Il diritto comunitario del lavoro

Il diritto comunitario del lavoro

 

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

 

 

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

 

 

 

Il diritto comunitario del lavoro

 

Diritti sociali e flexicurity*

di Massimiliano Delfino·

Sommario: 1. Il codice genetico del diritto del lavoro comunitario delle origini con riferimento ai principi fondamentali. In particolare, la libertà di circolazione dei lavoratori subordinati. 2. Il ruolo della Corte di giustizia nell’affermazione dei principi e dei diritti sociali fondamentali. 3. La formazione della Carta di Nizza ed il suo valore politico-interpretativo: le prime aperture della giurisprudenza comunitaria. 4. Dopo il fallimento della “Costituzione europea”: il Trattato di Lisbona e l’efficacia vincolante dei diritti sociali. 5. Segue. I principali diritti sociali nella Carta dei diritti fondamentali. 6. Il campo di applicazione soggettivo dei “nuovi” diritti fondamentali dei lavoratori. 7. Diritti sociali e politiche di flexicurity: separati sotto lo stesso tetto?  

 

1. In una fase cruciale per l’Unione europea, che corrisponde al varo del nuovo Trattato, reso più complicato dalla vittoria dei “no” nel referendum irlandese, è quanto mai opportuno interrogarsi in merito al ruolo svolto dai principi e dai diritti sociali fondamentali nell’ordinamento comunitario, partendo da un excursus delle fasi di emersione di questi diritti per approdare ai tratti caratterizzanti la Carta di Nizza e verificare se tale documento realizza una tutela diversa delle pretese di natura sociale non più legate al singolo rapporto di lavoro, ma sempre più connesse alla persona del lavoratore. Pertanto sarà necessario analizzare, in questa prospettiva, alcuni di quei principi e diritti e la loro ricaduta sull’ordinamento italiano, con specifico riguardo al ruolo svolto dal documento sovranazionale nell’arginare i rischi di riduzione degli standard di tutela sociale riconosciuti negli Stati membri, rischi insiti anche nel perseguimento di alcuni degli obiettivi della c.d. flexicurity, sui quali si tornerà nella seconda parte di questo scritto.
Prima, però, di procedere a questo tipo di analisi, sembra utile volgere lo sguardo al passato, individuando i punti di continuità e di discontinuità dell’intervento comunitario sempre in materia di principi e diritti fondamentali. Infatti, è questo un ambito nel quale sono più evidenti i cambiamenti intercorsi, ma pure gli elementi di linearità con il passato, anche recente, dell’Unione. Tale continuità non deve essere considerata come immobilismo della “macchina” europea, ma va intesa come un’opportunità da cogliere, perché alcune interpretazioni sviluppatesi in precedenza si possono rivelare utili anche nel quadro comunitario attuale e sono strettamente correlate all’oggetto della ricerca. Inoltre, con riferimento ai diritti sociali fondamentali non si abbandona del tutto il tentativo di prevedere un equilibrio fra interventi comunitari di diverso tipo e, in fin dei conti, il ruolo dell’Unione europea è sempre caratterizzato dalla presenza di alcune costanti, quali, fra le altre, l’utilizzo di tecniche normative forti (sul punto, v. Ales 2007 e Delfino 2007).
E’ opportuno avviare l’analisi, partendo da alcune affermazioni di Federico Mancini, in parte collegate fra loro. La prima è la consolidata sottolineatura della differente origine delle norme del diritto del lavoro comunitario rispetto a quelle degli ordinamenti nazionali. “Il diritto del lavoro tracciato…a Roma e poi sviluppato a Bruxelles non nasce dalla critica di un rapporto diseguale e generatore di grandi conflitti nel cuore del sistema capitalistico …[poiché] …il Trattato … [ha] un solo, vero obiettivo: creare un mercato europeo …” (Mancini 1989, p. 10). La conseguenza di quest’impostazione è stata (e, in parte, ancora è) che il Trattato e la legislazione comunitaria si sono occupati del lavoro quasi esclusivamente in vista del raggiungimento di quell’obiettivo. Ecco giustificata l’attenzione della Comunità delle origini per la regolamentazione di aspetti strettamente legati alla creazione e al mantenimento di un mercato comune: dalla libera circolazione dei lavoratori, alla parità di trattamento retributivo. Se la regolamentazione di tali aspetti rappresenta il requisito minimo in un mercato europeo, perché impedisce la distorsione della concorrenza, non è escluso, però, che, incidentalmente ed eventualmente, essa produca anche “effetti socialmente benefici” (sempre Mancini 1989, p. 10), ma, appunto, si tratta di effetti “preterintenzionali” della legislazione comunitaria. La gran parte delle norme europee, incluse quelle di politica sociale, era quindi considerata, direttamente o indirettamente, funzionale al mercato.
Uno degli esempi più importanti di regolamentazione apertamente riconducibile alle esigenze della libera concorrenza e che solo di riflesso presenta una “colorazione” sociale è rappresentato dalle previsioni sulla libertà di circolazione dei lavoratori.
Proprio partendo da quest’ultimo principio, si può condurre un ragionamento, che, come si vedrà più avanti, si rivelerà utile anche ai fini dei diritti di (più o meno) nuova concezione. Il primo passo è la delimitazione della nozione di lavoratore, cui si applicano le norme sulla libertà di circolazione dei lavoratori sia del Trattato (artt. 39-42), sia dello specifico Regolamento in materia, il n. 1612/68 del 15 ottobre 1968. Di quale lavoratore si tratta? Anche volendo far riferimento alla lettera del Regolamento, che utilizza l’espressione “lavoratore subordinato”, da quale ordinamento devono essere tracciati i confini di questa nozione?
La risposta a queste domande è unica: il riferimento del Trattato e del Regolamento è al lavoratore subordinato, ma con l’importante precisazione che quella nozione è di portata comunitaria, essendo stata formulata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. E non poteva essere altrimenti: perché, come ha più volte rilevato la Corte di Lussemburgo (a cominciare dal caso Levin, Cgce 3 giugno 1986, causa C-53/81, in Racc., 1982, p. 1035), solo una nozione sopranazionale di lavoratore dipendente poteva mettere al riparo quella regolamentazione comunitaria dal rischio di una difformità di applicazione nei diversi Stati membri di un principio fondamentale, come quello della libertà di circolazione. Tale definizione ha radici ben salde nella cultura economicistica che muove la Comunità europea dei primordi (e, in parte, anche quella di oggi). Infatti, le norme summenzionate sono rivolte a garantire la libera circolazione solo dei lavoratori che svolgono attività reali ed effettive (escludendo quindi le attività talmente ridotte da potersi definire “marginali e accessorie”), e di tipo economico (Cgce 3 giugno 1986, Levin, cit.) .
La subordinazione nel Diritto comunitario, quindi, per quanto riguarda il principio di libertà di circolazione dei lavoratori, è caratterizzata dalla necessaria presenza di uno scambio economico, che sembra prevalere rispetto agli altri elementi che pure la connotano (l’esecuzione della prestazione in favore di un beneficiario e il controllo da parte di quest’ultimo delle modalità di adempimento) e ciò perché il lavoratore è visto come un agente economico all’interno di un mercato, agente del quale vanno tutelati proprio i diritti che contribuiscono alla costruzione di quel mercato (Revilla Esteve 2004). Inoltre, sempre per la giurisprudenza della Corte di giustizia, la nozione di lavoratore definisce “la sfera di applicazione di una delle libertà fondamentali garantite dal Trattato e come tale non può essere interpretata in modo restrittivo” (Cgce 3 giugno 1986, Levin, cit.). E’ stata elaborata, quindi, una concezione molto ampia della libertà di circolazione, basata sulla prevalenza delle logiche di mercato su altri fattori (la nazionalità, il vincolo contrattuale), che ha portato ad includere nella nozione di lavoratore dipendente anche soggetti che, secondo gli ordinamenti interni, non sarebbero stati considerati lavoratori subordinati, come chi svolge corsi di formazione professionale o come i disoccupati alla ricerca di un altro impiego. Ciò implica che siano parzialmente saltate le frontiere della subordinazione nel senso tradizionale del termine, e che rientrano nel campo di applicazione della libera circolazione non solo rapporti di lavoro ad orario ridotto o a tempo determinato, che anche per gli ordinamenti interni sono qualificabili come subordinati, ma altresì alcune attività occasionali o intermittenti, come messo in evidenza dai casi Lawrie-Blum, Kempf e Brown ; mentre sono da escludere dall’ambito di applicazione della libera circolazione, proprio perché manca la componente corrispettiva, i soggetti impegnati in attività ove è prevalente l’aspetto solidaristico (lavoro volontario, lavoro del terzo settore, lsu e borse lavoro) (Veneziani 2000). Come dire che la subordinazione nel Diritto del lavoro comunitario, nel caso del principio fondamentale di libertà di circolazione dei lavoratori, è abbastanza svincolata dal tipo contrattuale ed è più legata, come si è anticipato, allo svolgimento di un’attività lavorativa economicamente rilevante, che è l’aspetto assorbente ai fini della libera circolazione del bene-lavoro .
Questa impostazione risulta confermata da una sentenza della Corte di giustizia più recente , che ribadisce la competenza comunitaria nel tracciare la nozione di subordinazione ai fini della libera circolazione, fondandola, oltre che sugli elementi “classici” già individuati, sullo svolgimento, da parte del lavoratore, di un’attività economica reale ed effettiva. La centralità di quest’ultimo elemento è testimoniata dal fatto che la Corte in tale pronuncia non si accontenta della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato compiuta dal giudice nazionale, ma, appunto, invita il medesimo giudice ad accertare il carattere reale ed effettivo dell’attività subordinata, tenendo conto del contenuto del progetto di reinserimento sociale, cui si fa riferimento nella causa, nonché delle caratteristiche e delle modalità di esecuzione delle prestazioni, mentre esclude la rilevanza della “natura giuridica del rapporto intercorrente fra il lavoratore e il datore di lavoro” .     
Ciò detto, è opportuno chiedersi quali rapporti di lavoro vanno presi in considerazione per l’applicazione del principio in questione e, a tal proposito, si può essere abbastanza certi sull’estensione, nel nostro Paese, della libertà di circolazione anche a lavoratori comunitari che utilizzano rapporti di lavoro diversi rispetto al classico impiego a tempo pieno e indeterminato: penso non solo ai lavoratori a tempo parziale o a termine, ma pure, ad esempio, ai lavoratori a progetto. Tali fattispecie negoziali, indipendentemente dalla loro qualificazione secondo l’ordinamento italiano, rientrerebbero nella nozione comunitaria di subordinazione, elaborata per l’applicazione del principio fondamentale di libera circolazione.

