Marx riassunto

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ANALISI DEL CONCETTO DI LAVORO IN HEGEL E MARX.

Precisazione : Hegel parla del lavoro  negli scritti Ienesi del 1803-4, nella Fenomenologia dello Spirito del 1807 e nei Lineamenti della Filosofia del diritto del 1821.
In questo approfondimento farò riferimento esclusivamente alla Fenomenologia.

Marx parla del lavoro sia nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 che nel Capitale.
In questo approfondimento farò riferimento solo ai Manoscritti del1844.

Il termine lavoro secondo la tradizione giudaico cristiana e secondo l’etica borghese comprende in se stesso un duplice significato: a) il lavoro è inteso come molestia, necessità, fatica; nella Bibbia infatti è ricondotto ad una condizione di imperfezione e colpa dell’uomo. Lavoro è prima di tutto il duro lavoro dei campi, sinonimo di sottomissione servile.
b) il lavoro è inteso come un’attività costruttiva, di autonomia e creatività dell’uomo, che, oltre a tenerlo lontano dai vizi, è fonte di virtù, di realizzazione di sé.

1.Il concetto di lavoro in Hegel.
Hegel definisce il lavoro in questi termini“ il lavoro è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto” (1).
Per cercare di comprenderne il significato cerchiamo di chiarire prima di tutto il concetto di appetito.
All’interno della Fenomenologia dopo che la coscienza ha esaurito il suo interesse conoscitivo nei confronti del mondo fenomenico attraverso la certezza sensibile, la percezione e l’intelletto, essa riconosce dentro di sé una nuova facoltà, appunto l’appetito o desiderio, che rivolge nei confronti del mondo.
L’appetito è però una facoltà per così dire incorporativa perché tende a nullificare gli oggetti del desiderio così come l’attività del desiderio stesso ( es: se desidero mangiare un panino se realizzo il mio desiderio non ho più il panino e neppure il desiderio stesso). Nello stesso tempo il desiderio tende a reiterare in maniera indefinita gli oggetti del desiderio non  riuscendo a rendersi indipendente dal ciclo incessante di appetito-soddisfazione ( Hobbes ad esempio parla dell’uomo come di un essere “insaziabile”).
La coscienza allora si pone alla ricerca di un oggetto stabile del desiderio ed indipendente da esso e quindi rivolge l’attenzione verso se stessa:
“La coscienza è per se stessa, è differenziazione di ciò che è differenziato, cioè autocoscienza. Io mi differenzio da me stesso, e in questa attività un tale differenziato è per me, immediatamente non differenziato”. (2)
In altre parole la coscienza tende a duplicarsi,  a differenziarsi, in se stessa e da se stessa per poter porre un oggetto che è ancora se stessa.
E’ il desiderio quindi che muove la coscienza a duplicarsi per poter diventare autocoscienza,  è il desiderio che spinge l’autocoscienza alla ricerca di un valore che permane e che possa affermare:
IO=IO cioè Io sono Io.
L’autocoscienza in Hegel, così come era stato per Fichte, non è un dato immediato dell’intuizione , ma un processo (“il vero è l’intero”) è il risultato di una ricerca fondamentale in cui l’io, la coscienza differenziandosi, pone se stessa come oggetto di riflessione, cioè si pone come domanda .
Chi sono IO?  Questo interrogativo,  cui ciascuno di noi è chiamato a rispondere,è posta dalla coscienza per la coscienza nella ricerca di un nuovo orizzonte di senso che possa soddisfare tale domandare.  
“ L’autocoscienza è in sé e per sé solo in quanto è in sé e per sé per un’altra autocoscienza, cioè solo in quanto è qualcosa di riconosciuto” (3)
IO so chi sono IO solo nella misura in cui esiste un’altra autocoscienza che riconosce che IO sono IO, in questo modo l’altro diviene lo specchio della prima autocoscienza: per sapere quindi chi sono Io necessito del fatto che un altro riconosca il mio valore come autonomo.
Hegel però, ci dice che  questa dialettica del riconoscimento fallisce: l’autocoscienza ritornata in sé non ha più bisogno dell’altra  e quindi si erge come autocoscienza autonoma e libera e permette all’atra di esserlo ugualmente. Le due autocoscienze si fronteggiano in una lotta per il riconoscimento.
“la necessità di questa lotta risiede nel fatto che ciascuna autocoscienza deve elevare a verità, nell’altra e in se stessa, la propria certezza dell’essere per sé” (4)
Delle due autocoscienze impegnate nella contesa per il riconoscimento, l’una si mostra capace di autonomia rispetto al legame naturale con la vita al punto di rischiarla nella lotta, l’altra troppo legata alla vita teme di rischiarla. Questo diverso atteggiamento nei confronti della vita crea una situazione di diseguaglianza: chi ha saputo rischiare la vita si presenta come coscienza autonoma ed indipendente e pone la sua signoria nei confronti della vita stessa e dell’altra autocoscienza. Chi ha avuto paura della morte è costretto a soccombere non solo nei confronti della vita naturale, ma anche nei confronti dell’altra autocoscienza e quindi diviene coscienza servile. ( Hegel afferma che “ ha la figura della cosalità”).

