Mobbing e bossing

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Mobbing e bossing

 

MOBBINGBOSSINGBULLYNG STALKING

sono termini inglesi, ma qual è il loro reale significato?
strategie aziendali che tendono ad allontanare il lavoratore,
rendergli la vita difficile, eliminare le persone scomode.

MOBBING

La parola “mobbing(assalire con violenza) indica la pressione ed il terrorismo psicologico esercitati contro un lavoratore, al fine di isolarlo ed indurlo alle dimissioni.
Trattasi dunque di persecuzione, protratta nel tempo, nel luogo di lavoro. Può essere esercitata ad opera di un superiore, di colleghi di lavoro singoli od in gruppo.

Si presenta come emarginazione, diffusione di maldicenze, sistematiche critiche all’esecuzione del lavoro svolto, assegnazione di compiti dequalificanti, compromissione dell’immagine sociale nel confronto di superiori e clienti.
La persona soggetta al mobbing può presentare disturbi vari, che nel tempo possono assumere forme di preoccupante gravità.

Pare che il mobbing sia un fenomeno in crescita ed affrontarlo non è certamente una impresa facile.
I motivi di innesco del mobbing possono essere tanti: dalle motivazioni più banali, al desiderio di prevaricare gli altri per fare carriera o accumulare denaro o, peggio ancora, per crudele divertimento. La vittima, quindi, accumula sempre più rabbia, frustrazione ed ansia.

Se il tutto viene poi a conoscenza dell’amministrazione del personale, le eventuali soluzioni adottate non potranno fare altro che aggravare ulteriormente la situazione, nello stato d’animo già provato del perseguitato.
Le conseguenze del mobbing sono gravi, sia per chi le subisce e sia per l’azienda e la sua organizzazione.

Nel primo caso si crea uno stato di grave sofferenza, perché, inevitabilmente, chi ne è vittima viene fatto passare per responsabile di qualsiasi cosa non funzioni, con inevitabile riduzione, così, delle prestazioni lavorative.
Nel secondo caso, turnazione di personale ed atmosfera pesante generano ricadute negative, quali ad esempio l’assenteismo.

Ai certificati di malattia si possono, inoltre, aggiungere lo scarso rendimento, un “turn over” senza apparenti ragioni, ed ancora facili dimissioni volontarie. Vi sono poi gli inevitabili costi aziendali e sociali.
Per prevenire o curare il mobbing, occorre investire sulle capacità di gestire i litigi ed i conflitti, attivando quindi negli ambienti di lavoro un’adeguata formazione, mirata alla capacità di instaurare rapporti rispettosi, trasparenti e civili.

Tipi di  “mobbing”:

  1. mobbing orizzontale, se è messo in atto dai colleghi,
  2. mobbing individuale, quando il colpito è un singolo lavoratore,
  3. mobbing collettivo, se si esercita su gruppi di lavoratori,
  4. mobbing dal basso, se viene messa in discussione l’autorità del superiore,
  5. mobbing sessuale, che può avvenire anche senza necessariamente un                               contatto fisico, ma con insinuazioni o  sgradevoli battute

Il mobbing nasce, quindi, dal lavoro e la patologia prodotta è in relazione appunto con il lavoro. Perciò molti lavoratori chiedono la rendita all’INAIL, per il mobbing come malattia professionale.

Il mobbing, però, pur apparendo sempre minaccioso ed insopportabile a chi lo subisce, quando deve essere tradotto in oggetto di assicurazione sociale perde i suoi contorni e si confonde con molti stress e non manifesta malattie caratteristiche e riconoscibili. Diventa un fenomeno non chiaramente inquadrabile fra le malattie professionali e crea ulteriore sofferenza al lavoratore che ne è colpito.

La circolare INAIL  n. 71/ 2003
con tale circolare l’INAIL dà via libera al risarcimento danni da mobbing sul lavoro e rientrano quindi nel rischio tutelato tutte le situazioni di costrittività organizzativa (come è scritto nella sentenza n. 179/88 della Corte Costituzionale e nel decreto legislativo 38/2000), e quindi, sempre secondo l’INAIL, scatta il danno biologico in questi casi:

  1. marginalizzazione dall’attività lavorativa,
  2. svuotamento delle mansioni,
  3. mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata,  
  4. mancata assegnazione degli strumenti di lavoro,
  5. ripetuti trasferimenti ingiustificati,
  6. prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto,
  7. prolungata attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi anche in relazione ad eventuali condizioni di handicap psico-fisici,
  8. impedimento sistematico e strutturale all’accesso a notizie,
  9. inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti all’ordinaria attività di lavoro,
  10. esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione ed aggiornamento professionale,
  11. esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

L’INAIL spiega – con la citata circolare – che, ai fini della prova, ricade sul lavoratore l’obbligo di produrre la documentazione idonea a supportare la sua richiesta, sia in relazione al rischio, sia per quanto concerne la malattia.
Inoltre l’Istituto, sempre secondo la circolare, ha il potere-dovere di verificare l’esistenza dei presupposti.

