Leopardi saggio sugli errori popolari degli antichi

Leopardi saggio sugli errori popolari degli antichi

 

 

 

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Leopardi saggio sugli errori popolari degli antichi

Dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815)

Dei terrori notturni

Ombre, larve (1), spettri, fantasmi, visioni, ecco gli oggetti terribili che faceano tremare i poveri antichi, e che, convien pur dirlo, ispirano ancora a noi dello spavento.
Se i pregiudizi sogliono cedere al tempo, questo, pochissimo ha perduto del suo vigore: esso può dirsi il pregiudizio dei secoli. Come è d’uopo ripetere dalla educazione la maggior parte degli errori popolari universali (2), quella dei fanciulli su questo punto è veramente malvagia, e ben lontana dal corrispondere al presente stato di civilizzazione. Muove la bile del filosofo il vedere con quanta cura s’istruisce un fanciullo intorno alle favole più terribili, e alle chimere più atte a fare impressione sulla sua mente. Egli sa appena balbettare e segnarsi la fronte ed il petto per mostrare di essere nato nella vera religione, che la storia dei folletti e delle apparizioni ha già occupato il suo luogo nel di lui intelletto pauroso e stupefatto. Alquanto inquieto, perché vivace, egli era forse molesto ad una allevatrice (3) impaziente, solita a confondere il brio colla insolenza e a chiamar bontà la dabbenaggine. La novella degli spiriti fu lo specifico (4) sicuro per liberarla dalla importunità del fanciullo. Eccolo infatti divenuto  attonito e timoroso, riguardare l’avvicinarsi della notte come un supplizio, i luoghi tenebrosi come caverne spaventevoli; palpitare nel letto angosciosamente; sudar freddo; raccogliersi pauroso sotto le lenzuola; cercar di parlare, e nel trovarsi solo inorridire da capo a piedi. L’allevatrice ha perfettamente ottenuto il suo intento. Il fanciullo durante il giorno non dimentica i suoi terrori notturni: basta minacciarlo di porlo in fondo a un luogo oscuro, o di darlo in preda a qualche mostro per renderlo ubbidiente e sottomesso a qualunque comando.
Quale barbarie! Le nutrici, o balie, che si servono di questi infami mezzi per tenere a freno i loro allievi, cospirano contro il bene della società, e si fanno ree di una specie di omicidio presso il genere umano. Esse tolgono ai fanciulli il coraggio, che è una delle doti più proprie a render meno infelice che sia possibile la vita dell’uomo. Quanti mali immaginari che il coraggio fa scomparire! Quanti mali reali, ma piccoli, che il coraggio disprezza e rende quasi insensibili! Quanti mali gravi, che il coraggio alleggerisce meravigliosamente, e che senza questo valido ostacolo farebbono soccombere lo sventurato sotto il loro peso!
La sola esperienza può far conoscere pienamente di qual vantaggio sia questa inestimabile qualità, e di qual danno sia l’esserne privo. L’uomo timoroso è veramente infelice: ogni piccolo rischio lo pone in agitazione; ogni sventura lo abbatte; ogni pericolo reale lo rende incapace di riflessione.
Coloro perciò che in luogo d’ispirar coraggio ai loro allievi,  hanno cercato di toglierglielo, sono colpevoli di aver contribuito grandemente a render miserabile la loro vita.

Da G. Leopardi, Tutte le Opere, con introduzione e a cura di W. Binni, Sansoni, Firenze, 1969
(dalla stessa opera sono ricavati tutti i testi riportati).

 

Note

1. larve: spiriti maligni
2. Come è d’uopo ripetere … errori popolari universali: poiché è necessario far risalire all’educazione  la maggior parte degli errori popolari universali…
3. una allevatrice: una bambinaia
4. lo specifico: il rimedio

 

Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi fu composto nel  1815, due anni dopo l’altra opera erudita giovanile, la Storia dell’astronomia.

