Lavoro a chiamata

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Lavoro a chiamata

IL LAVORO A CHIAMATA: PROBLEMI E PROSPETTIVE

Le seguenti considerazioni sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione

La risposta inviata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali alla FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) in data 12 luglio 2004 impone, ad avviso di chi scrive, la necessità di fare il punto sulla tipologia contrattuale del lavoro intermittente, anche alla luce del correttivo al D. L.vo n. 276/2003, approvato in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 3 giugno u.s. e della persistente ritrosia delle parti sociali che rappresentano i lavoratori a normare le modalità di utilizzazione e la casistica come previsto dalla disposizione di riferimento.
Ma andiamo con ordine.
Con gli articoli compresi tra il 33 ed il 40, il Legislatore delegato introduce nel nostro ordinamento, in esecuzione di quanto previsto nella legge n. 30/2003, il contratto di lavoro intermittente (c.d. “contratto a chiamata” o “job an call”) che, già dal nome, appare caratterizzato da una forte dose di flessibilità. Esso è definito come un contratto di lavoro mediante il quale il prestatore si pone a disposizione di un datore di lavoro il quale lo può utilizzare nei limiti individuati dall’art. 34.
Il contratto può essere stipulato anche a tempo determinato: ovviamente, in questo caso, trova applicazione, per quel che concerne le causali, la disciplina specifica prevista dal D. L.vo n. 368/2001.
Uno degli scopi che sono alla base della nuova tipologia, sembra ravvisarsi nella necessità di ricondurre a prestazioni di lavoro subordinato, situazioni lavorative per le quali, sinora, si è fatto ricorso a “fatturazioni” per lavori autonomi che non presentano affatto tale caratteristica.
Ma quando può essere concluso un contratto di lavoro intermittente?
La disposizione parla di prestazioni a carattere discontinuo od intermittente individuate dalla contrattazione collettiva delle associazioni datoriali e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale (con possibilità, quindi, di accordi a livello locale) o, in via provvisoriamente sostitutiva, con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali che avrebbe dovuto essere emanato entro il 24 aprile 2004.
Ma le cose non sono andate, sinora, come il Legislatore delegato aveva ipotizzato. Infatti, non si è arrivati ad alcuna declaratoria contrattuale, né a livello di accordo interconfederale, né a livello di contrattazione di settore (ad eccezione dell’accordo siglato in quello alimentare della piccola industria del 6 maggio 2004 ove, peraltro, il nuovo istituto trova una trattazione sommaria e riduttiva): ciò, indubbiamente, ha rappresentato una remora al potere surrogatorio del Ministro che, pure, avrebbe potuto essere esercitato. E una conseguenza di questo atteggiamento di “non disciplina della materia”, stante l’avversione sindacale, è la disposizione contenuta all’art. 6 della bozza correttiva al D. L.vo n. 276/2003, licenziata, si diceva, in prima lettura dal Consiglio dei Ministri il 3 giugno 2004: il potere di surroga è scomparso ed il primo comma dell’art. 34 lascia  il potere di individuazione delle fattispecie alle parti sociali comparativamente più rappresentative, con possibilità di accordi anche a livello territoriale.
In via sperimentale (la valutazione finale va fatta dopo diciotto mesi, secondo la procedura delineata dall’art. 86, comma 12), il contratto a chiamata può essere concluso (e la disposizione è pienamente operativa) anche per soggetti con meno di venticinque anni disoccupati o da lavoratori con oltre quarantacinque anni espulsi dai processi produttivi ed “iscritti nelle liste di mobilità o di collocamento”.
Così come è scritta la norma merita una qualche riflessione.
La prima è che la fase “sperimentale” riguarda anche i giovani di età inferiore ai venticinque anni (che significa, è bene ricordarlo, perché talora sui limiti massimi sorgono problemi interpretativi, ventiquattro anni e trecento sessantaquattro giorni) in cerca di occupazione per i quali  vale la definizione adottata dall’art. 1, comma 2, lettera b) del D. L.vo n. 297/2002 che ha sostituito l’art. 1 del D. L.vo n. 181/2000. La norma, tuttavia, è più restrittiva in quanto esclude quei soggetti (per definizione “giovani”) fino a ventinove in possesso del diploma di laurea universitario.
La seconda riguarda il concetto di “stato di disoccupazione”: è sempre la disposizione appena citata che alla lettera c) definisce lo stesso come “la condizione del soggetto privo di lavoro, che sia immediatamente disponibile allo svolgimento ed alla ricerca di un’attività lavorativa secondo le modalità definite con i servizi competenti”. Da ciò si deduce che non è necessario uno stato di “disoccupazione o di inoccupato di lunga durata” che si protragga per oltre dodici mesi o, se si è giovani, permanga per più di sei mesi.
La terza riflessione riguarda gli ultra quarantacinquenni: si parla di soggetti espulsi dai processi produttivi (quindi, dopo una procedura collettiva di riduzione di personale) o iscritti nelle liste di mobilità o di collocamento. Le liste di mobilità, previste dall’art. 6 della legge n. 223/1991, unitamente a quelle del personale artistico (art. 1 del D. L.vo n. 2053/1963) e dei disabili (art. 8 della legge n. 68/1999) sono le uniche che si sono salvate dalla soppressione stabilita dall’art. 2 del D. L.vo n. 297/2002. In esse confluiscono i lavoratori licenziati al termine delle procedure collettive di riduzione di personale, i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo nelle imprese sottodimensionate alle quindici unità ed i lavoratori già impegnati in lavori socialmente utili o di pubblica utilità.
La quarta considerazione riguarda i lavoratori in mobilità che sono portatori di sgravi contributivi e, talora, di incentivi di natura economica: possono portare “in dote” ai datori di lavoro che li assumono, sia pure in forma discontinua od intermittente, questi benefici? La risposta, ad avviso di chi scrive, è negativa atteso che gli incentivi previsti dalla legge n. 223/1991 riguardano i soggetti assunti a tempo indeterminato, anche parziale come previsto dalla nota del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 4 marzo 1993, o a tempo determinato, nella ipotesi individuata dall’art. 8 della disposizione normativa appena citata.
La quinta riflessione riguarda l’iscrizione “alle liste di collocamento”: la dizione adoperata dal Legislatore delegato appare impropria, atteso che il comma 3 dell’art. 2 del D. L.vo n. 297/2002 le ha soppresse sostituendole con un mero elenco anagrafico dei disponibili alla ricerca di un’attività lavorativa secondo le modalità di politica attiva individuate dai centri per l’impiego.
La sesta considerazione concerne la immediata operatività della norma per le due categorie di lavoratori interessati: stando al tenore letterale della norma si può ben ipotizzare che il contratto a chiamata è ammesso a prescindere dalle causali, cosa, del resto, ribadita dal Dicastero del Welfare nella nota di risposta al quesito avanzato dalla FIPE.  
La settima riflessione riguarda la possibilità non esclusa “a priori” (anche se, nel concreto, potrebbero verificarsi difficoltà operative) di poter stipulare contratti di lavoro intermittente con più datori di lavoro.
L’ottava considerazione riguarda i pensionati a qualsiasi titolo (invalidità, anzianità o vecchiaia): essi sono, chiaramente, non compresi dalla c.d. “fase sperimentale” che riguarda i giovani sotto i venticinque anni ed i lavoratori ultraquarantacinquenni in cerca di occupazione od iscritti nelle liste di mobilità. Ciò non esclude, tuttavia, che gli stessi, una volta “a regime” il nuovo istituto, possano essere assunti con contratto di lavoro intermittente, cumulando il reddito con il trattamento di pensione, nel rispetto della normativa vigente in materia.
Il comma 3 stabilisce in quali casi è vietato il ricorso al lavoro intermittente. Essi sono del tutto simili a quelli già individuati, in precedenza, dal Legislatore sia per il lavoro interinale che per i contratti a tempo determinato:

