I fiori del male di Baudelaire

I fiori del male di Baudelaire

 

 

 

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I fiori del male di Baudelaire

I fiori del male, di baudelaire

Bisogna essere sempre ubriachi.
Tutto qui: è l'unico problema. 
Per non sentire l'orribile fardello del Tempo 
che vi spezza la schiena e vi piega a terra, 
dovete ubriacarvi senza tregua. 
Ma di che cosa? 
Di vino, di poesia, di virtù, come vi pare. 
Ma ubriacatevi.

Charles Baudelaire

 

in breve…

  • I fiori del male di Charles Baudelaire sono una raccolta poetica di sconvolgente novità, pubblicata a Parigi per la prima volta nel 1857
  • Il tema centrale è il male di vivere dell'uomo immerso nella metropoli moderna, diviso tra tensione al bene e ricerca della perdizione
  • Il poeta è capace di trasformare in «oro» il «fango» della realtà, attraverso una continua ricerca della Bellezza
  • Il mondo ricostruito dalla poesia è la vera realtà, che solo il poeta sa cogliere in tutti i suoi aspetti più nascosti e simbolici

 

controcorrente

«Un sole al tramonto»

 

[Una personalità unica] Baudelaire è uno scrittore (e un uomo) difficile. Difficile da afferrare, da giudicare, da incasellare. Morto di stravizi a 45 anni, inseguito dai creditori, quasi sconosciuto ai suoi contemporanei e odiato dalla critica ufficiale, è uno dei maggiori poeti moderni. Le fotografie che abbiamo di lui lo ritraggono in una posa studiata, con un abito nero, un largo colletto bianco e un papillon di seta, con uno sguardo freddo e intenso su un volto precocemente invecchiato: «l'ultimo bagliore d'eroismo ai tempi della decadenza, un sole al tramonto». 
[Il dandy e il flâneur] E' la definizione del dandy, l'uomo raffinato e aristocratico che odia allo stesso modo le masse popolari e il sistema borghese, lontano dalla politica, dai partiti e dalle chiese, dalle mode letterarie, dedito esclusivamente al culto della bellezza e dell'eleganza. Queste però non si trovano nè nel mondo naturale nè nelle astrattezze del pensiero nè nei miti degli antichi, ma nella vita brulicante e attualissima della capitale d'Europa, Parigi, di cui poeta flâneur (girovago, perdigiorno) conosce l'immensa bellezza e le infinite miserie.
[Il poeta della modernità] Nella sua vita tragica e solitaria e nella sua faticosa opera poetica Baudelaire si propone infatti di esprimere la «bellezza misteriosa della modernità», cioè «il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile». Un'impresa nuova per la poesia, che fa di lui uno dei grandi maestri del nostro mondo contemporaneo.

Una vita da dandy

[La famiglia] Charles-Pierre Baudelaire nasce a Parigi il 9 aprile 1821 da un padre sessantaduenne (un ex prete, divenuto alto funzionario del Senato nel periodo napoleonico) e da una giovane donna di ventisette anni, Caroline Dufays, sposata in seconde nozze. Rimasta vedova pochi anni più tardi, Caroline sposa a sua volta il tenente colonnello Jaques Aupick, con cui Charles intratterrà sempre un rapporto molto conflittuale. La madre resterà invece il suo punto di riferimento fino agli ultimi anni di vita, come testimonia il numero e la profondità delle lettere che scambiava con lei.
[L'educazione] Dopo un periodo trascorso a Lione con la famiglia, Charles viene iscritto in un collegio parigino, dove ottiene risultati molto brillanti e comincia a leggere gli autori della letteratura contemporanea. Pochi mesi prima del diploma viene però espulso per indisciplina: aveva rifiutato di consegnare all'insegnante un biglietto passatogli da un compagno.
[Diciott'anni] Nel 1839 Charles ha 18 anni: il suo patrigno, militare tutto d'un pezzo, vorrebbe fare di lui un diplomatico, ma lui vuole scrivere. Vuole soprattutto vivere una vita diversa da quella della borghesia 'bene' di Parigi. La prima poesia dei Fiori del male (Benedizione) alluderà a questo difficile momento della sua vita: «Allorché, per decreto delle potenze supreme, il Poeta appare in questo mondo attediato, sua madre impaurita e carica di maledizioni stringe i pugni verso Dio...».  Studente del primo anno di giurisprudenza, vive in un appartamento parigino e conduce una vita fin troppo libera: spende senza controllo, frequenta prostitute, beve, fuma e contrae una malattia venerea che minerà profondamente la sua salute. Aupick, diventato nel frattempo generale, decide di allontanarlo da Parigi e lo imbarca su una nave con destinazione Calcutta. Charles però non sopporta di stare lontano dalla Francia e in India non arriverà mai: cinque mesi dopo la partenza, sbarca a Bordeaux e torna a Parigi.
[L'eredità paterna] A ventuno anni, raggiunta la maggiore età, chiede di entrare in possesso dell'eredità paterna e ottiene così circa 100.000 franchi, che gli permettono di stabilirsi in un bell'appartamento in pieno centro, dietro la cattedrale di Notre-Dame (da allora cambierà di domicilio molte volte, incapace di stabilirsi in una casa). A questi anni risale l'inizio della lunga e tormentata storia d'amore con l'attrice haitiana Jeanne Duval, che ispirerà molte delle sue poesie più sensuali. In due anni Charles brucia con la sua dispendiosa vita da dandy metà del suo patrimonio e la madre è costretta a nominare un tutore che gli darà d'ora in poi al massimo 200 franchi al mese. E' per lui uno smacco tremendo, che lo costringe a dipendere ancora dalla famiglia: Baudelaire contrae allora debiti su debiti per affrontare la sua vita dispendiosa e per pagare gli interessi.
[Le prime opere] Il suo nome si fa intanto conoscere per una serie di pubblicazioni di critica d'arte, dedicate ai maggiori artisti contemporanei, tra cui Delacroix (vedi pag. XXX), e per alcune poesie, che entreranno poi a fare parte della sua raccolta maggiore. Un ultimo tentativo di riconciliazione con il patrigno, fallisce e qualcuno dice di aver sentito Baudelaire gridare sulle barricate di Parigi di voler fucilare il generale Aupick.

I fiori del male

[Traduzioni e poesia] Dopo aver partecipato in prima linea all'insurrezione popolare del 1848 (più per «piacere della demolizione» che per una vera scelta politica), Baudelaire si dedica pienamente all'attività letteraria. Traduce lo scrittore americano Edgar Allan Poe (vedi pag. XXX), da cui è affascinato, e continua a pubblicare poesie su diverse riviste parigine. L'anno cardine della sua vita è il 1857: muore l'odiato patrigno, sua madre si trasferisce in una villa in Normandia ed escono a pochi mesi di distanza una sua traduzione dei Racconti fantastici di Poe e la prima edizione del volumetto di poesie I fiori del male.
[Il processo] A proposito di quest'ultimo il giornale parigino Le Figaro parla immediatamente di «mostruosità» e si scatena contro un'opera che bolla come «odiosa, ignobile, ributtante e malata»: due settimane dopo il libro è fatto sequestrare dalla Censura come pubblicazione oscena; Baudelaire viene condannato a pagare 300 franchi di multa e a cancellare sei poesie (il pubblico ministero è lo stesso che pochi mesi prima aveva pronunciato la sua requisitoria contro Madame Bovary di Flaubert, vedi pag. XX).
[La scrittura e il dolore] Gli anni successivi sono quelli più produttivi per Baudelaire, che scrive articoli di critica letteraria, artistica e musicale, poesie e poemi in prosa, e due importanti saggi sui «paradisi artificiali» dell'oppio e del vino, e su pittura e modernità. Viaggia spesso tra la casa della madre in Normandia e quella di Jeanne a Parigi, tormentato dalle difficoltà economiche, dalle conseguenze dell'abuso di droghe e alcol, e dalla sifilide contratta anni prima. Nel 1861, mentre esce la seconda edizione dei Fiori, Baudelaire invia la sua candidatura all'Accademia francese: il gesto può parere sorprendente per un artista che rifiutava programmaticamente la cultura ufficiale, ma si può capire considerando il suo estremo desiderio di riconoscimento, non solo da parte della società ma anche della famiglia, in particolare di sua madre, al cui giudizio restò sempre fortemente legato. Un membro della prestigiosa istituzione gli consigliò tuttavia di rinunciare: non avrebbe ottenuto un solo voto favorevole.

A Bruxelles

[In Belgio] Nel 1864 Baudelaire decide di fare un viaggio in Belgio per una serie di conferenze   pagate (i creditori lo assediano...) sulla letteratura e sull'arte francese, che però hanno uno scarso successo. Qui ritrova anche il suo vecchio amico editore dei Fiori del male, sfuggito alla prigione per debiti in Francia. Sempre alla ricerca di soldi, il poeta propone senza esito la sua opera a un editore di Bruxelles e comincia a scrivere un saggio sui Belgi per i lettori francesi. Il suo stato di salute però peggiora, non riesce a portare a termine nulla e, per calmare i suoi dolori, fa uso massiccio di oppio.
[Due ammiratori] Mentre si trova a Bruxelles, quasi ignorato dai suoi contemporanei, due poeti ventenni scrivono su di lui parole lusinghiere in una nuova rivista parigina: sono Stéphane Mallarmé e Paul Verlaine, che diventeranno i protagonisti della stagione poetica francese di fine Ottocento (vedi pag. XXX). Baudelaire ne viene informato e annota: «questi giovani mi fanno una paura cane. Non desidero altro che restare da solo».
[La fine] Nel marzo del 1866, durante una visita in una chiesa, il poeta si sente male e viene portato in fretta a Bruxelles in una clinica di suore, dove l'indomani ha delle complicazioni cerebrali: è paralizzato nella parte destra e non riesce più a parlare. Sua madre e il suo tutore accorrono al suo fianco e i suoi pochi amici lo assistono teneramente. Baudelaire farà ancora in tempo a vedere «con la gioia di un bambino» la pubblicazione di un'ultima serie di poesie, tra cui quelle condannate dei Fiori del male. Trasferito in una clinica parigina a spese dello stato, vi morirà il 31 agosto 1866 e sarà sepolto al cimitero di Montparnasse.

 

Ricorda le date

9 aprile 1821: nasce a Parigi

1857/1861: pubblica I fiori del male (prima e seconda edizione)

1864: si trasferisce a Bruxelles

31 agosto 1866: muore a Parigi

la poesia, un paradiso artificiale

Il rifiuto del mondo borghese

[Contro la borghesia] Come abbiamo detto nell'introduzione alla sua biografia, Baudelaire è un personaggio difficilmente etichettabile, che espresse nella sua vita e nella sua opera una posizione solitaria, lontana da una precisa scuola artistica e letteraria e senza una particolare collocazione politica. Tuttavia, un elemento che sicuramente lo caratterizza e che emerge più volte nei suoi diari è il rifiuto della borghesia. La sua rivolta comincia nelle tristi solitudini dell'infanzia e dell'adolescenza, nei collegi lionesi e parigini, dove non ha amici e si sente un estraneo ai valori che gli vengono inculcati. Il patrigno in particolare, militare ambizioso dalla carriera folgorante, rappresenta per lui il simbolo di un ordine e di un mondo che lo vuole inquadrare e inserire sulla strada maestra della buona professione, della bella casa e della famiglia felice, che egli odia con tutte le sue forze, ritenendola falsa e ipocrita. Quella della letteratura è dunque una scelta 'contro': la scelta aristocratica dell'inutile e del superfluo.

[La fine dello spirito] Alla borghesia – e, in generale, all'uomo moderno - Baudelaire rimprovera principalmente il suo materialismo e la sua adorazione del «dio dell'Utile», che hanno come conseguenza l'atrofizzarsi della vita spirituale. Come scrive in una pagina famosa, in un futuro non lontano «il figlio fuggirà la famiglia non a diciott'anni, ma a dodici, emancipato dalla sua ingorda precocità; fuggirà non per cercare eroiche avventure, non per liberare una bella dama prigioniera in una torre, non per immortalare una soffitta con sublimi pensieri, ma per fondare un commercio, per arricchirsi e far concorrenza al suo infame papà... Allora le donne non saranno fatte che di spietata saggezza, saggezza che condannerà tutto, meno il denaro, tutto, anche gli errori dei sensi. Allora, quello che avrà l'aspetto della Virtù, che dico? quello che non rientrerà nell'ardore verso il Denaro, sarà considerato ridicolaggine immensa. La giustizia, se in quell'epoca colma di ricchezze potrà ancora esistere la giustizia, farà interdire i cittadini che non sappiano far fortuna... Quei tempi sono molto vicini, forse sono già venuti».
[Il dandismo] La conseguenza di questa opposizione frontale al mondo borghese è la costruzione meticolosa (dai vestiti alla pettinatura, dai cibi alle bevande alle frequentazioni) di una personalità incompatibile con esso: al posto del generale, dell'alto funzionario, del banchiere, dell'editore, tutte figure 'utili', positive, con un ruolo importante nel sistema, Baudelaire fa di se stesso un personaggio aristocratico, che conduce la sua lotta solitaria in nome del Bello contro la volgarità che avanza. Se la democrazia - la più grande conquista borghese - è il trionfo dell'uguaglianza e del numero, egli si batte al contrario per la differenza. La sua figura è simile a quella di un cavaliere medievale, con tanto di cavallo e armatura, che cerca di districarsi nel traffico di Parigi, e che deve inventarsi sempre qualcosa di nuovo per arrivare alla fine del mese. Ma non si tratta di una condizione felice: Baudelaire è un uomo sofferente che sperimenta fino in fondo il male di vivere.

Il «male» della modernità

[Individuo e società] Il male è innanzitutto quello dell'individuo immerso nella società moderna, ridotto a un numero, soggetto a meccanismi immodificabili, violentato nelle sue aspirazioni più intime e nella sua ricerca di autenticità. Della grande città appaiono allora al poeta girovago (il flâneur)non i monumenti o le glorie urbanistiche, ma le case degradate, le prostitute, i poveri, gli ubriachi, i medicanti, le vecchie e le vedove. Egli sente una particolare vicinanza a questi relitti, che Parigi genera e mantiene come corollari della sua grandezza, anche perché essi rappresentano la sua stessa marginalità. Il suo sguardo sul presente non è positivo, ottimista, ma malinconico, come di chi sa che nella città ci si può al massimo perdere o stordire, ma mai essere felici.
[L'uomo e il male] Questa simpatia per gli esclusi ha però più un valore metaforico che sociale, e non prelude a qualche programma di cambiamento o di riscatto attraverso la politica, la religione o la morale. Baudelaire non ha vie di salvezza da proporre. Il male che affolla la vita umana infatti, quello che riempie le pagine del giornale che il ricco borghese sfoglia ogni mattina con noncuranza, è profondamente radicato nell'uomo ed è parte costitutiva della sua stessa esistenza, in qualsiasi parte del mondo, sotto qualsiasi cielo. Come scrive nella poesia dedicatoria Al lettore «la stoltezza, l'errore, il peccato, l'avarizia» abitano l'anima e agitano il corpo, il Diavolo  «regge i fili che ci muovono», «gli oggetti ripugnanti ci affascinano» e «ogni giorno discendiamo d'un passo verso l'Inferno». L'uomo vive diviso tra il desiderio del vizio e l'aspirazione al bene, e i confini tra i due termini non sono mai chiaramente distinguibili: anzi, spesso «Satana» è molto più attraente e bello di Dio.
[Il poeta senza aureola e 'maledetto'] Il poeta dandy si propone dunque al mondo come un escluso, fiero della sua diversità, che vive con tutto se stesso il male comune agli altri uomini, smascherando falsi miti e ipocrisie. Siamo però molto lontani dal 'vate' romantico che illuminava la strada per il suo popolo: il poeta baudelairiano non ha più nessuna funzione sociale e il suo destino è la solitudine e la marginalità, tra l'incomprensione e il disprezzo dei suoi concittadini. In un famoso poemetto in prosa, chiamato significativamente Perdita d'aureola, Baudelaire inscena un dialogo tra un poeta e un uomo 'normale', che rimprovera al primo di frequentare – anche lui, un essere 'superiore' – un bordello. Il poeta risponde di aver perduto la sua «aureola» in mezzo al traffico della strada e di poter finalmente «girare in incognito, fare delle bassezze e darmi al vizio come i semplici mortali»: del resto la «dignità» del poeta gli era venuta a noia. Baudelaire ci vuol dire insomma che il poeta non è più un essere superiore a cui gli altri guardano con rispetto e venerazione, ma una persona qualsiasi, persa tra la folla, dedita ai vizi comuni. In molti componimenti c'è addirittura un compiacimento dell'essere 'maledetti', di vivere una vita torbida, malata, peccaminosa. Non si tratta però solo di una posa, come succederà a molti 'decadenti' di qualche anno più tardi (vedi il capitolo XXX a pag. XXX), se è vero che, in una lettera di sfogo indirizzata al suo amico fotografo Nadar, Baudelaire confessava di non poterne più di essere considerato il «Principe delle Carogne». Il «male» infatti è solo uno dei poli dell'esistenza baudelairiana: l'altro sono «i fiori». Cioè la poesia.