Entrambe le opere sono animate dall’entusiastica fiducia nella  capacità della scienza di illuminare  le menti umane; il  Saggio, tuttavia, rivolto in modo specifico all’indagine  sugli errori “popolari” degli “antichi”, rivela che la cultura del giovane Leopardi, pur ancora legata al pensiero illuministico, sta subendo il fascino  del primitivo e dell’ingenuo predominante nel gusto del primo Ottocento.    
Occorre tenere presente che proprio sul tema del Saggio, l’opposizione tra il “vero” e l’”errore”, verterà tutta la riflessione del poeta maturo e che la conseguente affermazione della necessità della lotta coraggiosa dell’uomo contro il male della vita anticipa un tema fondamentale della sua poesia.
Nel  Saggio, inoltre,  sono frequenti i luoghi nei quali l’intento didascalico cede il passo all’espressione di una personale sensibilità che troverà più tardi voce poetica nei Canti.
 

I campi semantici privilegiati

Colpa
Malvagia; ree; omicidio; mali (ripetuto per tre volte); colpevoli.

Coraggio
il vocabolo è ripetuto per cinque volte.

Educazione
educazione; errori; s’istruisce; sa; allevatrice; ubbidiente; sottomesso; comando; nutrici; balie;  tenere a freno; allievi.  

Favole
Ombre; larve; spettri; fantasmi; visioni; favole; chimere; storie; folletti; apparizioni; mostro. 

Infelicità
Infelice (ripetuto due volte); sventurato; sventura; miserabile.

Notte/tenebre
Notte; tenebrosi; notturni;oscuro.

Terrore
Terribili; tremare; spavento; pauroso; stupefatto;  inquieto; attonito; timoroso; luoghi tenebrosi; caverne spaventevoli;  palpitare; angosciosamente; sudar freddo; raccogliersi pauroso; inorridire; terrori notturni; timoroso; agitazione.

 


Il lessico

 

Alcuni vocaboli usati in questo testo compaiono  con frequenza nelle opere poetiche della maturità, o nella stessa forma, o attraverso parole con identica radice.
Indichiamo i più significativi tra essi, citandone la  presenza in poesie solitamente lette a livello scolastico.

angosciosamente
se d’angoscia sei vago…, Ad Angelo Mai, v. 138
io venia pien d’angoscia…, Alla luna, v. 3
giovanil tumulto/ di contenti, d’angosce…, Le ricordanze, vv. 104/105
… nelle angosce/ della guerra comune…, La ginestra o il fiore del deserto, vv. 135/6

errori
… felici errori…, Ad Angelo Mai, v. 110
…  del giovanil  error che m’abbandona…, Alla sua donna, v.37
…  il mio possente errore…,  Le ricordanze, v.66 
scusa gli errori suoi…, Le ricordanze, v.128 

immaginari
O caro immaginar…, Ad Angelo Mai, v. 102
Quante immagini un tempo…, Le ricordanze, v.7
… quel caro immaginar mio primo…, Le ricordanze, v.89
Quel confidente  immaginar…, Le ricordanze, v.155
D’ogni mio vago immaginar…, Le ricordanze, v. 171

notte:
… trae le notti e i giorni…, Il sogno, v.65
…  l’atra notte..., Ultimo canto di Saffo, vv. 68/69
Dolce e chiara è la notte…, La sera del dì di festa, v. 1
… co’ silenzi e con la notte…,  Le ricordanze, v.116 
seggo la notte…, La ginestra o il fiore del deserto, v. 23
… nell’orror della secreta notte…,  La ginestra o il fiore del deserto, v. 280
… un sogno/ di questa notte…,  Odi, Melisso, v.1/2

ombre:
… ombra reale e salda, Ad Angelo Mai, v. 130
… e l’ombre / della gelida morte, Ultimo canto di Saffo, vv. 68/69
… e tornan l’ombre…, Il sabato del villaggio, v. 17
Quando tu siedi all’ombra, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 113
… all’ombra…, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 113
… per l’ombre/ rosseggia…, La ginestra o il fiore del deserto, v. 287/8

palpitare:
…e palpitar segreta…   Alla primavera, v. 53
… d’affannosa/ dolcezza palpitando… Il sogno, vv.82/83
a  palpitar mi sveglio, Alla sua donna, v.41
sudar le genti e palpitar… La quiete dopo la tempesta, v.39
Assai/ palpitasti,  A se stesso, v.6/7

sventura:
O sventurato ingegno…, Ad Angelo Mai v. 152
… “Per le sventure nostre…Il sogno, v. 76
e tornami a doler di mia sventura, A Silvia, v.35
… il fine/ della sventura mia…  Le ricordanze, v.97 
… ignaro/ di sventura…  Le ricordanze, v.132/133 
Se la vita è sventura, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 55
… ti conforta, /o sventurato… Il sogno, vv. 71/72

Dall’enunciazione al discorso poetico

Il motivo dei “terrori notturni” nelle Ricordanze (1829)

50         Viene il vento recando il suon dell’ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
55         sospirando il mattin.