  1. per la sostituzione di lavoratori in sciopero. Su questo punto c’è poco da dire, in quanto il diritto costituzionale all’astensione dal lavoro per sciopero non può essere aggirato attraverso strumenti previsti dalla legge;
  2. salva diversa disposizione degli accordi sindacali presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, nei sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a chiamata ovvero presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti od una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni. Anche in questo caso è opportuno qualche chiarimento. Il primo riguarda la derogabilità della disposizione attraverso accordi sindacali: il divieto c’è a meno che esso non sia “tolto” con un accordo collettivo. La seconda riflessione riguarda il limite dei sei mesi: essa è speculare con quanto affermato dall’art. 6 del D. L.vo n. 297/2002 che al comma 4, ha ridotto i termini per i diritto di precedenza in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo da dodici  a sei mesi e che, poi, ha riverberato i propri effetti anche sull’art. 8 della legge n. 223/1991 che riguarda i lavoratori in mobilità al termine di procedure collettive di riduzione di personale. Il terzo chiarimento riguarda le mansioni: qui si parla di “stesse mansioni” e ciò potrebbe significare l’agibilità di ipotesi nelle quali le mansioni siano simili ma non le “stesse”. La quarta riflessione concerne il divieto di adibizione dei lavoratori a chiamata in quelle realtà produttive nelle quali vi sia “per le stesse mansioni” il ricorso ad un orario ridotto, con trattamento di integrazione salariale. Così come è scritta la disposizione esclude il ricorso soltanto allorchè vi sia un intervento integrativo salariale sia ordinario che straordinario o vi siano in corso contratti di solidarietà difensiva che, comunque, comportino un esborso da parte dell’INPS;
  3. da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D. L.vo n. 626/1994 e successive modificazioni.