La poesia: dal fango all'oro

[Il fango e l'oro] In un abbozzo di componimento che avrebbe dovuto chiudere la seconda edizione dei Fiori del male, Baudelaire scrive questi versi rivolgendosi alla sua città e ai tanti personaggi da lui ritratti: «Siate testimoni che ho fatto il mio dovere / come un perfetto chimico, come una santa anima, / perché da ogni cosa ho ricavato la quintessenza. / Tu m'hai dato il tuo fango e io ne ho fatto oro». I versi non furono pubblicati, ma si tratta sicuramente della più interessante dichiarazione di poetica dell'autore.
[La poesia come artificio] Il punto di partenza della poesia è il «fango», che il poeta trova tutti i giorni nella sua Parigi. Da qui, da questa bruciante verità, prende le mosse il percorso letterario, che si realizza in un lungo e paziente lavoro di distillazione. Niente è infatti più lontano da Baudelaire della concezione romantica della poesia come trasposizione immediata e spontanea del sentimento prorompente (l'arte come vita): «la capacità di sentire del cuore non è propizia al lavoro poetico». Per lui la poesia è sudore, tecnica, «dovere», frutto di una «voluta impersonalità»: il poeta è uno scienziato capace – grazie al suo lavoro formale e alla paziente costruzione dei versi - di estrarre la bellezza (l'«oro») dalla materia volgare che ha davanti, quasi come Dio che crea l'uomo dal fango (non a caso, in un altro passo, Baudelaire definirà la poesia «la Carne che si è fatta Verbo»). Questo non vuol certo dire che la letteratura sia una pura finzione, ma che la verità artistica si trova ben più in alto di quella della realtà quotidiana, e che essa è frutto di una costruzione artificiale (la vita come arte).
[La cura formale] Quanto detto spiega anche la singolare convivenza nella poesia di Baudelaire di contenuti rivoluzionari e forme tipiche della più alta tradizione letteraria: in primo luogo il frequentissimo uso dell'alessandrino, un verso classico francese (corrispondente per importanza all'endecasillabo italiano), composto da due emistichi ('mezzi versi') di sei sillabe; ma anche di strutture strofiche (normalmente quartine) con rime baciate (AABB, CCDD, ecc.), alternate (ABAB, CDCD, ecc.), incrociate (ABBA, CDDC, ecc.); infine del sonetto (ce ne sono più di quaranta), una delle forme più antiche della poesia europea. Il linguaggio poetico è inoltre arricchito da un'aggettivazione ricercatissima e da metafore e similitudini continue. Una scelta stilistica che i suoi ammiratori non sempre compresero: il giovane Rimbaud (vedi pag. XX), che esaltava in lui il «re dei poeti, un vero Dio», lo accusava di essere ancora troppo letterato: «la forma così vantata in lui è meschina: trovare l'ignoto esige forme nuove». 
[Un terapia del male]  Ma per Baudelaire «lo spaventoso, espresso con arte, diventa bellezza e il dolore ritmizzato, articolato, riempie lo spirito di una gioia tranquilla». In altre parole, estrarre i fiori dal male, trasformandolo in qualcosa di bello è l'unico modo per affrontarlo e renderlo sopportabile. Per questo, alla fine della sua opera, il poeta si sente un'anima «santa», che si è purificata insieme all'oggetto del suo lavoro. La poesia è dunque un'attività terapeutica, che conduce allo speciale paradiso del poeta-chimico: meglio dell'hashish e del vino, è l'unica droga capace di far convivere l'uomo moderno con il suo male esistenziale.

La dimensione simbolica della realtà

[La parola come magia] Distillatore di bellezza, il poeta-chimico lavora dunque sulla parola e costruisce con la sua arte un mondo diverso da quello che appare ai più. «C'è nella parola, nel verbo, qualcosa di sacro, che ci vieta di farne un gioco d'azzardo. Maneggiare sapientemente una lingua significa esercitare una specie di magia evocatrice», scrive Baudelaire in un saggio. Questa affermazione va intesa in due sensi: innanzitutto la poesia è capace di creare con la sua parola una realtà autonoma, che proietta i suoi significati su quella 'reale'; in secondo luogo può 'leggere' nella realtà di tutti i giorni valori simbolici, trovando in essa «corrispondenze» inedite e significati che vanno al di là della semplice apparenza. Si tratta di una prospettiva molto ampia, che prevede una profonda unità di mondo interno ed esterno, di fantasia e realismo, di natura e artificio. Per questo Baudelaire poteva scrivere in un articolo che la «poesia è ciò che c'è di più reale, è ciò che non è completamente vero se non in un altro mondo».
[Corrispondenze e unità del reale] Il componimento che nei Fiori del male meglio esprime questa capacità sovrannaturale della parola poetica è intitolato, appunto, Corrispondenze. La realtà che ci circonda vi è definita come «un tempio» i cui «pilastri viventi lasciano sfuggire parole confuse» e in cui «l'uomo attraversa foreste di simboli». In essa «i profumi, i colori e i suoni si rispondono», facendosi eco da lontano «in una tenebrosa e profonda unità»: ci sono «profumi freschi come carni di bambino, dolci come òboi, verdi come prati» e altri «corrotti, ricchi e trionfanti» che hanno «l'espansione delle cose infinite» e «cantano i trasporti della mente e dei sensi». Non è né l'immaginazione romantica né la realtà di cui parlano realisti e naturalisti: siamo in un mondo totalmente nuovo, sovrannaturale, perché ricreato dalla poesia, in cui crollano i confini tra le cose e si rivela una unità originaria. Per questo un profumo può essere carnoso o verde oppure suonare come uno strumento musicale: si tratta della figura retorica della sinestesia, in cui vengono fuse esperienze sensoriali diverse. Per questo la realtà si espande all'infinito e si arricchisce di nuovi e complessi significati.
[Un esempio] Un esempio può essere utile a comprendere questa dimensione simbolica del reale. In una famosa poesia che riportiamo sotto (Il cigno, pag. XX), il poeta sta attraversando una piazza di Parigi completamente rinnovata: improvvisamente gli torna alla memoria Andromaca (la vedova di Ettore, il famoso difensore di Troia), ritratta nel poema latino Eneide nell'atto di rendere omaggio alla tomba del marito in terra d'esilio, lungo un torrente che ricorda il grande fiume della sua città perduta. Anche il poeta è un esule: la Parigi di un tempo è stata distrutta, spazzata via dalla modernizzazione urbanistica, e anche lui rende omaggio a una città che non c'è più. Solo la memoria dei supersiti ricorda ciò che c'era dove ora ci sono solo rottami: proprio lì un giorno c'era un serraglio e il poeta ha visto un cigno fuggito dalla sua gabbia, che si trascinava convulsamente sul selciato lungo un rigagnolo, invocando la pioggia e sognando il lago in cui era nato. Come si vede, ogni cosa rimanda a tutte le altre, grazie al suo significato nascosto, simbolico, che il poeta però vede chiaramente: Andromaca, il cigno e il poeta si 'corrispondono' nella loro condizione di esuli senza speranza e condividono una tensione struggente (e vana) verso un passato perduto (il marito morto, il lago natale, la Parigi che non esiste più). Una passeggiata in centro diventa così una meditazione sull'esilio e sulla solitudine dell'uomo, in cui i ricordi letterari e le esperienze visive sono simboli che proiettano il loro significato sulla realtà e gli danno il suo vero senso.
[Simboli antichi e moderni]Che il cigno significhi esilio e solitudine naturalmente non è scontato per tutti (altri potrebbero vederci l'eleganza, la bellezza, la purezza): è la speciale sensibilità del poeta, la sua capacità di 'vedere' oltre il sensibile che gli permette di cogliere quella segreta dimensione delle cose che sfugge alle persone normali, e di collegare in questo modo realtà che sembra non abbiano nulla a che fare tra loro. La concezione simbolica del reale non è naturalmente un'invenzione baudelairiana, ma risale a una tradizione antichissima, particolarmente legata in occidente alla cultura cristiana, che da sempre aveva dato significati simbolici a degli elementi della vita quotidiana: si pensi per esempio ai diversi simboli di Cristo, dal pesce all'agnello al pastore; oppure al vento, al fuoco o alla colomba per lo Spirito Santo; al serpente e al drago per il Diavolo; e così via. Per il credente ogni cosa del creato rimandava a un significato superiore, divino, e aveva un senso nella disegno eterno della creazione: mentre nel simbolismo antico però i valori nascosti erano condivisi da una comunità, dati per scontati e legati a una tradizione sacra, in quello moderno essi sono frutto della isolata veggenza del poeta.
[Simbolo e allegoria] Dalla tradizione letteraria medioevale e cristiana Baudelaire recupera anche un certo gusto per l'allegoria, che utilizza in molte delle sue poesie più famose, fino a dire, sempre nel Cigno, «Tutto m'è allegoria»: tutto cioè, rimanda ad altro. Questo è infatti il significato originario del termine, che si distingue però dal simbolo, in quanto – lo diremo in modo semplificato – l'allegoria è un insieme di simboli ordinati in una storia. Si pensi a Dante che, all'inizio della sua Commedia, mette in scena se stesso perso in una foresta oscura (simbolo del peccato), minacciato da tre animali feroci (simboli di tre gravi vizi), salvato dal poeta romano Virgilio (simbolo della ragione). Si tratta di una rappresentazione il più possibile realistica di una condizione spirituale: l'anima assediata dai peccati viene salvata dalla ragione che la introduce a un lungo itinerario di conoscenza, di pentimento e di fede, che la ricongiungerà infine a Dio. Anche Baudelaire usa dei procedimenti simili, raccontando in modo allegorico l'esperienza della noia (si veda sotto Spleen, pag. XXX), sia 'leggendo' allegoricamente delle vicende quotidiane, come in Albatro (vedi pag. XXX)o nel già citato Cigno          

Oltre il Romanticismo, verso il ‘moderno’

[Oltre il romanticismo] Queste concezioni poetiche collocano Baudelaire molto oltre il Romanticismo, anche se la sua opera sarebbe impensabile senza la 'rivoluzione' portata nell'Europa dell'Ottocento da questo movimento. Da una parte egli ne conserva alcune lezioni fondamentali: la scelta della contemporaneità come oggetto della poesia, la centralità dell'io del poeta, la concezione dell'uomo come essere diviso tra cielo e terra, il rifiuto della noiosa realtà, la rottura antiborghese, la tensione all'Infinito e all'Ignoto. Molte sono però anche – come si è visto – le profonde innovazioni, che richiamiamo qui sinteticamente:

  • il rifiuto dell'immediatezza e dell'autobiografia;
  • la raffinata ricerca formale e la studiata architettura della raccolta poetica;
  • la lettura simbolica della realtà;
  • la solitudine del poeta, la sua estraneità alla comunità, il rapporto conflittuale con il pubblico;
  • il conseguente elitarismo della poesia (la poesia come attività che si rivolge a una minoranza e non alle masse). 

[L'arte fine a se stessa] A questi elementi ne dobbiamo aggiungere un altro: l'opposizione all'idea tutta romantica  che l'artista debba essere 'impegnato' ed occuparsi dei grandi temi sociali, politici e morali del presente, per portarvi il proprio alto contributo. Per Baudelaire al contrario, l'arte è esclusivamente fine a se stessa: «Molti s'immaginano che lo scopo della poesia sia un qualche insegnamento che debba sia fortificare la coscienza sia perfezionare i costumi sia infine dimostrare un qualche cosa di utile... La poesia in realtà non ha altri scopi che Se stessa; non può averne altri, e nessuna poesia sarà così grande, così nobile, così veramente degna del suo nome di quella che sarà stata scritta unicamente per il piacere di scrivere una poesia». I borghesi «imbecilli» che lo accusano di immoralità sono come «Louise Villedieu, puttana da 5 franchi, che un giorno, mentre mi accompagnava al Louvre (dove non era mai stata) diventò tutta rossa e si copriva il volto, e, tirandomi ad ogni momento per la manica, mi domandava davanti alle statue e ai quadri immortali, come si potevano esporre pubblicamente delle indecenze simili».
[Contro il realismo] La moralità dell'arte è insomma pura ipocrisia borghese: l'arte deve essere vera, non morale; deve cioè venire dal fango della realtà ed esprimerne l'essenza più profonda.Questo però non significa – come si è visto - allinearsi su posizione realiste, dal momento che, per Baudelaire, la realtà in se stessa è povera e brutta e non ha nulla da comunicare. Solo l'intervento dell'io dell'artista permette la distillazione della bellezza e quindi la poesia. Da qui anche l'esaltazione della pittura e la condanna della fotografia, dietro cui si nascondono un «amore dell’osceno» (il vero 'naturale') e un irrimediabile «impoverimento del genio artistico». 
[Contro la Natura] C'è un ultimo 'pilastro' del Romanticismo che Baudelaire rifiuta: il dialogo con la Natura. Cittadino fin nel profondo di se stesso, non sopporta il 'naturale' e tutta la sua mitologia. Illuminanti le sue parole a un editore: «Mi chiede dei versi per il suo piccolo volume sulla natura, vero? sui boschi, i grandi alberi, il verde, gli insetti, il sole, senza dubbio... ma lei sa bene che io sono incapace di intenerirmi per dei vegetali... non crederò mai che l'anima di Dio abiti nelle piante e, anche se fosse vero, me ne preoccuperei davvero poco e considererei la mia ben più preziosa di quella di legumi santificati». A un usignolo preferisce un carillon e l'acqua in libertà gli ripugna: «non l'ammetto che prigioniera nella morsa di un argine».
[La metropoli] La protagonista assoluta della poesia baudelairiana è invece la metropoli moderna, Parigi, città amata e odiata, capitale dell'aborrito mondo borghese e fonte inesauribile e affascinante di ispirazione. Al contrario della Natura romantica è il regno dell'artificiale, delle mode e dell'effimero, del teatro, dello spettacolo e dei divertimenti, dove le vecchie costruzioni si mescolano ai moderni palazzi e le strade rimbombano di traffico e di passanti frettolosi. Il vero regno del flâneur, che gode nel mescolarsi tra la folla e nel farsi trascinare dal suo movimento continuo «come l’aria è il regno dell’uccello, e l’acqua è l’elemento del pesce. Sposarsi alla folla è la sua passione e la sua professione. Per il perfetto perdigiorno, per l’osservatore appassionato, è una gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell’ondeggiante, nel movimento, nel fuggitivo e nell’infinito. […] Così l’innamorato della vita universale entra nella folla come in un’immensa centrale di elettricità. Lo si può paragonare a uno specchio immenso quanto la folla; a un caleidoscopio provvisto di coscienza, che, ad ogni suo movimento, raffigura la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti gli elementi della vita. E' un io insaziabile del non io, il quale, a ogni istante, lo rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa, sempre insaziabile e fuggitiva». Se dunque da una parte Baudelaire condanna la modernità cittadina in quanto fonte di alienazione e di dolore, è quella stessa modernità a costituire il contesto e l'oggetto della sua poesia e a distinguerlo da tutti i poeti precedenti.  

