Letteratura il romanzo e il romanticismo

Letteratura il romanzo e il romanticismo

 

 

 

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Letteratura il romanzo e il romanticismo

Introduzione al Romanticismo.

Origine del termine Romanticismo.

La parola romantic appare per la prima volta in Inghilterra nel ‘600 e indica in senso dispregiativo, il fantastico, l’assurdo e il falso degli antichi romanzi cavallereschi e pastorali.
Nel ‘700 comincia a perdere l’accezione peggiorativa e significa ciò che diletta l’immaginazione; definisce anche paesaggi naturali selvaggi, solitari e malinconici. A fine secolo delinea l’emozione soggettiva suscitata in chi contempla una scena romantica.
Nei manifesti Romantici italiani della prima metà dell’800, la parola designava la poesia moderna “dei vivi”, contrapponendola a quella “dei morti” e all’imitazione dei classici.
Il termine indica, per esteso, uno stato d’animo di nostalgia e tensione verso l’infinito, recupero del mistero.

  • Sul piano filosofico si contrappone il dominante sensismo illuminista con l’idealismo dei romantici.
  • Sul piano religioso l’ateismo od il deismo (Voltaire) illuminista è contrapposto al deciso ritorno al Cristianesimo (Manzoni, ma non Leopardi).
  • Sul piano politico il cosmopolitismo dell’illuminismo è opposto all’idea di nazione e popolo.
  • Sul piano letterale il ‘700 aveva una letteratura ardua con i principi d’ordine, misura e razionalismo (movimento dell’Arcadia, Rococò), mentre i romantici del NORD oppongono altri valori, come la passione, la sensibilità, il sentimento, l'attrazione verso ciò che è irrazionale.

Il Romanticismo assume tempi e modi diversi nel diffondersi in tutta Europa.
C’è una sfasatura nei tempi. In Germania ed Inghilterra, che data 1798, anno in cui in Germania esce la rivista “Ateneum”, mentre in Inghilterra la “Preface to Lyrical Ballads” di W.Wordsworth.Si hanno date diverse se dal mondo nordico si va a quello latino in cui si attende alcuni anni, fusione tra i due mondi operata dalla baronessa De Staël che, prima in Francia nel 1813, pubblica l’“Alemagne” (La Germania), che contribuisce alla diffusione letteraria degli autori tedeschi, e poi in Italia nel 1816 quando un articolo della De Staël sulla rivista “Biblioteca Italiana” accusa la letteratura italiana di essere arretrata rispetto agli altri paesi europei e d’essere desueta e perciò invita gli italiani a adattarsi al modello tedesco.
Dopo questa lettera inizia la polemica fra classicisti e romantici. La sfasatura è evidente anche nelle opere prodotte in questo periodo: il Foscolo pubblica le “Grazie”, opera neoclassica nel 1815 –16, nel 1811 Manzoni, invece, pubblica gli “Inni Sacri” che svecchiano la letteratura italiana poiché presenta degli aspetti nuovi. Nel 1809 Manzoni scrive un poemetto classico l’“Urania”, ma non ne rimane soddisfatto dalla poesia neoclassica.

 

 

Cos’è il Romanticismo?

In Italia il movimento romantico vi si affaccia nel 1816, nonostante delle tendenze romantiche fossero in atto già da tempo anche nelle altre regioni europee.
Il concetto di Romanticismo trova molte difficoltà nell'essere definito, rispetto alle precedenti nozioni di Rinascimento o Illuminismo. Vi sono dunque due interpretazioni:

  • indirizzo culturale che trova la sua nota qualificante nell'esaltazione del sentimento e che si concretizza nei rappresentanti del circolo tedesco di Jena e in tutti i letterati europei in opposizione alle idee classiche.
  • La precedente definizione rischia di privilegiare esclusivamente l'aspetto letterario ed artistico del Romanticismo, trascurandone le componenti filosofiche. Configurando invece il romanticismo come un'"atmosfera storica" che si riflette nella letteratura così come nella filosofia e nella pittura, esso acquista un'accezione più ampia

Come tutte le categorie della storia il Romanticismo non esiste: solo partendo dagli scrittori, dai pensatori, dagli artisti romantici ed estraendone le loro caratteristiche comuni si può giungere a costruire la catena storica generale.
Sia nell'accezione più ristretta che in quella più vasta, il Romanticismo rappresenta dunque un grande fenomeno storico e culturale, legato alle condizioni spirituali e materiali di un particolare momento della civiltà occidentale.

 

Caratteristiche dell’Italia rinascimentale.

POLITICA

L'Italia, tra il 1815 e il 1861, era caratterizzata dalla mancanza dei un'unità statale e dalla frammentazione di un territorio di estensione limitata in una serie di stati. Dopo le insurrezioni del '48 rimaneva solo lo Statuto albertino in Piemonte, consentendo così una politica abbastanza parlamentare. Rimaneva incombente la presenza dell'Austria, che esercitava un'influenza sia politica che militare.

ECONOMIA

Mentre le altre nazioni europee già vivevano in pieno lo sviluppo industriale, l'Italia rimaneva un paese AGRICOLO. L'agricoltura assumeva forme più avanzate in regioni dove vigeva una tradizione di riformismo illuministico, come la Toscana e la Lombardia. Mentre nel resto del paese sussisteva un'agricoltura di tipo feudale, basato su sistemi di coltura primitivi e di tipo estensivo.
L'industria moderna non esiste: sono presenti solamente manifatture di trasformazione di prodotti agricoli, basate su una manodopera di tipo stagionale e su uno scarso impiego di macchine. Nel Regno delle due Sicilie vi erano cantieri navali e simili attività industriali, ma queste erano sorte per iniziativa statale e sostenute dalla politica protezionistica e dall'apporto di capitali stranieri. Di conseguenza in Italia mancava una classe borghese moderna, dinamica, attiva, che desse il via ad un processo di sviluppo. Tuttavia in Lombardia, Toscana e Piemonte, questa fase ebbe inizio, grazie ad un maggior numero di proprietari (grazie alla soppressione dei beni ecclesiastici), alle migliorie apportate al territorio, allo sviluppo delle comunicazioni (ferrovie), alla presenza di una parte dell'aristocrazia progressista e liberale.

