Leopardi e la natura

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Leopardi e la natura

Natura in Leopardi

L’immagine della natura, associata alla meditazione circa l’infelicità dell’uomo, si trova al centro della poetica leopardiana.
Nella prima fase (dal 1816 al 1919 circa), che va sotto il nome di Pessimismo storico, la natura è positiva perché dà all’uomo la facoltà dell’immaginazione che crea le illusioni.
Alla base di questa concezione vi è l’identificazione della felicità con il piacere sensibile e materiale: il poeta crede infatti che l’infelicità umana sia dovuta al fatto che l’uomo, per sua costituzione, aspiri a un piacere infinito per estensione e durata. Ma poiché nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo stesso può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, e il senso della nullità di tutte le cose.
Ma la natura, concepita come madre benigna e provvidenziale, attenta al bene delle sue creature ha voluto, sin dalle origini offrire un rimedio all’essere umano: L’IMMAGINAZIONE e LE ILLUSIONI, grazie alle quali ha velato all’uomo le sue effettive condizioni.
Per questo gli uomini primitivi e i greci e i romani, che erano più vicini alla natura (come lo sono i fanciulli) e quindi capaci di illudersi e di immaginare, erano felici, capaci di azioni eroiche e magnanime perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà, opera della ragione, ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata, lo ha reso infelice e ha generato viltà, meschinità, egoismo e corruzione.
La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione: la colpa dell’infelicità presente, è dunque attribuita all’uomo stesso che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna.
Questa concezione compare nell’Infinito, la lirica che offre più di ogni altra la possibilità di penetrare il mondo interiore di Leopardi. La natura è qui disegnata per piccoli tratti: la siepe, il vento, le piante sono questi gli spunti esterni che concorrono alla riflessione in cui l’anima naufraga nell’infinito che la circonda.
Questa poesia fa parte della raccolta dei Piccoli Idilli. Il termine “Idillio” equivale a “quadretto, bozzetto di vita agreste o cittadina”.In Leopardi non ha però carattere oggettivo e descrittivo, ha invece un tono tutto intimo e autobiografico. E’ contemplazione di un sentimento, un colloquio del poeta con se medesimo, sullo sfondo paesistico e naturale.
L’infinito anticipa  il nucleo tematico contenuto nella teoria del piacere, da cui si sviluppa la poetica del vago e indefinito.
Leopardi sostiene infatti che alcune immagini naturali e alcune sensazioni uditive inducono l’uomo a crearsi con l’immaginazione quell’infinito a cui aspira, strappando la mente al reale, che è “brutto”. In un primo momento (vv 1-8), l’immaginazione prende l’avvio dall’impossibilità della visione: la siepe che chiude lo sguardo. L’impedimento della vista, che esclude il “reale”, fa subentrare il “fantastico”: il pensiero si costruisce spazi senza limiti, immersi in silenzi sovrumani e in una profondissima quiete.
Nel secondo momento, l’avvio è dato dallo stormire del vento, un dato presente, effimero, viene paragonato ai silenzi prima immaginati e richiama così alla mente l’idea dell’eterno.
L’io lirico, dinanzi alle immagini interiori dell’infinito spaziale, prova come un senso di sgomento (“per poco il cor non si spaura”) ma al termine del componimento, si “annega” nell’immensità dell’infinito, provando una sensazione di “dolce naufragio”.
Le OPERETTE MORALI e I GRANDI IDILLI rientrano invece nell’ambito del pessimismo cosmico. In questa seconda fase del pensiero leopardiano, la natura matrigna viene concepita in senso meccanicistico: il poeta si rende conto che la natura mira alla conservazione della specie , più che al bene dei singoli individui, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Ne deduce che il male rientra nel piano stesso della natura ed è stata proprio quest’ultima a mettere nell’uomo quel desiderio di felicità infinita senza dargli però i mezzi per soddisfarla.
Esplicativa di quando detto è “Il dialogo della natura e di un’islandese”. Nell’operetta, l’islandese rappresenta il portavoce di Leopardi e l’emblema dell’infelicità umana. Mentre percorre la parte più interna dell’Africa con l’intento di sfuggire la natura e trovare un luogo in cui “non si goda” ma neanche “si patisca”, ormai persa la speranza di procurarsi i piaceri, gli appare da lontano la Natura con un busto grandissimo che sembra di pietra, con sembianze simili a quelle di una donna di forma smisurata, seduta a terra, appoggiata con la schiena ad una montagna, dal volto tra il bello e il terribile, incorniciato da capelli nerissimi come gli occhi, che guardano fissamente.
Di qui l’idea di una natura nemica che mette al mondo le sue creature per perseguitarle, crudele e indifferente: ci fa nascere poi ci abbandona. L’infelicità non è quindi dovuta solo a cause psicologiche ma a cause materiali, ai mali fisici a cui l’uomo non può sfuggire (tempeste, malattie, decadenza fisica, cataclismi) e quindi alle leggi stesse del mondo fisico.
Il dolore, la distruzione, la morte, lungi dall’essere errori accidentali nel piano della natura, sono elementi essenziali del suo stesso ordine. Il mondo è un ciclo eterno di “produzione e distribuzione” la quale è indispensabile alla conservazione dell’universo. Perciò nessun luogo e nessun essere è immune dalla sofferenza. Il dialogo con la natura si conclude con la domanda:”a che serve questa vita infelicissima dell’universo?”, alla quale non vi è risposta.
La natura, in senso filosofico, è inoltre crudele perché non restituisce nella maturità ciò che promette in gioventù e quando il tempo della speranza finisce e SILVIA perisce combattuta e vinta “da chiuso morbo, il verno inaridisce l’erba”.
Ne “la ginestra”, l’ideologia leopardiana giunge a completa maturazione approdando al pessimismo eroico, una sorta di utopia basata sulla solidarietà fraterna degli uomini: partendo dalla consapevolezza della reale infelicità umana, gli uomini possono unirsi “in social catena”per ergersi contro la Natura nemica. Questo legame può far cessare le sopraffazioni e le ingiustizie della società. La Ginestra segna proprio la resistenza all’avversità della natura: nonostante i campi sono cosparsi di cenere infeconda e ricoperti dell’impietrita lava, che “sotto i passi al peregrin risona, la ginestra profumata continua a sporgere intorno i suoi cespi solitari”.
La natura che riempie i versi dell’ultimo Leopardi è dunque metafora della sua ideologia: combattere la sua natura matrigna. Da ciò risulta evidente che il poeta attribuisce ad essa un significato che va sempre al di là dei dati oggettivi.  


