Leopardi e Schopenhauer

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Leopardi e Schopenhauer

SCHOPENHAUER E LEOPARDI (F. De Sanctis)

Questa opera è uno dei primi saggi critici pubblicati sul pensiero del filosofo tedesco; è scritto in forma di dialogo e fu pubblicato per la prima volta nel 1858 nella “Rivista Contemporanea” e, più avanti, nei “Saggi Critici”. È un testo letterariamente elevato, dai toni tra l’adulatorio e il sarcastico, che coglie in profondità le idee di Schopenhauer evidenziandone, spesso con sottile ironia, il deciso antistoricismo ed il netto rifiuto dell’idea di progresso. Sul rapporto Schopenhauer-Leopardi circolano tutta una serie di «luoghi comuni» da sfatare. Si tratta di due esperienze intellettuali profondamente differenti, maturate, tra l’altro, in contesti storico-culturali diversi; non va infatti dimenticato che se la formazione culturale di Leopardi è eminentemente illuminista, quella di Schopenhauer è segnata dal netto rifiuto dell’idealismo allora imperante. Ciò non esclude che su taluni punti specifici del loro discorso esistenziale vi siano delle affinità assolutamente incontestabili. Rimanendo però ai fatti storici si può dire che, teoricamente, Leopardi avrebbe potuto leggere “Il mondo come volontà e rappresentazione” nella sua prima edizione del 1819, ma non risulta che lo abbia fatto (1). Risulta, invece, che Schopenhauer trovò consona al suo pensiero la visione della vita del poeta come è attestato, tra l’altro, dallo stesso De Sanctis. Schopenhauer cita Leopardi, manifestando grande considerazione per l’«italiano» che ha saputo rappresentare in maniera “profonda” il dolore. L’interesse di De Sanctis per il pensiero di Schopenhauer è un caso quasi isolato nella cultura moderna italiana; infatti al di là di pensatori e studiosi appassionati, l’opinione dominante non era molto favorevole al filosofo tedesco. Lo schopenhauerismo è apparso “di fatto” a gran parte dell’opinione colta italiana grazie a Giovanni Papini, che ne “Il crepuscolo dei filosofi” (1906) lo ha definito come la «grande opera buffa della filosofia tedesca». Alla mancata fortuna di Schopenhauer in Italia hanno indubbiamente contribuito i neoidealisti Croce e Gentile. Quest’ultimi, infatti, pur esperti di cultura tedesca, hanno sempre mostrato per il «pessimismo» un sostanziale disinteresse o, peggio, una preconcetta opposizione contrapponendogli e preferendogli sempre le certezze metafisiche dello Spirito inteso come sostanza del mondo. Unica eccezione è il romanziere Italo Svevo che, come testimoniato dalla moglie Lidia, “sapeva a memoria” i testi del filosofo tedesco. Senz’altro l’influsso di Schopenhauer, mediato dall’evoluzionismo darwiniano, è presente in opere come “Una vita” o “Senilità”. Per essere sinceri però Svevo più che alla cultura italiana appartiene ad una cultura della “Mitteleuropa”.

 

CONFRONTO DIRETTO
Per Schopenhaucr affermare che l’essere è la manifestazione di una volontà infinita equivale a dire che la vita è dolore. Infatti volete significa desiderare, e il desiderate porta ad uno stato di tensione, per la mancanza di ciò che vorremmo avere. Il desiderio risulta quindi per definizione, assenza, vuoto ossia dolore.
"Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che viene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)
Anche per Leopardi ogni essere è stimolato per natura da un continuo desiderio di piacere. Questo desiderio incessante potrebbe essere appagato solo da un piacere infinito. Ma i piaceri che ci offre la realtà sono insufficienti a soddisfare la nostra natura che ci spinge a volere sempre di più senza mai trovare soddisfazione.

“La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo”.
(Zibaldone, 1831)

L' infelicità umana deriva appunto dall’ insuperabile distanza tra l’ infinità del desiderio e la finitezza della realtà. Nella seconda fase del suo pensiero, l’infelicità dell' uomo non dipende da questa o quella situazione storica ma dalla contraddizione tra ciò che egli percepisce come il suo fine personale, il piacere, il graduale deperimento, annullamento e riciclaggio a cui la Natura lo destina insieme a tutte le altre parti dell’ universo.

“Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli esseri a loro modo. Non l'individuo ma la specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
(Zibaldone, 1826)

"Forse in qual orma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale”
 (Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia,1830)

LA CONCEZIONE DEL PIACERE DEI DUE INTELLETTUALI
Entrambi gli studiosi considerano il piacere come una momentanea cessazione del dolore:
Per Schopenhauer la soddisfazione di un desiderio (il piacere) o ne suscita altri o fa precipitare l’uomo in una situazione altrettanto:negativa che è la noia
"Dunque la vita oscilla come un pendolo fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno di dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, nient’altro all’infuori della noia"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)

Per Leopardi ogni parvenza di felicità è un inganno:  
"O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno”
 (La quiete dopo la tempesta, 1829)

Per entrambi l’uomo insegue il piacere infinito ma non lo raggiunge mai:
"Di tal natura sono gli sforzi e i desideri umani che ci fanno brillare innanzi la loro realizzazione come fosse il fine ultimo della volontà, ma non appena vengono soddisfatti cambiano fisionomia[..] Vengono sempre messi da parte come illusioni svanite"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)

“La felicità è possibile a chi la desidera perché il desiderio è senza limiti necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita e non ha limiti [..] e la felicità ed il piacere è sempre futuro, [..] esiste solo nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue"
(Zibaldone, 1821)

Per il poeta le illusioni proprie solo della giovinezza, costituiscono l’unico momento felice dell’uomo, perché la felicità non può consistere che nell’attesa e nel sogno, o nella loro :ricordanza:
“Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio: stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
(Il sabato del villaggio, 1829)

Secondo il filosofo può dirsi fortunato chi, nonostante le delusioni, coltiva ancora qualche desiderio, perché può ancora illudersi; chi non ha più alcun desiderio precipita nella noia, cioè in una condizione ancora più infelice
"Fortunato abbastanza colui, al quale resti ancora da accarezzare qualche desiderio, qualche aspirazione. potrà continuare a lungo il gioco del perpetuo passaggio dal desiderio all'appagamento, dall’ appagamento il nuovo desiderio [..]; ma se non altro non cadrà in quella paralizzante stasi che è sorgente di stagnante e terribile noia, di desideri vaghi, senza oggetto preciso, e di languore mortale"
(Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818)

Come per Schopenhauer, anche per Leopardi la noia è il peggiore dei mali in quanto piena consapevolezza dell’uomo (il più sofferente degli esseri) della sua infelicità
"Ed io godo ancor poco, 
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?-"
(Canto notturno di un pastore errante dell’ Asia,1830)

CONCLUSIONI
Le affinità tra Leopardi e Schopenbaucr sono state analizzate anche in un saggio, ad opera del critico De Sanctis, il quale, dopo essersi avvicinato apertamente e con passione al Leopardi, spiega come le proposte di Schopenhauer si rivelino aride e incostruttive mentre, all’opposto, quelle del poeta siano fera perché producono l’effetto contrario a quello che si propongono.
"Non crede al progresso, e te lo fa desiderare, non crede alla libertà e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo che non ti senta migliore”
L' unico atto di libertà che sia possibile all’ uomo è la soppressione della volontà di vivere, praticabile solo tramite l'ascesi. Questa consiste nella
"astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l’espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà. "
Cosi mentre in Schopenhauer lo sbocco logico del suo pessimismo consiste nella fuga dalla vita e nel quietismo dell'asceta, in Leopardi l’esito dei suo pessimismo dà all’uomo un messaggio positivo:

"Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odi e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
(La Ginestra, 1836)

A differenza dei pensatore tedesco dunque,, la filosofia "dolorosa ma vera" del Leopardi trasmette un messaggio di fraternità per tutti gli uomini e comunica l’esigenza di costruire un mondo fondato sull'amore e sulla solidarietà, non a caso tra i titoli delle opere che aveva in mente di scrivere e non poté compiere si trova la "Lettera a un giovane del XX secolo."

 

Fonte: http://www.iisgbferrari.gov.it/index.php?option=com_docman&task=doc_download&gid=1097&lang=it

Sito web da visitare: http://www.iisgbferrari.gov.it

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