 

 

SOCIETÀ'

L'arretratezza non si manifesta solamente sul piano economico ma anche su quello civile:

  • la politica protezionistica non favoriva il libero scambio delle merci, impedendo uno sviluppo economico moderno.
  • manca una partecipazione attiva alla vita civile da parte del cittadino, che possiede solamente un ruolo di suddito nei confronti del regime dispotico.
  • la censura impediva il diffondersi delle idee moderne, costrette alla clandestinità o ad essere espresse in modo indiretto.
  • la borghesia: La classe borghese in Italia è ancora presente in forma embrionale ed accomuna numerosi ceti (imprenditori, commercianti, notai, avvocati, insegnanti, ufficiali) con l'obiettivo comune di eliminare i vincoli dell'assolutismo che impedivano lo sviluppo della società e la formazione di uno stato unitario, che avrebbe giovato all'espansione delle attività produttive.
  • i valori: Le idee di libertà, progresso e civiltà provenienti dalla Francia e dall'Inghilterra influenzavano anche le classi sociali produttive italiane. In più la dominazione straniera e la frammentazione politica avevano favorito lo sviluppo di un sentimento patriottico.
  • i ceti popolari: Il cosiddetto quarto stato, composto prevalentemente da contadini, viveva in condizioni di miseria estreme. Le masse popolari, a causa dell'analfabetismo, sono completamente tagliate fuori dalla cultura contemporanea e praticamente estranee all'idea di nazione. L'unica cultura è quella della Chiesa, del resto contraria alle idee risorgimentali. La non partecipazione del popolo al movimento risorgimentale, fenomeno esclusivamente borghese, peserà negativamente sulla vita politica dell'Italia post-unitaria.

 

Il dibattito italiano sul Romanticismo.
Il dibattito italiano sul romanticismo si apre nel 1816 quando, sul primo numero della "Biblioteca Italiana", giornale finanziato dagli austriaci, appare un articolo a firma di Madame de Staël, sull'importanza della traduzione delle opere in lingua straniera. Si apre così il primo dibattito pubblico in materia letteraria: la de Staël accusava gli intellettuali italiani d'essere provinciali, li invitava ad aprirsi alla cultura romantica attraverso la lettura d'autori stranieri e spronava la diffusione delle loro opere per mezzo della traduzione. Molti intellettuali italiani si sentirono in dovere di difendere la tradizione neoclassica, ebbe così inizio un lungo botta e risposta che vide impegnarsi o quanto meno schierarsi i maggiori esponenti della cultura italiana dell'epoca; fra questi ricordiamo Pietro Giordani che per primo replicò alle accuse mosse dalla de Staël, con un articolo anonimo sulla stessa Biblioteca, il giornale, infatti, di tendenze ovviamente filoaustriache, sebbene avesse pubblicato l'articolo sulla traduzione, diede poi maggiore spazio ai classicisti.  Sul fronte romantico troviamo i nomi di Berchet e di Porta, mentre Leopardi inviò una lettera in difesa del neoclassicismo che però non fu mai stampata. I romantici italiani non si discostarono mai dalla tradizione classica e presero come modelli Parini e Alfieri. L'opera dei romantici italiani era rivolta al popolo, inteso come la nascente classe borghese, di cui Berchet spiega bene le caratteristiche nella sua "Lettera Semiseria di Grisostomo al Figlio": le opere della poesia romantica non devono essere rivolte né ai Parigini né agli Ottentotti, gli uni perché troppo raffinati, gli altri perché troppo rozzi. La luce di questa polemica nacque a Milano il periodico liberale "Il Conciliatore", in opposizione con la Biblioteca, che voleva apertamente raccogliere l'eredità del "Caffè" dei Verri, fra gli altri collaborarono al Conciliatore: Pellico, di Breme, Borsieri e Berchet. Dopo appena un anno di vita, la censura austriaca fece chiudere il giornale.

 

 

La figura dell'intellettuale europeo

L'intellettuale è importante per comprendere i mutamenti e le contraddizioni di un'epoca per la sua particolare sensibilità e una coscienza più lucida; in più in questo periodo la nuova collocazione sociale fa sì che egli avverta più direttamente e in modo più doloroso i fenomeni in atto.
I motivi principali per cui l'artista rappresenta una figura incompresa, estranea e ribelle alla società, sono:
egli non fa più parte delle classi egemoni e non svolge più la funzione di cortigiano, ovvero quella di elaborare l'ideologia dei potenti e mediare il loro consenso con il popolo. Con l'avvento del sistema borghese, egli non gode più dei precedenti ozi, ed è costretto a svolgere occupazioni spesso poco remunerative; vive dunque ai margini della società e ciò genera in lui risentimento verso di essa. Questo gli consente un atteggiamento più critico e un modo più acuto di cogliere le contraddizioni del suo tempo.
il suo valore fondamentale, la bellezza disinteressata, non concorda più con gli attuali valori della società, ovvero l'utile, la produttività. Per questo egli è visto come un individuo improduttivo ed inutile alla società , che genera in lui risentimento ed umiliazione. In più, spesso egli proviene dalla stessa classe borghese, dalla quale si sente respinto. Gli atteggiamenti di rivolta e anticonformismo creano un circolo vizioso che non fa che aumentarli.
egli si sente offeso per il fatto che alla sua opera, da lui considerata incommensurabile, con l'avvento di una larga commercializzazione delle opere d'arte in senso lato, venga dato un prezzo. Inoltre, per vivere, è costretto ad assecondare i gusti di un pubblico borghese che egli stesso disprezza per la sua insensibilità al bello. Patendo queste contraddizioni su se stesso, egli le avverte maggiormente, e da qui nascono le tematiche negative prima accennate.
Sono presenti tuttavia anche posizioni più moderate, che testimoniano un compromesso con la realtà presente. Questo non significa che l'intellettuale non abbia rancore verso la società ed impulso di rivolta, ma significa solamente che egli manifesti tali sentimenti in forme simboliche più attenuate, come l'evasione nel sogno o nell'esotico, ma sempre percepibili.
Un denominatore comune rimane il rifiuto davanti ad una realtà sentita come negativa.

 

La figura dell’intellettuale italiano

L’intellettuale nel contesto sociale del Romanticismo è l’uomo che meglio coglie le profonde mutazioni del periodo, in quanto dotato di una maggiore sensibilità e di una coscienza obiettiva, libera da pregiudizi di comodo.
Nel periodo Romantico decadono definitivamente le vetuste strutture che, seppur con parziali modifiche, avevano caratterizzato il panorama culturale europeo nei secoli precedenti. Ciò determina un profondo cambiamento della figura stessa dell’intellettuale. Infatti, se precedentemente l’uomo di cultura aveva operato all’interno della società aristocratica identificandosi con gli ideali della classe nobiliare, l’Ottocento romantico, figlio delle trasformazioni provocate dalla Rivoluzione francese, vede assurgere una nuova classe all’apice della scala sociale, quella borghese. Tale classe disdegna usi della tradizione aristocratica, ed imprime una matrice utilitaristica alla società. E l’intellettuale è privato dei privilegi passati, ed è costretto ad occupare un ruolo lavorativo che spesso ne mortifica l’estro, costringendolo quindi ad una situazione d'emarginazione. Da ciò il sistematico rifiuto della realtà da parte dell’intellettuale, il quale oltre a non condividere gli ideali borghesi, è offeso dal sistema che assegna un valore definito alla propria produzione artistica. Pertanto egli proietta nelle proprie opere il dissidio con la società, e s'identifica col tipico eroe romantico, teso alla perenne ricerca della libertà.
La situazione italiana in generale è diversa da quella europea, perchè l’intellettuale condivide le aspirazioni del ceto predominante, ed anzi in molti casi si erge a guida e promotore dei cambiamenti sociali ritenuti indispensabili.
I principali intellettuali italiani sono naturalmente Foscolo, Manzoni e Leopardi. 