Analizziamo quindi la figura sevo-padrone.
In un primo momento il signore si pone come coscienza che è in sé e per  un’altra.
Il signore si rapporta con la cosa attraverso l’appetito e  attraverso la cosa si rapporta nei confronti del servo. Il signore che ha vinto la paura della morte non ha alcun vincolo o limite  nei confronti della realtà naturale per cui tende a soddisfare qualunque appetito; ma l’appetito è di competenza del servo che con il lavoro lo elabora rendendo la natura disponibile per il consumo e il godimento del signore .
In realtà però  il signore ha sì certezza di sé, ma una certezza soggettiva, unilaterale, che non potrà mai essere per sé, perché sebbene sia una coscienza libera ed indipendente non è riconosciuta poiché la coscienza servile è una coscienza inessenziale.
Analizziamo ora  il punto di vista della coscienza servile : essa è  una coscienza servile perché: a) ha avuto paura della morte, b) deve lavorare per soddisfare l’appetito del signore e non il proprio, c) è sottomessa al signore.
a) Per la “servitù” inizialmente  l’essenza è il signore, la “verità è la coscienza autonoma essente  per sé”, ma tale verità non è compresa dalla servitù stessa: essa rivolge verso di sé tale ricerca riconoscendo in sé “la verità della pura negatività”.
“In altre parole la coscienza non ha tremato per questa o quella circostanza, né in questo o quell’istante: essa ha provato angoscia dinanzi alla totalità della propria essenza perché ha avuto paura della morte signore assoluto. In questa angoscia, la coscienza è stata intimamente dissolta…tutto quanto c’era in lei di fisso è stato  scosso …” (5).
La coscienza servile fa esperienza di una dimensione assolutamente autentica che mette l’uomo solo di fronte a se stesso come un “essere per la morte”. L’esperienza dell’angoscia che non è paura di questo o quello, ma apertura verso la possibilità della nullificazione dell’esistenza, mette in moto quel processo dialettico che porterà all’ emancipazione del servo nei confronti del signore.
Il servo ha compreso, nell’angoscia della morte, che una condizione data, fissa, stabile, anche quella del signore, non si può esaurire nell’esistenza umana: il servo è pronto a mutare ad autoeducarsi, a trascendere la sua condizione.(6)
b) Se è pur vero che il servo deve lavorare per soddisfare l’appetito del signore è anche vero che il signore ha perso qualsiasi rapporto sia con il mondo naturale che con l’attività desiderativa perché tutto è mediato dal servo .Il signore si trova isolato nel semplice godimento dell’oggetto. Ma il servo che ha sperimentato su di sé l’effetto nullificante del desiderio riscopre una sorta di comunanza con la natura e quindi si rapporta ora ad essa attraverso un “appetito trattenuto”.  Il lavoro come “appetito tenuto a freno, un dileguare trattenuto” forma non nullifica. Mediante il lavoro, il servo diviene “signore della natura”, ma in qualche modo un signore rispettoso che si libera della sua dipendenza nei confronti della natura, liberandosi dalla paura  che lo teneva legato ad essa e al signore.
Il lavoro, liberando l’uomo dalla natura lo libera da se stesso come servo, lo educa e lo rende libero:nel lavoro trasforma le cose e contemporaneamente se stesso.
Il mondo naturale attraverso il lavoro è divenuto un mondo tecnico, “artificiale” nel senso modificato dal lavoro dell’uomo, un mondo in cui finalmente il servo- l’uomo può regnare.
“Il rapporto negativo verso l’oggetto diviene ora forma dell’oggetto stesso, e diviene qualcosa che permane, proprio perché l’oggetto ha autonomia agli occhi di chi lo elabora.” (7)
Il prodotto del lavoro è opera del lavoratore, è la realizzazione del suo progetto, è idea oggettivata, contemplando la cosa, contempla se stesso, esce dal mondo puramente naturale, diventa cosciente della propria realtà “meta naturale”, diviene Spirito fatto carne, Storia. (8)