Il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato, recita l’art. 35, in forma scritta “ad probationem” e deve contenere alcuni elementi essenziali:

  1. indicazione della durata e delle ipotesi  che ne consentono la stipula. Ovviamente, al momento, ciò è possibile soltanto per i lavoratori individuati per la c.d. “fase sperimentale” e, dopo in chiarimenti del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali alla FIPE per i fine settimana, per i periodi di Natale e Pasqua e per le ferie estive; 
  2. luogo e la modalità della disponibilità, eventualmente garantita dal lavoratore, e del preavviso di chiamata che non può, in ogni caso, essere inferiore ad una giornata lavorativa (con esclusione, quindi, delle domeniche e delle festività nazionali);
  3. il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore e la relativa indennità di disponibilità, ove prevista, nel rispetto di quanto previsto all’art. 36. La norma non lo dice espressamente, tuttavia, si ha motivo di ritenere come per la parte economica e normativa non si possa che far riferimento al contratto collettivo applicato presso l’azienda ed al livello professionale corrispondente alle mansioni che si vanno ad eseguire. Ciò lo si ricava da quanto affermato al successivo comma 2 ove si afferma che le parti devono recepire le indicazioni contenute nei contratti collettivi, ove previste (e la retribuzione è, senz’altro, prevista) per tutti gli elementi individuati nelle lettere da a) ad f). L’inciso “ove prevista” fa ritenere possibile una ipotesi di mancata previsione dell’indennità di disponibilità: la conseguenza di ciò è che, in tale ipotesi, il lavoratore è libero di non  rispondere alla chiamata. Ovviamente, la previsione e la corresponsione dell’indennità di disponibilità “legano” maggiormente il prestatore al datore e ciò, al di là delle considerazioni “spicciole” riferite ai casi concreti, deve rappresentare l’elemento caratterizzante di questa tipologia contrattuale;
  4. indicazione delle forme e modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a chiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro, nonché delle modalità di rilevazione della prestazione;
  5. i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità;
  6. le eventuali misure specifiche di sicurezza necessarie per lo svolgimento dell’attività. Questo punto è, ad avviso di chi scrive, più delicato che in altre ipotesi, in quanto il lavoratore discontinuo è meno informato di quelli in forza.