I fiori del male

Presentazione dell’opera

[Genesi dei Fiori del male] Molte delle poesie presenti nella prima edizione dei Fiori del male erano già state pubblicate su diverse riviste a partire dal 1845 (le più vecchie risalivano probabilmente all'anno del viaggio 'educativo' in India). Baudelaire aveva infatti accarezzato a lungo l'idea di pubblicare un libro, per cui aveva trovato il titolo «bomba» di Le Lesbiche, con riferimento alla famosa poetessa greca Saffo, originaria dell'isola di Lesbo, ma anche all'omosessualità femminile. Il titolo era stato poi trasformato nel più «misterioso» I Limbi, che voleva forse alludere all'incertezza della condizione umana (nella tradizione cristiana il Limbo era il luogo dell'aldilà dove si trovano gli innocenti morti prima del battesimo, il cui destino non poteva essere dunque né l'inferno né il paradiso).
[Il titolo] «Fiori del male»risale invece al 1855, a una discussione in un caffè parigino con un giornalista della Rivista dei due mondi, che pubblicò in quell'anno una raccolta di 18 poesie: i «fiori» erano intesi come il frutto della poesia, capace di «estrarre la bellezza dal male» in cui è immerso l'uomo.
[Due edizioni]Finalmente nel 1857, dopo un estenuante lavoro di correzione di bozze («il libro uscirà quando piacerà a Dio e a Baudelaire», usava dire l'editore), I Fiori del male arrivano sul mercato parigino in 1.100 copie. A questa prima edizione ne seguirà un'altra quattro anni dopo, accresciuta da 35 componimenti e rimaneggiata nella disposizione delle poesie.
[La costruzione della raccolta] Baudelaire dedicò una grandissima attenzione alla disposizione dei componimenti della raccolta che aveva – come scrisse a sua madre - una «bellezza sinistra e fredda», frutto nello stesso tempo di «furore e pazienza». I fiori del male non sono – come accadeva per i Romantici - il riflesso di un percorso autobiografico, né sono ordinati in modo cronologico, ma secondo un attento studio estetico e tematico: «non si tratta di un semplice album, ma c'è un inizio e una fine» e una «struttura derivata da una scelta precisa». Al componimento iniziale dedicato Al lettore, seguono sei sezioni di diversa lunghezza, che costituiscono un vero e proprio itinerario nel dolore umano e nelle possibili vie di uscita da esso:
[Le sezioni]

  1. Spleen e Ideale è un gruppo di 85 poesie dedicate alla condizione dell'uomo, sospesa tra tensione idealità e abbrutimento. Si possono identificare tre parti: la prima sull'arte e sulla grandezza e miseria della figura del poeta; la seconda dedicata all'amore e alle donne; la terza sullo «spleen», l'angoscia che pervade l'uomo moderno.
  2. Quadri parigini (inserita nel '61)comprende 30 poesie che raccontano un'intera giornata per le strade della grande città, dall'alba al tramonto.
  3. Il vino è composta da 5 poesie dedicate al 'paradiso artificiale' dell'alcol e al suo valore consolatorio.
  4. Fiori del Male sono invece 9 poesie dedicate al Male, al vizio e all'eros.
  5. Rivolta contiene 3 poesie di ribellione contro Dio e il sistema da lui creato.
  6. La Morte comprende infine 6 poesie dedicate «all'unico vero scopo della detestabile vita», la morte, intesa come via di uscita dal mondo della noia.

 

TESTO 1 - L'albatro
E' una delle poesie più vecchie della raccolta e risale forse al viaggio forzato di Baudelaire nei mari del Sud. Il grande e impacciato uccello di cui i marinai si prendono gioco è l'immagine del poeta che non teme le tempeste del cielo, ma è inadatto alla vita sulla terra e disprezzato dai suoi contemporanei.

Spesso, per divertirsi, i marinai
prendono degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.

L'hanno appena posato sulla tolda
E già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso,
pietosamente accanto a sé strascina
come fossero remi le grandi ali bianche.

Com'è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!

Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l'uragano e ride degli arcieri ;
esule in terra fra gli scherni, non lo lasciano
camminare le sue ali di gigante.

Charles Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 1973

Leggiamo insieme – La fine del 'vate' romantico

 

Il 'ciclo del poeta'
Questa poesia 'da manuale', contenuta nella sezione Spleen e Ideale, è la seconda della raccolta e appartiene a un gruppo di sedici componimenti dedicati alla figura del poeta. Nella poesia immediatamente precedente (Benedizione) Baudelaire lo descrive come un essere rifiutato e odiato da sua madre e da sua moglie e «da tutti coloro che lui vuole amare». Questi lo osservano intimoriti e fanno a gara per farlo soffrire, sperimentando su di lui la propria ferocia: «mescolano al pane e al vino destinati alla sua bocca cenere e sputi impuri; con ipocrisia buttano quanto egli tocca, s'incolpano d'aver posto il piede sulle sue orme». Lui, «figlio ripudiato», «s'inebria di sole... gioca col vento, discorre con la nuvola, si ubriaca, cantando, del Calvario». E' un nuovo Cristo, il cui unico destino è il dolore, «la sola nobiltà su cui mai nulla potranno la terra e l'inferno».
La poesia successiva (Elevazione) è invece dedicata alla capacità del poeta di sottrarsi ai «miasmi pestiferi» della terra e di «slanciarsi verso i campi luminosi e sereni» del cielo, «al di sopra degli stagni, al di sopra delle valli, delle montagne, dei boschi, delle nubi, dei mari, oltre il sole e l'etere, al di là dei confini delle sfere stellate». Egli è come «un bravo nuotatore nelle profonde immensità», capace di «volare sulla vita» e di comprendere facilmente «il linguaggio dei fiori e delle cose mute».
L'albatro, inserita tra questi due componimenti in occasione della seconda edizione, illustra precisamente il dualismo della figura del poeta: con la prima condivide la rappresentazione della sua persecuzione in una società che non lo capisce, con la seconda la consapevolezza della sua superiorità su un mondo stupido e ottuso. L'originalità di questa poesia rispetto alle due citate consiste soprattutto nella vivida scena del grande uccello catturato dai marinai, che Baudelaire trasforma in una narrazione allegorica (vedi l'introduzione).

Un elegante quadretto tragico
Nell'originale francese la poesia è composta da quattro quartine di alessandrini, versi caratteristici della più alta tradizione poetica, con rima alternata (vedi l'introduzione): una forma classica ed elegante in cui trovano posto la struggente tragedia del grande uccello marino (prime tre strofe) e la spiegazione finale dell'autore (quarta strofa).
Le singole strofe sono quadretti autonomi e chiusi, senza collegamenti sintattici. Nella prima sono presentati i personaggi di una consueta scena di mare: i marinai che si vogliono divertire, le navi che corrono leggere sulle profondità marine, i grandi uccelli che le accompagnano pigramente. Nella seconda è descritta la cattura di un uccello (cambia il tempo del verbo, dal «prendono» del verso 1 a «l'hanno posato» del verso 5): l'albatro sul ponte ha perso la sua regalità e si trascina impacciato. Nella terza il poeta indugia sulla sua ridicola figura e sul banale divertimento degli uomini, sottolineando con tre esclamativi la disavventura del povero animale. Solo nell'ultima strofa compare il paragone con il poeta, intrepido nei cieli, ma maldestro e schernito sulla terra.
La poesia è ricca di elementi retorici, che si associano a una costruzione simmetrica dei versi. Si vedano per esempio:

  • le metafore: gli albatri «compagni di viaggio», «re dell'azzurro»;
  • le similitudini: «come se fossero remi»;
  • le simmetrie nell'aggettivazione e nella costruzione dei versi: si veda per esempio «lieve corsa» / «abissi amari», una simmetria incrociata (agg. + sost / sost. + agg) che prende il nome di chiasmo; e i due versi «Com'è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! / E comico e brutto, lui prima così bello! », costruiti con uno schema agg. + agg. + sost. (o pron.) + agg.
  • le antitesi (contrapposizioni simmetrica di due termini): nel primo dei due esempi precedenti il navigare leggero della nave è contrapposto alla profondità abissale del mare; nel secondo la condizione dell'albatro libero a quella dell'uccello catturato dai marinai.  Si veda a questo proposito anche lo splendido accostamento «lo storpio che volava», dove la vicinanza di termini così incongruenti serve a rendere in modo efficace il contrasto tra le due situazioni in cui si trova l'albatro (e il poeta).

Tutta questa attenzione formale, che fa del componimento tutt'altro che un'espressione immediata di un sentimento, è un'istruttiva esemplificazione di quella «alchimia del dolore» che per Baudelaire è la poesia: la capacità cioè del verso di distillare la bellezza dagli aspetti più tristi e oscuri della vita, attraverso la cura della forma e il potere magico delle parole.

Il poeta «esule»
L'ultima strofa è naturalmente la chiave di tutto: essa non esaurisce in se stessa il suo significato, ma costringe il lettore a 'rileggere' in senso allegorico tutto il testo, attribuendo al poeta i caratteri dell'albatro e della sua vicenda. La nave diventa così il simbolo della società, l'abisso su cui corre leggera è il male che sta a fondamento della vita umana, i marinai sono i borghesi ignari, per cui la poesia è al massimo un oggetto di innocuo (per loro) divertimento. L'albatro-poeta accompagna gli uomini senza fare alcun male, ma loro si divertono a tormentarlo: non sono cattivi, ma insensibili, semplicemente appartengono alla terra e non al cielo. Forse non lo lasciano in pace perché sono invidiosi di lui, vorrebbero che somigliasse a loro (la pipa in bocca, il mimo), che non fosse così diverso. Ma non c'è nulla da fare: lui viene da un altro mondo e deve sopportare questa prova di violenza gratuita.
In questa poesia, collocata significativamente all'inizio della raccolta, Baudelaire porta alle estreme conseguenze il tema della 'differenza' del poeta già elaborata dal Romanticismo: oltre alla coscienza dell'isolamento e della sofferenza dell'animo superiore, qui vengono però negate anche qualsiasi ruolo della poesia e qualsiasi possibilità per il poeta di comunicare con i suoi simili. Egli è condannato alla solitudine delle altezze sublimi o alla vergognosa caduta sulla terra, ma in ogni caso la sua parola non conta più per nessuno. Siamo solo alla metà dell'Ottocento, ma sembra già lontanissimo il mito illuminista-romantico del poeta 'vate' (nella poesia è rimasta solo una triste iniziale maiuscola), capace di interpretare lo spirito profondo della sua epoca e della sua nazione (pensiamo al Risorgimento italiano!): è la prima volta che un intellettuale europeo denuncia in modo così forte la separazione tra il mondo borghese e quello dell'arte, destinata a diventare di lì a poco praticamente un luogo comune.  


              Indolenti: pigri, perché si lasciano trasportare dalle correnti d'aria e seguono la scia delle navi.  

              Tolda: il ponte di coperta, la parte superiore di un'imbarcazione.

              Sinistro: impacciato.

              Ride...arcieri: perché vola troppo alto per temerli.

Esercizi

Per capire

  1. Perché i marinai catturano gli albatri?
  2. Quali sono gli scherzi che gli fanno?
  3. Che cos'ha in comune il poeta con l'albatro?

Per analizzare

  1. Individua e classifica tutte le figure retoriche della poesia.
  2. La poesia è basata su una continua contrapposizione tra la nobiltà dell'albatro/poeta quando sta nei cieli e la sua goffaggine sulla terra: trova le espressioni che si riferiscono a queste due condizioni contrapposte.
  3. Cerca una spiegazione per l'espressione « abissi amari» del verso 4, soffermandoti sul suo significato proprio e simbolico.
  4. Il racconto della sofferenza dell'albatro/poeta ha dei tratti che richiamano la passione di Cristo: quali sono? Quali sono però le differenze essenziali tra le due vicende?
  5. Quale immagine emerge della società in cui vive l'albatro/poeta? Quali sono i rapporti reciproci?
  6. L'idea del poeta esule, maledetto ed emarginato è già tipica del mondo preromantico e romantico: basti pensare al Werther goethiano (vedi pag. XXX), all'Ortis foscoliano (pag. XXX) o al Manfred byroniano (pag. XXX). Individua gli elementi utili ad un confronto tra queste diverse figure e il poeta baudelairiano.

Per scrivere
Scrivi una tua riflessione sul ruolo della poesia e del poeta nella società contemporanea.

 

TESTO 2 – Inno alla bellezza
Scritta verso il 1860, questa splendida poesia sintetizza il sentimento di Baudelaire nei confronti della bellezza, una presenza nello stesso tempo divina e diabolica, fonte di atti sublimi e perversione, obiettivo primario del lavoro artistico. Qualunque sia la sua origine, essa permette al poeta di sfuggire al tempo e alla noia, e di esplorare le strade dell'infinito.

Vieni, o Bellezza, dal profondo cielo
o sbuchi dall'abisso? Infernale e divino
versa insieme, confusi, la carità e il delitto
il tuo sguardo: assomigli, in questo, al vino .

Racchiudi nei tuoi occhi alba e tramonto. Esali
profumi come un temporale a sera.
Sono un filtro i tuoi baci, la tua bocca un'ampolla
che l'eroe fanno vile e il fanciullo ardito .

Esci dal gorgo nero o discendi dagli astri?
il Destino, innamorato, ti segue come un cane ;
sémini capricciosa felicità e disastri,
disponi di tutto, non rispondi di niente.

Cammini, Bellezza, su morti , e ne sorridi;
fra i tuoi gioielli l'Orrore non è il meno attraente
e, in mezzo ai tuoi gingilli preferiti,
l'Assassinio oscilla adorabile sul tuo ventre orgoglioso .

Abbagliata l'effimera s'abbatte in te, candela,
e crepita bruciando e la tua fiamma benedice.
Così, chino fremente sul suo amore , chi ama
sembra un moribondo che accarezza la sua tomba.

Che importa che tu venga dall'inferno o dal cielo,
o mostro enorme, ingenuo , spaventoso!
se grazie al tuo sorriso, al tuo sguardo, al tuo piede
penetro un Infinito che ignoravo e che adoro?

Che importa se da Satana o da Dio? se Sirena
o Angelo, che importa? se si fanno per te
- fata occhi-di-velluto, ritmo, luce, profumo, mia regina –
­meno orrendo l'universo, meno grevi gli istanti.

Charles Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 1973

Leggiamo insieme – La bellezza come esperienza totale

Un dea 'romantica'
La poesia ha il tono elevato e solenne delle invocazioni religiose, di cui è ricca la tradizione letteraria a partire dalla Grecia antica. Il poeta, come un sacerdote, eleva un inno alla sua dea, la Bellezza: si domanda se essa venga dal cielo o dall'inferno (strofe 1 e 3) e la descrive come una forza potente che ha in sè caratteri dell'uno e dell'altro mondo; la Bellezza unisce gli opposti, sconvolge i punti di riferimento e i valori (strofe 1-3),  il suo fascino si accompagna con l'orrore e l'assassinio (4) e chi si abbandona a lei impazzisce, fino ad amare la sua stessa morte (5). Ma che importa sapere da dove viene la Bellezza, se grazie a lei si scopre l'infinito (6)? Che importa saperlo se è lei a rendere meno orribili la vita e l'universo (7)?
La dea baudelairiana assomiglia a un'affascinante e capricciosa parigina, ornata di gioielli e concreta nella sua sensuale fisicità: si tratta cioè di una bellezza moderna, anche se non meno sacra e temibile (il Destino stesso è come un cane che si attacca alle sue gonne e la sua potenza è sottolineata dall'arbitrio irresponsabile con cui semina a suo piacere «felicità e disastri»). Tutte le sue caratteristiche la allontanano dal modello ideale classico e neoclassico, secondo cui la bellezza è una presenza statica e superiore nella sua perfezione armonica, che viene dal cielo per riempire di sé la materia bruta. Essa è piuttosto erede dei modelli romantici, intessuta com'è di bene e male, di sublimità e di materia, piena di energia e di continuo movimento.

Dal finito all'infinito
Il passaggio centrale della poesia è la scena dell'insetto che si getta sulla candela benedicendo la fiamma che lo uccide, che dà origine alla doppia similitudine con l'innamorato che ansima nel rapporto amoroso con la sua donna, paragonato a sua volta al moribondo che accarezza la tomba. In questa strofa è come se il poeta capisse improvvisamente che la sua domanda sulle origini della Bellezza non ha senso, perché essa è stata posta secondo la logica del mondo finito, dove una cosa esclude l'altra, dove i contrari si oppongono, dove il bene e il male, il cielo e la terra sono in conflitto continuo. La morte dell'effimera che grida «Benediciamo questa fiamma!» (nell'originale francese è in discorso diretto) rappresenta invece il momento della congiunzione tra gli opposti, tra la vita breve e l'eternità della morte. Allo stesso modo l'appassionato atto d'amore diventa un abbraccio alla tomba, secondo un accostamento già presente nei poeti romantici. Il folle e felice abbandono dell'insetto e dell'amante insegnano dunque al poeta una strada nuova, apparentemente assurda, incomprensibile nel mondo 'normale': la strada dell'Infinito, possibile soltanto grazie all'attrazione irrestibile della Bellezza e alla sua forza liberatoria. Il pensiero corre subito all'esaltazione della notte negli Inni di Novalis (vedi pag. XXX), la cui bellezza schiude al poeta un mondo sconosciuto, che gli permette di evadere dall'angosciante realtà - finita - della luce.