            2. Se finora ci si è interrogati sul campo di applicazione di uno dei principi economici cardine della Comunità europea, prima, e dell’Unione europea, poi, non si deve dimenticare che l’ordinamento comunitario ben presto ha cercato di riconoscere e tutelare esigenze di tipo sociale, attraverso il riconoscimento di altri principi e diritti fondamentali, in modo progressivamente più indipendente dalle esigenze economiche che caratterizzavano la Comunità dei primordi.
La Corte di giustizia è stata cruciale nel riconoscimento di quei principi e diritti anche prima della loro catalogazione in un unico documento, ovvero la Carta di Nizza. Il ruolo svolto dai giudici di Lussemburgo è stato vieppiù decisivo in considerazione del fatto che, al contrario di quello che accade per le libertà di circolazione (previste dalle norme del Trattato fin dalla nascita della CEE) la fonte primaria del diritto comunitario contiene un’unica norma che tutela un principio fondamentale della dimensione sociale, ovvero l’art. 141 sulla parità di trattamento e sul divieto di discriminazione retributiva per ragioni legate al sesso, principio peraltro connesso alle esigenze del mercato.
Le sentenze che attestano il ruolo svolto dalla Corte nella “creazione” e nella protezione dei diritti sociali sono numerose ed il più delle volte hanno ad oggetto il riconoscimento e la garanzia del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione (in ragione della presenza del citato art. 141, ma anche delle direttive in materia), dal quale discende un diritto fondamentale all’eguaglianza. Proprio con riguardo a questo diritto i giudici comunitari hanno affermato che “secondo una costante giurisprudenza i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali ... dei quali la Corte garantisce l’osservanza” e che “gli obblighi inerenti alla tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico comunitario vincolano parimenti gli Stati membri, quando essi diano esecuzione alle discipline comunitarie” .
Sin dagli anni ’70 del secolo scorso, la Corte di giustizia ha affermato che il diritto a non essere discriminati in ragione del sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana, del quale i giudici comunitari devono garantire l’osservanza . In un’altra pronuncia, si è spinta a sostenere che la finalità economica che caratterizza inevitabilmente il principio di non discriminazione retributiva di cui all’art. 141 Tratt. CE, “consistente nell’eliminazione delle distorsioni di concorrenza tra le imprese situate nei diversi Stati membri [,] riveste un carattere secondario rispetto all’obiettivo sociale di cui alla stessa disposizione, la quale costituisce l’espressione di un diritto fondamentale della persona umana” . In altri termini, la conclusione cui giunge il giudice europeo in questa circostanza è che, seppure una disposizione del Trattato è stata prevista originariamente per realizzare determinati obiettivi e, nello specifico, per tutelare la libera concorrenza, la medesima norma può essere oggetto di un’“interpretazione evolutiva”, che tenga conto della “colorazione” sociale pure insita nella stessa previsione e che, anzi, consideri tale “colorazione” prevalente rispetto alla originaria anima “mercantilistica”.
La valorizzazione del principio di pari trattamento è compiuta, sebbene in un’altra prospettiva, anche da un diverso filone giurisprudenziale, molto più recente. Di un certo interesse a tal proposito è la sentenza Mangold , secondo la quale il principio di non discriminazione in base all’età, derivante dalla direttiva 2000/78/CE - che riguarda la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convenzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali - “deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario” (punto 75) che produce i suoi effetti pure nei confronti dei singoli. Pertanto, qualsiasi disposizione nazionale che provoca ingiustificata disparità di trattamento in ragione dell’età può essere disapplicata dal giudice interno anche nei rapporti fra soggetti privati. Questa “conquista” della Corte di giustizia è stata in parte ridimensionata da una pronuncia successiva , che, da un lato, considera il divieto generale di discriminazione “nel novero dei diritti fondamentali che costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto comunitario” (punto 56); dall’altro, non ritiene che il campo di applicazione della direttiva oggetto della causa, sempre la 2000/78, debba essere esteso al di là dei motivi di discriminazione tassativamente elencati. E’ pur vero però che la Corte ritorna sul medesimo principio correggendo, in parte, quanto affermato in Chacón Navas. Secondo una sentenza del 7 settembre 2006 , “tenuto conto del fatto che il principio generale di uguaglianza e di non discriminazione è un principio del diritto comunitario, gli Stati membri sono vincolati da tale principio quale interpretato dalla Corte. Ciò vale altresì, quando la normativa nazionale di cui trattasi, secondo la giurisprudenza costituzionale dello Stato membro interessato, è conforme ad un diritto fondamentale analogo riconosciuto dall’ordinamento giuridico nazionale” (punto 41).
Si può parlare di una tendenza espansiva del principio di pari trattamento nel diritto del lavoro comunitario anche con riferimento ad un’altra sentenza degli ultimi mesi , nella quale proprio la portata generale del principio appena richiamato fa sì che la clausola 4 dell’accordo-quadro sul contratto a termine recepito nella direttiva 99/70/CE - clausola che sancisce, appunto, la parità di trattamento e il divieto di discriminazione nelle condizioni di impiego per i lavoratori a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato – non possa essere interpretata in modo restrittivo. Sicché, un lavoratore a termine può pretendere di non essere discriminato nelle condizioni di impiego anche quando “l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” e non ha nessun rilievo, a tal proposito, che la retribuzione è una materia esclusa dalle competenze comunitarie, in base all’art. 137, n. 5, Tratt. CE.
La Corte di giustizia, poi, è intervenuta anche su diritti fondamentali differenti rispetto a quelli riconducibili al principio di eguaglianza e di pari trattamento. La direttiva sull’orario di lavoro, la 93/104, prevede l’obbligo di un periodo di ferie retribuito e la Corte - senza richiamare la Carta di Nizza, al contrario di quanto accaduto, come si vedrà nel paragrafo successivo, nelle conclusioni dell’Avvocato generale nella medesima causa – configura il diritto alle ferie annuali retribuite alla stregua di un diritto sociale fondamentale, “come tale ‘assoluto ed incondizionato’, connesso a fondamentali esigenze di tutela della salute e sicurezza del lavoratore, la cui attuazione da parte degli Stati membri può essere effettuata solo nei limiti esplicitamente indicati dalla direttiva sull’orario di lavoro” (Ricci G. 2003, p. 170). Per questo i giudici europei hanno censurato la legislazione britannica che prevedeva il riconoscimento di tale diritto solo dopo 13 settimane di lavoro ininterrotto, escludendo illegittimamente dal godimento del diritto alle ferie alcuni lavoratori a termine (Sciarra 2007, p. 105).

