Sicurezza sul lavoro

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Sicurezza sul lavoro

 

La sicurezza del lavoro

 

1. La prevenzione e gli illeciti di pericolo

L'importanza dei beni personali del lavoratore (vita, salute) messi in pericolo dall'esecuzione della prestazione in un ambiente soggetto al dominio del datore di lavoro ha generato un complesso sistema diretto a prevenire gli infortuni sui lavoro e le malattie professionali, attualmente incorporato nel d.lgs. n. 81 del 2008, come corretto e integrato con il d.lgs. n. 106 del 2009.
La spinta verso la prevenzione è diretta ad assicurare una tutela specifica satisfattoria di tali beni, insofferenti, per la loro stessa natura esistenziale, rispetto ad una logica di mera riparazione successiva alla lesione, non restaurabile mediante l'equivalente monetario tipico della tecnica risarcitoria.
La «tutela e sicurezza del lavoro» è affidata alla competenza concorrente della legislazione dello Stato e delle Regioni (art. 117 Cost.).
I destinatari della tutela prevenzionistica sono tutti i lavoratori, privati e pubblici, che espletano la loro attività nell'organizzazione altrui, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, con estensione anche ai soci di cooperativa, associati in partecipazione, tirocinanti, studenti (art. 2, comma 1, lett. a, d.lgs. 81/ 2008).
Il fulcro del sistema è costituito dalla disposizione dell'art. 2087 cod. civ., che obbliga l'imprenditore «ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
Sono previsti numerosissimi precetti antinfortunistici specifici  anche in attuazione di altrettanto numerose direttive comunitarie.
Tuttavia queste disposizioni non esauriscono l'obbligo di sicurezza, poiché si ritiene che il datore di lavoro debba adottare ogni misura utile anche al di là di quelle espressamente previste (cfr. 22.3).
La rimozione od omissione dolosa di alcune misure di sicurezza è punita severamente (art. 437 cod. pen.), ma si verifica di rado, trattandosi di solito di omissione colposa (art. 451 cod. pen.).
L'effettività del sistema di prevenzione è affidata essenzialmente ad una tecnica penale ingiunzionale, mediante la quale il datore di lavoro è posto di fronte all'alternativa di ottemperare all'ordine dell'autorità competente o di subire la condanna penale prevista per il reato di pericolo consistente nella colposa omissione di una specifica misura di sicurezza.
Si tratta di una tecnica assai efficace, non tanto per l'entità delle sanzioni, pure inasprite in materia di sicurezza dal d.lgs. n. 758 del 1994 e, poi, pur con le successive mitigazioni del d.lgs. n. 106 del 2009, dal d.lgs. n. 81 del 2008 in consapevole contrasto con la generale tendenza alla depenalizzazione degli altri precetti lavoristici (cfr. la legge delega n. 499 del 1993 ed il d.lgs. n. 566 del 1994 e n. 758 del 1994), quanto per altri concorrenti fattori quali: la specificità del comando, ostativa delle normali difese circa la interpretazione di una norma generale e astratta e la corrispondenza tra questa e la fattispecie concreta; la certezza dello svolgimento del processo penale in caso di inottemperanza; la responsabilità personale del legale rappresentante della persona giuridica destinatario diretto dell'ordine, senza possibilità di eccepire, nella particolare situazione creata da tale ordine, quella delega di funzioni da ritenersi, per il resto, fisiologicamente ammissibile se effettiva ed a soggetto idoneo.
L'ordine è emanato dall'organo di vigilanza (servizio ispettivo delle aziende sanitarie), titolare di un potere di prescrizione esercitabile solo a seguito dell'accertamento di contravvenzioni di pericolo. Tale prescrizione consiste nell'imporre «specifiche misure atte a far cessare il pericolo per la sicurezza o per la salute dei lavoratori durante il lavoro» ed il suo tempestivo adempimento da parte del datore di lavoro, accompagnato dal pagamento di una somma in sede amministrativa, estingue il reato contravvenzionale punito con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda o della sola ammenda (artt. 19-25 d.lgs. n. 758 del 1994 richiamato dall'art. 301 del d.lgs. n. 81 del 2008).