Una bellezza 'moderna'
La Bellezza baudelairiana è dunque il varco verso una realtà superiore: non è esprimibile razionalmente, ma solo cantabile in un inno poetico, che ne esalta caratteristiche ed effetti più che darne una spiegazione. Soprattutto essa non è giudicabile con i criteri morali borghesi, perché la si può trovare nella bontà come nell'orrore e nell'assassinio, nella lussuria come nell'amore spirituale, nel disastro come nella felicità. Baudelaire ricompone così una delle fratture più profonde della cultura occidentale, quella tra la materia e lo spirito, l'ideale e il reale: la Bellezza è  esperienza totalizzante di unità. In questo senso l'Inno va anche molto oltre l'elaborazione romantica, perché insiste in particolare sulla ricchezza fisica e sensoriale dell'esperienza estetica. La Bellezza assomiglia al «vino», nei suoi occhi c'è «l'alba e il tramonto», essa «esala profumi come un temporale a sera» (l'odorato si mescola al senso della pioggia sulla pelle e alla vista del buio), i suoi baci sono «un filtro, la bocca un'ampolla» (il gusto), esce dal «gorgo nero»  (la vista), i suoi gioelli oscillano sul «ventre orgoglioso» (l'attrazione sessuale). Vanno nella stessa direzione espressioni come l'insetto che «crepita», l'amante «fremente»; i particolari fisici del «sorriso», dello «sguardo» e del «piede» della dea; fino alla bellissima serie «fata occhi-di-velluto, ritmo, luce, profumo», in cui tutti i sensi si mescolano in un'esperienza inebriante che proietta il poeta fuori dalla noia dell'istante. Si tratta di quell'esperienza sinestetica di cui abbiamo parlato nell'introduzione, che solo la poesia può cogliere 'distillando' la realtà di tutti i giorni.

Esercizi

Per capire

  1. Sintetizza il contenuto dell'Inno.
  2. Perché la Bellezza viene paragonata al vino?
  3. In che senso i «baci» della Bellezza sono un «filtro»? 
  4. Che rapporto c'è tra il Destino e la Bellezza? Cosa significa?
  5. Quali sono i principali caratteri contrastanti della Bellezza?
  6. Cos'è «l'effimera» e perché viene citata?
  7. Come viene descritta la realtà quotidiana della vita? 
  8. Perché il poeta canta la Bellezza?

Per analizzare

  1. Facendo riferimento al capitolo sul Neoclassicismo (vedi per esempio il brano sull'Apollo del Belvedere di Winckelmann, pag. XXX), confronta la concezione baudelairiana della bellezza con quella di derivazione greco-romana.
  2. Spiega in modo analitico la quarta strofa della poesia, trovando dei possibili esempi di quello che Baudelaire afferma.
  3. Confronta la poesia con il Primo inno alla notte di Novalis (pag. XXX).
  4. Confronta la poesia di Baudelaire con queste parole che Dimitrij Karamazov pronuncia nel romanzo di Dostoevskij (vedi pag. XX): «La bellezza è una cosa spaventosa e terribile, spaventosa perché non è definita, ma essa è indefinibile perché Dio ha posto solo enigmi. Qui gli opposti si congiungono e tutte le contraddizioni convivono...  Ciò che alla mente sembra ignominia, al cuore può sembrare pura bellezza! In Sodoma c'è bellezza? Credi a me, per la stragrande maggioranza delle persone la bellezza è proprio in Sodoma, lo conoscevi questo segreto? Ciò che fa paura è che la bellezza non sia soltanto spaventosa ma anche misteriosa. Qui il diavolo combatte con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell'uomo».

Verso l'esame
Prima prova, saggio breve: la Bellezza dai neoclassici a Baudelaire (vedi anche i testi Il modello ideale degli antichi di Winckelmann, a pg. XXX, e Primo inno alla Notte di Novalis,a pag. XXX).

 

TESTO 3 – Spleen
Il cielo grigio che opprime l'anima, la pioggia che imprigiona la terra, i pensieri bui e il senso di impotenza dell'uomo. Con un linguaggio da allegoria medioevale e una serie di simboli impressionanti, Baudelaire rappresenta in questa poesia la depressione, la malattia del cittadino moderno in preda a un'angoscia che ha ucciso ogni speranza.

Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l'anima che geme nel suo tedio infinito,
e in un unico cerchio stringendo l'orizzonte
fa del giorno una tristezza più nera della notte;

quando la terra si muta in un'umida segreta
dove sbatte la Speranza , timido pipistrello,
con le ali contro i muri e con la testa
nel soffitto marcito;

quando le strisce immense della pioggia
sembrano le inferriate d'una vasta prigione
e muto, ripugnante un popolo di ragni
dentro i nostri cervelli dispone le sue reti ,

furiose a un tratto esplodono campane
e un urlo tremendo lanciano verso il cielo
che fa pensare al gemere ostinato
d'anime senza pace né dimora.

- Senza tamburi, senza musica, sfilano funerali
a lungo, lentamente nel mio cuore: Speranza
piange disfatta e Angoscia , dispotica e sinistra ,
va a piantarmi sul cranio la sua bandiera nera.

Charles Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 1973

Leggiamo insieme – Rappresentare la depressione

La depressione in tre movimenti
Come sempre accade in Baudelaire, anche gli angoscianti temi di Spleen sono espressi all'interno di una forma poetica studiatissima, equilibrata ed elegante, quasi a far risaltare maggiormente il contrasto tra la forma e il contenuto (lo stesso presente fin dal titolo «Fiori del male»). La poesia è composta da due soli periodi (uno occupa quattro strofe e l'altro la quinta) e divisa chiaramente in tre parti, che sembrano seguire ognuna un suo diverso ritmo. Le prime tre quartine, collegate dalla triplice anafora di «quando», costituiscono il primo pesante movimento (la preparazione): in esse vengono presentati gli elementi 'esterni', naturali (il cielo, la terra, la pioggia) e quelli 'interni', riferiti all'umanità sofferente (l'anima che geme, la Speranza-pipistrello, i pensieri-ragni); ogni strofa accresce l'effetto di oppressione annunciato sin dal primo verso («come un coperchio», «basso e greve»), accumulando a poco a poco immagini di angoscia soffocante (l'effetto prigione, l'immagine del pipistrello e dei ragni). L'attesa creata da questo  pauroso climax ascendente sfoga la sua energia negativa nel secondo movimento: la quarta strofa (dove si trova la principale delle tre temporali) esplode infatti all'improvviso in uno scoppio di urla lancinanti. Non si tratta di una liberazione, ma della drammatica sconfitta della Speranza. La sua conseguenza è il terzo movimento (ultima strofa, secondo periodo della poesia), lento, inesorabile, senza vie di uscita, in cui la depressione si impossessa del cuore del poeta e vi celebra i suoi riti funerei. 

Una 'lirica' allegorica
La poesia racconta la vittoria dell'Angoscia sulla Speranza all'interno del cuore umano, in una grigia giornata di pioggia, proprio come accadeva nei poemi allegorici e nelle prime forme teatrali del Medioevo, in cui le forze del Bene e del Male lottavano tra di loro e l'uomo assisteva alle loro battaglie per trarne un insegnamento morale. L'esperienza raccontata non riguarda infatti solo il poeta, ma l'intera umanità: nella terza strofa si parla dei «nostri» cervelli, mentre nella prima, al verso 4, l'originale francese dice che l'orizzonte versa «su di noi» un giorno più triste della notte. Solo alla fine, nell'ultima strofa, si parla del «mio cuore» e del «mio cranio», riportando così il racconto sul piano personale, quasi a sottolineare la drammaticità delle conseguenze dello scontro appena concluso. Anche qui tuttavia l'io non è né solo né protagonista: assiste invece impotente al lento scorrere dei «funerali», mentre l'Angoscia pianta la sua bandiera vittoriosa.
L'esclusione dell'io dal centro della poesia è accentuata anche dalla precisione clinica con cui viene descritto l'insorgere della depressione, come se si trattasse di un antico testo medico, in cui all'elencazione dei sintomi segue la presentazione della malattia con le sue conseguenze sull'animo.
L'impressione che si trae è insomma quella di una certa impersonalità proprio nel momento in cui si descrive una tremenda malattia della psiche: siamo davvero molto distanti dalla poesia romantica, che faceva dell'espressione dell'io lirico l'unica ragione della sua esistenza. E' insomma come se l'io, annientato dallo spleen, descrivesse come è avvenuta e come avviene ogni giorno la sua morte: la lirica (calda, immediata, travolgente) è diventata impraticabile e l'unica forma di rappresentazione sembra essere quella allegorica (fredda, mediata da immagini allegoriche, senza speranza).

Una rappresentazione realistica...
'Rappresentazione allegorica' non significa però che il testo sia teorico, sganciato dalla realtà. Come spesso accadeva nella poesia medievale (per esempio in molti passi  dell'Inferno dantesco), la scena rappresentata è fortemente realistica e cruda, non solo per il suo contenuto, ma soprattutto grazie alle particolari scelte linguistiche. Baudelaire usa infatti parole quotidiane, tecniche, impoetiche, come «coperchio» (quello delle pentole, ma anche delle casse da morto), «cervello» e «cranio» (termini medico-anatomici), «funerali» (l'originale francese è «carri funebri»); allo stesso modo la Speranza che «sbatte...la testa», il soffitto «marcito», le «reti» dei ragni «ripugnanti» sono tutti elementi che inchiodano la poesia a una realtà dura e disperata, vividamente rappresentata.
Questo linguaggio allontana Baudelaire sia dai romantici sia dai realisti. Se è vero che pipistrelli, ragni, crani e prigioni erano tipici di un certo romanticismo 'nero', l'uso che qui il poeta ne fa è completamente diverso: non siamo in un castello medioevale e il tema non è una vicenda del mitico passato europeo, ma la depressione di un uomo nella Parigi di metà '800. Rispetto poi ai romanzieri contemporanei, la crudezza del testo non è al servizio della rappresentazione di una realtà esterna che il poeta osserva, ma di un fatto interiore che egli (come gli altri uomini) vive. Il pipistrello che sbatte la testa insomma non esiste 'là fuori', ma serve a far capire uno stato d'animo, così come il «coperchio» che «schiaccia l'anima» o i «ragni» che si installano nel cervello. Sono tutti simboli di altrettante realtà interiori che sembrano altrimenti inesprimibili.

... e simbolica
Per chiarire, proveremo a metter a confronto tre poeti di fantasia. Quello medievale avrebbe rappresentato, anche con particolari raccapriccianti, un duello tra la Speranza e l'Angoscia nella testa dell'uomo, con tanto di bandiera nera piantata nel cranio al momento della vittoria. Quello romantico avrebbe gridato la sua disperazione in un bosco battuto dal vento oppure – altrettanto romanticamente – avrebbe rappresentato un vecchio scienziato, chiuso in un buio castello, che cade in preda all'angoscia, circondato da ragni e pipistrelli. Baudelaire parla di ragni che depongono reti nel suo cervello, di campane che lanciano urli, di carri funebri che passano nel cuore e di una bandiera nera piantata nel suo cranio. Questo è simbolismo 'realistico'.
I simboli baudelairiani sono dunque degli oggetti reali usati per significare qualcos'altro:   non sono cioè pure astrazioni (come l'Angoscia o la Speranza), ma assomigliano quasi a una moderna realtà virtuale, che immerge chi la prova in un universo di sensazioni multiple, capace di restituire un'esperienza interiore complessa. La cella «umida», dal soffitto «marcito», contro cui un pipistrello sbatte la testa, comunica in modo vivido il senso di chiuso, di freddo, buio e umidità e il rumore continuo e fastidioso: per rappresentare l'impotenza dell'uomo stretto nella morsa senza uscita dell'angoscia sono così coinvolti la vista, l'odorato, l'udito, la sensazione della temperatura e dell'umidità. Allo stesso modo le campane furiose che lanciano un urlo tremendo verso il cielo comunicano una sensazione uditiva lancinante che si ripercuote nell'anima, per rappresentare il disperato grido di morte di chi viene afferrato dallo spleen. E così via.  Nessuno prima di Baudelaire era riuscito a rappresentare in questo modo la morte dell'anima.

Esercizi

Per capire

  • Qual è la struttura sintattica della poesia?
  • Le prime strofe sono legate da una triplice anafora: quale?
  • Come vengono descritti il cielo, la terra e la pioggia nelle prime tre strofe?
  • Cosa rappresentano i «ragni» della terza strofa?
  • Perché il poeta parla dei «nostri» cervelli?

Per analizzare

  • Fa' una ricerca sul concetto di spleen nella letteratura dell'Ottocento.
  • Quali sono gli elementi che maggiormente richiamano i racconti allegorici medievali?
  • Individua le espressioni del testo che esprimono rispettivamente: claustrofobia, suoni e rumori, umidità e freddo, oscurità.
  • Individua e analizza le similitudini presenti nel testo
  • Nel commento abbiamo analizzato sinteticamente alcuni dei simboli presenti nella poesia: scegline tu un altro (il cielo-coperchio, la pioggia-inferriate, i funerali) e commentalo.
  • Commenta il seguente giudizio del critico tedesco Erich Auerbach, autore di uno scritto famoso su questa poesia: «Baudelaire è stato il primo a dare forma sublime a soggetti che di per sé non vi sembravano adatti. Lo spleen della nostra lirica è disperazione senza alcuna via d’uscita: non è riconducibile a cause concrete, e non c’è modo di porvi rimedio. Un animo rozzo ne riderebbe, un moralista o un medico suggerirebbero dei mezzi per guarirla. Tutto questo, però, nel caso di Baudelaire, sarebbe vano. Baudelaire ha dato un’alta espressione stilistica all’angoscia paralizzante, al panico per l’inevitabile tragicità della nostra esistenza, al totale annichilimento cui questa terribile situazione conduce: impresa di una sincerità estrema, ma anche ostile alla vita».
  • Paragona la descrizione del cielo nella prima strofa di Spleen con i versi seguenti, tratti dall'Ode al Vento occidentale del poeta romantico inglese Shelley (vedi pag. XXX): «...tu canto funebre / dell'anno che muore, che questa notte incombente / coprirà come la cupola di un vasto sepolcro, / tenuta dalla volta dei tuoi vapori convessi, / dalla cui densa atmosfera esploderà una pioggia / nera, e fuoco, e grandine, ascolta!». Quali sono le principali differenze?

Verso l'esame
Prima prova, saggio breve, La noia leopardiana e lo spleen baudelairiano (vedi in particolare il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia, pag. XXX)

 
TESTO 4 – Il cigno
Quarta poesia della sezione «Quadri parigini», Il cigno è uno dei componimenti migliori di Baudelaire. Il poeta passeggia in una Parigi che non riconosce più, stravolta dalla rivoluzione urbanistica del secondo impero, e si sente straniero nella sua stessa città. Come Andromaca, la mitica vedova dell'eroe troiano Ettore, deportata lontana dalla sua patria; o come un cigno, rapito al lago dove è nato per essere messo nella gabbia di uno zoo; come una povera emigrante africana, persa nelle nebbie parigine; come, infine, il famoso scrittore Victor Hugo, costretto all'esilio dal colpo di stato di Napoleone III del dicembre 1851. Baudelaire canta in questa poesia gli esuli e i vinti, quelli che non hanno più nulla da fare se non piangere e soffrire: in primo luogo se stesso, 'esule' in quanto poeta. Il cigno, inviato a una rivista nel 1859, fu rifiutato a causa del suo scomodo contenuto politico; verrà inserito nell'edizione dei Fiori del 1861.

A Victor Hugo

I

È a te, che penso, Andromaca ! Quello stento fiume,
misero, opaco specchio dove un tempo
rifulse , immensa, la maestà del tuo dolore ,
Simoenta bugiardo gonfiato dal tuo pianto,

nel traversare il nuovo Carosello , d'un tratto
fecondò la mia fertile memoria. Parigi,
la vecchia Parigi è sparita (più veloce d'un cuore,
ahimè, cambia la forma d'una città); soltanto

la mente adesso vede la distesa
delle baracche, i mucchi di fusti e capitelli
sbozzati , l'erba, i massi che le pozze inverdiscono ,
il bric-à-brac confuso che dai vetri riluce.

Là sorgeva un serraglio ; là un mattino,
all'ora che sotto un alto, algido cielo
il Lavoro si sveglia e dalle strade
s'alza un cupo uragano nell' aria silenziosa,

vidi un cigno, fuggito dalla sua gabbia, l'arido
selciato raspando con i piedi palmati ,
le bianche piume strascinare al suolo.
Aprendo a un secco rigagnolo il becco, l'animale

bagnava convulso le ali nella polvere
e con il cuore colmo del suo lago natale ,
quando, pioggia, cadrai? quando, diceva,
tuonerai, folgore ? Mito strano e fatale ,

io vedo l'infelice, come l'uomo d'Ovidio,
al cielo crudelmente azzurro e ironico
sul frenetico collo tender l'avida testa,
a volte, come a rimbrottare Dio!