            3. Il riconoscimento dei diritti sociali fondamentali attraverso la giurisprudenza comunitaria non ha mai impedito di perseguire la strada maestra della tutela di quei diritti mediante strumenti normativi dell’ordinamento europeo. I primi esempi di protezione di quelle situazioni giuridiche furono realizzati mediante la Carta sociale europea del 1961 (riveduta nel 1996) e la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, che però presentavano alcuni limiti. Innanzitutto la Carta sociale europea è un atto di diritto internazionale e non di diritto comunitario, essendo stata adottata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa (che, appunto, non è un’istituzione comunitaria), mentre la Carta del 1989 – adottata dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri della allora Comunità economica europea - ha un’efficacia giuridica limitata, essendo sprovvista di diretta applicabilità ed ha natura programmatica, per di più nei confronti della Comunità e non dei singoli Stati. Inoltre, entrambi i documenti riguardano soltanto i diritti sociali e non anche gli altri diritti fondamentali.
L’esigenza di prevedere un catalogo generale di diritti fondamentali emerse solo intorno alla metà degli anni ’90 del secolo scorso. In quel periodo la Commissione europea nominò due gruppi di esperti, il primo presieduto da Maria Lourdes de Pintasilgo ed il secondo da Spiros Simitis, che produssero due documenti, rispettivamente, nel 1996 e nel 1999. Il secondo di questi, il c.d. Rapporto Simitis, raccomandava di rafforzare la visibilità e la giustiziabilità dei diritti fondamentali, unificando diritti civili e diritti sociali in un unico catalogo destinato ad essere inserito all’interno del sistema dei Trattati.
Il Consiglio europeo di Colonia del 1999 accoglieva parzialmente quest’orientamento, affermando la necessità di elaborare una Carta dei diritti fondamentali che tenesse nel debito conto “i diritti economici e sociali...enunciati nella Carta sociale europea e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori”. In quello stesso Consiglio si decise di nominare un organo incaricato di presentare un progetto in tempo utile prima del Consiglio europeo del dicembre dell’anno successivo, progetto nel quale si doveva proporre il testo di una Carta dei diritti fondamentali, ma solo in un secondo momento si sarebbe dovuta “esaminare l’eventualità e le modalità necessarie per integrare la Carta nei Trattati”. Come si può notare, era venuta meno la certezza sull’opportunità di garantire efficacia vincolante al catalogo dei diritti fondamentali. L’organo, che si autodefinì “Convenzione” fu nominato e Roman Herzog fu chiamato a presiederlo. A conclusione dei suoi lavori, la “Convenzione” inviò il testo della Carta in tempo per il suo esame al Vertice di Biarritz (13 e14 ottobre 2000) e la Carta fu proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 dai rappresentanti del Consiglio, della Commissione e del Parlamento europeo, senza che le fosse conferita efficacia vincolante.
Nel corso degli anni successivi la giurisprudenza della Corte di giustizia è stata molto cauta nel riconoscere a quell’atto un’efficacia diversa rispetto a quella di un mero documento politico. Ciò è avvenuto nonostante gli Avvocati generali (membri, con l’incarico di amici curiae, della Corte di Lussemburgo, che non svolgono funzione giudicante, ma che collaborano all’attività dell’organismo, elaborando, sotto forma di conclusioni, una proposta di risoluzione della causa) abbiano mostrato un certo attivismo nel tentativo di legittimare il documento del 2000 (v. Bisogni, Bronzini, Piccone 2006), come dimostrano le affermazioni contenute in alcune delle loro conclusioni presentate negli ultimi anni . In particolare, nelle ultime conclusioni citate, l’Avv. Tizzano, nel confermare la natura di diritto sociale fondamentale del diritto alle ferie, considerava “significativo...che detto diritto trovi oggi una solenne conferma nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” ed anche che se la Carta “non si è vista riconoscere autentica portata normativa...resta il fatto che essa racchiude enunciazioni che appaiono in gran parte ricognitive di diritti già altrove sanciti”. Pertanto, “in un giudizio che verte sulla natura e sulla portata di un diritto fondamentale, non si possono dimenticare le pertinenti enunciazioni della Carta” e la sua “vocazione a fungere, quando le sue disposizioni lo consentono, da sostanziale parametro di riferimento per tutti gli attori...della scena comunitaria”. In questo senso, sempre ad avviso dell’Avv. Generale Tizzano, la Carta “fornisce [ad esempio] la più qualificata e definitiva conferma della natura di diritto fondamentale che riveste il diritto a ferie annuali retribuite”.
Un altro Avvocato generale, Dàmaso Ruiz-Jarabo Colomer, ha posto l’accento sul fatto che la Carta di Nizza, “malgrado la polemica suscitata in merito alla sua natura giuridica, esercita un’influenza importante sui testi elaborati ed approvati successivamente” e, con riferimento ad un altro diritto sociale, ha affermato che “la tutela della salute nell’ambiente di lavoro costituisce un obiettivo sociale, come risulta dall’art. 31, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione ... che conferisce a ogni lavoratore il diritto a condizioni di lavoro ‘sane, sicure e dignitose’” .
Per converso, solo in alcune sentenze della Corte di giustizia è contenuto un richiamo alla Carta di Nizza, peraltro con affermazioni diverse rispetto a quelle finora riportate e contenute nelle conclusioni degli avvocati generali. Così nella sentenza del 27 giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento c. Consiglio, la Corte afferma che, “se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo ‘considerando’ della direttiva...” oggetto della causa, ovvero la 2003/86/CE sul ricongiungimento familiare, “che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU [Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali] bensì parimenti dalla Carta”. “L’obiettivo principale della Carta ... è peraltro quello di riaffermare ‘i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla [CEDU], dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte ... e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo’”.
In altre parole, questa pronuncia, da un lato, riconosce al documento di Nizza un valore non vincolante, mediato dall’intervento del legislatore comunitario, e, dall’altro, rileva il carattere riepilogativo e non innovativo di quel documento che riafferma, infatti, i diritti derivanti dalle tradizioni degli Stati, da documenti o dalla giurisprudenza comunitaria ed internazionale. La sentenza del 2006 evidenzia altresì la necessità di mettere in collegamento le diverse norme della Carta dei diritti fondamentali (nello specifico, l’art. 7 sul rispetto della vita privata e familiare e l’art. 24 sui diritti del bambino). Il che può essere considerato come una prima apertura verso l’inevitabile bilanciamento fra le posizioni giuridiche tutelate nel catalogo del 2000, contemperamento che acquisterà un’importanza maggiore quando e se il Trattato di Lisbona, che attribuisce valore vincolante alla Carta, entrerà in vigore.
Meno interessante è una sentenza del 13 marzo 2007 , che conferma come un principio fondamentale, quale la tutela giurisdizionale effettiva (ma le valutazioni sono estensibili anche ad altri principi fondamentali), costituisce un principio generale di diritto comunitario che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, principio sancito dalla CEDU e ribadito dalla Carta di Nizza (art. 47). In tal modo, quindi, appare confermata l’interpretazione del carattere principalmente “confermativo” dell’atto comunitario citato da ultimo.
Da ultimo, altre due pronunce, la Viking e la Laval , affrontando per la prima volta la questione del contemperamento del diritto di sciopero e dei principi fondamentali della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi (Ballestrero 2007), affermano che “il diritto di intraprendere un’azione collettiva, ivi compreso il diritto di sciopero, deve essere riconosciuto quale diritto fondamentale facente parte integrante dei principi generali del diritto comunitario”. Inoltre, entrambe le sentenze, pur segnalando che l’esercizio di quei diritti può essere sottoposto a talune restrizioni, contengono un richiamo esplicito al documento di Nizza, ricordando, appunto, come tali diritti siano “riaffermat(i) dall’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” .

 

            4. Al di là degli interventi della Corte di giustizia, occorre chiedersi quale sia stata la posizione delle fonti comunitarie primarie in merito al riconoscimento dei diritti sociali fondamentali. Non va dimenticato che il Trattato istitutivo tuttora vigente, quello del 1957, modificato nel 1986, nel 1992, nel 1997 e nel 2000, all’art. 136, fa esplicito riferimento ai diritti sociali fondamentali riconosciuti dalla Carta sociale europea del 1961 e da quella comunitaria del 1989 (Alaimo 2008), che vanno “tenuti presenti” nella realizzazione degli obiettivi sociali dell’Unione europea. Pertanto, le norme che tutelano tali diritti sono programmatiche e, quindi, nonostante non abbiano un’efficacia diretta, devono trovare attuazione nel diritto comunitario derivato, attraverso regolamenti, direttive o decisioni.
Ben diverso sarà il riconoscimento dei diritti sociali all’indomani della ratifica del Trattato di Lisbona. Anzitutto, va detto che la versione della Carta di Nizza, alla quale rinvia il nuovo Trattato, non è più quella del 2000, a cominciare dai contenuti. La Convenzione europea del 2002-2003 aveva suggerito tre tipi di modifiche al testo del documento di Nizza, prontamente accolte dalla Costituzione del 2004:

  • Alcuni piccoli cambiamenti di stile (come, ad esempio, il riferimento a “istituzioni, organi e organismi dell’Unione” anziché a “istituzioni e organi dell’Unione” come destinatari degli obblighi derivanti dalla Carta medesima).
  • La riformulazione delle due clausole orizzontali (art. 51 sul campo di applicazione e art. 52 sulla portata e l’interpretazione dei diritti e dei principi), delle quali si parlerà di qui a poco.
  • La revisione linguistica di alcune norme. La versione italiana del 2000 adoperava erroneamente l’espressione “ogni individuo”, mentre le versioni francese ed inglese quelle, rispettivamente, di “toute persone” e “every person”, che includono, a differenza del termine “individuo”, anche le persone giuridiche. Ora pure nella versione in lingua italiana il riferimento è alla persona (v., ad esempio, l’art. 8 sulla protezione dei dati personali, l’art. 11 sulla libertà di espressione, l’art. 12 sulla libertà di riunione) .   