 

Metro: endecasillabi sciolti
 

Analisi dei vocaboli

Vocaboli ricorrenti in entrambe le opere:
notti; fanciullo, buia stanza (= luoghi tenebrosi); terrori

Variazioni nello sviluppo del motivo

    • Passaggio dalla terza alla prima persona;

2.     introduzione di  elementi nuovi: il vento e il battito delle ore dalla torre del borgo;
3.      uso della figura retorica della personificazione: il suono “viene
portato” dal vento alle orecchie del poeta;
4.      uso delle figure retoriche dell’allitterazione e dell’onomatopea:
nel v. 1 (Viene il vento); nei vv. 1-3  ripetizione della o tonica e della consonante n:     (viene, vento, recando, suòn, óra, tórre, bórgo, confòrto, suòn, tti).

Accentuazione del valore semantico dei vocaboli

  • Le “notti” diventano “le mie notti”;
  • la descrizione del “supplizio” del fanciullo è sintetizzata nell’espressione “assidui terrori”;
  • l’impossibilità di dormire, a causa del terrore del buio, è compendiata nel verbo “io vigilava”, seguito dall’espressione “sospirando il mattin”.

 
 

APPROFONDIMENTI

1. Cerca su un repertorio delle concordanze lessicali on line, relativo alle opere di Giacomo Leopardi, la ricorrenza delle seguenti parole:

  • antichi (antico, antiche);
  • fanciulli (fanciullo, fanciulla, fanciulle);
  • bene;
  • mali (male).

 

2. Considera il passo che segue e mettilo a confronto  con quanto il poeta dirà ne  La ginestra: "Quanti mali immaginari che il coraggio fa scomparire! Quanti mali reali, ma piccoli, che il coraggio disprezza e rende quasi insensibili! Quanti mali gravi, che il coraggio alleggerisce meravigliosamente, e che senza questo valido ostacolo farebbono soccombere lo sventurato sotto il loro peso!"

 

Traduzioni da Mosco (1815)

Idillio quinto

 

            Quando il ceruleo mar soavemente
increspa il vento, al pigro core io cedo:
la Musa non mi alletta, e al mar tranquillo,
più che alla Musa, amo sedere accanto.
Ma quando spuma il mar canuto, e l’onda
5          gorgoglia, e s’alza strepitosa, e cade,
il suol riguardo, e gli arbori, e dal mare
lungi men fuggo: allor sicura, e salda
parmi la terra, allora in selva oscura
seder m’è grato, mentre canta un pino
al soffiar di gran vento. Oh quanto è trista
10         del pescator la vita, a cui la barca
è casa, e campo il mare infido, e il pesce
è preda incerta! Oh quanto dolcemente
d’un platano chiomato io dormo all’ombra!
Quanto m’è grato il mormorar del rivo,
che mai nel campo il villanel disturba!

 

Metro: endecasillabi sciolti

Mosco è un poeta greco vissuto a Siracusa nel II sec. a. C., autore di carmi bucolici e di idilli dai toni eleganti e scherzosi.

L’idillio è un breve carme (il termine significa “piccola poesia”) appartenente al genere della poesia pastorale. Nella tradizione classica l’idillio ritrae generalmente tenui bozzetti di vita agreste ed è animato dalla concezione della benevolenza della natura nei confronti di chi sceglie di vivere sotto la sua guida.