A tal fine, l’INAIL procederà con indagini ispettive per raccogliere le prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del datore di lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle aziende e di ogni persona informata sui fatti, allo scopo di acquisire riscontri oggettivi a quanto dichiarato dall’assicurato ed integrare gli elementi probatori dallo stesso prodotti.
Ai fini di una uniforme trattazione medico-legale, inoltre, l’INAIL suggerisce un particolare e dettagliato iter diagnostico.

Il mobbing, dunque, per diventare malattia professionale, deve attraversare il difficile momento della prova da parte del lavoratore. Il lavoratore dovrà in genere dimostrare, come prova:

  1. l’esistenza del fattore nocivo lavorativo riconoscibile come mobbing,
  2. l’esistenza di una patologia certa e che abbia prodotto un danno biologico indennizzabile (la giurisprudenza recente ha individuato anche la possibilità di danni alla professionalità, danni alla personalità, danno morale, danno esistenziale e danno patrimoniale),
  3. il nesso di causalità tra mobbing e patologia.

 

L’esistenza del fattore nocivo lavorativo, riconoscibile come mobbing, è veramente particolare e per i seguenti motivi:

  1. non si ha a che fare con una lavorazione già riconosciuta come pericolosa; ogni luogo di lavoro ed ogni tipo di lavoro può generare mobbing,
  2. il fattore nocivo mobbing non ha caratteristiche fisico chimiche e quindi non è identificabile e misurabile con i normali mezzi di indagine,
  3. il fattore nocivo mobbing solo talvolta si manifesta per fatti constatabili e documentabili,
  4. il fattore nocivo mobbing agisce selettivamente nei confronti di un singolo lavoratore ed è causato dal datore di lavoro o da uno o più colleghi di lavoro,
  5. il fattore nocivo mobbing ha un connotato di volontarietà nociva e di dolo non episodico, ma continuato nel tempo. Si parla di un’accanimento, che deve durare almeno sei mesi. Il tutto, naturalmente, da provare.

 

Ancora, a proposito di “mobbimg”, è il caso di ricordare il parere del giudice Guariniello, secondo cui il ”mobbing” può causare malattie professionali e quindi può costituire reato e cioè il delitto di lesione personale colposa, che è previsto e punito dall’articolo 590 del codice penale.
Nel nostro ordinamento
non esiste una definizione normativa ed unitaria del mobbing
ed è quindi spesso la magistratura
che si è  occupata di questa problematica;

 

ricordiamo le più importanti sentenze:

  1. Corte Costituzionale, con pronuncia nr. 113 del 6/4/2004 e con pronuncia nr. 359 del 19/12/2003.
  2. Corte di Cassazione civile, con sentenze del 20/6/2003 nr. 9908, del 2/1/2002 nr. 10, del 7/7/2001nr. 9228, del 16/6/2001 nr.8173, del 2/5/2000 nr.5491;
  3. Corte di Cassazione penale con sentenza del 24/1/2003 nr. 3779, e con sentenza del 14/2/2002 nr. 6010;
  4. sentenza 16/11/99 del Tribunale di Torino, che ha sanzionato la responsabilità del datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, per accertate azioni di “mobbing” all’interno dell’azienda, essendo questi tenuto a garantire l’integrità fisica e psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare eventuali contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti;
  5. Tribunale di Torino con sentenza del 10 agosto 2001.
  6. Tribunale di Pinerolo con sentenze del 6/2/2003 e del 2/4/2004;
  7. Tribunale di Milano con sentenze del 20/5/2000, del 4/5/2001, del 30/9/2002 e del 31/7/2003;
  8. Tribunale di Pisa con sentenza del 7/10/2001;
  9. articolo 2087 del codice civile che, nell’ambito della tutela delle condizioni di lavoro, contiene la disposizione secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutela l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro” (vedasi nota);
  10. articolo 2043 del codice civile, che comporta una violazione extracontrattuale, con una generica attribuzione di responsabilità;
  11. articolo 2103 del codice civile, con combinato disposto art. 1460 codice civile, in uno con sentenza della corte suprema di cassazione sezione lavoro dell’8/2/99 nr. 1074 sui trasferimenti senza comprovate ragioni.