Per quanto riguarda, poi, l’efficacia della Carta, il nuovo art. 6 del Trattato di Lisbona afferma che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Pertanto, sembra che le norme in tema di diritti fondamentali ivi contenute avranno un’efficacia diretta e saranno considerate come diritto dell’Unione ad ogni effetto, cosicché sarà possibile la disapplicazione del diritto interno contrastante con il contenuto della Carta medesima. Tuttavia, le cautele utilizzate dalla nuova previsione comunitaria sono molteplici. Si afferma che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”. Inoltre, i diritti, le libertà ed i principi tutelati da quel documento devono essere interpretati e applicati con tutti gli accorgimenti previsti dal titolo VII della stessa Carta e dalle relative spiegazioni.
Tenuto conto di ciò, un punto fermo in merito all’efficacia della Carta di Nizza potrà essere fissato solo dalla Corte di giustizia, dopo l’entrata in vigore del nuovo Trattato. Tuttavia, è possibile continuare a propendere per la tesi del riconoscimento di un’efficacia vincolante di diritto primario alle norme della Carta Nizza, rivista nel corso degli anni 2000, almeno per due motivi.
Da un lato, il tenore letterale delle norme prima riportate sembra confermare una simile interpretazione.
Dall’altro, esiste l’opting out da parte di Regno Unito e Polonia, concretizzatosi nel Protocollo n. 7 allegato al Trattato di Lisbona. L’art. 1, paragrafo 1 di quel Protocollo afferma che “la Carta non estende la competenza della Corte di giustizia o di qualunque altro organo giurisdizionale della Polonia e del Regno Unito a ritenere che le leggi, i regolamenti o le disposizioni, le pratiche o le azioni amministrative...” dei due Paesi “...non siano conformi ai diritti, alle libertà, ai principi fondamentali che essa riafferma”. Poi, con riferimento proprio al titolo della Carta sulla solidarietà, che contiene molte delle norme in tema di diritto del lavoro e diritto sindacale, nel paragrafo 2 dell’art. 1, si dice che “nulla contenuto nel titolo IV della Carta crea diritti rivendicabili dinanzi a un organo giurisdizionale applicabili alla Polonia e al Regno Unito salvo nella misura in cui la Polonia e il Regno Unito ha previsto tali diritti nel diritto interno”. Ci si chiede che senso avrebbero queste previsioni normative, che impediscono la (completa) operatività della Carta in quei due ordinamenti interni, se l’art. 6 del Trattato di Lisbona non riconoscesse un’efficacia vincolante alle disposizioni nella versione rivista del documento di Nizza.
Andando un po’ oltre, ci si potrebbe domandare perché la Carta dei diritti fondamentali non è stata inserita a pieno titolo nel Trattato del 2007. La risposta potrebbe essere ravvisata proprio nella presenza del Protocollo che assicura l’opting out britannico e polacco, in quanto se due Stati membri rifiutano o, meglio, limitano l’applicazione dei diritti fondamentali tutelati a livello comunitario, sarebbe stato molto strano inserire le norme che prevedono quei diritti (e quei principi) nella nuova fonte di diritto primario dell’Unione europea. D’altronde, con riferimento al diritto del lavoro, c’è un precedente storico in tal senso. Quando nel 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht, le maggiori innovazioni in materia di politica sociale restarono al di fuori del testo del trattato e furono confinate in un documento separato, l’Accordo sulla politica sociale, proprio a causa dell’opting out, proveniente, in quella circostanza, dal solo Regno Unito. I due episodi non sono perfettamente coincidenti e le modalità con cui è stato effettuato l’opting out sono differenti, tuttavia questa potrebbe essere una delle ragioni che hanno spinto alla scelta di una soluzione di questo genere per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti fondamentali.  

 

5. Passando alle situazioni giuridiche tutelate nella Carta di Nizza, possono essere definite diritti fondamentali di nuova generazione, o, per meglio dire, di nuova sistemazione, visto che non tutti i diritti riconosciuti in questo documento costituiscono un’assoluta novità nel panorama del Diritto del lavoro comunitario, ma, come si è visto, già fanno parte del patrimonio dell’Unione attraverso le pronunce della Corte di giustizia. Quel che rappresenta un reale cambiamento è piuttosto la loro catalogazione in un unico documento normativo , considerato che la mancanza di un elenco di questo genere era stata indicata come una delle ragioni del ricorso, da parte del legislatore europeo, a “standard minimi comuni a tutti, con la conseguenza di interferire con l’azione dei legislatori periferici” (D’Antona 1992, p. 318). Sicché, il riconoscimento ai diritti sociali fondamentali del rango di norme di diritto primario dell’Unione (sul punto v. Bifulco 2003 e Mutarelli 2007) è in linea con il nuovo corso comunitario, che privilegia, rispetto al passato, tecniche regolative meno invasive delle competenze degli Stati membri, senza però prescindere da un contemporaneo intervento normativo forte, quale il rinvio alla Carta da parte del nuovo Trattato.
Una delle innovazioni maggiori del documento di Nizza (già nella sua versione del 2000) è che, per la prima volta, sono posti sul medesimo piano diritti civili e politici, da un lato, e diritti sociali, dall’altro (De Schutter 2003, p. 214). E non è un fatto di poco conto: “con l’inserimento dei diritti sociali nella categoria dei diritti fondamentali, i diritti divengono ‘indivisibili’, nel senso che tutti i diritti [ivi] consacrati ... hanno eguale rango” (Ballestrero 2000, p. 559). 
Il riconoscimento del rango di diritto primario delle situazioni giuridiche protette deve fare i conti, però anzitutto con il già citato art. 52, par. 5 della Carta medesima, che prevede la distinzione fra “diritti” e “principi” fondamentali: soltanto i primi sono immediatamente azionabili, mentre i secondi possono essere attuati da atti normativi dell’Unione europea e degli Stati membri qualora diano attuazione al diritto comunitario. In altre parole, mentre i diritti sono immediatamente giustiziabili, i principi sono giustiziabili per il tramite di un intervento legislativo (Giubboni 2004). Diventa perciò cruciale individuare gli indici di “qualificazione”, come diritti o come principi, delle previsioni normative contenute nella Carta, e, a tal proposito, il principale criterio sembrerebbe essere rappresentato dalla formulazione delle norme, nel senso che più sono precise e puntuali, più è probabile contengano la previsione di un diritto. Pertanto, è quanto mai opportuno analizzare il contenuto delle norme che tutelano i diritti sociali: si va dalla riaffermazione e dal riassetto di situazioni giuridiche già consolidate nell’ordinamento comunitario e garantite ad ogni individuo e quindi anche a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla qualificazione del rapporto - come, ad esempio, la regola di non discriminazione sancita dall’art. 21, che, però, distinta dal principio di eguaglianza formale (art. 20) e declinata al negativo, si applica anche ai rapporti interprivati (Del Punta 2001, p. 335 ss.); la parità fra uomini e donne nell’occupazione, nel lavoro e nella retribuzione (art. 23); la garanzia di accesso ad un servizio di collocamento gratuito (art. 29); il divieto di lavoro minorile (art. 32) - alla previsione di situazioni giuridiche “particolarmente situate”, vale a dire limitate solo ad una categoria di soggetti, ai lavoratori, e, in particolare, almeno stando alle espressioni utilizzate nelle norme, ai lavoratori subordinati, come, fra le altre, la tutela contro ogni licenziamento ingiustificato (art. 30), la limitazione della durata massima del lavoro e la previsione di periodi di riposo e di ferie retribuite (art. 31), la previsione di congedi per maternità e di congedi parentali (art. 33). Tutte le disposizioni menzionate sono caratterizzate dall’utilizzo di espressioni circostanziate, tali da far ritenere che le situazioni giuridiche cui esse fanno riferimento siano dei veri e propri diritti. Al contrario, sembrano essere enunciazioni di soli principi le disposizioni in tema di sicurezza ed assistenza sociale (art. 34), visto che utilizzano formulazioni più generiche e sono corredate da importanti rinvii alla legislazione comunitaria e alle normative nazionali.
E’ necessario poi evidenziare come altre norme della Carta di Nizza confermano che il Diritto del lavoro europeo, nonostante il ricorso in altri campi a strumenti normativi non vincolanti (v. ad esempio il Metodo Aperto di coordinamento delle politiche occupazionali o di inclusione sociale), continua ad utilizzare tecniche regolative che potremmo definire di hard law. In particolare, l’art. 52, par. 1, introduce un meccanismo di derogabilità relativa dei diritti e delle libertà riconosciute nella Carta. Tale norma prevede che i diritti fondamentali sono inderogabili nel loro “contenuto essenziale”, mentre possono essere apportate limitazioni dalla legge, nel rispetto del principio di proporzionalità “solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. A parte i numerosi interrogativi sollevati da questa formula , quel che preme rilevare è che la Carta non autorizza, al di fuori di questo, altri meccanismi di derogabilità: cosicché, non solo la legge, molto probabilmente quella nazionale, neanche l’autonomia negoziale - né individuale, né collettiva, e, per quanto riguarda quest’ultima, né comunitaria, né interna - può prevedere deroghe ai diritti fondamentali dei lavoratori. E questo a riprova del fatto che, ancora una volta, l’ordinamento comunitario non esita ad utilizzare meccanismi cogenti, per di più molto diffusi nei sistemi giuridici interni, come l’inderogabilità, quando è necessario tutelare diritti fondamentali della persona, in generale, e dei lavoratori, in particolare.
Tuttavia, la tecnica dell’inderogabilità relativa è riferita esclusivamente ai diritti e quindi la sua operatività è strettamente collegata alla soluzione del problema della distinzione fra diritti e principi, contenuta nell’art. 52, par. 5 della Carta, questione alla quale si è fatto riferimento in precedenza. Dunque quante più previsioni della Carta dei diritti fondamentali si reputa contengano diritti, tanto più sarà operativa la tutela forte fornita dal meccanismo dell’inderogabilità. Ed è per questo motivo che l’interpretazione suggerita di far riferimento alla lettera delle norme, individuando i diritti nelle previsioni che contengono espressioni precise e puntuali di tutela della persona o del lavoratore, implica un allargamento della protezione di quei soggetti.                   
Per quanto riguarda l’influenza del diritto comunitario sul sistema giuridico italiano, dall’analisi della disposizione sull’inderogabilità dei diritti fondamentali si può dedurre una conseguenza importante, e cioè che l’ordinamento nazionale non potrà utilizzare tale previsione per compiere “atti emulativi” nel contesto interno, prevedendo altri meccanismi di derogabilità. Infatti, l’art. 52.1 non fornisce un’autorizzazione in tal senso, perché la norma va letta in armonia con l’art. 53, che ha introdotto una sorta di sussidiarietà al rialzo, prevedendo che “nessuna disposizione della …Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti …dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali…e dalle Costituzioni degli Stati membri”. Quindi, l’inderogabilità relativa dei diritti fondamentali è rafforzata e giustificata dalla previsione di uno “zoccolo minimo di diritti”, riconosciuto da fonti di pari rango assicurato nell’ordinamento comunitario dal meccanismo della sussidiarietà, espediente che è assente nei contesti interni. I diritti sociali tutelati a livello europeo, nelle fonti primarie, non possono prescindere, quindi, da quelli già riconosciuti dalla Costituzione italiana e, nel caso in cui un diritto sia tutelato da entrambe le fonti, europea e interna, non potrà che applicarsi la disposizione che prevede il maggiore livello di protezione per il titolare di quel diritto. Pertanto, quando entrerà in vigore il Trattato di Lisbona, sarà necessario il confronto fra i diritti sociali fondamentali riconosciuti dai due ordinamenti, perciò il diritto comunitario in quest’ambito svolgerà un ruolo di integrazione delle situazioni giuridiche protette dal sistema nazionale e non comporterà una riduzione della soglia di protezione dei diritti sociali fondamentali.