 

 

Parallelismo tra Illuminismo e Romanticismo.

 


Illuminismo                                                   Romanticismo
Esaspera la realtà e la razionalità                 Istinto subcosciente
Emozioni, ricerca di qualcos’altro rispetto la forma esteriore
Storicismo illuminato (= non si                          Storicismo romantico (=rivalutazione della storia,
preoccupa delle cause)                                 considerata lo svolgimento di un travaglio dell’umanità e la ricerca delle radici, attraverso la rivalutazione di Vico che con la sua definizione di storia costituita da corsi e ricorsi dà molta importanza alle tradizioni; e con la ripresa del Muratori, che riconsidera il Medioevo, illuminandolo di una nuova luce).
il rapporto con l’illuminismo:

Non si può operare una contraddizione netta tra Romanticismo ed Illuminismo: gli aspetti comuni più evidenti tra i due movimenti culturali sono, infatti:

  • l’importanza della libera creatività dell’individuo nella letteratura, nella vita morale e nella società;
  • l’idea dinamica della realtà umana di un suo continuo progredire;
  • l’amore per la libertà come fondamento della vita politica e sociale di uno Stato;
  • l’idea della storia come costruzione collettiva di ciascun individuo.
  • nuovo senso della storia: guardano con nuovo interesse al passato, specialmente al medioevo;
  • visione della nazione come prodotto storico e unità spirituale;
  • pubblico popolare: gli intellettuali non si rivolgono più ad un'élite ma ad un pubblico borghese, in cui essi ripongono la propria fiducia, abbandonando definitivamente l'illusione di una collaborazione  con i governi assoluti illuminati.

 

 

 

ELEMENTI CONTRAPPOSTI ALL’ILLUMINISMO:

-     mentre gli illuministi davano alla ragione il sommo potere di dare un significato a tutte le cose, i romantici sono pessimisti e hanno perso la fiducia nella ragione umana: l’ottimismo illuminista inizialmente portato dalla Rivoluzione Francese, in nome dell’uguaglianza e della fraternità, viene a decadere infatti con il dispotismo della dittatura napoleonica. Tale atteggiamento nei confronti della ragione nasce anche dalla negazione della fede propugnata dagli illuministi: i romantici reagiscono in diversi modi a questa sfiducia, o recuperando la fede tradizionale cristiana (A. Manzoni), o altri valori che la possano sostituire (U. Foscolo) fino ad arrivare ad una religione utopistica della “solidarietà” (G. Leopardi).

  •  Una evidente contrapposizione con l’illuminismo la si trova anche nel ritorno all’individualismo e la nascita di un’identità nazionale, che si contrappone al cosmopolitismo dell’Età dei Lumi; d’altra parte, Romanticismo è anche continuazione del principio fondamentale illuminista secondo cui libertà significa libertà individuale di agire, di creare.

Da questa posizione ne nascono subito due diverse nel campo della letteratura e della poesia: quella manzoniana della tendenza all’oggettività, alla descrizione della realtà – da cui poi si svilupperà il naturalismo francese e il realismo di Verga – e quella soggettivista, il famoso Io Romantico predominante in Leopardi.

 


Il Romanticismo in Italia.
La Nascita.

Dalla Germania e dalla Francia i grandi temi romantici circolarono in tutta Europa, costituendo un punto di riferimento essenziale per gran parte della produzione letteraria del XIX secolo. In Italia, i primi segni di sensibilità romantica emersero già in Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo. Si assume però come anno di nascita del romanticismo il 1816, anno di pubblicazione sulla rivista milanese "Biblioteca italiana" dell'articolo intitolato Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni scritto da Madame de Staël. Criticando "gli eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri", la scrittrice francese sollecitò gli italiani a cogliere i fermenti innovativi presenti nelle letterature delle altre nazioni europee. L'articolo innescò un acceso dibattito culturale che vide schierati su posizioni conservatrici autori come Vincenzo Monti e Pietro Giordani, mentre i giovani romantici, tra i quali Silvio Pellico, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri e Giovanni Berchet, si riunirono intorno alla rivista "Il Conciliatore", mostrandosi aperti ai nuovi stimoli culturali, soprattutto ai temi patriottici. Fu Berchet, con La lettera semiseria di Grisostomo (1816), a indicare come nuovo percorso compositivo la poesia popolare in contrapposizione a quella classica e mitologica, definendo quest'ultima come "poesia dei morti".
Il rifiuto della mitologia è uno dei temi centrali della Lettera sul romanticismo (1823) di Alessandro Manzoni, per il quale la letteratura deve avere come soggetto il "vero", frutto di una sintesi tra valori morali, veridicità storica e accuratezza espressiva. A questi stessi principi, che sono alla base della concezione manzoniana del romanzo storico, si ispirò la composizione dei Promessi sposi (1827, 1840-1842), una delle opere fondamentali del romanticismo italiano. Su un altro versante si collocò la ricerca espressiva di Giacomo Leopardi, che produsse risultati di straordinario rilievo nella lirica europea, mentre autori come Carlo Porta, Giuseppe Gioacchino Belli, Giuseppe Giusti, Ippolito Nievo si fecero interpreti di un romanticismo dai toni prevalentemente realistici. A un cosiddetto "secondo romanticismo", caratterizzato da un sentimentalismo dai toni esasperatamente languidi e sospirosi, appartengono invece poeti come Giovanni Prati e Aleardo Aleardi.