II

Parigi cambia! ma niente, nella mia melanconia ,
s'è spostato: palazzi rifatti, impalcature,
case, vecchi sobborghi, tutto m'è allegoria ;
pesano come rocce i ricordi che amo.

Così, davanti al Louvre, m'opprime una figura:
penso al mio grande cigno, ai gesti folli
che faceva, esule comico e sublime
che un desiderio morde senza fine - e a te,

Andromaca! dall'abbraccio d'un grande sposo rotolata ,
deprezzato agnello , nelle mani orgogliose
di Pirro , e china in estasi su una tomba deserta ;
vedova d'Ettore, ahimè! e d'Eleno consorte!

Penso alla negra tisica e smagrita
che strisciando nel fango s'affanna, stralunata ,
dietro l'immenso muro della nebbia a vedere
gli assenti alberi di cocco dell'Africa superba;

a chi ha perduto ciò che non si trova
mai più, mai più! e s'abbevera di pianto
e succhia latte al Dolore come a una buona lupa !
ai magri orfani, secchi come fiori !

Nel bosco, dove il mio cuore va esule, così
risuona alto il richiamo di un Ricordo antico!
Penso ai marinai su un'isola obliati ,
ai prigionieri, ai vinti... ad altri, ad altri ancora!

Charles Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 1973

Verso l'esame – Analisi del testo

Comprensione del testo

  1. Sintetizza il contenuto della poesia, evidenziando i suoi diversi piani temporali e spiegando quale relazione lega la piazza del Carosello, il cigno e Andromaca.
  2. Ricorda sinteticamente il contesto storico a cui fa riferimento la poesia.
  3. Colloca la poesia all'interno dei Fiori del male.
  4. A parte il cigno e la «negra», quali sono le altre figure evocate?

Analisi del testo

  1. Spiega l'espressione «tutto m'è allegoria»: cosa significa in questo specifico contesto e come viene applicata nella poesia?
  2. Le figure evocate nella poesia (Andromaca, il cigno, la donna africana, ecc.) non sono tutte 'reali', ma fanno parte di esperienze diverse del poeta. In che senso?
  3. Analizza gli aspetti che legano la figura di Andromaca con il poeta: cos'hanno in comune? Cita dal testo.
  4. Confronta le due figure del cigno e dell'albatro (vedi pag. XX) come simboli della condizione del poeta (considera anche l'espressione « mito strano e fatale» riferita al cigno).
  5. Svolgi lo stesso lavoro di analisi sul rapporto tra le figure del cigno e di Andromaca in questa poesia.
  6. Che rapporto c'è tra la Parigi che cambia e che lavora e il poeta?
  7. In cosa consiste l'«esilio» del poeta? Che differenza c'è tra il suo esilio e quello delle altre figure evocate?
  8. Qual è l'atteggiamento del «cielo» (e di Dio) nei confronti della sofferenza del cigno? Cosa significa questo per l'uomo e per Baudelaire?
  9. Individua e commenta tutte le espressioni che fanno riferimento alla mancanza di ogni speranza per i «vinti». 
  10. Perché secondo te Baudelaire chiude la poesia insistendo sul raddoppiamento «ad altri, ad altri ancora»?

Interpretazione complessiva e approfondimenti
Il cigno è uno degli esempi più ricchi del simbolismo baudelairiano, capace sia di 'inventare' immagini fortemente realistiche (come per esempio in Spleen), sia di 'leggere' in modo simbolico figure letterarie (l'Andromaca virgiliana) o elementi tratti dalla realtà di tutti i giorni («mito strano e fatale», «tutto m'è allegoria»). Elabora il tema citando dal testo.

 

TESTO 5 - A una passante
Un esempio classico di poesia 'cittadina', moderna, vibrante, sempre dalla sezione dei Quadri parigini. In mezzo alla folla che lo trascina, il poeta incrocia per un attimo lo sguardo di una donna bella e triste. E' un lampo di dolcezza e di piacere che lo richiama alla vita, oscurato subito dopo dal buio della realtà quotidiana. Resta il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non sarà – forse – mai.

Ero per strada, in mezzo al suo clamore .
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore ,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.

Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d’una scultura antica. Ossesso , istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.

Un lampo ... e poi il buio! - Bellezza fuggitiva
con un solo sguardo m'hai chiamato da morte ,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,

che altrove, là, lontano - e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t'avrei amata, e so che tu lo sai !

Charles Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 1973

Leggiamo insieme – La poesia dell'amore impossibile

Donne e sonetti
Baudelaire sceglie per A una passante una delle forme metriche più antiche della tradizione letteraria europea, il sonetto. Si tratta di un componimento di 14 versi divisi in due quartine e in due terzine (strofe di quattro e tre versi), con un preciso schema rimico, inventato probabilmente dai poeti siciliani nel Duecento. Il verso originale del modello italiano è l'endecasillabo, a cui corrisponde nella tradizione francese l'alessandrino (verso di dodici sillabe). Baudelaire amava moltissimo il sonetto, perché riteneva che nella sua forma «rigida» l'«idea» risaltasse in modo più intenso che nei componimenti lunghi. Come scriveva a un critico lionese, «tutto si può esprimere con un sonetto: le buffonerie, le galanterie, la passione, il sogno, la meditazione filosofica. Ha la bellezza del minerale e del metallo ben lavorato. Avete mai osservato che un pezzo di cielo, visto attraverso uno spiraglio o due camini, due rocce, o attraverso un arco, ecc. dà dell'infinito un'idea più profonda che un panorama visto dall'alto di una montagna?» (un'idea che anche il nostro Leopardi avrebbe certamente condiviso).
Oltre alla scelta formale, c'è però qualcosa di più: la poesia parla di una donna, inserendosi così nella strada maestra della tradizione poetica italiana ed europea. Come non pensare, per citare solo un esempio, al famossimo sonetto dantesco «Tanto gentil e tanto onesta pare»? Anche qui la donna amata dal poeta passa per strada, rivolge il suo sguardo ai giovani che ammutoliscono e abbassano gli occhi, mentre chi osa guardarla prova un'incredibile dolcezza nel cuore, perché ella è come un angelo venuta dal cielo alla terra per mostrare miracoli.     
Per la sua Passante, Baudelaire utilizza dunque una forma e un contenuto 'classici', nobilitati da una lunga tradizione. Una donna incontrata nella folla delle vie parigine sembra così avvicinarsi a Betarice, un moderno angelo cittadino venuto a salvare il poeta perduto.

La bellezza del dolore
Ma Parigi non è Firenze e la Beatrice baudelairiana è chiusa nel suo lutto. Il rumore della strada è assordante, come succede nelle metropoli all'ora di punta, e nessuno sembra prestare attenzione alla sua figura, salvo il poeta. E' il dolore la prima cosa che vediamo di lei: la passante è, probabilmente, vedova, come l'Andromaca del Cigno. Di lei cogliamo inoltre l'andatura elegante, nobile, maestosa, che l'avvicina ad altre figure-simbolo dei Fiori del male, come l'albatro o il cigno, anche se in lei non c'è disperazione, ma piuttosto fierezza e agilità, come in una statua greca. Questi caratteri sono per Baudelaire l'essenza stessa della bellezza. Come scrive nei suoi Diari il Bello è «qualcosa di ardente e di triste, qualcosa di un po' vago, che lascia spazio alla congettura. Applicherò, se si vuole, le mie idee a un oggetto sensibile, per esempio all'oggetto più interessante nella società, un viso di donna. Una testa seducente e bella, una testa di donna, intendo, è una testa che fa sognare, a un tempo, - ma in modo confuso, - di voluttà e di tristezza; che implica un'idea di melanconia, di spossatezza, perfino di sazietà, - sia un'idea contraria, cioè un ardore, un desiderio di vivere, associate a un amarezza refluente, quasi provenga da una privazione, o da un disperare. Il mistero, il rimpianto sono anch'essi caratteri del Bello... Non pretendo che la Gioia non possa associarsi alla Bellezza, dico però che la Gioia ne è uno degli ornamenti più volgari; - mentre la Melanconia ne è per così dire l'illustre compagna, tanto che quasi non concepisco un tipo di Bellezza dove non vi sia Infelicità».

Il lampo, il buio
Questo grumo inestricabile di bellezza e dolore è affascinante e folgorante: il poeta, «instupidito»,  «beve» la dolcezza e il piacere dei suoi occhi tempestosi. Lo sguardo della donna «uccide» e richiama alla vita nello stesso tempo («con un solo sguardo m'hai chiamato da morte»), come fa la candela con l'insetto che gli si lancia contro nell'Inno alla Bellezza (vedi pag. XX): la «morte» è l'esistenza quotidiana delo spleen, la 'vita' è invece la dimensione sconosciuta dell'assoluto. Anche la passante dunque è – a suo modo – una donna-angelo: è in lutto come il poeta, ma racchiude in sè la bellezza, strumento di vittoria sulla morte quotidiana (sempre nell'Inno alla Bellezza: «si fanno per te meno orrendo l'universo, meno grevi gli istanti»). Questa è però per sua natura «fuggitiva» e non può durare, esistere nella realtà di tutti i giorni, nel qui e ora. Forse «altrove», nell'eternità, «al di là della vita»: sicuramente troppo lontano e troppo tardi per chi vive ogni giorno la sofferenza del suo esilio (il «buio»).
La poesia antica racconta dunque la possibilità della salvezza attraverso l'amore, grazie alla bellezza di una donna scesa dal cielo alla terra. Quella moderna racconta precisamente l'opposto: una visione sconvolgente ci ricorda che da qualche parte esiste la salvezza (o più laicamente, la felicità), ma questa può essere solo una nostalgia o un desiderio, mai una realtà. In questo senso anche la passante in lutto è uno dei tanti simboli baudelairiani, un momento della realtà (un «lampo») che ci fa intravedere una felicità a noi negata. Come lo sguardo di una donna che avremmo sicuramente amato, ma che non rivedremo mai più.

Esercizi

Per capire

  1. Come è descritto l'ambiente in cui si svolge la scena?
  2. In cosa consiste la bellezza della donna?
  3. Qual è la reazione del poeta?
  4. Perché il poeta è 'morto'?      

Per approfondire

  1. Individua e analizza le metafore della poesia.
  2. Spiega con riferimento all'Inno alla Bellezza, i seguenti versi: «Ossesso, istupidito, / bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta / la dolcezza che incanta e il piacere che uccide».
  3. Nella terza strofa improvvisamente il poeta si rivolge alla donna, dandole del tu: perché secondo te?
  4. Commenta il giudizio del filosofo tedesco Waletr Benjamin, che scrissse su questa poesia: «In velo da vedova, velata dal suo stesso essere trasportata tacitamente dalla folla, una sconosciuta incrocia lo sguardo del poeta. Il significato del sonetto è, in una frase, questo: l’apparizione che affascina l’abitante della metropoli – lungi dall’avere nella folla solo la sua antitesi, solo un elemento ostile – gli è arrecata solo dalla folla. L’estasi del cittadino è un amore non tanto al primo, quanto all’ultimo sguardo. È un congedo per sempre, che coincide, nella poesia, con l’attimo dell’incanto. Così il sonetto presenta lo schema di uno choc, anzi lo schema di una catastrofe»
  5. Fa' un confronto tra il sonetto di Baudelaire e quelo di Dante, che riportiamo per intero qui di seguito:

Tanto gentil e tanto onesta pare
la donna mia quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umilta' vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi si' piacente a chi la mira,
che da' per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender non la puo' chi no la prova;
e par che de la sua labbia si mova
uno spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira.

Verso l'esame
Prima prova, saggio breve: La bellezza nei Fiori del male (oltre a questo testo vedi anche l'Inno alla Bellezza, pag. XXX).

 

TESTO 6 – Abele e Caino
La poesia fa parte della piccola sezione intitolata Rivolta, dove Baudelaire raccoglie tre componimenti di ribellione a Dio e al suo ingiusto sistema. I due protagonisti, Caino e Abele, sono i due fratelli del libro della Genesi, figli di Adamo ed Eva: il primo uccide per gelosia il secondo e viene maledetto da Dio. Essi diventano così per Baudelaire i capostipiti di un'umanità divisa tra i borghesi grassi e felici da una parte, e i 'maledetti', sofferenti e desiderosi di vendetta dall'altra, per cui l'uccisione di Abele sarà solo il primo passo di una rabbia destinata ad arrivare fino a Dio. Anche questa storia biblica diventa così «allegoria» e il poeta si sente un Caino pronto a sgozzare i felici borghesi e a tirare già dal cielo la loro malvagia divinità. 

I

Razza d’Abele, dormi, bevi e mangia;
Dio ti sorride compiacente .

Razza di Caino, striscia nel fango
e muori miseramente.

Razza d’Abele, il tuo sacrificio
sfiora il naso del Serafino !

Razza di Caino, il tuo supplizio
potrà aver mai una fine?

Razza d’Abele, guarda prosperare
le tue greggi e i tuoi raccolti;

Razza di Caino, le tue viscere
urlano la fame come un vecchio cane.

Razza d’Abele, riscalda il tuo ventre
al tuo fuoco patriarcale ;

Razza di Caino, nel tuo antro
trema di freddo, povero sciacallo !

Razza d’Abele, ama e riproduciti !
anche il tuo oro genera prole .

Razza di Caino, cuore che brucia,
guardati dai grandi appetiti .

Razza d’Abele, tu cresci e ti nutri
come la cimice dei boschi!

Razza di Caino, la tua famiglia
trascini tra gli stenti.

II

Ah! razza d’Abele, la tua carogna
ingrasserà il suolo fumante !

Razza di Caino, la tua missione
non è ancora completa ;

Razza d’Abele, ecco la tua onta :
la spada vinta dallo spiedo!

Razza di Caino, scala il cielo,
e scaglia Dio sulla terra!

 

Leggiamo insieme – Benedetti e maledetti

Un mondo diviso
Con questa poesia Baudelaire vuole rappresentare, anche visivamente, il solco profondo che divide l'umanità in 'benedetti' e 'maledetti'. La prima parte è composta di dodici distici - tutti introdotti dall'anaforico «Razza di...» e dedicati uno ad Abele, l'altro a Caino - che contrappongono i destini dei due primi fratelli, figli di Adamo ed Eva, e delle loro rispettive discendenze. La razza di Abele è amata da Dio («Dio ti sorride compiacente»), si arricchisce senza sosta e vive in grandi case circondata da una numerosa famiglila, dove mangia, beve e dorme tranquilla.  La razza di Caino al contrario è maledetta, patisce la fame, vive isolata e raminga, negli stenti e senza una vera casa. Gli abele non piacciono al poeta: di loro viene sottolineata la condizione di parassiti dell'umanità («tu cresci e ti nutri / come la cimice dei boschi»), l'adulazione untuosa («il tuo sacrificio / sfiora il naso del Serafino») e la loro 'moltiplicazione' incontrollata, come se fossero insetti infestanti: baciati da tutte le fortune, essi sembrano infine totalmente indifferenti alla sorte di Caino e dei suoi (a questo effetto contribuisce anche il contrasto stridente tra le due condizioni, che si rinnova ogni 4 versi). Alla discendenza di Caino invece il poeta guarda con maggiore simpatia: egli esprime un senso di pietà per un dolore che sembra infinito («il tuo supplizio / potrà aver mai una fine?») e la preoccupazione per l'istinto di rivolta che cova nel loro cuore, che può essere molto pericoloso in un mondo dominato dagli abele («cuore che brucia, / guardati dai grandi appetiti»).
L'immagine delle due 'razze' contrapposte è stata state interpretata da molti critici come il simbolo del conflitto tra la borghesia e il proletariato, ma si tratta forse di una visione un po' troppo sociale e politica del pensiero baudelairiano: molto più probabilmente egli voleva esprimere la sua viscerale antiborghesia, identificandosi con il diverso, colpevole, assassino, reietto Caino, un personaggio già sfruttato dai Romantici per la sua carica di ribellione antisistema. Si tratterebbe insomma della tradizionale contrapposizione tra la figura del poeta/albatro (vedi la poesia omonima, pag. XX) e la società benpensante che lo irride, qui simboleggiati dal nomade Caino e dal sedentario Abele.