 

NOTE

(A)
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4774 della sezione lavoro, depositata il 6/3/2006, prende posizione su una delle condotte ancora sfuggenti dal punto di vista dell’inquadramento giuridico.
La Corte, infatti, fornisce alcune preziose precisazioni sulla definizione giuridica del mobbing.
Serve innanzitutto un comportamento non estemporaneo del datore di lavoro, ma che si sviluppi nel tempo, di natura vessatoria, tale da comportare una lesione dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore.

Per la Cassazione, l’articolo 2087 del codice civile è una norma che può essere riferita ad una situazione di questo genere.
Infatti, tale disposizione vincola l’imprenditore ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità della prestazione, sono idonee a rispondere all’obbligo di sicurezza delle condizioni di lavoro.
L’illecito relativo si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina di lavoro subordinato.

Per la Corte, l’esistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere accertata, con l’avvertenza di tenere presente la totalità degli episodi che sono stati dedotti in giudizio ed ipotizzati come produttori di danno, considerando l’idoneità offensiva della condotta “che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato”.

 

(B)
Stretta della Corte di Cassazione su chi abusa della propria posizione. Pochi mesi di vessazioni fanno scattare la tutela.
Anche, quindi, chi è stato vessato per pochi mesi può ottenere il risarcimento del danno da mobbing.

Le battute grossolane da parte del datore di lavoro sul dipendente possono pesare su un’eventuale valutazione del giudice. Il datore di lavoro deve sempre vigilare ed intervenire quando un lavoratore vessi un sottoposto.

Il monito arriva dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza numero 22858 di data 11 settembre 2008 ha fissato una serie di indicazioni utili per identificare il fenomeno mobbing, almeno sul piano civile e quindi sui margini per un risarcimento. In tempi di lotta contro le vessazioni sul posto di lavoro, da datore a sottoposto, da dipendente a vertice o fra colleghi, la Suprema Corte ha tirato fuori un tris di regole utili per arrestare il fenomeno e per non strumentalizzare ogni parola fuori posto detta in azienda.

Prima di tutto sono rilevanti anche le discriminazioni che si sono protratte solo per qualche mese.
Poi le battute grossolane contro i dipendenti incidono sulla valutazione finale del giudice, ed inoltre il datore di lavoro deve intervenire su quello che i giuristi chiamano il mobbing orizzontale e cioè le vessazioni fra colleghi, per vigilare e scoraggiare comportamenti di altri dipendenti o dei capi, che in qualche modo vessino il sottoposto.

Ancora poi ha affermato la Corte di Cassazione: “né ad escludere la responsabilità del datore di lavoro può bastare un mero e tardivo intervento pacificatore non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un’aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto mobbizzante, quando il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima”.

 

BOSSING

Il “bossing” è definibile come una forma di “mobbing dall’alto”, ossia attuato non da colleghi, ma da un superiore gerarchico (il “mobber” appunto).
Esso è in sostanza una forma di persecuzione attuata attraverso una accorta strategia di vessazioni psicologiche e disciplinari, volta a costringere il dipendente sgradito all’autolicenziamento.

Il fine di questa strategia è evidentemente nel vantaggio di potersi liberare di un dipendente o sottoposto, senza dover sottostare alle norme ed ai procedimenti spesso lunghi ed onerosi previsti dal diritto del lavoro o da accordi sindacali o semplicemente dalle clausole contrattuali.

Quasi tutti i moderni ordinamenti giuridici si sono dotati di una normativa specifica sul “mobbing dall’alto” o bossing, e spesso la legge o gli accordi sindacali prevedono i relativi strumenti e procedure operative a tutela di chi ne è vittima.
La letteratura giuridica sull’argomento è ormai sufficientemente vasta ed articolata, ed anche la casistica inizia ad essere studiata dal punto di vista giuridico e psico sociologico con una certa sistematicità.