Si promuove, così, l'effettività del diritto alla salute, mediante un beneficio che trasforma l'incriminazione penale diretta nella descritta tecnica penale ingiunzionale, con il superamento del rigorismo del precedente orientamento giurisprudenziale, secondo cui l'ottemperanza alla diffida dell'Ispettore del lavoro non escludeva il reato di pericolo.
Invece per le contravvenzioni di pericolo punite con la sola pena dell'arresto il giudice può sostituire la pena dell'arresto fino a dodici mesi con il pagamento di una somma determinata ex art. 135 cod. pen., se sono state eliminate tutte le fonti di rischio e le eventuali conseguenze dannose (art. 302 d.lgs. n. 81 del 2008).
Il meccanismo della «prescrizione» è stato ripreso a proposito dei contratti di riallineamento retributivo, consentendo all'impresa stipulante di chiedere un termine per la regolarizzazione in materia di sicurezza, con esclusione, a fini agevolatori, anche dell'obbligo di pagamento della somma in sede amministrativa (art. 5, comma 2 bis-2 quater, legge n. 608 del 1996 aggiunti con l'art. 75, comma 1, d.lgs. n. 448 del 1998).
Una analoga tecnica ingiunzionale assiste le «disposizioni» in materia di sicurezza impartite dal Servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro (art. 11, comma 2, d.p.r. n. 520 del 1955 nel testo novellato dall'art. 11 del d.lgs. n. 758 dei 1994), le quali, a differenza della anzidetta «prescrizione», prescindono dalla commissione di un reato e presuppongono soltanto il pericolo derivante dall'inadempimento dei generale obbligo civilistico di sicurezza dell'art. 2087 cod. civ., di cui costituiscono specificazione.
Il successo della tecnica ingiunzionale ne ha determinato l'estensione a tutta la materia del lavoro e della legislazione sociale.
Il ricorso del legislatore alla illustrata tecnica penale è reso necessario dalla incoercibilità civilistica degli obblighi di fare e di non fare infungibili dell'imprenditore, che impedisce al lavoratore, pur vittorioso in giudizio, di ottenere l'esecuzione coattiva della condanna del datore di lavoro ad attuare la misura di sicurezza violata, con conseguente inammissibilità per inutilità anche di un'azione cautelare. Solo in questo quadro si può apprezzare l'importanza della descritta tecnica penale ingiunzionale, che, incentivando l'osservanza dell'ordine dell'autorità vigilante, tende a garantire l'adempimento specifico dell'obbligo di sicurezza, sopperendo all'assenza di efficaci strumenti civilistici. Sicché anche il «ricorso alle autorità competenti» da parte del rappresentante aziendale per la sicurezza al fine di far cessare la situazione di pericolo sarebbe inutilmente inteso come rivolto al giudice civile, comunque privo di poteri di coercizione diretta o indiretta, dovendo, piuttosto, essere riferito alla autorità di vigilanza o alla magistratura penale.
In caso di gravi e reiterate violazioni della normativa sulla sicurezza gli organi di vigilanza del Ministero del lavoro possono sospendere la parte di attività dell'impresa interessata dalle violazioni fino a quando non siano adottate tutte le dovute misure prevenzionistiche. Alla sospensione si accompagna l'esclusione dalle contrattazioni e gare pubbliche per un periodo massimo di due anni (art. 14 d.lgs. n. 81 del 2008).
Il rispetto della normativa di sicurezza del lavoro è incentivato anche da altre disposizioni, come quelle che commisurano a tale rispetto e all'andamento infortunistico aziendale il premio dovuto dal datore di lavoro all'INAIL (artt. 19-25 All. 5 al DM 12 dicembre 2000) o quelle che condizionano all'osservanza della normativa in esame il beneficio fiscale del credito di imposta per le nuove assunzioni ad incremento dell'organico (art. 7, comma 5 e 7, legge n. 388 del 2000).
Al lavoratore esposto al rischio di infortunio o malattia professionale a causa dell'inosservanza da parte del datore di lavoro delle prescritte misure di sicurezza è consentito, peraltro, rifiutare la prestazione nell'ambiente pericoloso in via di eccezione di inadempimento, sottraendosi così alla situazione pregiudizievole senza rinunziare al rapporto ed al relativo reddito. Questa autotutela è prevista in alcuni casi addirittura come un dovere, penalmente sanzionato, del lavoratore in pre-senza di pericoli non altrimenti evitabili, con espresso ricono-scimento della conservazione del diritto alla retribuzione.

