gli individui discutono liberamente col desiderio di confrontarsi e di esprimere le proprie opzioni senza temere la censura e l’esclusione, sono situazioni che rianimano qualunque dinamica sociale, introducendo il coinvolgimento, l’investimento, il sentimento di appartenenza ad una comunità. La partecipazione normalizzata è, invece, la situazione per cui l’accesso dei membri del gruppo alla discussione è regolato dalla gerarchia esistente, dal grado in cui ciascuno può esprimersi solo sulla base della posizione assegnata. In questo caso, i contrasti si smorzano, le controversie sono mitigate, il che può sembrare un vantaggio per tutti; tuttavia, in tali situazioni la reticenza (soprattutto dei membri di status inferiore) diviene un elemento centrale e diffonde disagio e ulteriore chiusura, il senso di partecipazione e il coinvolgimento si attenuano, le soluzioni virano verso il compromesso piuttosto che verso il consenso, che è invece il risultato di un accordo che nasce dall’autentico confronto sociale.
Non è sempre possibile scegliere fra partecipazione consensuale e normalizzata nelle discussioni di gruppo e in particolare in quelle volte a chiarire conflittualità interne; la scelta dipende dal tipo di gruppo (aperto, chiuso, formale, informale, ecc.), dalle circostanze in cui un conflitto si palesa (durante il conflitto con un altro gruppo, ad esempio, diviene troppo costoso affrontare i conflitti interni), dalle poste che sono in gioco (se il gruppo deve raggiungere una meta importante, è probabile che si soprassieda sulle conflittualità interne).

 

        

 

 

Fonte: http://www2.indire.it/materiali_dirigenti/allegati/4_Speltini.doc

Sito web da visitare: http://www2.indire.it/

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