 

6. In questa situazione, interessa fermare l’attenzione sui diritti prima definiti “particolarmente situati”, per tornare a riflettere sulla questione del loro ambito di applicazione soggettivo. Infatti, pur ritenendo che tali situazioni giuridiche siano riferibili ai soli lavoratori dipendenti, è necessario, ricollegandosi a quanto detto a proposito della libertà di circolazione, interpretare la subordinazione sul piano comunitario e non a livello degli ordinamenti interni. E’ questo un passaggio basilare senza il quale si rischia di depotenziare la previsione dei diritti fondamentali, che saranno inseriti nel Trattato di Lisbona. Occorrerebbe in proposito un intervento ad hoc del legislatore comunitario che individuasse i “connotati” del lavoratore subordinato, ma, in assenza di questo, un’operazione di tal genere potrebbe essere realizzata dalla Corte di giustizia, chiamata a confermare la necessità di un’applicazione uniforme dei principi e dei diritti fondamentali, anche di natura sociale. Non ci sono ragioni valide per le quali i giudici di Lussemburgo non dovrebbero proporre una definizione di lavoratore dipendente, fondata su criteri diversi da quelli tradizionalmente utilizzati negli ordinamenti nazionali, attraendo in tal modo nel campo di applicazione dei diritti fondamentali “particolarmente situati” anche i prestatori di lavoro, che, secondo i sistemi nazionali, non sarebbero qualificati come lavoratori dipendenti ed in particolare coloro che svolgono la loro prestazione nell’ambito di un rapporto di lavoro collocabile ai confini della subordinazione. In altre parole, è un caso, questo, in cui la regolamentazione e l’interpretazione giurisprudenziale delle norme europee, pur se legate a filo doppio alle esigenze del libero mercato, possono essere adoperate per estendere il campo di applicazione dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, agendo sulla nozione comunitaria di lavoratore subordinato.
Per di più, oltre che ragioni di coerenza con la precedente giurisprudenza comunitaria citata all’inizio di questo contributo, sarebbero anche motivi di carattere economico, seppure differenti da quelli adoperati in tema di libertà di circolazione, ad avvalorare un’interpretazione di questo genere. Se non esistesse una nozione europea di lavoratore subordinato, utilizzabile a questi fini, sarebbe lasciata ai singoli Stati la possibilità di scegliere l’estensione dell’applicazione di alcuni dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, verificandosi in tal modo un’indebita disparità fra i diversi sistemi nazionali, con possibili violazioni della libera concorrenza fra le imprese e rischi di dumping sociale. Si pensi all’ipotesi di uno Stato che disegni una nozione di subordinazione più ampia rispetto a quella di un altro Stato, oppure all’ipotesi di un Paese, che, pur riconoscendo i diritti “particolarmente situati” solo ai lavoratori dipendenti, secondo la nozione interna di subordinazione, preveda di ampliare considerevolmente il ricorso a forme di lavoro al di fuori dell’area della subordinazione. Nel primo esempio, le imprese del Paese con un’ampia nozione di subordinazione sarebbero in una situazione di svantaggio competitivo rispetto a quelle operanti nell’altro sistema nazionale; mentre nel secondo esempio, ad essere sfavorite sarebbero le realtà imprenditoriali operanti in Stati in cui pur essendoci un riconoscimento differenziato dei diritti sociali fondamentali, presentano percentuali più alte di ricorso al lavoro dipendente.
Insomma, pure nel caso dei diritti fondamentali di nuova generazione (o, meglio, di nuova sistemazione), impiegando motivazioni di tipo squisitamente economico, oltre che di coerenza con gli orientamenti giurisprudenziali europei precedenti, e salvaguardando un principio-cardine dell’Unione, quale quello della libera concorrenza, si dovrebbe arrivare al risultato di un’interpretazione estensiva dell’applicazione dei diritti fondamentali dei lavoratori, continuando a ricorrere alla nozione europea di lavoratore subordinato delineata con riferimento al principio fondamentale di libertà di circolazione . Al contrario, una conclusione diversa imporrebbe di rivedere l’interpretazione del campo di applicazione dei diritti fondamentali di vecchia concezione e di riformare gli ormai consolidati orientamenti in materia della Corte di giustizia. 
Un’impostazione di questo tipo si consoliderebbe con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Solo con la nuova fonte primaria, infatti, è confermata definitivamente la pari dignità dei diritti e delle libertà fondamentali di vecchia generazione, vale a dire quelli esistenti dalle origini della Comunità, e dei diritti tutelati più recentemente dall’ordinamento europeo, come la gran parte dei diritti sociali. Tutte queste situazioni giuridiche saranno collocate, anche formalmente, sullo stesso piano giuridico, dal momento che nel nuovo Trattato confluirà il vecchio Trattato istitutivo e la Carta di Nizza si eleverà al rango di documento vincolante. La nuova fonte primaria dell’Unione sancisce definitivamente l’esistenza di una trama più ampia di diritti fondamentali, dando in questo modo conferma alla tesi della possibilità di adoperare le esegesi legate ai principi fondamentali già da tempo riconosciuti a livello comunitario, come, ad esempio, proprio la libertà di circolazione, anche alle nuove situazioni giuridiche tutelate.   
Non si propone l’automatica estensione dei diritti sociali a tutti i lavoratori, né si suggerisce di “esautorare” i legislatori nazionali dal compito di qualificare il rapporto di lavoro subordinato. Ciò che invece si auspica è che, quando (e se) il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, la Corte di giustizia predisponga una nozione di subordinazione ai fini dell’applicazione dei diritti sociali sulla falsariga della libertà di circolazione, lasciando ai sistemi giuridici degli Stati membri la possibilità di continuare ad elaborare le proprie definizioni. Naturalmente, così facendo, potrebbe accadere che la nozione comunitaria sia differente rispetto ad una delle nozioni interne. Le conseguenze sarebbero o l’accertamento della compatibilità della definizione nazionale con quella europea - nel senso che, ad una verifica del giudice interno della presenza degli elementi indicati dalla giurisprudenza comunitaria, risulti che quel determinato rapporto di lavoro si configuri come subordinato alla luce sia dell’ordinamento europeo, sia di quello nazionale - oppure si potrebbe verificare che una determinata fattispecie sia ricollegabile alla sola nozione di subordinazione elaborata dalla Corte di giustizia, cosicché il giudice comunitario non potrebbe far altro che prendere atto dell’applicazione dei diritti sociali fondamentali al lavoratore titolare di quel rapporto. In questo secondo caso, si realizzerebbe il riconoscimento di quei diritti a prestatori di lavoro, che, per l’ordinamento interno, non sono qualificabili come dipendenti e, quindi, di fatto, l’estensione a quei lavoratori, subordinati solo secondo l’ordinamento comunitario, delle garanzie riconosciute dal Trattato di Lisbona. Fra tali lavoratori rientrerebbero i prestatori di lavoro che in Italia si collocano ai margini dell’area della subordinazione. Infatti, la tendenza ad estendere l’applicazione dei diritti fondamentali è confermata da vari interventi del legislatore italiano, la cui attitudine è quella di moltiplicare le forme di lavoro anche all’esterno dell’area della subordinazione (attraverso, ad esempio, la regolamentazione del lavoro a progetto: artt. 61-69, d.lgs. 276/2003), riconoscendo a questi lavoratori alcuni dei diritti tutelati a livello europeo (sul punto, v. Zoppoli L. 2006, pp. 15-30; Calcaterra 2008 e Gargiulo 2008). Nella normativa italiana, soprattutto in quella più recente, si va dal divieto di estinzione del rapporto contrattuale in caso di gravidanza della lavoratrice a progetto (art. 66, co. 1, d.lgs. 276/2003), riconducibile al diritto di essere tutelato contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità di cui all’art. 33, par. 2 della Carta di Nizza, all’applicazione delle norme sulla sicurezza e igiene del lavoro di cui al d.lgs. 626/1994, assicurato dall’art. 66, co. 4, d.lgs. 276/2003 e ricollegabile al diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (art. 31, par. 1 della Carta). Che il riconoscimento comunitario dei diritti sociali non è completo è testimoniato dal fatto che nel primo caso, è riconosciuta soltanto la tutela nell’ipotesi di licenziamento della lavoratrice in gravidanza, mentre non è prevista una forma di protezione generale per la cessazione del rapporto del lavoratore a progetto, mancando una norma ricollegabile all’art. 30 della Carta, che garantisce il diritto di tutti i lavoratori alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato. Al contrario, nel secondo esempio, la scelta del legislatore italiano è stata nel senso della completa applicazione della disciplina in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
Si può quindi dire che la strada del riconoscimento di tutti i diritti sociali tutelati dal nuovo Trattato a quei lavoratori che svolgono la propria prestazione nell’ambito di un rapporto di lavoro che, secondo l’ordinamento europeo, sarebbe qualificato come subordinato è ancora lunga e i recenti interventi legislativi rappresentano solo un primo passo in quella direzione. E’ bene ricordare, poi, che l’ampliamento dei diritti sociali fondamentali non implicherebbe il riconoscimento della medesima tutela prevista per i lavoratori dipendenti secondo l’ordinamento nazionale: è possibile, infatti, pur riconoscendo gli stessi diritti, differenziare il livello di protezione dei lavoratori.    