 2. CONCETTO DI LAVORO IN MARX
Marx scrive i Manoscritti economico filosofici nel 1844 in piena rivoluzione industriale; ha profondi interessi filosofici e speculativi ( appartiene alla sinistra hegeliana ), ma ha già iniziato un’attività giornalistica alla gazzetta Renana e quindi ha un interesse anche nei confronti di realtà specifiche; studia l’economia politica classica.
E’ all’interno di questa poliedrica prospettiva che Marx, pur utilizzando categorie concettuali tipicamente hegeliane, espone la sua riflessione sul lavoro come alienazione.
La critica fondamentale che Marx fa a Hegel è il fatto di essere un Idealista: la coscienza non è manifestazione dello Spirito, ma è un prodotto sociale.
Per capire l’uomo devo capire la società in cui vive, qual è la  sua struttura economica cioè quali forze produttive e rapporti di produzione vi sono in essa.
Il lavoro, nei Manoscritti, è sempre inteso come lavoro alienato dell’operaio nella società capitalista; il lavoro come lavoro salariato è analizzato sempre dal punto di vista del capitale: il valore del lavoro sta infatti nella sua capacità di produrre ricchezza.
“ L’esistenza del capitale è la sua esistenza, la sua vita, poiché il capitale determina, rimanendone indifferente, il contenuto della sua vita.” (1)
Risulta immediatamente che nel sistema capitalista  il lavoratore non è altro che un uomo smarrito ed estraniato in se stesso e da se stesso che esiste unicamente come merce e capitale.
L’uomo sussiste allora solo come lavoratore , ma il  lavoro è astratto  in quanto è un’astrazione dalla totalità dell’uomo concreto che vuole attuare con il lavoro la sua totalità..
Riprendiamo quindi delle celebri affermazioni presenti nei Manoscritti che riassumono la concezione del lavoro come alienazione:
1)“ Con la messa in valore  del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Questo fatto non esprime altro che questo: che l’oggetto prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente.”
2) “il lavoro resta estraneo all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice… Il lavoro non è  quindi la soddisfazione di un bisogno, è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso.”
3) “ Il lavoro è alienato poichè aliena all’uomo la natura : aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all’uomo il genere;  egli riduce così la vita generica  ad un mezzo della vita individuale.”
4) “ L’immediata conseguenza, del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell’uomo dall’uomo.” (2)

L’intento di Marx è quello di “fare dell’uomo un uomo”, ma all’interno della società capitalista questo risulta impossibile. E se risulta impossibile, e forse per qualcuno neppure desiderabile, una rivoluzione proletaria, forse potremmo riscoprire  il valore della  filosofia come smascheramento e denuncia di ogni forma di sfruttamento e di alienazione dell’uomo, ma anche come possibilità di pensare il nuovo per poter rendere il mondo e la storia  più consoni e abitabili per tutti.

Note : Il concetto di lavoro in  Hegel.

  1. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani, Milano 2000, pag.289.
  2. Hegel,Op. cit , pag.257.
  3. Hegel, Op.cit , pag.275.
  4. Hegel, Op.cit., pag.281.
  5. Hegel, Op.cit.,pag.287.
  6. A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Einaudi,Torino 1948, pag.24.
  7. Kojève, Op. cit.,pag.28.
  8. Kojève, Op. cit .pag 28.

Note: Il concetto di lavoro in Marx.

  1. Citazione ripresa da : K. Lowith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino 1994,pag.410.
  2. Marx, Manoscritti economico filosofici, in Cioffi, Gallo, Luppi, Vigorelli, Zanette, Corso di filosofia, vol 3, B. Mondadori, Milano 2000. pag 394 e seguenti.

 

 

Fonte: http://old.liceivaldagno.it/ScuoleInRete/trissino_valdagno/portale.nsf/5ef8d9bc5120ecccc1256c01002edfc2/964c7519057aa0afc12576d00033e735/$FILE/Lavoro%20in%20Hegel%20e%20Marx.doc

Sito web da visitare: http://old.liceivaldagno.it

Autore del testo: Relazione della prof. sa Mistè Alberta

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