2. La procedimentalizzazione dell'obbligo di sicurezza

L'obbligo di sicurezza grava sul datore di lavoro, che deve adempierlo esercitando i suoi poteri di organizzazione e direzione.
Tuttavia già con l'art. 9 stat. lav, è stato previsto l'intervento di rappresentanze dei lavoratori, con poteri di controllo sulla applicazione delle norme prevenzionistiche, nonché di promozione «di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica».
Solo con le disposizioni del d.lgs. n. 626 del 1994, ora sostituito dal d.lgs. n. 81 del 2008, è stato, però, effettivamente procedimentalizzato l'adempimento dell'obbligo di sicurezza, imponendo al datore di lavoro, per eliminare i rischi o ridurli al minimo, di avvalersi della collaborazione di una serie di soggetti (medico competente, responsabile del servizio di prevenzione e protezione, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) nella elaborazione di un documento contenente la valutazione dei rischi esistenti in azienda e la individuazione delle necessarie misure di prevenzione e protezione, da aggiornare continuamente in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi ed al grado di evoluzione della tecnica prevenzionistica
Il soggetto obbligato rimane, peraltro, il datore di lavoro, definito come il soggetto titolare del rapporto con il lavoratore oppure il soggetto responsabile dell'impresa o dell'unità produttiva «in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» (art. 2, lett. b). Si tratta della recezione in legge del principio giurisprudenziale per cui la responsabilità penale grava sull'effettivo gestore, sia esso il datore di lavoro o un suo reale delegato. Per una valida delega, che comunque non esclude l'obbligo di vigilanza sul corretto espletamento della delega stessa, sono richiesti: l'atto scritto di data certa con l'accettazione scritta del delegato; il possesso da parte del delegato dei necessari requisiti di professionalità ed esperienza; l'attribuzione al delegato dei poteri di organizzazione, gestione e controllo con autonomia di spesa (art. 16). Non sono delegabili la valutazione dei rischi e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione (art. 17). I dirigenti e i preposti sono destinatari iure proprio dell'obbligo di sicurezza a prescindere da una delega .
In caso di somministrazione di lavoro è obbligato il soggetto utilizzatore ed in caso di distacco il soggetto distaccatario (art. 3, comma ). In caso di lavoro autonomo e di appalto interno o co-munque inerente al ciclo produttivo il committente, sempre che abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l'appalto o il lavoro autonomo, promuove la cooperazione ed il coordinamento delle misure di prevenzione elaborando un unico documento sui rischi da interferenza ed è responsabile in solido con l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori per il danno differenziale rispetto alle prestazioni INAIL, con esclusione dei soli rischi specifici delle imprese appaltatrici (art. 26).
La corretta predisposizione del documento e l'attuazione delle misure in esso previste in aggiunta ai precetti specifici legali non garantisce, peraltro, il datore di lavoro da successive "bocciature" da parte dei servizi di vigilanza e dei giudici, che, di fronte ad un infortunio, potrebbero sempre ritenere insufficienti le cautele adottate, con conseguente responsabilità penale e civile dell'imprenditore. Sicché è evidente che il complesso sistema procedimentalizzato non è diretto ad assicurare la certezza giuridica, bensì soltanto a migliorare il livello di sicurezza, lasciando aperta la fondamentale questione relativa al limite dell'obbligo del datore di lavoro.
Un primo passo verso l'indispensabile certezza è costituito dalla prevista asseverazione da parte degli enti paritetici su richiesta delle imprese della attuazione di adeguate misure di sicurezza, con efficacia, per ora, limitata alla programmazione dell'attività degli organi di vigilanza, che riguarderà prioritariamente i soggetti non asseverati (art. 51, comma 3 bis e 3 ter, d.lgs. n. 81 del 2008). Ma, in caso di infortunio, anche il giudice dovrà tenere conto di tale asseverazione, quanto meno per escludere l'elemento soggettivo del reato.
Quanto ai protagonisti del procedimento si ricordano il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il medico competente per la sorveglianza sanitaria, il rappresentante dei lavoratori.
Gli stessi lavoratori, al di là del ricordato diritto-dovere di sottrarsi a situazioni di pericolo, hanno diritto ad essere informati e formati in materia di sicurezza e sono obbligati a collaborare in vari modi alla realizzazione della sicurezza. La violazione di tale obbligo può comportare sanzioni disciplinari e penali, nonché la perdita o la riduzione del risarcimento eventualmente spettante per il danno derivante da un infortunio causato o aggravato da tale inadempimento.