 

7. Come si è visto, il discorso sui diritti fondamentali ha tratto nuova linfa negli ultimi mesi soprattutto dal tormentato varo del Trattato di Lisbona, che conferirebbe alla Carta di Nizza (riveduta e corretta) un’efficacia vincolante, in ogni caso superiore a quella ora posseduta. Più o meno parallelamente al discorso sul nuovo Trattato e sui diritti fondamentali, l’Europa sociale è stata percorsa dal dibattito sulla flexicurity (v. Zoppoli L., Delfino 2008), che ha visto coinvolte quasi tutte le istituzioni europee, le parti sociali e la società civile anche se non ha condotto alla produzione di norme vincolanti, ma alla predisposizione di una serie di documenti comunitari a partire dal Libro Verde del 2006 (su questo primo documento v.: Ferraro 2007; Ghera 2007; Grandi 2007; Hyman 2007; Mariucci 2007) .
Anzitutto, occorre tracciare i contorni della nozione di flexicurity (v. Caruso, Massimiani 2007)e per ricavarla è d’aiuto non tanto il documento del 2006, quanto la Comunicazione della Commissione del luglio 2007. Tale Comunicazione sembra suggerire un duplice significato del concetto, riferendosi alla flexicurity nel mercato e nel rapporto di lavoro (Zoppoli A. 2007). Inoltre, la medesima nozione va scomposta nei due elementi principali della flexibility e della security. Secondo la Commissione, la flexibility nel mercato del lavoro consiste nelle “transizioni virtuose” cha caratterizzano la vita lavorativa, ovvero nei passaggi dalla disoccupazione al lavoro, dalla scuola al lavoro, da un rapporto di lavoro ad un altro, dal lavoro alla pensione, e non è limitata soltanto alla libertà per le imprese di assumere o licenziare, né implica che i contratti a tempo indeterminato siano ormai superati. Invece, la sicurezza nel mercato è vista come la capacità del lavoratore di realizzare un miglioramento nella vita lavorativa e di accedere a nuovi lavori, in particolar modo attraverso la formazione continua.
Tuttavia, flessibilità e sicurezza, come elementi strutturali della flexicurity, vanno “declinate” anche all’interno del rapporto di lavoro. In tale ambito, la flessibilità è riferita all’organizzazione del lavoro, che dovrebbe essere in grado di adattarsi rapidamente alle necessità della produzione e alla conciliazione fra la vita lavorativa e la vita privata. La sicurezza nel rapporto è vista soprattutto come la garanzia di conservare il lavoro, ma anche come il grado di protezione fornito dall’ordinamento giuridico al lavoratore nell’ambito della fattispecie contrattuale utilizzata.
Ciò detto, è chiaro che nel concetto di flexicurity occorre sintetizzare e bilanciare la flessibilità e la sicurezza nel rapporto e nel mercato e la realizzazione di una sintesi e di un bilanciamento simili è difficoltosa.
Le ragioni che hanno spinto le istituzioni comunitarie ad adoperare questo concetto vanno ricercate nel tentativo, soprattutto della Commissione, di sopperire allo stallo della regolamentazione (se non altro di quella vincolante, con riferimento almeno alle norme di diritto derivato), che caratterizza la fase attuale del diritto del lavoro europeo. Questo stallo, forse fisiologico a causa degli ingressi degli ultimi Stati membri, è indicativo dell’atteggiamento dell’Unione europea in materia sociale, volto a favorire l’adattabilità dei lavoratori come leva per conservare all’UE un ruolo economico su scala complessiva e, quindi, diretto a prediligere ancora, per alcuni versi, la prospettiva “mercantilistica”, anche se la posizione comunitaria non appare univoca e il dibattito sulla flexicurity registra voci dissonanti. E’ questa la ragione per la quale vanno tenute in considerazione, all’interno dell’Unione, oltre a quella della Commissione, le posizioni del Parlamento europeo e, all’esterno, di alcuni Paesi membri, delle parti sociali europee e degli attori non istituzionali.
Un tratto comune di queste posizioni va individuato nella sottolineatura della mancanza di qualsiasi riferimento, nei documenti della Commissione, alla Carta di Nizza, quasi come se per quest’istituzione comunitaria quel documento non esistesse e non stesse per ottenere un’efficacia vincolante, grazie alla ratifica del Trattato di Lisbona. Ciò è avvenuto nonostante l’Esecutivo europeo si fosse formalmente impegnato, sin dal 21 marzo 2001, “a tenere in massima considerazione le norme della Carta di Nizza nella propria attività” (Bronzini 2007 p. 513).
Un esempio eloquente di quest’atteggiamento è dato dalla materia del licenziamento (sul punto v. Zoppoli L. 2007 e Tebano 2008). Infatti, in molti punti dei documenti della Commissione sulla flexicurity è evidenziata, direttamente o indirettamente, la centralità della regolamentazione della risoluzione del rapporto di lavoro nella disciplina del mercato del lavoro comunitario e di quelli nazionali, ma in nessuna delle ipotesi è ricordata l’esistenza dell’art. 30 della Carta di Nizza, secondo il quale “ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.
Il Parlamento europeo, invece, non sottovaluta la presenza del catalogo dei diritti fondamentali in nessuna delle due risoluzioni emanate in materia di flexicurity (Gottardi 2007). Nella prima, del luglio 2007, “ritiene che il miglioramento del diritto del lavoro debba essere coerente con i principi della Carta dei diritti fondamentali, con particolare riferimento al titolo IV, e debba rispettare e salvaguardare i valori del modello sociale europeo e i diritti sociali consolidati” (lett. V, punto 3). Nella seconda, del novembre 2007, inserisce nel preambolo un riferimento agli artt. 15 e 20 e da 27 a 38 della Carta (sempre quelli in tema di solidarietà) e “in particolare [a]i diritti alla protezione in caso di licenziamento ingiustificato e a condizioni di lavoro corrette ed eque”.
Inoltre - come si evince dalla Comunicazione della Commissione dell’ottobre 2007, nella quale si dà conto dei risultati della consultazione pubblica avviata dal Libro Verde – molti attori interessati (Stati membri, sindacati, accademici) hanno avanzato critiche alla sottovalutazione del tema dei diritti fondamentali, affermando che “la riforma del diritto del lavoro dovrebbe essere inserita fin dall’inizio nel quadro rappresentato dai diritti fondamentali, in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Ciononostante, le istituzioni comunitarie, con l’eccezione del Parlamento europeo, continuano ad essere sorde a questi richiami, richiami fondati sulla constatazione che non si può procedere alla modernizzazione del diritto del lavoro europeo, auspicata dal Libro Verde, senza prevedere il riconoscimento, a quel livello, di una base di diritti della persona e del lavoratore. Il Parlamento europeo evidenzia quest’elemento nella seconda delle sue risoluzioni sulla flexicurity, ove “sottolinea che la lotta contro la segmentazione del mercato del lavoro includerà la garanzia dei diritti fondamentali per tutti i lavoratori, a prescindere dal loro status specifico”, indicando espressamente una serie di diritti che corrispondono a quelli della Carta di Nizza (punto 28, Risoluzione del 29 novembre 2007). Nel medesimo atto si ricorda che “i diritti fondamentali e il diritto del lavoro contribuiscono a fornire condizioni di vita e di lavoro dignitose, una retribuzione adeguata, nonché una protezione sociale che comportano la garanzia delle condizioni minime per una vita dignitosa” (sempre punto 28). D’altronde, l’esperienza dimostra che solo laddove i diritti della Carta di Nizza sono stati presi sul serio, ovvero, ad esempio, nei Paesi che applicano il modello scandinavo, “sono divenuti le vere risorse per una imponente e partecipata trasformazione sociale che ha consentito di coniugare nei fatti flessibilità e sicurezza” (Bronzini 2007 p. 522).
Per questi motivi, i “Principi comuni di flessicurezza”, presentati al Consiglio europeo di Bruxelles del 6 dicembre 2007 e che costituiscono l’ultimo atto del percorso verso la flexicurity, sono assolutamente insufficienti nella prospettiva della protezione dei diritti fondamentali. In quei principi non si fa alcun cenno alla Carta dei diritti fondamentali e gli unici rinvii ai diritti ivi tutelati o sono abbastanza vaghi, come nell’affermazione secondo la quale “la flessicurezza implica un equilibrio tra diritti e responsabilità di tutti gli interessati” (principio n. 3), oppure sono soltanto indiretti, come nell’affermazione secondo la quale “la flessicurezza dovrebbe supportare la parità di genere promuovendo un accesso equo a un’occupazione di qualità per le donne e gli uomini e offrendo misure per conciliare il lavoro, la famiglia e la vita privata” .