L’ultimo comma dell’art. 35 stabilisce un diritto di informazione nei confronti delle rappresentanze sindacali aziendali, qualora costituite: la cadenza, fatte salve previsioni più favorevoli previste nella contrattazione collettiva, è annuale e riguarda sia il numero che la tipologia (così è da intendere il riferimento “all’andamento”).
Un ulteriore chiarimento va effettuato circa le comunicazioni da effettuare ai servizi per l’impiego ed agli Istituti previdenziali: è chiaro che ci si trova di fronte ad un lavoratore dipendente per il quale tutte le comunicazioni “di rito” (contestuali, allorchè sarà emanato il “modello unificato”, ma ora, nei cinque giorni successivi all’assunzione) vanno effettuate. Vale la pena di ricordare come trovino applicazione nei confronti dei datori di lavoro che effettuano in ritardo sia le comunicazioni di assunzione che quelle di cessazione le sanzioni amministrative previste dall’art. 19 del D. L.vo n. 276/2003 (da 100 a 500 euro), con possibilità, in caso di ritardata od omessa comunicazione accertata attraverso i servizi ispettivi, di essere ammessi al pagamento della sanzione in misura ridotta (100 euro per ogni lavoratore interessato) per effetto dell’art. 13 del  D. L.vo n. 124/2003 e della circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 24 del 24 giugno 2004. Ovviamente, non essendo stato ancora emanato il modello unificato per tutte le comunicazioni, postulato dal D. L.vo n. 297/2002, non trova applicazione la disposizione sul c.d. “ravvedimento operoso” che consente di pagare una sanzione ulteriormente ridotta (50 euro) se la comunicazione invece che contestuale è fatta spontaneamente nei cinque giorni successivi.
Altri adempimenti gravano sul datore di lavoro e si riferiscono, ad esempio, alla iscrizione sul libro matricola che decorre dalla data di assunzione e non è correlata al numero delle prestazioni ed ha valore per tutta la durata del rapporto o alla comunicazione all’INAIL per la quale, ai fini della denuncia nominativa assicurativa, rileva l’inizio dell’attività lavorativa, e non la data di assunzione. Ciò lo si ricava da una vecchia nota dell’Istituto risalente al 28 marzo 2000: da ciò ne consegue che la comunicazione va inviata allorquando il lavoratore intermittente viene “chiamato” a prestare la propria opera. Ma, nel caso in cui la prestazione sia ripetuta, occorre effettuare la c.d. “Dna” più volte?. Sul punto è necessario un chiarimento dell’Istituto ma, ad avviso di chi scrive, la ripetizione (comunicazione di inizio e di cessazione) si configurerebbe come un adempimento burocratico non lieve e, comunque, diverso da quello in uso per i c.d. “rapporti a tempo parziale  verticale” con i quali il lavoro intermittente presenta diverse affinità.
Il lavoro intermittente, anche per quel che concerne l’indennità di disponibilità per la quale, come si vedrà, non c’è l’assoggettamento ai minimali contributivi, necessita di alcuni chiarimenti operativi da parte dell’INPS, in assenza dei quali si può fare, comunque, una considerazione che riguarda il trattamento contributivo. Almeno per quel che riguarda i minimali giornalieri esso dovrebbe essere assimilato ai rapporti a tempo parziale, potendo la prestazione essere resa ad ore o a giornate.
Un problema, correlato al contratto di lavoro intermittente che presenta qualche difficoltà interpretativa, è rappresentato dall’istituto delle ferie che maturano in relazione alla prestazione lavorativa effettuata e che vanno godute nel modo individuato dal comma 1 dell’art. 10 del D. L.vo n. 66/2003, che è stato modificato dall’art. 1, comma 1, lettera d), del D. L.vo n. 213/2004. Come è noto, quest’ultimo, dopo aver affermato che il lavoratore ha diritto a ferie retribuite per un periodo annuale non inferiore a quattro settimane, dispone che esso va goduto per almeno due settimane, consecutive, su richiesta del lavoratore e, per le restanti due settimane, nei diciotto mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. 
Cercando di focalizzare la disposizione sopra citata alla peculiarità del contratto a chiamata, si può affermare che laddove quest’ultimo ha una durata determinata inferiore all’anno (presumibilmente nella maggior parte dei casi) le ferie non godute, ma maturate in relazione alle prestazioni, possono essere pagate attraverso l’indennità sostitutiva (nelle forme, anche contributive, previste) all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Può, tuttavia, succedere, che durante il rapporto (e la cosa appare ancora più possibile nei casi, rarissimi, in cui il contratto intermittente è a tempo indeterminato) al lavoratore siano concesse ferie maturate anche dietro sua richiesta. In questo caso il datore di lavoro è tenuto a concederle ed a retribuire le giornate di “godimento” e, ovviamente, a “non chiamare” il dipendente al lavoro (perché non disponibile). Qui, si innesta un ulteriore discorso legato alla eventuale corresponsione dell’indennità di disponibilità: appare evidente che se la stessa è stata prevista nel contratto sottoscritto dalle parti, non si possa parlare di cumulabilità (indennità oltre al pagamento della giornata come ferie retribuite), in quanto viene meno, in quel giorno, la disponibilità del lavoratore alla prestazione.   