L’attività di traduttore dal greco e dal latino, iniziata nel 1814, testimonia un’altra importante direzione nella formazione del giovane Leopardi, accanto a quella della ricerca erudita:  lo studio del linguaggio, delle forme, dei ritmi, delle immagini della tradizione letteraria classica.
A proposito  della funzione dell’esercizio di tradurre  nella formazione di un poeta, ecco che cosa scrive il poeta stesso in due lettere del 1817 a Pietro Giordani:
“… Ella mi dice da Maestro che il tradurre è utilissimo nell’età mia, cosa certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perché quando ho letto qualche Classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella mia mente, e l’arricchiscono e mi lasciano in pace”. (21 marzo 1817)
“… Che la proprietà de’ concetti e delle espressioni sia appunto quella cosa che discerne lo scrittor Classico dal dozzinale, e tanto più sia difficile a conservare nelle espressioni, quanto la lingua  è più ricca, è verità tanto evidente che fu la prima  di cui m’accorsi quando comunicai a riflettere seriamente nella letteratura: e dopo questo facilmente vidi che il mezzo più spedito e sicuro di ottenere questa proprietà era il trasportare dall’una in un’altra lingua i buoni scrittori”. (30 aprile 1817)
Per Leopardi l’esercizio di tradurre non si esaurisce quindi in un semplice apprendistato tecnico, ma diventa ricerca di un personale linguaggio poetico.
Anche in questa traduzione dell’Idillio quinto di Mosco si può osservare da una parte lo sforzo di riprodurre l’”elegantissimo” mondo poetico della tradizione bucolica (è lo stesso traduttore, in una nota, a sottolineare questo aspetto dell’idillio di Mosco), dall’altra l’uso di vocaboli, di immagini, di costruzioni sintattiche che diverranno proprie della poesia leopardiana della  maturità. 

I campi semantici privilegiati

Dolcezza
Soavemente, dolcemente,  m’è grato.

Mare
Ceruleo mar, mar tranquillo, mar canuto, onda, dal mare, pescator, barca, mare infido, pesce.

Vento
Increspa il vento, soffiar di gran vento.
 

Le strutture sintattiche

 

Anche in questo testo sono presenti vocaboli che ricompariranno  con frequenza nelle opere poetiche della maturità, o nella stessa forma, o attraverso parole con identica radice. E’ invece interessante rilevare come  alcune strutture sintattiche della traduzione saranno utilizzate  dal poeta in alcuni Canti di epoca succerssiva:

 

Coordinamento  mediante polisindeto
(e l’onda/ gorgoglia, e s’alza strepitosa, e cade)

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna (La sera del dì di festa)

Inizio della frase con un “ma” avversativo
Ma quando spuma il mar canuto

Ma sedendo e mirando, interminati
spazi al di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo… (L’infinito)

 

Interiezione “oh” per  introdurre un svolta del discorso
Oh quanto è trista

Oh tempi, oh tempi avvolti
in sonno eterno! (Ad Angelo Mai)
 

 

 

Dall’enunciazione al discorso poetico

Il motivo della “contemplazione della natura”
ne La vita solitaria (1821)

            Talor m’assido in solitaria parte,
sovra un rialto, al margine d’un lago
25         di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
la sua tranquilla imago il Sol dipinge,
ed erba o foglia non si crolla al vento,
e non onda incresparsi, e non cicala
30         strider, né batter penna augello in ramo,
né farfalla ronzar, né voce o moto
da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
35         sedendo immoto; e già mi par che sciolte
giaccian le membra mie, né spirto o senso
più le commuova, e in lor quiete antica
co’ silenzi del loco si confonda.

 

Metro: endecasillabi sciolti

 

Confronto dei vocaboli

Vocaboli ricorrenti in entrambe le opere (o nella stessa forma, o attraverso parole con identica radice):

increspa - incresparsi; tranquillo – tranquilla;  vento – vento;  lungi -  da lunge; seder – sedendo; parmi – mi par.

 

Variazioni nello sviluppo del motivo

1. La dimensione interiore dell’idillio
Negli Idilli leopardiani, ormai lontani dalla tradizione idillico-pastorale, la realtà naturale diventa protagonista in quanto espressione della realtà interiore. Gli elementi naturali, infatti, prendono vita essenzialmente da ricordi autobiografici: l’emergere di sensazioni vissute, di immagini sognate, di attese deluse.