 

Il romanticismo italiano, anche per la particolare situazione politica ed economica, è legato alla cultura illuministica precedente: se vengono anche qui proposti l’interesse per il medioevo, per il popolo e la storia e il ritorno alla religione cristiana, vengono invece respinti l’irrazionalismo, il simbolismo, il misticismo tipici del romanticismo tedesco. Permane dal passato il concetto di arte con valore didattica.
Il manifesto del Romanticismo fu la fondazione, da parte degli intellettuali romantici, del “Conciliatore”, un giornale che fungeva da portavoce per le nuove ideologie letterarie e si finalizzava un certo progresso civile ed economico, con la diffusione di cognizioni scientifiche, specialmente per il territorio lombardo. Il programma del “Conciliatore” ricorda quello del “Caffè”, per l’intento che si proponevano entrambi di diffondere i lumi e per la ricerca di uno slancio progressivo della società italiana. Comunque gli intellettuali romantici possedevano un diverso senso della storia e avevano orientamenti decisamente liberali che davano fiducia al popolo, che doveva portare una profonda trasformazione dell’assetto politico dal basso.

 

Differenze con il romanticismo europeo.

  • il Romanticismo italiano è espressione di un momento costruttivo della società italiana; prevalgono quindi l'ottimismo e lo slancio per la costruzione di una nazione moderna.
  • il letterato riveste un ruolo positivo nel corpo sociale, sia svolgendo un ruolo intellettuale (si pone come guida ideologica dei processi politici e civili), sia un ruolo attivo (partecipa alle lotte risorgimentali soffrendo personalmente la prigione o l'esilio).
  • come mai non sono presenti le tematiche negative? Questo avvenne perché Romanticismo e Risorgimento in Italia coincidono: le espressioni di conflitto tra l'intellettuale e la società sono ancora marginali, dato che l'Italia si trova in una fase di arretratezza che gli altri Paesi avevano già superato. Infatti, terminato il processo risorgimentale, le tematiche irrazionalistiche si diffonderanno anche nella penisola.
  •  Il Romanticismo italiano è profondamente differente rispetto a quello europeo, nel senso che mancavano tutti gli aspetti irrazionali, fantastici e mistici, ma vi era un’aderenza al vero e ai principi della ragione: il Romanticismo italiano è semmai espressione di un momento costruttivo e di crescita della società,e ,dato che lo scrittore non è in conflitto con essa, riveste un ruolo costruttivo nel corpo sociale. Infatti le tematiche esasperatamente irrazionalistiche si presenteranno in Italia nella Scapigliatura, a fine secolo, non appena il processo risorgimentale sarà compiuto.

 

Romanticismo italiano.

Nell’Ottocento e fino all’unità d’Italia, le vicende della nostra letteratura sono strettamente intrecciate con la vita politica. Se consideriamo questo intreccio ci appare emblematica nel 1871, anno del trasferimento della capitale, la pubblicazione della “Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis che è letteralmente costruita sul mito di nazione, patria, libertà ed indipendenza che recupera percorrendo a ritroso la storia della letteratura italiana, ritrovando quei valori già a partire da Dante. Il De Sanctis stesso è un uomo emblema, con un’irresistibile vocazione civile, dal momento che fu scrittore patriota, ma anche ministro e militante, tutta fondata sui valori del Risorgimento che sono gli stessi del romanticismo italiano, ma in questa vocazione si ritrovano sia i meriti che i difetti. Sembra trascendere i contenuti dalla forma, tanti approfondendo delle lezioni dell’illuminismo lombardo e del Parini.
Fra tutti i grandi miti del Romanticismo, quello italiano sviluppa quello di NAZIONE, poiché il Romanticismo italiano organizza e sviluppa la letteratura intorno ai valori positivi della classe borghese.
Nei primi decenni dell’800 la nostra letteratura rifiuta quella vecchia ed accademica per privilegiarne una più moderna ed attenta alla realtà, ma proprio per questo essa si provincializza perché si chiude e si arrocca nei problemi specifici italiani perdendo quella caratteristica d’universalità che fin dal ‘300 le avevano permesso di esportare i propri capolavori, dal momento che l’ultimo grande poeta esportato dall’Italia è stato Metastasio. Da ciò deriva un eclissi della letteratura italiana in Europa che riguarda anche i maggiori letterati italiani, quali Manzoni e Leopardi, che sono poco conosciuti nel vecchio continente. Anche la polemica tra classicisti e romantici è un fatto assolutamente modesto, di modesta portata intellettuale, a riprova della natura oscura e provinciale della nostra letteratura.
Il luogo a cui ci dobbiamo riferire è la Milano d’età napoleonica ed è rappresentativo di questa cultura il personaggio del Foscolo, dapprima entusiasta della rivoluzione, poi deluso da Napoleone con il trattato di Campoformio, ma comunque un componente dell’esercito napoleonico. Nel momento in cui Napoleone manifesta più chiaramente il suo imperialismo da un lato produsse adulazione, da un altro invece favorì la nascita di valori nazionalisti patriottici (es. Foscolo: l’“Ortis” ed il “Bonaparte Vincitore”). Napoleone portò con sé anche l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, che fornisce proprio il modello di una possibile unificazione per i patrioti del Risorgimento. Proprio a Milano dall’arrivo dei Francesi alla Restaurazione si assiste al formarsi di una massa di letterati che trasformano i loro precedenti in miti.
A Milano avviene la svolta, significativo è il fatto che l’Ortis e le Poesie del Foscolo siano state pubblicate proprio qui, in seguito ci lavorerà Manzoni, nascerà la poesia dialettale di Carlo Porta, poi si formerà il circolo dei Romantici ed infine qui sono attivi i più importanti esponenti del Risorgimento (Borsieri, Pellico).
A Milano la nuova cultura romantica si pone sulla linea di continuità con la cultura illuminista cioè con quella vocazione verso l’impegno civile dei Verri, Beccaria e Parini. Forse per questo motivo si è arrivati ad affermare che il Romanticismo non è esistito perché i nostri autori non si sono mai messi in rottura con i precedenti: Manzoni mantiene viva l’eredità dell’illuminismo lombardo, Leopardi si dichiarò sempre un neoclassicista convinto con una polemica senza fine. Manca, invece, rispetto ai nordici, l’attrazione verso il sogno, l’illusione (da voce alle parti della psiche sottratte alla ragione), invece il Romanticismo, come più volte detto, tende col sovrapporsi al problema nazionale. Manzoni va in direzione addirittura opposta rispetto ai nordici, al punto che, dopo aver rinunciato alla lirica ed aver scritto i Promessi Sposi, rinuncia e sconfessa il romanzo storico bollandolo come romanzo misto di storia e fantasia, che per lui è una cosa negativa, perciò il resto delle sue opere sono di carattere saggistico. Anche il Leopardi che è arrivato per una strada personalizzata ad ascoltare l’altro, aveva dichiarato che la poesia d’immaginazione era morta e ribadiva che l’unica forma di poesia era quella sentimentale. Tuttavia ci furono dei letterati romantici, ma già dalla loro scarsa popolarità si può vedere che portata ha avuto qui in Italia.
Nel 1816 venne pubblicato sulla “Biblioteca Italiana” l’articolo che innesca la polemica classico-romantica, ma ci fu anche un lungo periodo più complesso che non può essere limitato alla polemica, la cui genesi la si può identificare con la Restaurazione perché dal 1813 comincia la contrapposizione tra il governo austriaco restaurato e gli intellettuali liberali.
Tutti gli illuministi lombardi avevano collaborato con il governo, così inizialmente gli austriaci cercarono di ripristinare la collaborazione precedente, proponendo, ad esempio, al Foscolo la direzione della “Biblioteca Italiana”, il quale molto titubante alla fine rifiuta l’incarico. Dall’esempio del Foscolo si arriverà all’equazione tra liberali e romantici, come il Pellico. I nuovi compiti della letteratura dovevano essere pedagogici, civili, politici (contro i governi restaurati). Questo segna la fine del letterato cortigiano che vede nel Monti il suo ultimo esponente. Tutto questo fenomeno è limitato quasi interamente all’area lombarda che era già stata la punta di diamante dell’illuminismo e del classicismo italiano.
Gli intellettuali italiani si sentono chiamati a ridefinire i compiti della letteratura e facendo ciò fu attaccato ferocemente il classicismo che aveva ulteriormente ritardato lo sviluppo italiano, quindi c’era bisogno di una nuova letteratura. Tutte queste considerazioni sono già presenti prima dell’articolo della De Staël che funge da miccia, ma verranno anche in seguito riproposte.