La disponibilità ad essere chiamati va “monetizzata” (è questa la regola generale da cui discende, in caso di corresponsione, l’obbligo della c.d. “risposta”) e la norma afferma che nel contratto di lavoro intermittente essa è stabilita in misura mensile, divisibile in quote orarie, e deve essere corrisposta per i periodi nei quali il lavoratore è “in parcheggio” garantendo la propria disponibilità. Il “quantum” deve essere stabilito dai contratti collettivi, comunque, non può essere inferiore a quanto il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali stabilisce (con aggiornamenti periodici) dopo aver consultato le organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale. Come si vede, anche qui l’azione amministrativa è finalizzata a recuperare eventuali ritardi della pattuizione collettiva. Il versamento contributivo sulla indennità di disponibilità è per l’effettivo ammontare, senza il rispetto della norma sui minimali contributivi.
Con D.M. 10 marzo 2004, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 22 marzo 2004, è stato fissato l’importo dell’indennità di disponibilità. Essa è divisibile per quote orarie (ed il divisore deriva dall’orario del CCNL applicato) ed è pari al 20% della retribuzione prevista. In essa rientrano le seguenti voci: minimo tabellare, indennità di contingenza, EDR, ratei di mensilità aggiuntive.
La previsione contenuta al comma 3 secondo la quale l’indennità è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo, fa sì che essa non rientri, ad esempio, nel trattamento di fine rapporto e nelle mensilità aggiuntive.
Un altro aspetto dell’indennità di disponibilità che va considerato riguarda l’impossibilità temporanea del lavoratore a rispondere alla chiamata del datore. E’ il caso della malattia o di altro fatto impeditivo ascrivibile alla sfera personale del prestatore: ciò comporta la tempestiva comunicazione dello “status” al datore ed ha come conseguenza l’interruzione temporanea del diritto alla indennità. Ciò, tuttavia, non implica (è il caso dello “status” di malattia), ad avviso di chi scrive, l’assoggettabilità del lavoratore alle visite di controllo ex art. 5 della legge n. 300/1970.
Ma cosa succede se il lavoratore non adempie a tale onere? La norma (comma 5) prevede la perdita del diritto all’indennità per quindici giorni, fatto salvo l’eventuale diversa previsione del contratto individuale il quale potrebbe prevedere anche conseguenze ben diverse.
Ovviamente, quanto appena riportato si applica soltanto nella ipotesi in cui il lavoratore, con la sottoscrizione del contratto, si sia obbligato  a rispondere alla chiamata del datore. Il rifiuto ingiustificato (e qui, la contrattazione e la prassi dovranno ipotizzare la casistica esimente) può avere conseguenze di diverso tipo che vanno dalla risoluzione del contratto, alla restituzione della quota dell’indennità di disponibilità riferita al periodo successivo al rifiuto, al risarcimento del danno nella misura fissata dal contratto collettivo (cosa che, al momento, appare difficile, attesa l’ostilità delle organizzazioni sindacali dei lavoratori alla tipologia contrattuale del “job on call”) o da quello individuale.
L’ultimo comma fa riferimento ad un decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali “concertato” con quello dell’Economia e Finanze (ma il testo, a differenza di altre ipotesi, non prevede un termine per l'emanazione), con il quale verrà stabilita la misura della retribuzione convenzionale in riferimento alla quale i lavoratori intermittenti potranno versare la differenza contributiva per i periodi in cui abbiano percepito una retribuzione inferiore rispetto a quella convenzionale o abbiano usufruito dell’indennità di disponibilità fino a concorrenza.
Un caso del tutto particolare che dovrà trovare appositi chiarimenti a livello amministrativo riguarda la possibile “conciliabilità” tra l’istituto dell’indennità di mobilità goduta dal lavoratore e quello dell’indennità di disponibilità. Ad avviso di chi scrive, la stipula di un contratto a chiamata (con corresponsione dell’indennità di disponibilità) si dovrebbe porre come una “sospensiva” dell’indennità di disponibilità, così come avviene per i contratti a termine stipulati ex art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991. Chiaramente, tale discorso non potrà essere fatto in tutte quelle ipotesi in cui l’indennità di disponibilità non sia prevista.