2. La sensazione di esclusione
Il motivo della contemplazione della natura “assiso in solitaria parte” è costante  nella poesia leopardiana, da L’infinito a La ginestra, collegato per lo più alla sensazione del poeta della  sua esclusione dalle cose, sensazione assente del tutto nella traduzione dell’Idillio di Mosco.
Ne La vita solitaria l’idea di esclusione si sviluppa attraverso una serie di immagini “in negativo”: (non si crolla…  non onda incresparsi.. non cicala né farfalla ronzar, né voce o moto …né da lunge odi né vedi).

3. L’oblio di sé e del mondo
Lo svanire di ogni moto o suono, segni di una vita transitoria e per ciò stesso infelice, determina il passaggio a una dimensione diversa dell’essere, nella quale l’altissima quiete del mondo esterno si fa rivelatrice della quiete antica dell’eternità.

 

APPROFONDIMENTI

1. Cerca su un repertorio delle concordanze lessicali on line, relativo alle opere di Giacomo Leopardi, la ricorrenza delle seguenti parole:

  • vento;
  • lungi (lunge);
  • fuggo (varie voci del verbo "fuggire");
  • parmi (mi pare);
  • seder (varie voci del verbo "sedere");
  • grato
  • canta (varie voci del verbo "cantare").

 

2. Considera  i versi  che seguono e mettili a confronto  con altre immagini paesistiche presenti nei Canti della maturità:
...............
lungi men fuggo: allor sicura, e salda
parmi la terra, allora in selva oscura
seder m’è grato, mentre canta un pino
al soffiar di gran vento...
 

Diario del primo amore (1817)

Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio della mia forzata solitudine era stato vanissimo fin qui. Ma la sera dell’ultimo Giovedì, arrivò in casa nostra, aspettata con piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente più tosto lontana (1), di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lontanissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, delle nostre Marchegiane. Quella sera la vidi, e non mi dispiacque; ma le ebbi a dire pochissime parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdì le dissi freddamente due parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, tenendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto più tosto bello, alquanto maggiore che se avessi contemplato una bella pittura. Così avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdì, i miei fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto a giuocare agli scacchi con un altro: mi ci misi per vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno molti altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora intenta ad altro non ci badò; poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme cogli altri, e però con poco diletto, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e non se le confondevano in mente quei precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza dubbio confusi) e ne argomentai quello che ho poi inteso da altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea suscitato gran voglia di giuocare io stesso con lei, e così ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: per la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasa fino alla sera dopo. Alla cena, la solita fredda contemplazione. L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna: o credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcontento. Venuta l’ora, giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento, non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea d’aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io mi era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato più torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta. Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e così vegliai sino al tardissimo e addormentatomi, sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuoco la Signora; contuttoché vegliando avea pensato di sognarne, e mi parea di aver potuto notare che io non avea mai sognato di cosa della quale avessi pensato che ne sognerei: ma quegli affetti erano in guisa padroni di tutto me e incorporati colla mia mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi poteano lasciare. Svegliatomi prima del giorno (né più ho ridormito), mi sono ricominciati, com’è naturale, o più veramente continuati gli stessi pensieri, e dirò pure che io avea prima di addormentarmi considerato che il sonno mi suole grandemente infievolire e quasi ammorzare le idee del giorno innanzi specialmente delle forme e degli atti di persone nuove, temendo che questa volta non mi avvenisse così. Ma quelle per lo contrario essendosi continuate anche nel sonno, mi si sono riaffacciate alla mente freschissime e quasi rinvigorite. E perché la finestra della mia stanza risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io sentendo passar gente così per tempo, subito mi sono accorto che i forestieri si preparavano al partire, e con grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giù, ho aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita. Non m’ha saputo dispiacere questa partenza, perché io prevedeva che avrei dovuto passare una trista giornata se i forestieri si fossero trattenuti. Ed ora la passo con quei moti specificati di sopra, e aggiugnici un doloretto acerbo che mi prende ogni volta che mi ricordo dei dì passati, ricordanza malinconica oltre a quanto io potrei dire, e quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni, vedendomi dintorno un gran voto, e stringendomisi amaramente il cuore. Il quale tenerissimo, teneramente e subitamente si apre, ma solo solissimo per quel suo oggetto, ché per qualche altro questi pensieri m’hanno fatto e della mente e degli occhi oltremodo schivo e modestissimo, tanto ch’io non soffro di fissare lo sguardo nel viso sia deforme (che se più o manco m’annoi, non lo so ben discernere) o sia bello a chicchessia, né in figure o cose tali; parendomi che quella vista contamini la purità di quei pensieri e di quella idea ed immagine spirante e visibilissima che ho nella mente. E così il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa disperare il sentir discorsi allegri, e in genere io tacendo sempre, sfuggo quanto più posso il sentir parlare, massime negli accessi di quei pensieri. A petto ai quali ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzavo, anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la gloria. E sono svogliatissimo al cibo, la qual cosa noto come non ordinaria in me né anche nelle maggiori angosce, e però indizio di vero turbamento. Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo. Benché questo presente (il quale, come ieri sera quasi subito dopo il giuocare, pensai, probabilmente è nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son certo che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo non so bene se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la saviezza mi fa dire a me stesso di sì. Volendo pur dare qualche alleggiamento al mio cuore, e non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo scrivere, né potendo oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo restio, ho scritto queste righe, anche ad oggetto di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel mio cuore di questa sovrana passione.
La Domenica 14 di Decembre 1817.