Varietà di bossing
Si distinguono le seguenti varietà principali:

  1. job bossing, corrispondente alla classica e più diffusa forma di mobbing dall’alto sul posto di lavoro;
  2. sport bossing, praticato all’interno di una organizzazione sportiva di solito da un allenatore o da un direttore tecnico, che intende indurre la vittima all’autoallontanamento o più semplicemente ad uno stato di soggezione ed obbedienza incondizionata;
  3. school bossing, praticato da un insegnante che usa sistematicamente frasi o espressioni denigratorie, atte ad indurre insicurezza o un calo dell’autostima, oppure mette in atto provvedimenti persecutori ingiustificati a carico di un allievo;
  4. military bossing, tipicamente diffuso in ambienti militari e messo in atto, attraverso espressioni irriguardose e/o provvedimenti disciplinari persecutori, da un superiore a carico di uno o più subordinati;
  5. club bossing, praticato all’interno di una società o associazioni del genere più vario da membri anziani autorevoli o con ruolo dirigente a danno di membri più recenti, o comunque in posizione più debole, la cui attività o presenza non risulti gradita.

 

BULLYNG

Il termine “bullismo” deriva dall’inglese “bullyng” ed è in sostanza la prevaricazione di qualcuno su qualcun altro, con prepotenze di vario tipo ed intensità.
Due studiosi, Sharp S. e Smith K.P.,  definiscono il “bullyng” come un “tipo di azione che mira deliberatamente a far male o a danneggiare; spesso è persistente; talvolta dura per settimane, mesi e perfino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime.
Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere ed un desiderio di intimidire e dominare”.

Intenzionalità, persistenza e disequilibrio sono, dunque, le caratteristiche essenziali che distinguono singoli episodi di violenza, intesi come normali fasi delle dinamiche conflittuali all’interno del gruppo, da atteggiamenti bullistici veri e propri, che si caratterizzano per la ripetitività, per il grado di pericolosità, per il sadismo manifesto nei comportamenti del bullo, per l’intenzionalità persecutoria ed i desideri di vendetta che riattivano, continuamente, il ciclo del fare vittime.
Purtroppo le cronache giornalistiche di quotidiani e servizi televisivi mostrano una elevata frequenza di episodi, in cui brutalità ed ingiustizia irrompono spesso nelle relazioni fra i ragazzi.  

 

STALKING
(si legge: stolchin)

La parola “stalking” significa: “fare la posta” e rende bene l’idea del tipo di comportamento messo in atto dal molestatore, che non lascia tregua alla vittima braccata.
Dal punto di vista etimologico, la parola “stalking” deriva dal linguaggio gergale inglese.  Finalmente anche in Italia potrà essere punito il reato di stalking. La pena prevista per il molestatore sarà da 1 a 4 anni di carcere.
Lo stalking è un comportamento messo in atto da un molestatore, detto appunto stalker, che nella maggior parte dei casi è di sesso maschile, nei confronti di una vittima, solitamente una donna.

Si tratta di una sindrome del comportamento, derivante da problematiche di relazione e di comunicazione interpersonali, che induce il molestatore a comportarsi in maniera ossessiva con telefonate continue, invio assillante di e-mail e di sms, visite non gradite ed appostamenti sotto casa della vittima che, proprio per l’insistenza e la forma ripetitiva ed assillante del gesto, assumono un carattere di persecuzione.

Di solito, lo stalker inizia con comunicazioni mediate (telefonate ed sms) per arrivare alla fine ad un contatto  diretto con la vittima e, nella maggior parte dei casi, alla violenza.

Identikit dello stalker

Generalmente lo stalker è un corteggiatore rifiutato. In altri casi è un ex partner che non si arrende davanti all’evidenza di una storia finita.
La donna diventa, per il molestatore, un oggetto del desiderio, al punto da spingerlo a mettere in atto comportamenti ossessivi.

In Italia, il 70 % degli stalker è di sesso maschile ed ha un’età compresa tra i 18 ed i 25 anni nel caso di un amore respinto; se si tratta di separazione o divorzio, l’età del persecutore sale oltre i 55 anni.
Nel caso della fascia di età più bassa ci si trova davanti a personalità deboli, che spesso hanno subito un’abbandono in età infantile.

Spinti da un insopprimibile bisogno di affetto, instaurano rapporti ossessivi con la persona desiderata che, a volte, è un personaggio famoso. Lo stalker ha un attaccamento morboso alla vittima, di cui non può fare a meno, e proprio per questo può diventare persecutorio.