I principi romantici.

Il sentimento della natura.
Secondo la concezione illuministica la natura era regolata da un complesso di leggi e fenomeni che l'uomo poteva comprendere grazie all'uso della ragione. In campo estetico venivano quindi ignorati tutti gli aspetti del reale che aprivano spiragli su dimensioni ancora sconosciute e che, sfuggendo agli schemi razionali, per questo venivano ritenute inquietanti. Nell'estetica neoclassica di Johann Joachim Winckelmann il bello si trova nella "nobile semplicità" e nella "quieta grandezza", esso è "come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata sia la superficie". Per i romantici, invece, la natura è il luogo in cui l'anima può dare sfogo alla propria malinconia e i fenomeni più interessanti sono proprio quelli che esulano dalla norma, mettendo l'individuo in contatto con una dimensione superiore, che non può essere percepita con l'aiuto della ragione ma solo abbandonandosi ai sensi e alla fantasia. Il "bello" coincide allora col "sublime", sia esso un paesaggio sconvolto dalla furia degli elementi (si pensi alla situazione descritta da Leopardi nell'Ultimo canto di Saffo) o l'uomo perseguitato da una sorte ineluttabile (come nel caso di Ulisse "bello di fama e di sventura" nel sonetto A Zacinto di Foscolo).

Il fascino dell'esotico.
La ricerca di nuove esperienze interiori si tradusse spesso in un'apertura verso nuovi orizzonti spaziali e temporali. Ci si rivolgeva con grande interesse a culture ancora sconosciute, o si rileggevano in una nuova ottica testimonianze ed espressioni di civiltà ormai scomparse. L'interesse per la poesia popolare aveva già in precedenza dato i suoi frutti nella poesia ossianica, che evocava atmosfere altomedievali, mentre ad affascinanti sfondi orientali si era richiamato Samuel Taylor Coleridge in Kubla Khan (1816). La nostalgia per il Medioevo si fuse con la malinconica consapevolezza dell'impossibilità di recuperare un passato ormai perduto per sempre; fra gli scenari preferiti dai narratori romantici ci furono allora castelli in rovina e abazie diroccate, sfondi ideali per ambientare storie dense di elementi misteriosi e soprannaturali come quelle dei romanzi gotici di Matthew Gregory Lewis e di Horace Walpole, autore del celebre Castello d'Otranto (1764).

Il tema del "doppio" .
L'interesse per il soprannaturale caratterizzò in particolar modo la letteratura romantica inglese e tedesca. Esso fu acuito da un lato dalla disillusione nei confronti del razionalismo settecentesco, dall'altro dalla riscoperta del patrimonio folclorico della fiaba popolare, dovuta in primo luogo ai fratelli Grimm e Hans Christian Andersen. Uno dei motivi ricorrenti nel genere fiabesco, e che ebbe molto seguito in letteratura, fu quello del Doppelgänger, ossia del "doppio" o dell'"altro che è in noi". Soprattutto gli scrittori tedeschi furono affascinati da questa nuova possibilità di indagine sulla propria identità, di uno scavo nella coscienza di un Io più profondo. Il poeta Heinrich Heine vi dedicò una lirica, intitolata proprio Il doppio (1827); lo stesso tema compare nel racconto Gli elisir del diavolo (1816) di E.T.A. Hoffmann e nel romanzo breve La straordinaria storia di Peter Schlemihl  (1814) di Adalbert von Chamisso, la vicenda di un uomo che vende la propria ombra al diavolo. Nella seconda metà dell'Ottocento il motivo del doppio ricompare nel romanzo di Fëdor Dostoevskij Il sosia (1846), la descrizione di uno stato di alienazione di cui è vittima un modesto impiegato.

Evoluzione del romanticismo.
Nella seconda metà dell'Ottocento alcune delle tendenze tipiche del romanticismo divennero particolarmente accentuate, come nel caso della poesia sentimentale che talvolta divenne un facile pretesto per evadere in una visione trasognata e illusoria di mondi irreali. Dalla reazione a certe esasperazioni romantiche derivarono movimenti come la scapigliatura, il parnassianesimo, il realismo e il naturalismo.

Forme e fonti di ispirazione.
Dopo l'universalismo dell'età dei Lumi, con il Romanticismo venne l'era dell'individuo. L'evento storico più significativo di quest'epoca, che permeò di sé ogni forma della vita sociale e culturale, ivi compresa l'espressione musicale, fu la Rivoluzione francese. In Francia, un effetto immediato si avvertì sull'opera. In luogo delle trame dell'opera barocca, in genere tratte dall'antichità classica con la sua ordinata gerarchia di divinità, sovrani e popolo, il materiale per i soggetti venne attinto dal continuo succedersi e alternarsi degli eventi di cui si componeva l'attualità. Si formò addirittura un genere nel quale l'eroina, rapita e incarcerata dal tiranno, veniva salvata dal suo amante: sin qui nulla di diverso dagli esempi precedenti. La novità risiedeva nel fatto che il torto non veniva più riparato dall'apparizione all'ultimo istante del deus ex machina dell'opera barocca, bensì dagli sforzi di uomini in carne e ossa. In accordo con il credo rivoluzionario, i cerimoniali parigini prendevano forma di vaste odi corali in musica, spesso all'aperto, in lode dell'Uomo e di un vago Essere supremo e dei valori imperniati sul motto "liberté, egalité e fraternité".