La rabbia di Caino
La seconda parte della poesia, pur mantenendo la struttura di distici contrapposti, rappresenta una chiara evoluzione rispetto alla prima, annunciata da quell'«ah» del primo verso (l'unico a non cominciare con l'anaforico «razza di»), che esprime la partecipazione sentimentale del poeta alla rabbia di Caino. La razza maledetta si è infatti ribellata e ha ucciso Abele, che non ha saputo difendersi, nonostante tutte le sue ricchezze, e ora giace in terra, ridotto a una grassa carogna.  La «missione» di Caino però non è finita, perché il fratello non era il suo vero obiettivo, ma solo il simbolo vivente di un mondo sbagliato voluto da un dio malvagio. Per capire l'ultimo gesto di Caino bisogna fare riferimento alla poesia immediatamente precedente a questa, intitolata Il rinnegamento di san Pietro, dove sono raccontati gli ultimi momenti della vita di Gesù: quando egli decide di sottomettersi a Dio e accettare la morte in croce, Pietro invece si ribella e lo rinnega («e ha fatto bene!», aggiunge Baudelaire). Nei primi versi del componimento Dio è descritto come  «un tiranno rimpinzatosi di vini e di carne», che si addormenta ogni giorno cullato al suono delle orribili bestemmie che gli lanciano gli uomini e che arriva alle orecchie dei suoi cari Serafini; mentre Gesù lo prega nell'Orto degli Ulivi, egli addirittura ride «al rumore dei chiodi che ignobili carnefici piantavano nella tua carne viva». E' questo il dio che Caino – da vero eroe romantico - tira giù dal cielo, è lui che ha creato a sua immagine i grassi e indifferenti abele e ha voluto punire senza una ragione il resto dell'umanità, relegandola nel dolore eterno. Da notare che, come nel caso dell'assassinio di Abele, anche qui sembra non esserci lotta: il Dio scagliato in terra nell'esortazione del poeta è una specie di fantoccio che non si difende e pare tenuto in piedi solo dall'ignorante adorazione dei suoi sottomessi adulatori.
La poesia dunque si conclude con l'auspicio di un gesto violento e rivoluzionario, che va a colpire il cuore stesso del male del mondo. La poesia non ci dice tuttavia se e come questo gesto potrà riuscire e quali saranno le sue conseguenze. Resta insomma il dubbio che si tratti di una pura espressione di rabbia – forse impotente - del poeta/Caino, incapace di rassegnarsi al mondo abeliano.

Esercizi

Per capire

  1. Da quale vicenda biblica trae ispirazione la poesia?
  2. Qual è la condizione dei discendenti di Abele?
  3. Cosa sono i «grandi appetiti» da cui deve guardarsi la razza di Caino? 
  4. Perché il poeta invita Caino a scagliare Dio giù dal cielo?

Per approfondire

  1. Quali sono i simboli più tipicamente borghesi incarnati dalla «razza di Abele»?
  2. La poesia insiste in modo particolare sul tema della riproduzione della razza di Abele. In quali occasioni e in che modo? Come spieghi questa insistenza?
  3. Quali elementi della poesia si prestano ad una sua intrepretazione politica, quasi marxiana (vedi per esempio un brano del Manifesto del partito comunista a pag. XXX)?
  4. Entrambe le razze vengono paragonate ad animali: individua e commenta le similitudini.
  5. L'azione di Caino ti sembra giustificata dal poeta? Motiva le tue affermazioni.

Verso l'esame
Prima prova, saggio breve, La 'ribellione a Dio' in Baudelaire e Dostoevskij (vedi il brano La ribellione di Ivan, pag. XXX)

 

TESTO 7 - Il viaggio
Questa poesia, contenuta nella sezione LaMorte, è l'ultima dei Fiori del Male. In essa Baudelaire affronta uno dei grandi temi della letteratura di tutti i tempi. Sin da bambini gli esseri umani desiderano viaggiare, spinti dalla loro fantasia infinita: da adulti, poi, cercano nel viaggio scampo dalla loro patria, dalla famiglia, dalla schiavitù di una donna. Essi desiderano sempre l'altrove, ciò che è diverso dalla loro realtà quotidiana e ogni luogo scoperto sembra loro il paradiso, ogni nuova isola un Eldorado. Anche i viaggiatori più sperimentati non sono però felici: interrogati sulle loro esperienze, rispondono che nulla di quello che hanno visto li ha veramente soddisfatti, che si sono sempre annoiati e hanno costantemente desiderato ripartire verso un altro luogo. Tutti i paesi del mondo, pur diversi nei loro costumi, ripropongono infatti le stesse scene di vizio, violenza, fanatismo e superstizione. C'è un solo viaggio che può far veramente conoscere il «nuovo», ed è quello che ci porta fuori dalla realtà che conosciamo, verso l'abisso dell'«Ignoto».
Della lunga poesia riportiamo le strofe IV-VIII. Il brano inizia con le risposte dei viaggiatori alle domande degli uomini curiosi.   

IV

                                «Abbiamo visto astri,
onde, sabbie di rive e di deserti; e ad onta
di   sorprese e disastri, molte volte
ci siamo anche annoiati, come qui.

Il sole risplendente sopra il viola del mare,
le città risplendenti nei raggi del tramonto
l'ardente cuore inquieto spingevano a tuffarsi
nel mutevole fascino del cielo.

Nelle città più ricche, nei più vasti paesaggi
non c'era mai l'incanto misterioso
di quelli che per caso nascono dalle nubi ;
e mai ci dava tregua il desiderio !

- Più si gode e più ha forza il desiderio;
all'albero del desiderio il piacere è concime ,
e mentre la sua scorza si fa più spessa e dura
si sforzano i suoi rami d'avvicinarsi al sole!

Crescerai senza fine, albero che hai più vita
del cipresso ? - Comunque, scrupolosi ,
abbiamo colto schizzi per l'album insaziabile
di chi trova che è bello tutto ciò che è lontano!

Abbiamo visto idoli dal naso d'elefante,
troni ornati di gemme luminose,
palazzi cesellati che d'un vostro banchiere
formerebbero il sogno e la rovina ,

costumi che allo sguardo dàn l'ebbrezza,
donne che si colorano le unghie e i denti, fachiri
avvezzi alle carezze dei serpenti... »

V

E dopo ? e dopo ancora?

VI

                                               «O cervelli infantili!
Abbiamo visto (e questo è il punto capitale )
senza bisogno di cercarlo, ovunque,
dall'alto fino al basso della scala fatale ,
il tedioso spettacolo del peccato immortale:

schiava stupida e vile e superba la donna
amarsi senza schifo, senza ironia adorarsi;
l'uomo, tiranno cupido , lascivo , ingordo e duro,
farsi schiavo alla schiava , sgocciolio nella fogna ;

rallegrarsi il carnefice, il martire soffrire;
il sangue ad ogni festa dar sapore e profumo ;
innamorarsi il popolo della sferza brutale
e il despota ammalarsi del suo stesso potere;

più d'una religione somigliante alla nostra
dar la scalata al cielo ; cercar la Santità ,
come un gaudente su un letto di piume,
in mezzo ai chiodi e al crine la propria voluttà;

ebbra di genio , straparlante, pazza
adesso come un tempo, gridar l'Umanità
dentro la furia della sua agonia :
"Mio signore e mio simile, ti maledico, Dio! ";

e i meno stolti , d'Insania intrepidi seguaci,
via dall'immenso gregge che il Destino rinserra
rifugiarsi nell'oppio sconfinato!
- Questa del globo intero la cronaca immutabile.»

VII

Che amara conoscenza si ricava dai viaggi !
Oggi e ieri e domani e sempre il mondo
monotono e meschino ci mostra quel che siamo:
un'isola d'orrore in un mare di noia .

È il caso di partire? di restare? Rimani
se puoi, parti se devi. Chi corre, chi s'appiatta
per ingannare il Tempo , belva attenta e funesta ...
C'è qualcuno che, ahimè, non ha riposo,

apostolo o Ebreo errante , e per sfuggire
all'infame reziario non gli basta
né treno né veliero; e chi lo ammazza
senza nemmeno uscire dal suo buco .

Quando infine col piede ci calcherà la schiena
noi spereremo ancora, e grideremo «Avanti!»;
e così come un tempo partimmo per la Cina,
lo sguardo fisso al largo, il vento nei capelli,

sul mare delle Tenebre ci sapremo imbarcare
col cuore di chi è giovane e lieto di viaggiare [...].

VIII

Su, andiamo, Morte, vecchio capitano!
Salpiamo, è tempo, via da questa noia !
Son neri come inchiostro terra e mare,
ma i nostri cuori, vedi, sono colmi di luce.

Versaci per conforto il tuo veleno!
Quel fuoco arde il cervello : giù nel gorgo profondo,
giù nell'Ignoto, sia l'Inferno o il Cielo,
scendiamo alla ricerca di qualcosa di nuovo!

Charles Baudelaire, Poesie e prose, a cura di G. Raboni, Mondadori, Milano 1973

Leggiamo insieme – Viaggio verso l'Ignoto

L'ultima poesia
La poesia di chiusura dei Fiori del male è caratterizzata da alcuni aspetti che la differenziano da tutte le altre:

  • La lunghezza: 36 quartine di versi alessandrini (versi di dodici sillabe corrispondenti al nostro endecasillabo), divise in otto parti di diverse dimensioni (la quinta parte è fatta da un mezzo verso, la settima da 7 strofe).
  • La particolare struttura dialogica: la poesia comincia con delle osservazioni generali sul rapporto tra gli uomini e il viaggio, continua con le domande rivolte ai viaggiatori, a cui questi rispondono con il loro lungo racconto (parti IV e VI); l'ultima parte (VII) è la conclusione del poeta, con l'esortazione ad affrontare l'ultimo viaggio della morte (VIII).
  • La voce collettiva: per la prima volta l'io narrante è in realtà un 'noi'. Il poeta confonde se stesso negli altri uomini, pone con loro le sue domande ai viaggiatori, ne condivide la curiosità nell'ascoltarli e trae infine le conclusioni per tutti.

L'insieme di queste caratteristiche, unite naturalmente alla sua particolare posizione, fa del Viaggio una poesia speciale, destinata a consegnare un messaggio importante.

«Un'isola di orrore in un mare di noia»
Il mondo umano che i viaggiatori raccontano è una specie di summa dei Fiori del male. Dappertutto trionfa il «peccato», il male: gli uomini, pieni di vizi, sono schiavi di donne stupide, ignoranti e superbe; il sangue scorre ovunque come il vino in una festa; i popoli si sottomettono alla violenza dei tiranni, schiavi del loro desiderio di potere; i religiosi fanatici godono delle loro sofferenze; gli uomini, infine, credono di essere degli dei grazie al progresso e bestemmiano Dio, ma sono in realtà dei pazzi furiosi che straparlano in punto di morte. Gli unici che sembrano sfuggire a questo quadro orribile sono gli oppiomani, che cercano però conforto in un mondo di follia. La «cronaca immutabile del mondo» mostra dunque a qualunque uomo, anche a quello che non ha mai lasciato casa sua, uno specchio fedele della sua realtà: una monotona ripetizione dello stesso spettacolo di vizio, violenza e orrore. Si tratta di un'esplicita e dura presa di posizione di Baudelaire contro l'immagine di progresso e di civiltà che la società europea dell'Ottocento proiettava di se stessa in tutto il mondo.
Per questo motivo viaggiare non serve a niente. I viaggiatori raffreddano immediatamente la curiosità degli uomini che li interpellano («cervelli infantili» che trovano che «che è bello tutto ciò che è lontano»): le uniche cose che cambiano in tutti i paesi del mondo sono i colori, gli  «idoli», i riti, insomma gli aspetti superficiali, ma fondamentalmente il mondo umano è uguale ovunque. Il viaggio è dunque la soluzione sbagliata a un impulso profondo dell'uomo, che è il desiderio di infinito, di provare «l'incanto misterioso / di quelli che per caso nascono dalle nubi», che in realtà nessuna meta raggiungobile con un treno o una nave riuscirà a colmare.

L'ultimo viaggio
Nella poesia nè gli uomini curiosi nè i «meravigliosi viaggiatori» sembrano avere una soluzione che soddisfi l'innato desiderio dell'uomo. E' il poeta che si incarica, a nome di tutti (viaggiatori e non) di indicare una via diversa e veramente 'nuova'. In fondo – dice Baudelaire – non importa se uno viaggia o no: se proprio non resiste, lo faccia, se no resti dove si trova. Ciò che veramente è importante è la disponibilità a un altro tipo di viaggio, l'ultimo. Quando il Tempo-gladiatore, da cui tutti fuggiamo, ci avrà raggiunto e avrà calcato il suo piede sulla nostra schiena, in quel momento dovremmo essere pronti a partire con lo stesso entusiasmo con cui siamo partiti una volta verso la Cina, con «lo sguardo fisso al largo, il vento nei capelli», «col cuore di chi è giovane e lieto di viaggiare», «colmi di luce» e con il «fuoco» nel cervello. L'unico vero viaggio è insomma quelo che avviene fuori della nostra realtà, verso l'abisso dell'Ignoto. Lo stesso in cui si lanciano l'insetto e l'amante appassionato nell'Inno alla bellezza (vedi pag. XXX), lo stesso che forse è annunciato dalla fuggitiva passante dell'omonima poesia (pag. XXX). Nulla ci dice Baudelaire sui caratteri di questa meta straordinaria, raggiunta attraverso un tuffo nell'abisso profondo, se non che sarà un luogo veramente «nuovo», dove lo spleen non avrà più motivo di esistere. Un luogo che precede e segue l'esistenza e che nella vita quotidiana solo la poesia del poeta/albatro può tentare, con la magia della sua parola, di evocare.

Esercizi

Per capire

  1. Perché il cuore dei viaggiatori è sempre «inquieto»? 
  2. Cos'è l'«incanto misterioso» che nasce dalle nubi, che i viaggiatori cercano invano?
  3. Quali sono le cose «capitali» che i viaggiatori hanno visto nei paesi dove sono stati?
  4. Come definiscono l'uomo i viaggiatori?
  5. Perché nel racconto dei viaggiatori gli uomini gridano "Mio signore e mio simile, ti maledico, Dio!"?
  6. Come definisce la condizione umana il poeta?
  7. Perché viaggiare non serve a nulla?
  8. Quali sono i due atteggiamenti che gli uomini hanno nei confronti del Tempo? Qual è invece l'atteggiamento giusto?

Per approfondire

  1. Nella poesia ci sono molti elementi che fanno riferimento all'antitesi finito/infinito: trova le espressioni significative, commentale e forniscine un'interpretazione complessiva.
  2. Individua e commenta le metafore collegate alla rappresentazione del Tempo.
  3. Nella descrizione dell'ultimo viaggio gioca un ruolo importante la contrapposizione luce/buio: individua e commenta le espressioni significative.
  4. Fa' un confronto con l'operetta leopardiana Dialogo della Natura e di un islandese (pag. XXX): in cosa si somigliano le esperienze dei viaggiatori baudelairiani e dell'islandese?
  5. In un altro testo leopardiano, La ginestra (pag. XXX), si possono trovare accenti simili a quelli baudelairiani sulla superbia dell'uomo ottocentesco che si crede ormai simile a Dio. Fa' un confronto in tal senso tra i due testi.
  6. Il viaggio ha molti elementi comuni con uno dei testi più suggestivi della lirica romantica tedesca, l'Inno alla notte di Novalis. In che senso queste due opere possono essere collegate?

Verso l'esame
Prima prova, saggio breve: Il viaggio (vedi anche i testi Il grande Nord di Alfieri, pag. XXX, Primo inno alla notte di Novalis, pag. XXX, Dialogo della Natura e di un islandese di Leopardi, pag. XXX, e L'arte è meglio della natura di Huysmans, pag. XX).