Di solito non si arriva ad un comportamento aggressivo, ma non bisogna sottovalutare i segnali di pericolo, che possono far pensare ad intenzioni di molestie più serie, come la violenza e perfino l’omicidio.

Alcuni recenti studi hanno accertato che i casi di stalking avvengono con maggior frequenza all’interno dell’ambito familiare, andando ad incrementare il già nutrito numero di violenze subite dalle donne tra le mura domestiche.

Ecco perché, secondo gli esperti, è fondamentale porre sempre grande attenzione ai segnali di un rapporto che sta degenerando e non avere mai paura di chiedere aiuto, al più presto, ai centri che assistono le vittime di questo fenomeno.

Come difendersi
Se ci si trova coinvolte in una situazione di stalking si possono attuare alcuni accorgimenti per cercare di limitare i danni, che a lungo andare possono provocare stati d’ansia, problemi di insonnia, incubi o anche il disturbo post traumatico da stress.

Quando è possibile, è bene evitare il confronto con il proprio molestatore. In caso in cui ci si trovi a faccia con lui, è meglio non affrontarlo con frasi di sfida, ma cercare di instaurare, per quanto possibile, una comunicazione.
Ammettere la propria paura può anche essere un modo per sottrarsi dal proprio persecutore.

Si può anche provare con il pianto, tentando di suscitare pena nell’aggressore, oppure non parlare ed essere il più passivi possibile. Nel caso in cui, invece, si decida di affrontare lo stalker urlando o anche opponendosi fisicamente, occorre valutare i rischi che si corrono accrescendone la rabbia e l’aggressività.

 

A chi rivolgersi
Il consiglio è di rivolgersi sempre a strutture qualificate. In tutta Italia è possibile rivolgersi alla Questura, dove c’è una sezione della squadra mobile specializzata nella violenza sulle donne e nel reato di stalking.
Al nord le denunce sono in aumento, grazie ad una maggiore presa di coscienza delle donne. Al sud invece, purtroppo, mancano i centri e difficilmente la violenza domestica è denunciata, anche se, pare, in aumento.

Gli indirizzi utili:

  1. Centro soccorso violenza sessuale e domestica, che ha sede all’ospedale Mangiagalli in via commenda 12 a Milano (telefono: 02/55032489).
  2. Osservatorio nazionale stalking, rivolto ad autori di violenze: familiari, vittime ed operatori (telefono: 06/44246573).
  3. Casa internazionale delle donne, che offre un servizio di accoglienza ed ascolto per donne in difficoltà (telefono: 06/68809502).
  4. Ed infine, esiste il numero verde: 1522, istituito dal ministero delle Pari opportunità, per chi è oggetto o testimone di violenze.

 

Nota
i lavoratori giudicati incapaci non possono essere automaticamente licenziati. Il loro comportamento non equivale per forza ad un illecito disciplinare, né ad un’inosservanza contrattuale.
Conta insomma anche la buona volontà e non solo il risultato che il capo si aspetta dall’impiegato.
E’ quanto ha stabilito la corte di cassazione, nella sentenza n. 14604/2000, rigettando il ricorso di un’azienda.
Al centro della questione decisa dai giudici è la vicenda di un dipendente accusato dall’azienda di aver perso un cliente, per un’offerta commerciale fatta con tale approssimazione e negligenza da impedire al possibile compratore di prenderla anche solo in considerazione.

Il dipendente, insomma, è obbligato ad un “fare” e non ad un risultato, spiega la suprema corte, che, aggiunge: l’inadeguatezza della prestazione può essere imputabile anche alla stessa organizzazione dell’impresa od a fattori non dipendenti dal lavoratore.

Così, se si tratta di scarso rendimento di un lavoratore, il capo che voglia farlo valere, per licenziare il suo sottoposto, non può limitarsi a provare solo il mancato raggiungimento del risultato che si aspettava di ottenere.
Deve anche dimostrare che l’incapacità contestata sia dovuta al mancato rispetto degli obblighi contrattuali.

Non solo, nel valutare la situazione, bisogna tenere conto anche del grado di buona volontà (o diligenza) dell’impiegato, dei fattori sociali ed ambientali e dell’incidenza dell’organizzazione di tutta l’impresa sul lavoro svolto dal dipendente accusato.

Fonte: http://www.bruzz.net/diritto/Lavori/MOBBING.doc

Sito web da visitare: http://www.bruzz.net/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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