Nella letteratura Romantica predominano:

  • il rifiuto di ogni regola, modello, genere. L'arte, in senso lato, è una libera espressione dell'animo umano, e non è il frutto di un esercizio ragionato e razionale. L'opera deve esprimere il carattere individuale dell'artista, che si manifesta nella sua più completa originalità. Il sentimento è autentico, immediato, sincero e non fa uso di filtri artificiosi. Alla compostezza del classicismo, si contrappongono delle forme irregolari, apparentemente disordinate: esse non comunicano immagini nitide e ben definite, ma immagini che tendono al vago e all'indeterminato, manifestando la disposizione sentimentale del soggetto.
  • la mutevolezza storica del gusto: Legato all'idea dell'arte come espressione della spontaneità individuale, è il concetto che afferma che l'arte cambia con il passare del tempo, con il variare delle epoche e delle ambientazioni. Crolla anche il principio della separazione dello stile: tutto, anche ciò che è considerato basso e quotidiano, ha il diritto di essere espresso. 
  • La poetica classica: Essa si fonda sul principio dell'imitazione degli antichi, che avevano stabilito canoni eterni ed universali del bello. Raggiunto l'apice, la composizione letteraria consiste solo nell'imitazione dei modelli consacrati, e diventa un'attività completamente governata dalla ragione. L'opera deve raggiungere la perfezione formale, che consiste nel rispetto di canoni come:
  • il rispetto per le regole della metrica, della retorica;
  • dominio delle passioni, compostezza, equilibrio, armonia;
  • idealizzazione di figure perfette, ideali, astratte;

      la selezione della letteratura "alta" da quella meno degna (es.: la commedia);

  • la separazione degli stili (mai mescolare nella stessa opera tragico e comico, ecc…).

Il romanzo.

Il romanzo era stato, in Europa, il genere letterario predominante, che esprimeva la visione del mondo e i gusti della borghesia, classe ormai dominante. Il romanzo moderno infatti si era affermato per la prima volta in Inghilterra, dove la borghesia era già forte e consolidata.

origini del romanzo:

Le origini del romanzo risalgono agli anni precedenti il 1800: verso la fine del 1700, infatti, la Nuova Eloisa di Rousseau aveva ottenuto un successo straordinario. L'alfabetizzazione, la scolarizzazione e il perfezionamento della stampa favoriscono nel corso del secolo l'ampliamento di un pubblico sempre più popolare: da fenomeno d'élite, la cultura entra a far parte anche delle classi sociali più basse, che ritrovano nelle vicende le loro esperienze di vita narrate così come sono nella realtà.

Il romanzo in Italia:

Nonostante che il pubblico italiano in breve tempo seppe apprezzare il romanzo, il suo avvento suscitò profonde critiche da parte dei tradizionalisti e dei classicisti. Essi, disprezzandolo, lo consideravano un genere inferiore, e ritenevano pericolosa in campo morale una rappresentazione troppo vivida della realtà. Tali pregiudizi nascevano in primo luogo dal fatto che i generi tradizionali erano considerati perfetti ed intoccabili, e un genere nuovo non poteva essere di pari livello. Ma un tale atteggiamento è sintomo dell’arretratezza culturale, politica ed economica che stagnava nella società italiana. In Italia del resto la classe borghese era rappresentata da un'avanguardia lombarda, e fu questa a prendere le difese del romanzo, facendone  uno dei punti principali della battaglia romantica sviluppatasi a partire dal 1816.
I romantici stessi affermano che il romanzo è un genere inferiore, ma sono anche del parere che uno scrittore di valore può renderlo un genere più "alto". Sarà Manzoni a capire a fondo l'importanza del romanzo, e a dimostrare la pari dignità a confronto con gli altri generi.

 

Il romanzo storico.

origini: Lo scozzese Walter Scott aveva fornito un modello di romanzo storico che conobbe grande successo in tutta Europa. A differenza della storiografia, il romanzo storico offriva una visione completa di una determinata epoca, dagli avvenimenti politici alle piccole vicende quotidiane, attraverso una rappresentazione animata dal racconto dei protagonisti.
il successo in Europa: Il romanzo storico ebbe successo proprio per l'interesse da parte del pubblico verso il passato, in opposizione al senso antistoricistico degli illuministi. In più il sentimento nazionale spingeva a ricercare nel passato le origini del proprio popolo. Ma bisogna anche considerare che il romanzo era un genere di consumo, che andava incontro ai gusti della borghesia dell'epoca, la quale ritrovava nella lettura una fuga dal grigiore quotidiano.
in Italia: Il 1827 segna la data in cui il romanzo conosce in Italia la sua fioritura, frutto di un lungo processo di gestazione. Il pubblico, composto da gente comune, gradisce la forma narrativa in una prosa a lui comprensibile , le vicende avvincenti, le ambientazioni affascinanti.  In questo modo, il romanzo storico invade il mercato e ottiene, come si direbbe oggi, un successo di "massa".

Le riviste milanesi.

Contemporaneamente a questa polemica si assiste alla diffusione di molte riviste tra cui “Il Conciliatore” e “La Biblioteca Italiana”

 

LA BIBLIOTECA ITALIANA.

Comincia la pubblicazione nel 1816 con  l’articolo della De Staël che appare sul primo numero. È un giornale di governo finanziato dagli austriaci che vogliono organizzare il consenso dell’intelligenza milanese e stringere i rapporti culturali tra l’Italia e l’Austria. La scelta del direttore fu tormentata poiché dapprima si chiese al Foscolo, ma questi rifiutò, infine ci fu l’assegnazione dell’incarico a Giuseppe Acerri. Gli argomenti trattati furono vari.
L’esito finale sarà una rivista politica austriaca che sul piano letterario propone il classicismo, su quello ideologico un atteggiamento reazionario, ma questi risultati si devono attribuire all’inasprirsi del dibattito che culminerà nei moti del ’21, si può dire ciò perché inizialmente la rivista era aperta, duttile, accoglieva anche articoli di letterati che poi passarono al Conciliatore.

Polemica classico-Romantico.