 

Il punto su I fiori del male

Albatri, cigni e vedove: la forza del simbolo

[La realtà dei simboli] Come abbiamo visto dalla lettura dei testi la realtà di cui parla la poesia baudelairiana è impregnata di simboli. Non è quella oggettiva dei realisti né quella ipersoggettiva dei romantici: è invece un qualcosa di sovrannaturale, accessibile solo al poeta, capace di vedere quello che gli altri non colgono, le dimensioni segrete delle cose e le loro «corrispondenze». Un albatro, il nobile uccello dei mari, viene catturato da marinai annoiati e si trascina ridicolo e goffo sul ponte di una nave, tra le risa di scherno. Un cigno scappato dalla gabbia annaspa in un rivolo d'acqua, protestando contro Dio e invocando il suo lago natale, perduto per sempre. Una nobile donna vedova di un antico poema latino, Andromaca, rende uno struggente omaggio al marito morto in guerra. Sono tre immagini che parlano alla speciale sensibilità del poeta e gli raccontano della triste condizione umana, di cui solo lui è in grado di avere piena e drammatica coscienza. L'uomo è un esule sulla terra, che ha perso per sempre qualcosa che gli apparteneva e vaga in un mondo a lui ostile alla sua inutile ricerca. Un mondo che continuamente gli manda dei segni, ricordandogli il suo esilio, la sua estraneità, la sua non appartenenza.
[I figli di Abele] Ci sono però delle persone che si sentono nel posto giusto: sono i figli di Abele, i borghesi. Come il patrigno di Baudelaire, il militare dalla bella e folgorante carriera; o sua madre, che non esita a 'tradire' il marito morto e il figlio, risposandosi. Ricchi, grassi, prolifici e vincenti, sono contenti del sistema e servono un dio che dà loro sempre ragione, mentre i figli di Caino si trascinano affamati e maledetti. I figli di Abele distruggono i vecchi quartieri, costruiscono nuove strade, mettono in gabbia i cigni per il diletto dei turisti, viaggiano con treni e velieri alla scoperta di un mondo sempre più piccolo. Si sentono padroni onnipotenti e non si accorgono che tutto intorno a loro è solo vizio, violenza, sopraffazione, sangue, fanatismo. Chiusi nelle loro grandi case, riscaldati da un sontuoso focolare e attorniati dalla loro numerosa famiglia, si rifiutano di guardare il fango della realtà che hanno costruito: proprio a questo figlio di Abele si rivolge Baudelaire nella poesia dedicatoria dei Fiori del male, chiamandolo ironicamente «ipocrita lettore, - mio simile, - fratello!»).
[Spleen e Ideale] I figli di Caino invece – il poeta è tra loro – hanno il coraggio di tenere gli occhi aperti e di vivere fino in fondo il male dell'uomo moderno: essi hanno il cuore ardente, non accettano la realtà così com'è, ma non possono cambiarla. Sono profondamente divisi: da una parte sentono una forte spinta verso l'alto, cercano l'amore, la purezza, l'autenticità, vorrebbero volare ed essere liberi; dall'altro l'ambiente in cui vivono li trascina sempre sulla terra, anzi – come dirà Dostoevskij (vedi pag. XXX) – nel sottosuolo. Spinti dalla rabbia della caduta, incapaci di vivere in un mondo dominato dagli Abele, si sfogano nel sesso, nell'alcol, nella droga, vivendo nella loro anima quell'agonia della civiltà che i borghesi fanno finta di non vedere. Diventano così vittime dello spleen, la depressione: una malattia paralizzante, senza vie d'uscita, che si installa nell'anima come un popolo di ragni, che la schiaccia come un coperchio di una cassa da morto, che la opprime come un'umida cella, in cui un pipistrello impazzito sbatte le sue povere ali. Per i maledetti figli di Caino la speranza è morta per sempre ed è l'angoscia che pianta vittoriosa la sua bandiera nel loro cranio. Ancora una volta è nel linguaggio dei simboli l'unica possibilità di raccontare la morte dell'anima.

L'esperienza della Bellezza

[Le manifestazioni dell'Ignoto] A differenza dei figli di Abele, i 'maledetti' sperimentano dunque tutti gli aspetti della vita umana, dalle tensioni più nobili al vizio più turpe, dalla felicità improvvisa alla noia più tremenda. Ed è proprio qui, sperimentando questo grumo di contraddizioni dell'esistenza, che s'imbattono talvolta nelle manifestazioni dell'Ignoto, dell'Infinito, di un assoluto che sembra sospendere la loro condizione di esuli e far loro intravedere un varco, una via di uscita dalla sofferenza quotidiana.
[L'esperienza della Bellezza] Si tratta di momenti brevi, intensi, unici, in cui il poeta incontra la Bellezza, una dea terribile, che ha in sé qualcosa di celeste e di infernale, che si trova in una prostituta come in una divinità, e che si può accompagnare all'orrore e all'assassinio. Anche qui gli viene in aiuto la sua capacità di leggere simbolicamente la realtà: una farfalla che si getta sulla candela accesa, benedicendola, e un amante che abbraccia la donna che lo sta uccidendo con la sua passione, sono l'immagine di questa esperienza totalizzante, in cui non c'è più Bene o Male, né Abeli o Caini, ma solo anime infuocate che sprofondano in una dimensione quasi mistica, dimenticando lo spleen della vita. Così può accadere, in una via affollata di Parigi, di imbattersi in un'affascinante donna in nero (anche lei in lutto, come Andromaca) che con uno sguardo breve come lampo uccide il poeta e lo richiama nello stesso tempo alla vita, fuggendo subito dopo. Insomma, nel mondo della noia e della sofferenza si mostrano, a chi sa guardare, segni di una realtà diversa, che attraggono irresistibilmente il poeta. Egli vivrà nella loro attesa, incapace di imparare le regole comuni, impacciato nei movimenti, ridicolo nel suo comportamento, in mezzo a tanti disinvolti Abele. Ma l'Infinito, l'Ignoto non esistono nella vita terrena e la tensione verso di essi non si risolve mai: è la morte l'unica vera via di uscita.
[La Morte] La prima poesia della raccolta (Benedizione) ci dice che il poeta «appare nel mondo annoiato per decreto delle potenze supreme», tra le maledizioni di sua madre, il disprezzo di sua moglie e l'odio di chi lo circonda; egli sa che «il dolore è l'unica nobiltà in cui nulla possono né il Cielo né l'Inferno» e che solo attraverso questo lui potrà «intrecciare la sua corona mistica», cioè compiere la sua opera poetica. La parabola del poeta sulla terra sembra quella di un nuovo Cristo, destinato a soffrire per la sua testimonianza, e la sua conclusione non può essere che la morte. L'ultima poesia (Il viaggio) ce lo mostra così mentre si tuffa in un «gorgo profondo, giù nell'Ignoto» a conclusione del suo viaggio terreno, verso qualcosa di veramente «nuovo». Tra i due componimenti c'è stata la tumultuante esperienza della terra, distillata con la magia della parola poetica.

Una poesia 'moderna'

[La poesia] I fiori del male sono il racconto di questa immaginaria parabola tra l'apparizione nel mondo e il tuffo nell'Ignoto: nelle sue diverse sezioni, che sono come altrettante tappe di una moderna via crucis, troviamo l'opposta tensione verso la purezza e verso la degradazione, l'amore e l'odio più violento, la noia, l'ubriacatura di vino e la sensualità, la rivolta e la bestemmia e, infine, la scelta entusiasta dell'assoluto. Non per nulla, alla fine della sua vita, Baudelaire lo ha chiamato un «libro atroce nel quale ho messo tutto il mio cuore, tutta la mia tenerezza, tutta la mia religione (travestita), tutto il mio odio».
[L'arte come espressione del contingente] Un libro che, scritto a metà dell'Ottocento, viene considerato il modello della poesia 'moderna', da cui tutti i poeti successivi prenderanno le mosse. Baudelaire stesso applicava questo concetto all'opera del vero artista, il quale «cerca qualcosa che ci consentirete di chiamare modernità, poiché non disponiamo di un termine migliore per esprimere l'idea in questione. Si tratta, per lui, di tirar fuori dalla moda quanto essa può contenere di poetico nello storico, di trarre l'eterno dal transitorio». La sua scelta è dunque radicalmente diversa dall'artista classico, che si occupa dei valori eterni e assoluti: per quello 'moderno' conta invece il qui ed ora, la bellezza mutevole della realtà cittadina. «La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell'arte, la cui altra metà è l'eterno e l'immutabile... Questo elemento transitorio, fuggitivo, le cui metamorfosi sono tanto frequenti, non avete il diritto di disprezzarlo o trascurarlo... Guai a chi studia nell'antico niente altro che l'arte pura, la logica, il metodo generale! A furia di immergervisi dentro, perde la memoria del presente, rinuncia al valore e ai privilegi offerti dalla circostanza. Quasi tutta la nostra originalità proviene infatti dal marchio che il tempo imprime alle nostre sensazioni». Parole che avvicinano Baudelaire al grande movimento degli Impressionisti (vedi pag. XXX), di cui fu acceso sostenitore.
[La poesia come realtà 'altra'] La poesia baudelairiana è infine moderna perché ha la piena coscienza del suo essere artificiale, frutto del lungo lavoro del poeta, che sceglie di realizzare la Bellezza a partire da qualsiasi materia, anche degradante, attraverso precise scelte formali. La parola poetica ricostruisce così i molteplici livelli di una realtà complessa, simbolica, ricca di «corrispondenze» in una ricerca inesausta (e incompiuta) di avvicinamento all'Ignoto.


              La carità: il bene. Costruisci «Il tuo sguardo, infernale e divino, versa insieme, confusi, la carità e il delitto». 

              Assomigli...vino: nel saggio Vino e haschish Baudelaire scrive: «il vino è come l'uomo: non si saprà fino a che punto lo si può stimare e disprezzare, amare e odiare, né di quante azioni sublimi o di crimini mostruosi sia capace». 

              Esali: diffondi nell'aria.

              Un filtro: una pozione magica.

              Un'ampolla: nell'originale francese è «un'anfora». 

              L'eroe... ardito: l'uomo perde le sue forze e il ragazzo le acquista bevendo la pozione della bellezza, perché essa può tutto.

              Gorgo: una variante dell'«abisso» del verso 2.

              Il Destino... cane: la Bellezza domina anche il Destino.

              Morti: sono le sue vittime.

            Gioielli: la Bellezza è raffigurata come una donna ricoperta di gioielli, tra i quali spiccano, personificati, l'Orrore e l'Assassinio. L'associazione bellezza/orrore era già un concetto romantico, in polemica contro gli ideali estetici classici (bellezza come armonia e proporzione).

            Orgoglioso: che non si sottomette a nessuno, che è l'oggetto del desiderio di tutti.

            L'effimera: un insetto dalla vita molto breve, qui rappresentato nell'atto di lanciarsi contro la fiamma della candela. Allo stesso modo l'amante si lascia attirare dalla bellezza che lo ucciderà.

            Sul... amore: sulla donna amata (durante l'atto sessuale).

            Ingenuo: nel senso di primitico, innocente.

            Sirena: le Sirene erano delle figure mitologiche che attiravano con il loro canto i marinai contro gli scogli dell'isola su cui vivevano.

            Tedio: è la traduzione del francese «ennui» (noia), che a sua volta traduce l'inglese «spleen» (la milza, l'organo che secondo la medicina antica secerneva la bile nera, responsabile della malinconia). Della noia Baudelaire aveva scritto fin dalla prima poesia Al lettore che «in mezzo agli sciacalli, alle pantere, alle linci, / alle scimmie, agli scorpioni, agli avvoltoi, ai serpenti, / ai mostri guaiolanti, grufolanti, striscianti / del nostro infame serraglio di vizi, / uno è ancor più brutto, più cattivo, più immondo! / Senza troppo agitarsi né gridare / vorrebbe della terra non lasciar che rovine / e sbadigliando inghiottirebbe il mondo: / è la Noia!»

            Stringendo: il cielo nuvoloso abbraccia tutto l'orizzonte.

            Segreta: cella.

            Dove...Speranza: la speranza, personificata, è paragonata a un pipistrello che si vola furiosamente nello spazio ristretto della cella.

            Le...pioggie: le linee verticali che la pioggia disegna nel cielo.

            Un popolo...reti: simbolo dei tristi pensieri che s'impadroniscono della mente del poeta.

            Furiose...campane: è la principale, dopo le tre temporali introdotte da «quando». 

            Anime: le anime dei morti, che nella superstizione popolare vagano disperate.

            Disfatta: vinta.

            Speranza...Angoscia: sono i due contendenti nella testa del poeta. Alla fine vince l'Angoscia e pianta la sua bandiera per segnare l'occupazione del territorio.

            Sinistra: malvagia, atroce.

            Victor Hugo: romanziere contemporaneo di Baudelaire (vedi pag. XX), che si trovava in quel momento in esilio a causa della sua feroce opposizione al regime di Napoleone III.

            Andromaca: è la moglie vedova di Ettore, morto sotto le mura di Troia per mano di Achille. Il figlio di quest'ultimo, Pirro, la condusse come schiava nella sua città e la diede successivamente in sposa al cognato Eleno (anche lui deportato in Grecia dopo la caduta di Troia). Alla morte di Pirro, Eleno ereditò una parte del regno e ricostruì una città del tutto simile a Troia, ribattezzando anche i due fiumiciattoli che la lambivano con i nomi dei due gloriosi fiumi troiani, lo Scamandro e il Simoenta.

            Stento: misero.

            Rifulse: risplendette.

            Dolore: di vedova.

            Bugiardo: nel senso di finto. Il ricordo di Baudelaire è squisitamente letterario e si riferisce a un passo del poeta romano Virgilio  (I secolo a. C.), che nella sua Eneide rappresenta Andromaca nell'atto di fare un sacrificio alla tomba vuota del marito, offrendogli «tristi doni davanti alla città, in un bosco sacro, vicino all'acqua d'un finto Simoenta».

            Nel... Carosello: mentre attraverso la nuova piazza del Carosello. In pieno centro di Parigi, tra il museo del Louvre e il Palazzo delle Tuileries, c'erano un piccolo quartiere e una piazza: il primo fu distrutto e la seconda ampliata, in modo da collegare direttamente i due palazzi.

            Fecondò: il soggetto è «quello stento fiume» del verso 1. Mentre attraversa la piazza del Carosello appena rifatta, il poeta ricorda il verso dell'Eneide sulfalso Simoenta, e questo gli fa venire in mente Andromaca che piange sulla tomba del marito, anche lei in una città rifatta, finta.

            Parigi... è sparita: Baudelaire allude alla rivoluzionaria politica urbanistica di Napoleone III e del prefetto di Parigi Eugène Haussmann, che stravolsero la città, trasformandola in una moderna metropoli. Molti vecchi quartieri furono sventrati per fare spazio a grandi piazze da cui partivano viali di grande scorrimento (i boulevard), in modo che Parigi, che contava già due milioni di abitanti, fosse facilmente attraversabile nei due assi principali e le diverse zone fossero collegate da una rete di strade veloci. Furono così creati nuovi quartieri e grandi spazi verdi, furono rinnovate le reti idrica e fognaria e la città raddoppiò le sue dimensioni. L'intervento suscitò molte polemiche, anche perché si disse che era una misura soprattutto politica e di controllo del territrio, destinata ad impedire che si ripetessero le barricate e la guerriglia urbana del '48 e rivolta soprattutto contro i quartieri che maggiormente avevano resistito grazie alla loro conformazione. Si trattò in ogni caso di una politica urbanistica lungimirante, da cui la maggior parte delle città europee prese poi esempio.

            Fusti: di colonne.

            Sbozzati: appena abbozzati.

            Che... inverdiscono: intorno ai quali le pozze d'acqua fanno crescere l'erba.

            Bric-à-brac: cianfrusaglie.

            Serraglio: per gli animali.

            Algido: «freddo e chiaro», dice l'originale francese.

            Il Lavoro: è una metonimìa, una figura retorica in cui un termine astratto viene usato al posto del suo corrispondente concreto (i lavoratori).

            Uragano: il flusso di gente che percorre le strade parigine è paragonato a una tempesta che si leva nel silenzio.

            Vidi: regge «le bianche piume strascinare al suolo». Anche il cigno di questo ricordo è un esule (come Andromaca e come il poeta, in una città che non riconosce più).

            Palmati: fatti per nuotare, non per camminare.

            Rigagnolo: rivolo d'acqua. Richiama il «Simoenta bugiardo» di Andromaca.

            Convulso: l'originale francese dice «nervosamente». 

            Con...natale: il suo cuore è pieno di nostalgia per il lago dove è nato.

            Folgore: fulmine.

            Mito... Dio: io vedo l'infelice cigno - come un mito strano e fatale, come l'uomo di Ovidio – tendere a volte la sua avida testa sul collo frenetico verso un cielo crudelmente azzurro e ironico, come se si levasse a rimproverare Dio. Baudelaire vede nel cigno la traduzione concreta di un mito, un antico racconto che rivela una profonda verità: in questo caso la disperata condizione umana, priva di felicità perché in esilio. L'espressione «l'uomo di Ovidio» fa riferimento a dei versi del poeta latino Ovidio, che aveva scritto che l'uomo è stato creato con la faccia rivolta verso l'alto per guardare il cielo e per «alzare i suoi occhi dritti alle stelle» (come qui fa il cigno, in segno però di protesta contro Dio, che lo ha separato dal suo «lago natale»). Il cielo è infine «ironico» perché è «azzurro» e non invece piovoso, come il cigno vorrebbe.   