 

Riferimenti bibliografici

Alaimo A. (2008), Il diritto al lavoro fra Costituzione nazionale e Carte europee dei diritti: un diritto “aperto” e “multilivello”, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT, n. 60, in www.lex.unict.it .
Ales E. (2007), Modello sociale europeo e flexicurity: una sorta di “patto leonino” per la modernizzazione, in Dir. lav. merc., p. 523 ss.
Ballestrero M.V. (2000), Brevi osservazioni su costituzione europea e diritto del lavoro italiano, in Lav. dir., p. 559.
Ballestrero M.V. (2007), Europa dei mercati e promozione dei diritti, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT, n. 55, in www.lex.unict.it .
Barbera A. (2001), La Carta europea dei diritti: una fonte di ri-cognizione?, in Dir. un. eur., p. 241
Bifulco D. (2003), L’inviolabilità dei diritti sociali, Jovene, p. 225 ss.
Bisogni G., Bronzini G., Piccone V. (a cura di) (2006), I giudici e la Carta dei diritti dell’Unione europea, Chimienti.
Bronzini G. (2007), Flexicurity e “nuovi” diritti sociali, in Dir. lav. merc., p. 509 ss.
Calcaterra L. (2008), Diritto al lavoro e diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato. Carta di Nizza e Costituzione italiana a confronto, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT, n. 58, in www.lex.unict.it .
Carinci F., Pizzoferrato A. (2000), “Costituzione” europea e diritti sociali fondamentali, in Lav. dir., p. 280 ss.
Caruso B. (2008), I diritti sociali nello spazio sociale sopranazionale e nazionale: indifferenza, conflitto o integrazione? (Prime riflessioni a ridosso dei casi Laval e Viking), WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. INT, n. 61, in www.lex.unict.it .
Caruso B., Massimiani C. (2007), Prove di democrazia in Europa: la “flessicurezza” nel lessico ufficiale e nella pubblica opinione, in Dir. lav. merc., p. 457 ss.
D’Antona M. (1992), Mercato unico europeo ed aree regionali deboli: le conseguenze giuridiche, in Lav. dir., p. 49
Davies P., Lyon-Caen A., Sciarra S., Simitis S. (eds) (1996), European Community Labour law: Principles and Perspectives, Clarendon Press
De Schutter O. (2003), La garanzia dei diritti e principi sociali nella “Carta dei diritti fondamentali” in Zagrebelsky G. (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Laterza, p. 214
Del Punta R. (2001), I diritti sociali come diritti fondamentali: riflessioni sulla Carta di Nizza, in Dir. rel. ind., p. 335 ss.
Delfino M. (2007), Flexicurity, fonti del diritto del lavoro e rapporto fra ordinamenti, in Dir. lav. merc., p. 487 ss.
di Majo F.M. (2001), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: aspetti giuridici e politici, in Eur. dir. priv., p. 56 ss.
Ferraro G. (2007), Prospettive di attuazione del Libro Verde della Commissione europea, in Dir. rel. ind., p. 1013 ss.
Gargiulo U. (2008), Licenziamento e lavori atipici: brevi note alla luce del Libro Verde, in Zoppoli L., Delfino M. (a cura di), Flexicurity e tutele. Il lavoro tipico e atipico in Italia e in Germania, Ediesse, p. 125 ss.
Ghera E. (2007), Alcune osservazioni sul Libro Verde, in Dir. rel. ind., p. 1006 ss.
Giubboni S. (2004), Lavoro e diritti sociali nella “nuova” Costituzione europea. Spunti comparatistici, in Dir. lav. merc. p. 557 ss.
Gottardi D. (2007), La flexicurity al vaglio del Parlamento europeo, in Dir. lav. merc., p. 477 ss.
Grandi M. (2007), Il diritto del lavoro europeo. Le sfide del XXI secolo, in Dir. rel. ind., p. 1022 ss.
Greco S. (2001), I diritti fondamentali nella costituzione europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001.
Hyman R. (2007), Il futuro del principio “il lavoro non è una merce” tra mercato e stato sociale, in Dir. rel. ind., p. 988 ss.
Kenner J. (2005), La Costituzione che non c’è mai stata: si può salvare qualcosa dal naufragio?, in Dir. lav. merc., p. 563 ss.
Mancini F. (1989), L’incidenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro degli Stati membri, in Riv. dir. eur., p. 9 ss.
Maretti S. (2003), L’incorporazione del diritto comunitario del lavoro. Le nozioni di datore di lavoro, lavoratore e rappresentanze dei lavoratori, Giappichelli.
Mariucci L. (2007), La modernità del diritto del lavoro, in Dir. rel. ind., p. 979 ss.
Mutarelli M.M. (2007), Il ruolo potenziale dei diritti sociali fondamentali nel Trattato costituzionale dell’Unione europea, in Riv. giur. lav., I, p. 617 ss.
Pallini M. (2008), Law shopping e autotutela sindacale nell’Unione europea, in Riv. giur. lav., I, p. 3 ss.
Revilla Esteve E. (2004), La nozione di lavoratore subordinato nel diritto comunitario e nel diritto nazionale, in Dir. lav. merc., p. 63 ss.
Ricci G., Tempi di lavoro e tempi sociali, Giuffrè, 2003.
Roccella M. (2001), La Carta dei diritti fondamentali: un passo avanti verso l’unione politica, in Scarponi S. (a cura di), Globalizzazione e diritto del lavoro, Giuffrè, p. 145 ss.
Rusciano M. (2006), Il diritto del lavoro di fronte alla Costituzione europea, in Riv. giur. lav., I, p. 891 ss.
Santagata R. (2007), Qualificazione del lavoro dipendente e mobilità in ambito comunitario, in Dir. lav. merc., p. 547 ss.
Santucci R. (2007), Flexicurity e conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro, in Dir. lav. merc., p. 581 ss.
Scarponi S. (a cura di) (2001), Globalizzazione e diritto del lavoro, Giuffrè.
Sciarra S. (1996), Diritti sociali fondamentali, in Baylos Grau A., Caruso B., D’Antona M., Sciarra S. (a cura di), Dizionario di Diritto del lavoro comunitario, Monduzzi, p. 71 ss.
Sciarra S. (2003), La costituzionalizzazione dell’Europa Sociale. Diritti fondamentali e procedure di soft law, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 24, in www.lex.unict.it
Sciarra S. (2004), The Evolution of Labour Law (1992-2003) – General Report Final Draft.
Sciarra S. (2007), Diritti fondamentali e principi generali di diritto europeo: alcuni esempi nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia, in Bronzini G., Piccone V. (a cura di), La Carta e le Corti, Chimienti, p. 105.
Tebano L. (2008), Il regime sanzionatorio del licenziamento tra disciplina nazionale e sollecitazioni comunitarie, in Zoppoli L., Delfino M. (a cura di), Flexicurity e tutele. Il lavoro tipico e atipico in Italia e in Germania, Ediesse, p. 175 ss.
Treu T. (2000), Diritti sociali europei: dove siamo, in Lav. dir., p. 429 ss.
Veneziani B. (2000), Nel nome di Erasmo da Rotterdam. La faticosa marcia dei diritti sociali fondamentali nell’ordinamento comunitario, in Riv. giur. lav., I, p. 779 ss.
Veneziani B. (2006), La Costituzione europea, il diritto del lavoro e le icone della solidarietà, in Ferrara G., Pallini M. Veneziani B., Costituzione europea: quale futuro?, Ediesse, p. 9 ss.
Veneziani B. (2008), La Corte di giustizia ed il trauma del cavallo di Troia, in Riv. giur. lav., II, p. 275 ss.
Vigneau C. (2006), La Costituzione europea nella prospettiva dell’Europa sociale: progressi dalla portata incerta, in Dir. lav. merc., p. 123 ss.
Zagrebelsky G. (a cura di) (2003), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Laterza
Ziller J. (2007), Il nuovo Trattato europeo, il Mulino.
Zoppoli A. (2007), La soggettività economico-professionale del lavoratore nelle politiche di flexicurity, in Dir. lav. merc., p. 535 ss.
Zoppoli L. (2006), Lavoro, impresa e Unione europea, Franco Angeli.
Zoppoli L. (2007), Flexicurity e licenziamenti: la strict Employment Protection Legsilation, in Dir. lav. merc., p. 597 ss.
Zoppoli L. (2008), Individuale e collettivo nel diritto del lavoro: la persona come radice comune, in Lav. dir., p. 241 ss, in corso di stampa.
Zoppoli L., Delfino M. (a cura di) (2008), Flexicurity e tutele. Il lavoro tipico e atipico in Italia e in Germania, Ediesse.