Come già detto sulla “Biblioteca Italiana” comparve l’articolo della baronessa De Staël che innesca la polemica, anche perché il clima è favorevole, infatti a Milano ci sono gruppi di discepoli ed amici del Foscolo che si erano proposti di difendere le conquiste della rivoluzione borghese del ‘700, ma le loro aree sono per lo più culturali che si spiega sia con l’oppressione austriaca, ma anche e soprattutto con l’immaturità politica del popolo. La letteratura è divulgatrice d’idee formative delle conoscenze , arte nuova, socialmente e civilmente impegnata, ne segue l’esempio del Foscolo il suo amico Silvio Pellico. La De Staël polemizza con la letteratura italiana a proposito della maniera e dell’utilità delle traduzioni poiché avverte che la letteratura italiana si deve mettere al passo con i tempi ed abbandonare l’imitazione dei classici, che è pur sempre un mondo grandissimo, ma non più attuale e perciò che devono entrare in colloquio con le nazioni moderne, leggendo e traducendo quei testi, affinché l’Italia possa uscire dal suo isolamento che coincide con la sua arretratezza culturale. Non per ultimo invita i letterati italiani a promuovere nuovi generi letterari moderni come il teatro, suggerimento che venne accolto subito dal Manzoni con la stesura dell’“Adelchi”. Particolarmente singolare è il comportamento del Manzoni che si astenne sempre da interventi pubblici su questa questione, poiché realizza più che teorizzare, come una specie di anti-Foscolo.
L’articolo suscitò le ire dei classicisti che accusarono l’articolo di voler togliere loro l’unica arte rimasta. Pietro Giordani, difende il classicismo, Vincenzo Monti, nove anni dopo nel 1825 tardivamente accusa la scuola romantica e pone l’estrema difesa al classicismo e anche un giovane Giacomo Leopardi intervenne scrivendo alla “Biblioteca Italiana”, che però non pubblicò il suo articolo. Il maggiore esponente della difesa del classicismo fu Pietro Giordani che sottolineò come nei classici greci e latini risiede tutta la bellezza e la poesia, che sono cose immutabili nel tempo.
I Romantici difesero la De Staël riconoscendo la decadenza italiana, schierandosi per una letteratura nuova ed attuale. Nel giro di pochi mesi uscirono diversi interventi importanti. Pietro Borsieri, nel 1816, con “Avventure letterarie di un giorno“ descrive con vivacità l‘ambiente letterario milanese e sottolinea la missione sociale della letteratura ed infine afferma che solo due generi possono direttamente parlare al popolo e sono il teatro ed il Romanzo, quest‘ultimo è un genere che in Europa si è già sviluppato da un secolo, invece qua in Italia non è ancora ben radicato. Ludovico di Breme, sempre nel 1816, con “Intorno all‘ingiustizia di alcuni giudizi letterari“ sostiene la teoria dell‘unità tra poesia e natura, che per la poesia è spontaneità dei sentimenti, immediatezze, da ciò deriva la polemica nei confronti di tutto il repertorio classico, come le unità aristoteliche di spazio, luoghi, tempi e miti. Ma il testo più noto ed importante è quello di Giovanni Berchet, che con Lettere semiserie di Grisosto al Figlio sostiene che la vera poesia sia quella popolare e definisce chi sia il popolo capace di aprire le orecchie ed il cuore. Per far ciò distingue i parigini e gli ottentotti. I Parigini sono gli aristocratici che hanno già conosciuto tutto e non si commuovono più davanti a nessuna poesia. Invece gli Ottentotti rappresentano uomini rozzi, incolti, sordi alla voce della poesia. Il pubblico ideale è il popolo, più specificatamente la nuova borghesia che a Milano finalmente comincia ad esistere.

IL CONCILIATORE.

Molti intellettuali crearono una rivista alternativa alla “Biblioteca Italiana” che chiamarono “Il conciliatore”, una rivista già diversa per il formato, poiché al contrario della prima che era in fascicoli da raccogliere alla fine in volumi da poi essere disposti in biblioteche, questo era più agile, addirittura veniva chiamato il foglio azzurro. Veniva finanziato da alcuni giovani aristocratici. Il redattore era Silvio Pellico. La rivista fu massacrata dalla censura austriaca e venne chiusa dopo un anno e mezzo.

Sotto il finanziamento di due aristocratici, con in redazione Silvio Pellico, Pietro Borsieri, Ludovico di Breme e Giovanni Berchet essa era una rivista alternativa già dalla sua veste editoriale, poiché non usciva in fascicoli, ma come un agile foglio azzurro, come un giornale contemporaneo, fatto per essere letto. Era nuovo anche il pubblico e non a caso i redattori stesero nel primo numero un programma d’intenti a modo di proemio. Ha un taglio enciclopedico che ha come modello “Il caffè” poiché le discipline prese in esame sono le più varie e le più attuali. Nel primo numero c’è un elenco: scienze morali, statistiche, letteratura, economia, manifattura, agricoltura, arte, scienze e varietà.
Il programma è opera del Borsieri che afferma che sono stati due i criteri della scelta:

  • Preferisce in prima quelle che sono ritenute utili al maggior numero di persone, quelle che sono immediatamente riconosciute utili per la gente. Segue un criterio di utilità, impegno pedagogico per perseguire un utile sociale. Ciò segue la natura del Romanticismo che privilegia una letteratura reale e concreta;
  • In seguito intendono unire queste materie a delle altre perché non vengano scartate le discipline dilettevoli, ciò nonostante devono abituare gli uomini ad avere attenzione su se stessi con moralità.

Obiettivo socialmente e politicamente impegnato. Ovviamente gli esiti de “Il Conciliatore” sono opposti a quelli de “La Biblioteca Italiana”. Sul piano letterale si schierano per il nuovo, contro il classicismo, per l’impegnato, con nuove aperture alle letterature straniere. Sul piano ideologico e politico con orientamento liberale. Molto esponenti vennero imprigionati dopo i moti del ’21, la rivista venne chiusa nel 1819 dopo un anno di pubblicazioni dal governo austriaco.

 

Il tardo Romanticismo.
  La storia.
La sconfitta dei moti del 1848 smorza gli ideali romantici e rivoluzionari e favorisce il rafforzarsi di un realismo politico.
La Francia perde il ruolo di prima potenza militare europea, che passa alla Germania. Dopo il tentativo rivoluzionario del Comune di Parigi (1871), nasce la Terza Repubblica.
L’Italia e la Germania hanno ottenuto l’unità sotto il controllo delle monarchie sabauda e prussiana. Il Regno d’Italia si dibatte in gravi problemi sociali (dal brigantaggio all’emigrazione), conseguenze dell’arretratezza del Paese.
Le maggiori nazioni europee creano in Africa, Asia e Oceania vasti imperi coloniali. L’Inghilterra rimane la più forte potenza commerciale grazie ai suoi possedimenti coloniali, rafforzati durante il regno della regina Vittoria.
E’ l’epoca del capitalismo: la borghesia si impone come classe sociale in tutta l’Europa. Lo sviluppo industriale (seconda rivoluzione industriale) accelera i ritmi della ricerca scientifica; scoperte e invenzioni diventano sempre più tangibili grazie alle applicazioni della tecnologia.