L’art. 37 pone l’accento su alcune ipotesi particolari nelle quali, presumibilmente, il contratto a chiamata potrebbe essere più adoperato: ci si riferisce ai c.d. “contratti week-end”, alle ferie estive, ai periodi natalizi e pasquali. In tali casi (ci si deve, ovviamente, trovare in presenza di contratti sottoscritti unicamente per i periodi considerati) l’indennità di disponibilità è corrisposta soltanto se il datore di lavoro effettua la chiamata. La norma continua affidando alla contrattazione collettiva nazionale o territoriale la possibilità di stabilire ulteriori periodi predeterminati.
Cosi come è scritta la disposizione merita alcuni chiarimenti.
Il primo riguarda la dizione, un po’ impropria, adoperata dal Legislatore delegato allorchè ha parlato di “vacanze natalizie e pasquali”. La “vacanza” è un termine correlato agli istituti scolastici ed alla frequenza alle lezioni  e, forse, poco si attaglia al mondo del lavoro: essa, ferme restando ulteriori delucidazioni amministrative, va intesa come periodo lavorativo legato alle due festività (ad esempio, quello natalizio potrebbe andare, indicativamente, dal 1° dicembre al 10 gennaio).
Il secondo riguarda il significato di “ferie estive”: esso va interpretato come ferie godute nel periodo intercorrente tra il 21 giugno ed il 20 settembre di ogni anno, fermo restando il concetto di ferie annuali e del relativo complessivo godimento che si trova nell’art. 10 del D. L.vo n. 66/2003.
Il terzo concerne l’interpretazione da dare (in carenza di chiarimenti amministrativi) all’inciso, contenuto nel comma 1 dell’art. 37 secondo il quale “l’indennità di disponibilità è corrisposta (nelle ipotesi del “fine settimana”, dei periodi natalizi e pasquali e delle ferie estive) soltanto in caso di effettiva chiamata. Le soluzioni possibili, da un punto di vista letterale, sono diverse. La prima è che la corresponsione dell’indennità possa riferirsi ad ogni richiesta di prestazione lavorativa (con cumulabilità con la retribuzione corrisposta), ma ciò appare in netto contrasto con il principio generale secondo il quale l’indennità spetta se non si è chiamati. La seconda, forse da un punto di vista sistemico più plausibile, è quella secondo la quale l’indennità di disponibilità spetta soltanto se nel periodo considerato il lavoratore è stato chiamato. In sostanza, essa spetterebbe soltanto per i giorni successivi del periodo di disponibilità concordato (natalizio, pasquale, ecc.). Ma anche questa interpretazione presenta dei punti deboli come quello della disparità di trattamento con chi si è impegnato per un certo periodo con un contratto intermittente e non è stato mai chiamato. 
Sulla disposizione normativa contenuta al comma 1 dell’art. 37, è calata l’interpretazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, fornita alla FIPE nella risposta al quesito di cui si parlava all’inizio della riflessione. Il Dicastero del Welfare ritiene (e su ciò si sono appuntate le dure critiche della CGIL) che due sono le ipotesi del contratto di lavoro intermittente per le quali non c’è bisogno delle determinazioni dell’autonomia collettiva: la prima è quella individuata dall’art. 34, comma 2 e concerne, come è già stato ampiamente esaminato, l’esperimento transitorio (per diciotto mesi) in favore dei giovani disoccupati fino a venticinque anni e degli ultraquarantacinquenni in cerca di nuova occupazione, la seconda è, invece, quella prevista dall’art. 37, comma 1, “laddove è il Legislatore stesso ad individuare le ragioni intermittenti o stagionali, derogando così al principio generale” che, invece, si riespande nel successivo comma 2 quando si afferma che “ulteriori periodi predeterminati possono essere previsti dai contratti collettivi”. Tale interpretazione è suffragata dal fatto che l’ultimo periodo dell’art. 40, nel quale si richiama il potere surrogatorio del Ministro nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva non abbia proceduto alla individuazione delle modalità e delle fattispecie, fa riferimento soltanto all’art. 34, comma 1 (previsioni generali) e all’art. 37, comma 2 (ulteriori periodi predeterminati) e non al comma 1 che appare, così, al di fuori della pattuizione collettiva.