 

3. La repressione degli illeciti di danno

Il datore di lavoro è responsabile penalmente (lesioni colpose; omicidio colposo), salvo valida delega, e civilmente (risarcimento del danno) per l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale determinati dalla violazione dell'obbligo di sicurezza, nei confronti non solo dei propri dipendenti, ma anche dei lavoratori autonomi e dei dipendenti degli appaltatori e subappaltatori che operano all'interno dell'impresa e nell'ambito del ciclo produttivo.
Non si tratta di responsabilità oggettiva, ma una giurisprudenza rigorosissima afferma la responsabilità civile e penale del datore di lavoro per tali eventi, salvo che il medesimo provi ex art. 1218 cod. civ. di avere adempiuto all'obbligo di sicurezza dimostrando non solo il rispetto delle specifiche disposizioni antinfortunistiche, ma anche di aver fatto, al di là di queste, "tutto il possibile" per prevenire l'evento dannoso in ottemperanza al precetto generico dell'art. 2087 cod. civ.
Ne consegue una fortissima incertezza per l'imprenditore, che rischia pesanti condanne civili e penali senza aver potuto conoscere ex ante la regola di condotta da rispettare, individuata solo ex post da giudici e periti.
Questa incertezza viene presentata come inevitabile, a causa della impossibilità di coprire con precetti di legge tutte le esigenze prevenzionistiche legate alla concreta realtà di ciascuna azienda, anche in considerazione delle veloci modificazioni dell'organizzazione produttiva e delle tecniche protettive. Si afferma, così, un imprecisato obbligo per il datore di lavoro di adottare la massima sicurezza tecnologica disponibile sul mercato.
In questo quadro la procedimentalizzazione prevista dal d.lgs. n. 626 del 1994  costituisce mera fonte di responsabilità aggiuntive, mentre si sarebbe potuta utilizzare, mediante la partecipazione anche degli organi di vigilanza e dell'INAIL, quale sistema per l'individuazione, sempre aggiornabile, a livello aziendale di una rete di regole sostanziali certa ed esaustiva, con conseguente superamento dell'incertezza derivante dalla fissazione solo ex post, in sede giurisdizionale, della condotta in concreto dovuta dal debitore.
Una prima importante reazione, poi seguita anche dalla Corte di Giustizia e dalla Cassazione, a questo sistema di incertezza è venuta dalla Corte costituzionale, la quale per la salvaguardia dell'«indefettibile principio costituzionale di necessaria determinatezza delle previsioni della legge penale» che impedisce di sostituire alla discrezionalità dell'imprenditore «il giudice penale e di fatto spesso il suo perito», ha affermato, con riferimento a precetti legali generici (come nella specie quello relativo alle misure da adottare contro il rischio da rumore), che «la sola via per rendere indenne» tale tecnica «dalla denunciata violazione dell'art. 25 Cost. è, allora, quella di fornire, in sede applicativa, una lettura tale da restringere in maniera considerevole la discrezionalità dell'interprete», cioè «restringere in una interpretazione costituzionalmente vincolata le potenzialità della disposizione», ritenendo che «il legislatore si riferisce alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standards di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive», dovendosi il giudice di volta in volta «chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenza nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standards di produzione industriale o specificamente prescritta», con secca esclusione della costituzionalità di una norma «che assegni all'impresa il compito di realizzare innovazioni finalizzate alla sicurezza».
Pertanto, nonostante le resistenze di alcuni oltranzisti, è definitivamente superato, in quanto incostituzionale, il principio di doverosità della massima sicurezza disponibile sul mercato, al quale viene sostituito il più ragionevole criterio del livello di sicurezza generalmente praticato nel settore, il cui miglioramento non rientra nei compiti dell'imprenditore o del giudice, ma resta affidato alla introduzione di nuovi precetti specifici, con piena salvezza della certezza del diritto.