            Melancolia: è sinonimo di spleen (vedi la poesia precedente).

            Tutto... allegoria: le cose vecchie e nuove della sua Parigi lo fanno pensare a qualcos'altro. L'allegoria è un procedimento retorico per cui un racconto ha un significato diverso da quello letterare, immediato (vedi l'introduzione). Qui si tratta piuttosto di un processo mentale: la realtà stessa ha per Baudelaire un significato allegorico.              

            Folli: insensati perché inutili.

            Comico e sublime: il cigno, animale «sublime» (per la sua bellezza maestosa e per il significato simbolico che il poeta gli attribuisce), diventa ridicolo nel suo raspare nervoso sul selciato, un po' come l'albatro catturato dai marinai (vedi la prima poesia a pag. XX).

            Un desiderio: la nostalgia del suo «lago», perduto per sempre.

            Grande sposo: Ettore, caduto sotto le mura di Toria per mano del greco Achille, come narra l'Iliade di Omero.

            Rotolata: caduta.

            Deprezzato agnello: come una bestia senza valore, da macello.

            Pirro: il figlio di Achille (vedi nota 2).

            China in estasi: Andromaca è curva e contempla rassegnata la tomba, mentre il cigno alzava la testa per rimproverare Dio.

            China... deserta: vedi nota 6.

            Eleno: figlio del re di Troia Priamo, fratello di Ettore (vedi nota 2).

            La negra: un'altra esule, questa volta emigrata per bisogno, che si trascina malata per le vie nebbiose di Parigi, cercando i suoi alberi di cocco.

            Stralunata: allucinata.

            A chi: sott. «penso». 

            S'abbeverano... lupa: gli esuli bevono le loro lacrime e si nutrono del loro dolore, qui paragonato alla lupa che allattò Romolo e Remo. Le prime due sono delle metafore, figure retoriche in cui al posto dei termini propri (vivono piangendo e soffrendo) ne vengono utilizzati altri che hanno con i primi una o più caratteristiche simili (l'acqua e il latte che servono per vivere). 

            Magri...fiori: gli orfani sono come dei fiori tagliati che seccano per mancanza di nutrimento.

            Bosco... Ricordo: il poeta si sente anche lui esule (come tutte le figure evocate fin qui); il «bosco» è forse un riferimento alla poesia «Corrispondenze», dove Baudelaire parla della realtà come una «foresta di simboli che osservano» l'uomo «con sguardi famigliari» (e in questa passeggiata parigina il poeta di simboli ne incontra davvero molti). Il «Ricordo» è forse – come il lago per il cigno o l'Africa per la donna – il sentimento di una felicità perduta che grida forte il suo richiamo dentro l'anima.     

            Obliati: dimenticati.

            Clamore: l'originale francese parla di strada «assordante». 

            Maestà di dolore: nobile nel suo dolore.

            Ossesso: folle.

            Vividi: luminosi.

            M'hai...morte: il testo francese dice «mi hai fatto rinascere». 

            So...sai: anche la passante ha guardato il poeta e forse ha capito i suoi pensieri.

            Compiacente: benevolo, disponibile.

            Serafino: uno degli angeli che siedono più vicini a Dio. I sacrifici della razza di Abele piacciono a Dio, quelli dei discendenti di Caino no. Riportiamo qui la narrazione della Genesi «Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo». Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra».

            Il tuo supplizio: la tua sofferenza, derivata dalla maledizione di Dio (vedi nota precedente).

            Fuoco patriarcale: è il focolare attorno a cui si raduna la grande famiglia di cui Abele è capo.

            Sciacallo: cane selvatico che si nutre di carogne.

            Riproduciti: l'originale francese dice «pullula», come gli insetti. 

            Anche...prole: cioè non solo i tuoi figli, ma anche le tue ricchezze si moltiplicano.

            Cuore... appetiti: la razza di Caino ha un cuore ardente e non si rassegna alla sua condizione. Il poeta però lo esorta a misurare i suoi desideri, perché il 'sistema' non è dalla sua parte.

            La tua.. fumante: gli Abele sarranno uccisi dai Caino e le loro grasse «carogne» concimeranno la terra calda per il sangue versato. E' la vendetta dela razza 'maledetta'.

            La tua... completa: uccidere Abele non basta, perché il vero colpevole dell'ingiusto destino di Caino è Dio.

            Onta: vergogna. Abele non è capace di difendersi e soccombe davanti allo «spiedo» (una lancia corta usata per cacciare la selvaggina) di Caino.

            Di rive: sul bordo cioè di mari e fiumi.

            Ad onta di: nonostante.

            L'ardente...inquieto: è l'oggetto di «spingevano a tuffarsi». Gli spettacoli della natura fanno nascere nel cuore dei viaggiatori un desiderio di infinito, che nessun viaggio mai potrà soddisfare.

            Mutevole: di diversi colori e forme.

            Non c'era...nubi: nessuna città e nessun paesaggio valevano lo spettacolo del cielo, che si può contemplare in qualsiasi luogo (anche a casa propria, senza viaggiare).

            Mai...desiderio: i viaggiatori desiderano sempre qualcos'altro per appagare il loro desiderio. Il concetto è vicino a quello leopardiano, per cui la ricerca del piacere non potrà mai essere saziata dai piaceri di questo mondo, che sono per loro natura finiti (vedi pag. XXX).

            All'albero... concime: il piacere che si prova in seguito a un'esperienza fa nascere il desiderio di provarne una diversa. L'«albero» del desiderio (forse un richiamo a quello della Genesi) tende così a crescere all'infinito. 

            Cipresso: albero tradizionalmente usato nella decorazione dei cimiteri, simbolo di immortalità per le sue foglie sempreverdi.

            Scrupolosi: con cura.

            Idoli: statue di dei. Tutta la descrizione che segue sembra riferita all'India.

            Sarebbero...rovina: il banchiere cioè si rovinerebbe per averli.

            Fachiri: religiosi induisti che si dedicano a pratiche di controllo del dolore (qui addomesticano anche i serpenti).

            Avvezzi: abituati.

           E dopo?: a parlare sono gli uomini curiosi.

           Capitale: più importante.

           Scala fatale: la scala sociale in cui il fato, il destino ha posto ogni uomo.

           Tedioso: noioso, che fa venire lo spleen (vedi pag. XXX).

           Schiava: (oggetto di «abbiamo visto») dell'uomo. In questi primi ricordi di viaggio prevale lo spettacolo della lussuria e del vizio.

           Cupido: avido.

           Lascivo: dissoluto.

           Schiava: la donna.

           Sgocciolio della fogna: l'uomo è paragonato allo schifoso liquame delle fogne cittadine (siamo molto lontani dalla tradizione umanistica!).

           Rallegrarsi: dipende sempre dall'«Abbiamo visto» di due strofe prima. In questa strofa i ricordi dei viaggiatori riguardano la bestialità umana e le spietate tirannie (nello specifico, i carnefici per esempio non dovrebbero provare gioia nell'uccidere un altro uomo).

           Il sangue...profumo: il sangue e la violenza accompagnano anche i momenti più festosi della vita.

           Sferza brutale: la violenza del potere tirannico, di cui il popolo sembra innamorato (perché non si ribella).

           Dar... cielo: [abbiamo visto] molte religioni simili a quella cattolica, che hanno la pretesa di arrivare fino a Dio.

           Cercar la Santità...: [abbiamo visto] dei santi che cercano il piacere (la « voluttà») tra i chiodi e la ruvida stoffa, come un gaudente su un letto di piume (il «crine» è un tessuto ruvido fatto con peli di cavallo).

           Ebbra di genio...: [abbiamo visto] l'umanità ubriaca della sua intelligenza, chiacchierona, folle ora come una volta, gridare nella sua furibonda agonia. E' la condanna senza appello del progresso e della 'civiltà'.

           Dentro...agonia: gli uomini si credono dei, ma è solo l'espressione della follia di chi sta per morire.

           "Mio... Dio": l'umanità, orgogliosa per il suo sapere, è arrivata a considerarsi al pari di Dio e a maledirlo.

           E i meno stolti...: e [abbiamo visto] i meno stupidi, amanti audaci della follia, rifugiarsi nell'oppio immenso, fuggendo via dal grande gregge di uomini prigionieri del loro destino. Per capire il senso dell'aggettivo «sconfinato», biosgna far riferimento a un'altra poesia (Il veleno), dove Baudelaire aveva definito l'oppio come la sostanza che «ingrandisce le cose che già non hanno limite, allunga l'infinito, approfondisce il tempo, scava nella voluttà e riempie l'anima al di là delle sue capacità di neri e cupi piaceri».

           Che amara... viaggi: qui è il poeta che parla, a nome dell'umanità.

           Un'isola... noia: e non invece, come recitava la propaganda borghese, un'oasi di luce e di progresso.

           S'appiatta: si nasconde.

           Il Tempo: Baudelaire aveva scritto nel Nemico: «O dolore, o dolore, il Tempo si mangia la vita e l'oscuro Nemico che ci divora il cuore cresce e si fortifica del sangue che perdiamo»; e nell'Orologio: «Ricordati che il Tempo è un giocatore avido che vince senza barare, a ogni colpo. È la legge. Decresce il giorno, la notte avanza. Ricordati! L'abisso ha sempre sete, la clessidra si svuota».

           Funesta: che conduce alla morte.

           Apostolo... errante: due esempi di viaggiatori instancabili, sempre in movimento. Gli apostoli, nella loro infaticabile opera di annuncio del Vangelo, e l'ebreo errante, un uomo che, stando alla leggenda, colpì Gesù lungo la via crucis e fu condannato da Dio a camminare sulla terra fino al tempo della sua seconda venuta.

           Reziario: il Tempo è paragonato a un gladiatore che, ai tempi dei Romani, combatteva armato di una rete che gli serviva per immobilizzare l'avversario (da cui il suo nome) e di un tridente per finirlo.

           E chi... buco: c'è chi non ha scampo dal Tempo neanche se viaggia in continuazione, e chi, senza nemmeno uscire da casa, lo «ammazza» immergendosi in attività insignificanti.

           Ci... schiena: il soggetto è «il Tempo». E' il momento della morte, rappresentata con una metafora gladiatoria. Il «reziario» ci ha buttati a terra e ci ha messo un piede sulla schiena, pronto a finirci.

           Mare delle Tenebre: così è rappresentato l'ultimo viaggio verso la morte.

           Questa noia: del mondo, della vita quotidiana.

           Quel fuoco... cervello: i viaggiatori ardono dal desiderio di ripartire per quest'ultimo viaggio, che sarà diverso da tutti gli altri. Per questo chiedono alla Morte di dar loro una medicina curativa («il veleno per conforto») che li aiuti a gettarsi nell'abisso profondo dell'aldilà. 

           Nuovo: di veramente nuovo, non come le cose – in fondo sempre uguali - viste dai viaggiatori.

Verifica finale

    • verifica delle conoscenze

 

  1. Definisci con parole tue i seguenti vocaboli: dandy e flâneur.
  1. Dov’è nato Baudelaire ?
  • Parigi
  • Londra
  • Marsiglia
  • Dublino
  • Amsterdam

 

  1. Quale di queste affermazioni relative all’infanzia e all’adolescenza di Baudelaire sono esatte ? (rispondi vero o falso)
  • Il padre naturale di Baudelaire era un ex-prete, molto più anziano della madre.
  • Baudelaire era il figlio illeggittimo di un giovane signorotto di provincia
  • Il tenente Aupick è il patrigno di Baudelaire, sposato in seconde nozze dalla madre
  • Baudelaire crebbe con la madre, senza conoscere mai il padre naturale
  • In occasione del secondo matrimonio della madre, Baudelaire fu dato in adozione-
  • I rapporti tra Baudelaire e il patrigno sono fin dall’inizio sereni e cordiali
  • Il punto di riferimento costante per Baudelaire è rappresentato dalla madre.
  • Fin dai primi anni di università Baudelaire dimostra un carattere ribelle e incurante delle convenzioni.
  1. Perchè Baudelaire entra in contrasto con il patrigno?
  • Perchè vorrebbe imbarcarsi come marinaio e partire per le Indie
  • Perchè non è interessato agli studi giuridici e alla carriera diplomatica
  • Perchè vorrebbe intraprendere la carriera militare.

 

  1. In che modo si procura i soldi che gli permettono di stabilirsi in un comodo appartamento centrale, a Parigi ?
  • Raggiunge la maggiore età e riceve l’eredità paterna
  • Ottiene uno strepitoso successo con le prime opere pubblicate.
  • Si fa mantenere da una facoltosa signora parigina.
  1. In che anno vengono pubblicati I fiori del male ?
  • 1857
  • 1821
  • 1848
  • 1860

 

  1. Qual è la reazione del pubblico e della critica alla pubblicazione dei Fiori del male?
  • L’opera riscuote grande successo presso il pubblico e la critica
  • La pubblicazione passa sotto silenzio, senza provocare particolari reazioni
  • L’opera fa scandalo e Baudelaire viene processato per oltraggio al pudore.
  1. Come trascorrono gli ultimi anni della vita di Baudelaire ?
  • Baudelaire ottiene finalmente l’atteso riconoscimento del suo valore, e vive serenamente con i proventi delle sue opere.
  • Il tenore di vita dissoluto, i debiti sempre crescenti, l’uso massiccio di alcool e droghe rendono precarie le sue condizioni di vita.
  • Si ritira a vivere in campagna con la madre, abbandonando la vita parigina.

 

  1. Perchè la scelta della letteratura da parte di Baudelaire si può definire una «scelta contro»?
  1.  Cosa pensa Baudelaire del modello di vita borghese ?
  • Baudelaire vorrebbe essere integrato e raggiungere il successo, e soffre per il fatto di non riuscirci
  • Baudelaire disprezza la borghesia perchè ha messo al primo posto su tutto il denaro e la logica dell’utile
  • Baudelaire ritiene che il modello borghese sia l’unico sistema di vita possibile, e per questo vi si adegua.

 

  1. Che cosa rappresenta per Baudelaire il ‘dandismo’?
  1.  Quali sono gli aspetti della metropoli che Baudelaire predilige nella sua opera?
  • I monumenti e le opere architettoniche grandiose
  • I quartieri aristocratici
  • La folla dei miseri e degli esclusi

 

  1. Cosa racconta Baudelaire nel poemetto Perdita d’aureola ? Qual è il significato del brano?

 

  1. Qual è il significato di un titolo come Fiori del male, formato da due termini apparentemente incompatibili?
  • Allude alla necessità di riscattare attraverso la bellezza formale il male di vivere
  • Fa capire che le cose migliori nascono da quelle peggiori
  • Vuole sottolineare che bene e male sono sempre strettamente intrecciati
  1. In che senso possiamo dire che per Baudelaire la poesia ha «un valore terapeutico»?

 

  1. Cosa intende Baudelaire per «corrispondenze»?
  • la capacità da parte del poeta di istituire nessi e relazioni tra spetti diversi del reale
  • l’esistenza di un collegamento univoco tra piano naturale e piano divino
  • la sintonia tra lo stato d’animo del poeta e il paesaggio naturale
  1. Che differenza esiste tra il simbolismo classico e quello moderno baudelairiano?

 

  1. Per quali aspetti la poesia di Baudelaire segna una rottura rispetto al modello romantico ?
  • Il rifiuto delle regole tradizionali e la sperimentazione del verso libero
  • L’interpretazione simbolica del reale
  • Il riferimento alla mitologia classica
  • La funzione didattica ed educativa assegnata alla poesia
  • Il rifiuto dell’immediatezza e dell’autobiografia
  • La preferenza accordata agli ambienti cittadini piuttosto che a quelli naturali
  • La concezione della poesia come artificio
  1. Cosa rappresentano, nella poesia dei Fiori del male l’albatro e il cigno?

 

  1. Perchè si può dire che secondo Baudelaire l’arte è poesia del contingente?
    • Spunti di riflessione

 

  1. Baudelaire e la società borghese
  2. La funzione della poesia secondo Baudelaire
  3. La rottura operata da Baudelaire rispetto al modello romantico
  4. Il simbolismo nella poesia di Baudelaire
    • prospettive

 

  1. Baudelaire e gli scapigliati
  2. Il mito dell’artista maledetto: da Baudelaire a Jim Morrison.

 

 

Fonte: http://www.matteotti.it/NS/docs/dispense/800_opere_fioridelmale_def.doc

Sito web da visitare: http://www.matteotti.it

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