 

Note

1. una Signora Pesarese nostra parente più tosto lontana:  è Gertrude Cassi, cugina del poeta.

 

Negli anni 1816-1817, contemporaneamente al lavoro di chiarimento e di appropriazione di un mondo culturale concepito come congeniale, si fa viva nel giovane Leopardi l’esigenza di approfondire la conoscenza di sé, delle proprie tensioni psicologiche e sentimentali. Ne è testimonianza, accanto agli studi eruditi e all’attività di filologo, una serie di scritture autobiografiche, indirizzate appunto all’esplorazione del proprio mondo interiore.
Tra queste scritture si colloca il Diario del primo amore, un’analisi attenta e puntuale del proprio stato d’animo, del tutto nuovo, di innamorato, ispirato dall’occasionale incontro con una cugina, ospite per qualche giorno di casa Leopardi a Recanati.
Leopardi definì il Diario come “ciarle che ho fatto con me stesso per isfogo del cuor mio e perché servissero a conoscere me medesimo  e le passioni”.
Si possono osservare, nelle pagine riportate (che costituiscono la prima parte del Diario), molti elementi precorritori  della futura poesia leopardiana: in primo luogo il riconoscimento della potenza dell’immaginazione, capace di creare sembianze vive e vere, non recuperabili “colla mente”; in secondo luogo la percezione del piacere come “doloroso”, ma irrinunciabile oggetto della ricerca del proprio cuore.
 

Il Diario, composto nel 1817, risente nelle scelte lessicali e stilistiche della scoperta, da parte del giovane Leopardi, dell’Alfieri, da lui elevato in quegli anni a  Maestro ideale (in particolare  era rimasto affascinato dalla Vita).
L’attenzione  verso il modello alfieriano si rivela in modo evidente nell’uso abbondante di espressioni superlative (si vedano, tra le moltissime qui presenti, le espressioni: “cosa stranissima e  meravigliosamente dolce”; “il cuore… tenerissimo … ma solo solissimo per quel suo oggetto”) e di diminutivi (“mie burlette”; “doloretto acerbo”), attinti direttamente  dal lessico specifico dell’Alfieri.
Ma è l’atteggiamento stesso dello scrittore, all’interno di quest’opera, a riprodurre quello dell’Alfieri nelle Vita: il suo interesse è appuntato esclusivamente sul proprio io, e la scrittura diventa funzionale a una migliore conoscenza di sé e della propria vocazione.
La narrazione – assai esile – dei fatti è costantemente accompagnata dalla  rilevazione del variare delle impressioni suscitate dalla Signora nella sua sensibilità, dall’iniziale “la vidi, e non mi dispiacque”, al successivo “io mi sentiva il cuore molto molle e tenero”, fino alla elencazione sistematica del “sentimento del mio cuore”: “ inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che…” 
Questa meditazione leopardiana sul proprio mondo interiore, oltre al fascino proveniente dalla rivelazione di un animo adolescenziale che si apre all’amore, offre una serie di espressioni, immagini, percezioni che preludono al Leopardi maggiore.
 