L'altro rilevante passo si deve alla migliore giurisprudenza della Cassazione, secondo cui l'incertezza, più o meno estesa, sulla condotta dovuta dal datore di lavoro deve cessare almeno nel momento in cui, verificatosi l'evento dannoso, il lavoratore agisca in giudizio per chiederne il risarcimento. A questo punto, infatti, il lavoratore ha l'onere di indicare con chiarezza nel ricorso introduttivo, quale causa petendi (art. 414, n. 4, cod. proc. civ.), la specifica misura di sicurezza, nominata o innominata, dalla cui violazione sarebbe, a suo dire, derivato il danno, provando anche il nesso di causalità (art. 1223 cod. civ.) tra asserito illecito e asserito danno. L'onere della prova liberatoria dell'imprenditore debitore di sicurezza ex art. 1218 cod. civ. sorge solo se il lavoratore abbia adempiuto ai predetti suoi oneri, poiché il datore di lavoro ha diritto di conoscere, almeno all'inizio del giudizio, di quale concreto inadempimento è accusato, onde potersi adeguatamente difendere. E, dunque, escluso che la verificazione del sinistro possa essere da sola sufficiente per far scattare a carico dell'imprenditore l'onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l'evento.
La corretta impostazione appena illustrata vale anche per l'eventuale processo penale a carico del datore di lavoro per lesioni colpose o omicidio colposo, nel senso che l'imputazione contestata (artt. 417, 423 e 429 cod. proc. pen.) deve contenere, a pena di nullità, la precisa indicazione della misura di sicurezza asseritamente violata.
La responsabilità per inadempimento dell'obbligo di sicurezza ha natura contrattuale. Con essa si riteneva potesse concorrere anche una responsabilità aquiliana, ma ormai le Sezioni Unite hanno superato tale impostazione, affermando la risarcibiità del danno non patrimoniale anche nell'ambito della responsabilità contrattuale. La natura contrattuale della responsabilità determina, oltre all'esonero del lavoratore dall'onere di provare il dolo o la colpa dell'imprenditore inadempiente (art. 1218 cod. civ.), la competenza del giudice del lavoro, l'applicazione del regime di rivalutazione del credito ex art. 429 cod. proc. civ., l'applicazione del termine di prescrizione estintiva ordinaria decennale ex art. 2946 cod. civ., invece di quello quinquennale proprio della responsabilità aquiliana.
Il risarcimento spetta solo per il danno comprovato dal lavoratore, che può essere patrimoniale in senso stretto per la ridotta capacità di guadagno, o anche non patrimoniale, con riferimento ai pregiudizi di tipo biologico per la lesione dell'integrità psico-fisica con detrimento delle possibilità di realizzazione della persona e morale per la sofferenza interiore.
Il lavoratore deve anche dedurre tempestivamente e provare, oltre al danno, il nesso causale tra l'illecito e il danno (art. 1223 cod. civ.), dimostrando che l'omissione della doverosa misura di sicurezza costituisce elemento insostituibile (condicio sine qua non) della serie causale determinativa dell'evento dannoso e delle sue conseguenze . Il nesso causale non viene meno per il mero concorso colposo dell'imprudente lavoratore che riduce proporzionalmente il risarcimento ex art. 1227, c. 1, cod. civ., bensì solo se interviene un fatto non semplice concausa ma da solo sufficiente a determinare l'evento come in caso di dolo o di rischio elettivo del lavoratore che tenga una condotta anomala e imprevedibile del tutto esorbitante dall'esecuzione della prestazione.
La negligenza del lavoratore, che trasgredisca precetti specifici o ordini ricevuti in materia di sicurezza, è sufficiente ad escludere la responsabilità dell'imprenditore che abbia adottato tutte le necessarie misure prevenzionistiche, tra le quali non rientra quella di sorveglianza continua, mentre è doveroso per il datore di lavoro punire il lavoratore inadempiente.