L’interpretazione fornita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dovrebbe avere alcuni riscontri positivi in tutte quelle situazioni in cui, ad esempio, un datore di lavoro di un ristorante assume ripetutamente, nei fine settimana, un cameriere: da un punto di vista burocratico gli adempimenti sono snelliti (es. un sola comunicazione al centro per l'impiego, una sola registrazione sul libro matricola, ecc) e se è consentita una riflessione, probabilmente, ci sarà più chiarezza nella specificazione di alcuni rapporti. Ci si riferisce a tutte quelle situazioni nelle quali (anche per effetto di altre previsioni normative contenute nell’art. 61, comma 2, del D. L.vo n. 276/2003) vengono costruiti contratti di prestazioni occasionali al limite della decenza “intellettuale” come collaboratore occasionale addetto alla disposizione dei tavoli, aiuto coordinatore di cucina, coordinatore della disposizione logistica (e tutto questo in assenza di camerieri o baristi in forza come lavoratori subordinati). Se pure l’interpretazione ministeriale potrà agire positivamente in tutte quelle situazioni (si pensi alla grande distribuzione) ove, in alcuni periodi si fa ricorso a personale aggiuntivo, non incide, però, su certe realtà “endemiche” e correlate al settore ove il lavoro di sera o festivo è svolto da soggetti che nel corso dei restanti giorni della settimana lavorano a tempo pieno in altre realtà aziendali. In questi casi (che sono di “doppio lavoro” e dove c’è una sorta di connivenza tra le parti) non bisogna dimenticare i limiti che in materia di prestazione lavorativa, riposi giornaliero e settimanale (finalizzati al recupero psico – fisico delle energie) impone il D. L.vo n. 66/2003.
Con il successivo art. 38, dopo l’ovvio richiamo ai divieti di qualunque discriminazione sul posto di lavoro, si afferma che il lavoratore deve ricevere per la prestazione svolta un trattamento economico e normativo “complessivamente” non inferiore a quello di un altro dipendente, dello stesso livello, a parità di mansioni svolte. Ciò significa che, in proporzione (principio del “pro rata temporis”, presente anche nei rapporti a tempo parziale), spettano allo stesso anche le eventuali somme integrative disposte a livello aziendale, anche correlate al raggiungimento di obiettivi d’impresa. Ciò lo si evince anche dal comma 2 ove si ricorda che il trattamento economico e previdenziale deve essere riproporzionato sulla base della prestazione lavorativa svolta, sia per la retribuzione globale che per le singole componenti, che per le ferie, i trattamenti di malattia e di infortunio sul lavoro, per la maternità e le malattie professionali e per i congedi parentali.
Durante il periodo di disponibilità non matura alcun trattamento economico e normativo, né è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati (si pensi, ad esempio, alla fruizione di servizi sociali all’interno dell’impresa), tranne, ovviamente, la prevista indennità.
Secondo quanto previsto dal successivo art. 39 il lavoratore a chiamata va computato nell’organico dell’impresa, ai fini previsti dalla normativa vigente per l’applicazione di particolari istituti, in proporzione all’orario di lavoro svolto effettivamente: il calcolo va riferito al semestre. La norma non specifica quale ma esso va inteso, come già in altri provvedimenti legislativi che prendono in considerazione computi numerici, riferito ai sei mesi antecedenti.
Da quanto appena detto emerge che il dipendente (sempre, ovviamente, in proporzione all’orario effettuato) va preso in considerazione anche per i limiti dimensionali previsti dalla legge n. 108/1990 sui licenziamenti individuali, dalla legge n. 223/1991 sull’intervento  integrativo salariale o sulle procedure collettive di riduzione di personale, dalla legge n. 68/1999 sulle quote d’obbligo riservate ai lavoratori disabili e dalla legge n. 443/1985 sulle imprese artigiane.
Ovviamente, quando si parla di computo il pensiero va anche alla normativa sulle assunzioni incentivate previste sia dall’art. 8, comma 9, della legge n. 407/1990 che dall’art. 7 della legge n. 388/2000, come modificata dalla legge n. 289/2002. Ad avviso di chi scrive, alla nuova fattispecie contrattuale non sono applicabili i benefici, anche di natura fiscale, previsti dalle due disposizioni appena citate, in quanto, fermi restando gli specifici requisiti soggettivi (“status disoccupativo” da oltre ventiquattro mesi per la prima, più di venticinque anni e assenza di contratti a tempo indeterminato nell’ultimo biennio per la seconda) tale contratto sembra non corrispondere a ciò che si richiede in tali fattispecie (contratto a tempo indeterminato, sia pure parziale, incremento occupazionale, ecc.). Il contratto a chiamata, che ha natura discontinua ed intermittente, sembra caratterizzato da episodicità, legata alle esigenze del datore di lavoro, e non dalla continuità.

Modena, 17 agosto 2004

                 Eufranio MASSI
Dirigente della Direzione provinciale del Lavoro di Modena

                    

 

Fonte: http://www.dplmodena.it/33-40.doc

Sito web da visitare: http://www.dplmodena.it/

Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine

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