* Questo contributo è stato elaborato nell’ambito della ricerca CNEL 2008 dal titolo “La riforma delle istituzioni e le politiche europee dopo il Trattato di Lisbona”, commissionata al Centro Internazionale di Studi Sociali, presieduto da Antonio Lettieri.

· Ricercatore di Diritto del lavoro nell’Università di Napoli Federico II.

Quest’orientamento è confermato, fra gli altri, dai casi C.P.M. Meeusen, Cgce 8 giugno 1999, causa C-337/97, Ninni-Orasche, Cgce 6 novembre 2003, causa C-413/01 e Collins, Cgce 23 marzo 2004, causa C-138/02. Sulla nozione di lavoratore subordinato ai fini della libertà di circolazione, v. Maretti 2003, p. 182 ss.

Si tratta delle sentenze della Corte di giustizia, rispettivamente, 3 luglio 1986, causa C-66/85, in Racc., 1986, p. 2121, 3 giugno 1986, causa C-139/85, in Racc., 1986, p. 1741 e 21 giugno 1988, causa C-197/86, in Racc., 1988, p. 3025: sul punto, v. Revilla Esteve 2004 e Santagata 2007.

  D’altronde, questa interpretazione ben si colloca nell’orientamento dottrinale, secondo il quale, la tutela di tutti i diritti fondamentali sarebbe rivolta al cittadino comunitario “economicamente attivo” (v. Greco S. 2001, sp. p. 203).  

Si tratta del caso Troiani, Cgce 7 settembre 2004, causa C-456/02.

Sent. Bettray, 31 maggio 1989, causa C-344/87, punto 16.

Così Corte di giustizia 12 dicembre 2002, causa C-442/00, Caballero c. Fondo de Garantia; v. anche Corte di giustizia 27 giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento europeo c. Consiglio.

Sentenze 15 giugno 1978, causa C-149/77, Defrenne III; 20 marzo 1984, cause C-75/82 e 117/82, Razzouk e Beydoun c. Commissione; 30 aprile 1996, causa C-13/94, P.

Corte di giustizia 10 febbraio 2000, causa C-50/96, Deutsche Telekom AG c. Schröder, punto 57.

22 novembre 2005, causa C-144/04.

11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA.

Causa C- 81/05, Cordero Alonso c. Fondo del Garantía Salarial.

13 settembre 2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso c. Osakidetza-Servicio Vasco de Salud.

Sentenza Del Cerro Alonso, cit., punto 42

Sentenza del 26 giugno 2001, causa C-173/99, Bectu c. Secretary of State for trade and industry.

Conclusioni Avv. Colomer dell’11 febbraio 2003 nella causa C-204/00 Aalborg Portland A/S c. Commissione e del 17 ottobre 2002 nella causa C-338/00, Walkswager c. Commissione, conclusioni Avv. Generale Tizzano dell’8 febbraio 2001, causa C-173/99, Bectu c. Secretary of State for trade and industry.

Conclusioni del 12 maggio 2005, causa C-207/04, Paolo Vergani c. Agenzia delle entrate.

Conclusioni del 20 ottobre 2005 nella causa C-426/04, Commissione c. Repubblica d’Austria.

Causa C-432/05, Unibet c. Justitiekanslern.

Rispettivamente dell’11 dicembre, causa C-438/05, e del 18 dicembre 2007, causa C-341/05: v. Caruso 2008; Pallini 2008; Veneziani 2008.

Le citazioni sono tratte dal punto 27 della Viking e dal punto 91 della Laval.

Si ricorda che la Convenzione europea aveva elaborato il Trattato costituzionale europeo, naufragato a causa dell’esito negativo dei referendum francese e olandese del 2005, composto di quattro parti, nella seconda delle quali si faceva confluire proprio la Carta dei diritti sociali fondamentali: v., fra gli altri, Kenner 2005, Rusciano 2006 e Vigneau 2006.

Su questi aspetti v. Ziller 2007, pp. 37-38 e, più in generale, sulla dimensione individuale del diritto del lavoro contemporaneo, v. Zoppoli L. 2008.

“La Carta…si pone come l’inizio di un processo di ‘comunitarizzazione’ … e allo stesso tempo di ‘codificazione’ di una serie di diritti provenienti da fonti diverse che fino ad oggi hanno trovato applicazione nell’Unione soltanto attraverso il rinvio ad altre fonti e concreta applicazione attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia” (di Majo 2001, p. 56). V. anche Barbera A. 2001, p. 241 e Roccella 2001, p. 145 ss.

Alcuni dei quali potrebbero essere: in cosa consiste l’“esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”? Qual è la “legge” che può prevedere deroghe ai diritti? Quella nazionale oppure la “legge europea”, ovvero il regolamento o la direttiva? Dove vanno rintracciate queste “finalità di interesse generale” dell’Unione? Un atto legislativo (interno o comunitario) potrebbe limitare i diritti dei lavoratori in base alla “necessità di mantenere la competitività dell’economia della Comunità” (Ballestrero M.V. 2001, p. 8), che è senz’altro uno dei valori europei posti a fondamento dell’UE e riconosciuti dal Trattato?

D’altronde, la necessità di estendere i diritti sociali oltre lo status di lavoratore tipico è stata messa in evidenza in dottrina: v. Treu 2000, il quale sottolinea “l’esigenza di superare la configurazione tradizionale dei diritti sociali, che li riferisce esclusivamente al lavoro subordinato, per allargarne l’ambito verso altri soggetti socialmente deboli (quali disoccupati, giovani, anziani, e anche lavoratori atipici” (sp. p. 436).

I documenti sono riportati qui di seguito in ordine cronologico: Libro Verde della Commissione del 22 novembre 2006, COM(2006) 708 def., intitolato Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo; Comunicazione della Commissione del 27 giugno 2007, COM(2007) 359 def., intitolata Verso principi comuni di flessicurezza: posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza; Risoluzione del Parlamento europeo dell’11 luglio 2007, (2007/2023(INI)), su Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo; Comunicazione della Commissione del 24 ottobre 2007, COM(2007) 627 def., intitolata Risultati della consultazione pubblica sul Libro verde della Commissione “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”; Risoluzione del Parlamento europeo del 29 novembre 2007, (2007/2209(INI)), su Principi comuni di flessicurezza; Allegato alle Conclusioni del Consiglio europeo del 14 dicembre 2007, intitolato Principi comuni di flessicurezza. Da ultimo, si segnalano: a) una nota della Commissione europea del 25 febbraio 2008, intitolata Mission for Flexicurity, attraverso la quale è stata nominato un organismo (denominato, appunto, Mission for Flexicurity e composto da rappresentanti della Commissione, dei Governi e delle parti sociali) ed è stata lanciata un’iniziativa pubblica volta a sostenere gli Stati Membri nella preparazione dei loro primi rapporti sull’implementazione dei principi comuni di flexicurity; b) una nota informativa sempre della Commissione europea del 5 maggio 2008, mediante la quale sono stati presentati i cinque Paesi membri (Francia, Svezia, Finlandia, Polonia e Spagna) che si sono offerti per una prima verifica del rispetto dei principi comuni.

Così il principio n. 6, che richiama implicitamente gli artt. 23, sulla parità tra donne e uomini e 33 sulla vita familiare e professionale, della Carta di Nizza: sulla conciliazione tempi di vita/tempi di lavoro, v. Santucci 2007.

Fonte: http://www.europeanrights.eu/public/commenti/Diritti_sociali_e_flexicurity.doc

Sito web da visitare: http://www.europeanrights.eu

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.

 

Il diritto comunitario del lavoro

 

 

I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore

Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).

 

Il diritto comunitario del lavoro

 

"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco

www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve

 

Argomenti

Termini d' uso, cookies e privacy

Contatti

Cerca nel sito

 

 

Il diritto comunitario del lavoro