4. Il mobbing

Da qualche anno si parla di mobbing, riferendosi, ancora in assenza di una definizione normativa, a vessazioni di vario tipo sofferte dal lavoratore nel luogo di lavoro.
In proposito occorre distinguere la condotta già in sé illecita civilmente o penalmente (ad es. assegnazioni di mansioni inferiori, controlli vietati, discriminazioni, sanzioni disciplinari ingiustificate, maltrattamenti, molestie, ingiurie, minacce, diffamazioni, estorsioni, lesioni, atti persecutori) da altre condotte in sé lecite, ma complessivamente dirette a perseguitare il lavoratore.
La sistematicità e permanenza della condotta vessatoria caratterizza sicuramente il fenomeno, mentre non può dirsi altrettanto della intenzione soggettiva di danneggiare il lavoratore, rilevando, piuttosto, come per il comportamento antisindacale, la direzione oggettiva della condotta.
Se la persecuzione proviene dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici si parla di mobbing discendente (detto anche bossing), mentre se i persecutori sono semplici colleghi si parla di mobbing orizzontale e se sono, addirittura, i sottoposti che si coalizzano per vessare il superiore si parla di mobbing ascendente.
Nell'ordinamento vigente il fenomeno può essere inquadrato nella disposizione dell'art. 2087 cod. civ., che impone al datore di lavoro di tutelare non solo l'integrità fisica, ma anche la «personalità morale» del dipendente.
Pertanto il mobbing, al pari delle molestie sessuali, costituisce inadempimento contrattuale quale violazione di un obbligo di non fare (divieto) nel caso di mobbing discendente e quale violazione di un obbligo di fare, consistente nella doverosa protezione del lavoratore nei confronti dell'aggressione dei colleghi o dei sottoposti, nel caso di mobbing orizzontale o ascendente.
Sul piano della ripartizione degli oneri probatori ne consegue che nel mobbing discendente grava sui lavoratore, come per le discriminazioni o per gli atti a motivo illecito, l'onere di provare la violazione del divieto da parte del datore di lavoro c/o dei superiori gerarchici, mentre nel mobbing orizzontale o ascendente il lavoratore deve provare la persecuzione subita dai colleghi o dai sottoposti e la sua conoscenza o conoscibilità da parte del datore di lavoro, spettando poi a quest'ultimo dimostrare di avere adempiuto il proprio obbligo di intervento protettivo.
I rimedi contro il mobbing non hanno nulla di speciale, sicché sono i medesimi esperibili contro gli altri illeciti del datore di lavoro: autotutela estintiva del rapporto mediante dimissioni per giusta causa; autotutela conservativa mediante rifiuto della prestazione non dovuta, come è anche quella da rendere in un ambiente mortificante; ricorso cautelare ex art. 700 cod. proc. civ.; azione di adempimento degli obblighi del datore di lavoro, peraltro con la nota incoercibilità del fare o non fare infungibile; azione risarcitoria per i danni patrimoniali e non patrimoniali (pregiudizi biologici, morali anche da non poter fare, alla professionalità, all'immagine e alla reputazione), con onere della prova del danno sul lavoratore, peraltro assolvibile anche mediante presunzioni.
Se il mobbing è dovuto ad uno dei fattori tipizzati è considerato discriminazione vietata, con la relativa disciplina. A tal fine si fa riferimento a «le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati.., aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (art. 2, comma 3, d. lgs. nn. 215 e 216 del 2003; art. 26 d.lgs. n. 198/06).
Le malattie psichiche derivanti da una organizzazione del lavoro diretta a emarginare il dipendente, definita «costrittiva», erano state considerate malattie professionali (circ. INAIL n. 71 del 2003), ma questa circolare è stata annullata in quanto non rispettosa del procedimento previsto dalla legge per la individuazione delle malattie tabellate, mentre per le altre occorre provare in concreto l'inerenza a lavorazione protetta e il nesso causale.
La legge della Regione Lazio n. 16 del 2002, che definiva il mobbing e predisponeva una organizzazione amministrativa per contrastare il fenomeno, è stata dichiarata incostituzionale per violazione dell'art. 117 Cost, quanto alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile» e di «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e quanto alla competenza legislativa concorrente in materia di «tutela della salute» e di «tutela e sicurezza del lavoro».
Si assiste ad una certa enfatizzazione del mobbing, che è diventato argomento di moda, anche nella letteratura e nel cinema.
In diversi contratti collettivi, sia nel settore pubblico che in quello privato, sono previste commissioni paritetiche aziendali alle quali è  affidata la prevenzione del mobbing in ragione della loro conoscenza dell'ambiente e vicinanza alle vicende concrete, al fine di garantire un intervento immediato rispetto a giudizi spesso espletati a distanza di anni con le note difficoltà di accertamento dei fatti. Laddove il processo risultasse inevitabile, la ricerca della verità sarebbe almeno agevolata dai lavori della commissione.

 

Fonte: http://www.uniroma2.it/didattica/antrotur/deposito/sicurezza_sul_lavoro.doc

Sito web da visitare: http://www.uniroma2.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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