La Natura: confronto Lucrezio-Leopardi

L’immagine che compare nell’Infinito leopardiano della misera grandezza dell’uomo, che appare come una piccolissima parte dell’universo partecipe della vita dell’infinito spazio temporale solo attraverso l’immaginazione, viene al dettaglio nel poeta latino Lucrezio.
A tanti secoli di distanza, i due poeti concordano nel denunciare la mortalità del tutto e nel rivelare la sostanziale infelicità del genere umano.
Ma i messaggi finali di ognuno di loro sono diversi: per Lucrezio la ragione concede all’umanità di riscattarsi dalla sua obiezione, giungendo a comprendere i meccanismi che regolano la natura. Il « De rerum natura » offre infatti la trattazione più completa giunta fino a noi del sistema filosofico di Epicuro, filosofo greco del III sec a.C. il quale ha insegnato ai suoi seguaci prima di tutto a liberarsi dalle paure (degli dei, della morte, dell’aldilà) attraverso lo studio della natura, per arrivare a una condizione di “atarassia”, tranquillità e calma interiore propria del saggio epicureo.
Per Leopardi, invece, l’uomo non ha scampo alla sua infelicità, anche se un senso di conforto viene dal tardo messaggio rappresentato dal canto “la Ginestra”, in cui la solidarietà aiuta gli uomini a consociarsi contro il dolore comune causato dalla natura.
L’opera del poeta latino si apre con un proemio in cui la tradizionale invocazione alla Musa assume i toni di un inno a Venere. Questa divinità, nume tutelare della gens cui Memmio (dedicatario dell’opera) appartiene, è allegorica della forza creatrice della natura; non ha nulla di religioso, indica quella voluptas che stimola gli esseri animati alla procreazione e la terra a germogliare e dare i suoi frutti.
Il brano è quindi percorso da una serie di immagini della primavera durante la quale, dopo la parentesi invernale, tutti gli esseri sono pervasi da quella pace e da quell’amore che danno vita. L’io lirico lucreziano, in analogia a quello romantico, assume un atteggiamento contemplativo di fronte al risveglio della natura in questo periodo dell’anno e prova meraviglia, stupore e commozione d’animo.
L’opera è divisa in tre blocchi di argomentazioni dedicate rispettivamente alla fisica (libri I-II) alla psicologia (libri III-IV) e alla formazione del cosmo e della vita (libri V-VI) e si basa su alcuni principi fondamentali:

  • gli dei esistono ma non intervengono nella vita degli uomini, quindi si devono superare tutte le paure per le divinità;
  • è possibile per l’uomo raggiungere il bene comprendendo il sistema che regola la natura e accettare il male come effetto di fenomeni dovuti alla natura della materia;
  • gli atomi costituiscono la materia che si muove incessantemente nel vuoto, danno origine ai corpi, incontrandosi, e li portano alla morte, separandosi. In questo meccanismo nessun corpo è immortale, neppure l’anima.

 

Fonte: http://manuvale8385.pbworks.com/f/La%20natura%20nel%20Romanticismo.doc

Sito web da visitare: http://manuvale8385.pbworks.com/

Autore del testo: GATTI VALENTINA

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