I campi semantici privilegiati

I “sentimenti del cuore”
Scontentissimo e inquieto; cuore molto molle e tenero; inquietudine indistinta; scontento; malinconia; qualche dolcezza; molto affetto; desiderio non sapeva né so di che; doloretto acerbo; stringendomisi amaramente il cuore; tenerissimo; vero turbamento; amore; innamorato; sovrana passione.

La “ricordanza”
Mi pasceva della memoria continua e vivissima; ricordanza malinconica oltre a quanto potrei dire; mi richiama alla memoria; quella idea spirante e visibilissima che ho nella mente.

L’”impero della bellezza”
donne avvenenti; un sorriso solo… mi pareva cosa stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera; lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore,  occhi nerissimi, capelli castagni; volto piuttosto bello; una dama di bello aspetto.

Il “piacere”
non mi dispiacque; con poco diletto; con vivo piacere; senza molto piacere;  lasciai anche con dispiacere; passato qualche diletto; quel piacere era stato più torbido e incerto;  mi piacquero assai; Non m’ha saputo dispiacere; non so bene se mi piaccia o mi dispiaccia.
 

Il lessico

 

Questo testo giovanile contiene parole ed espressioni tra le più dense di significato della lingua poetica leopardiana; ne indichiamo tre.

ricordanza
… Dove sei gita
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia?  Le ricordanze, vv 139-141

diletto
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi. La quiete dopo la tempesta, vv 42-46

stringendosi amaramente il cuore
… e alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.  La sera del dì di festa, v. 43-46


 

Dall’enunciazione al discorso poetico

Il motivo dell’“amore vissuto nella mente”
in Alla sua donna (1823)

34         Per le valli, ove suona
del faticoso (1) agricoltore il canto,
ed io seggo e mi lagno
del giovanil error che m’abbandona;
e per li poggi, ov’io rimembro e piagno
i perduti desiri, e la perduta
speme de’ giorni miei; di te pensando,
41         a palpitar mi sveglio. E potess’io,
nel secol tetro e in questo aer nefando,
l’alta specie (1) serbar; che dell’imago,
poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

Metro: strofa di settenari e endecasillabi liberamente distribuiti.

  • faticoso: soggetto a logoranti fatiche
  • l'alta specie: la sublime immagine

 

 

Intensificazione di significato di vocaboli e costruzioni sintattiche  che esprimono i medesimi motivi presenti nel Diario:

L'immagine sognata che s'impone su quella reale

Non m’ha saputo dispiacere questa partenza, perché io prevedeva che avrei dovuto passare una trista giornata se i forestieri si fossero trattenuti. Ed ora la passo con quei moti specificati di sopra, e aggiugnici un doloretto acerbo che mi prende ogni volta che mi ricordo dei dì passati, ricordanza malinconica oltre a quanto io potrei dire, e quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni, vedendomi dintorno un gran voto, e stringendomisi amaramente il cuore.

             ........................ che dell’imago,
poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.

 

Il disprezzo per il mondo

...ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzavo ...

            ...............
nel secol tetro e in questo aer nefando...

 

La potenza dell'amore

Mi pasceva della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e così vegliai sino al tardissimo e addormentatomi, sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuoco la Signora; contuttoché vegliando avea pensato di sognarne, e mi parea di aver potuto notare che io non avea mai sognato di cosa della quale avessi pensato che ne sognerei: ma quegli affetti erano in guisa padroni di tutto me e incorporati colla mia mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi poteano lasciare.

            di te pensando,
a palpitar mi sveglio.

 

APPROFONDIMENTI

1. Cerca su un repertorio delle concordanze lessicali on line, relativo alle opere di Giacomo Leopardi, la ricorrenza delle seguenti parole:

  • vanissimo (vano, vana, vane);
  • piacere;
  • sera;
  • speme (speranza)
  • memoria;
  • sognai (varie voci del verbo "sognare").

 

2. Cerca in un sito Internet dedicato a Vittorio Alfieri il testo della Vita scritta da sé medesimo. Leggine attentamento il cap. X dell'Epoca seconda e rileva le espressioni tipicamente alfieriane fatte proprie da Leopardi nel  suo Diario.del primo amore.

 

Fonte: http://www.uciimtorino.it/materiali_di_approfondimento_letteratura_italiana.doc

Sito web da visitare: http://www.uciimtorino.it

Autore del testo: R. Castellaro

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