Date da ricordare…

1900: il re Umberto I viene assassinato a Monza dall’anarchico Gaetano
Bresci, che voleva rivendicare le vittime della strage di Milano, 1989
1911: l’Italia conquista la Libia
1914: inizio della Prima guerra mondiale

Il pensiero.
Il trionfo della civiltà industriale alimenta la fiducia nella scienza e nella tecnica. Il metodo di ricerca applicato alle scienze naturali viene considerato valido anche per risolvere le questioni sociali.
L’atteggiamento mentale che domina quest’epoca è ottimistico e positivo, e positivismo è il nome della filosofia che caratterizza questo periodo. E’ l’ideologia della borghesia vincente che, fiduciosa nel progresso, ritiene possibile la risoluzione dei problemi sociali che l’industrializzazione ha scatenato, proprio attraverso un ulteriore sviluppo dell’industria. Parallelamente al Positivismo si sviluppa il Marxismo, che studia i problemi sociali con la stessa metodologia scientifica, ma che indica come soluzione la lotta di classe delle masse operaie contro il capitalismo e la borghesia.

La letteratura.
In Francia nasce il Naturalismo (in Italia si chiamerà Verismo e avrà aspetti un po’ diversi) che è l’applicazione in campo letterario delle idee positiviste. Lo scrittore ha il compito di descrivere con oggettività, realismo e rigore scientifico la realtà sociale e psicologica osservata.
La seconda metà dell’Ottocento vede nel romanzo l’espressione letteraria che trova maggior diffusione. Lo sviluppo industriale anche nel campo editoriale stimola gli scrittori a produrre per un mercato che si allarga: nascono veri e propri generi letterari (romanzo d’appendice, letteratura per l’infanzia, polizieschi, fantascienza).

Le arti figurative.
I pittori della seconda metà dell’Ottocento dipingono quasi esclusivamente soggetti realistici, tratti dall’osservazione diretta. Da questo nuovo approccio nei confronti dell’arte nasce la corrente dell’Impressionismo: i pittori impressionisti dipingono dal vero, senza disegno preparatorio, rappresentando gli oggetti attraverso pennellate di colori puri (non mescolati sulla tavolozza).

 La scienza e la tecnica.
Appartengono a questo periodo teorie e scoperte di grandissima rilevanza scientifica: la teoria dell’evoluzione e selezione della specie (ad opera dello scienziato C. Darwin), la legge della trasmissione dei caratteri ereditari (ad opera di Mendel), i primi vaccini. 

Una nuova cultura.
In questo periodo di grandi conflitti politici cominciò ad affacciarsi una nuova cultura, il Romanticismo.
Il Romanticismo non restò solo un fatto letterario e filosofico, ma ebbe una grande influenza su tutti i piani del comportamento umano, da quello politico a quello del gusto e del costume, alla musica.
Alla base del pensiero romantico c’era un netto rifiuto dell’ottimismo razionalista che aveva caratterizzato l’illuminismo alla forza della ragione illuminista i romantici opposero la forza del sentimento, la capacità dell’uomo ad abbandonarsi ai propri sentimenti. Al centro della loro ispirazione gli artisti romantici posero la natura, ammirata nella forza travolgente dei suoi elementi, e soprattutto l’uomo, la sua sensibilità, le sue passioni.

Lo studio del passato e l’idea di nazione.
Come nell’uomo i romantici cercavano i lati più oscuri e istintivi, così nella storia andarono alla ricerca del passato più nascosto e sconosciuto.
Gli illuministi avevano condannato il Medioevo di fronte al “tribunale della ragione” come un periodo buio e di imbarbarimento. I romantici, invece, fecero del Medioevo l’oggetto privilegiato dei loro studi alla ricerca delle tradizioni più profonde dei popoli.
Mentre gli illuministi avevano propugnato un ideale di tipo cosmopolita, i romantici cercarono di dare un fondamento storico alla nuova idea di nazione.
In un periodo in cui le nazionalità e le autonomie venivano sacrificate agli equilibri politici voluti ai vincitori di Napoleone, i romantici furono i primi ad alimentare le ispirazioni all’indipendenza nazionale dei popoli sottomessi.
Molti romantici entrarono nelle società segrete e parteciparono alle cospirazioni politiche e ai moti insurrezionali dei primi decenni dell’Ottocento.
Altri studiarono il passato del proprio popolo alla ricerca delle tradizioni e dell’identità etnica e linguistica nazionale.
In quegli anni ci fu una grande produzione di giornali, riviste, libri divulgativi. Spesso la censura interveniva per limitarne la diffusione. Ma furono soprattutto la letteratura, la pittura e la musica gli strumenti di maggiore diffusione della cultura romantica. La letteratura, la musica, la pittura non si rivolgevano più solo agli intellettuali, ma miravano ad attrarre un pubblico più vasto: quello del popolo nelle città in grande espansione.

 

La Corrente letteraria di Manzoni.


Il romanticismo è un movimento di pensiero, di cultura a largo raggio, che nasce con l’illuminismo. Tutti i campi della cultura sono interessati dal romanticismo; ha basi filosofiche e assume connotazioni politiche, religiose ed economiche…
Il romanticismo, espandendosi in paesi diversi, assume connotati diversi a seconda del paese dov’era. In generale però siamo di fronte al romanticismo del concetto di vita, di uomo. Cosa lo ha fatto nascere? Il fallimento degli ideali illuminati (il lume della ragione doveva guidare una nuova vita ma questo principio fallì con la rivoluzione francese). Il romanticismo nasce in campo filosofico in Germania alla fine del 1700.Qualè la visione filosofica innovativa: il mondo viene visto non fatto di leggi (come l’illuminismo), ma ora il mondo è dominato da una forza spirituale; il mondo è teatro dello scontro di forze opposte che però riescono a farlo divenire unitario ed in continuo sviluppo e cambiamento.
Il motivo dominante è l’esaltazione dell’individuo; l’individualità vuole dire esaltare il sentimento visto come il patrimonio che fa l’uomo unico (il lume della ragione non si rifà più l’individuo, ma il sentimento) visto così, l’uomo si sentirà creativamente protagonista. Questa esaltazione della persona e dei sentimenti però degenererà. L’uomo in positivo può sentirsi protagonista della storia però in negativo si contrappone alla realtà.
Nella visione romantica del mondo, la storia è uno svolgimento dove passato e presente sono una cosa unica: ”non capisco il presente se non so cosa è il passato”.
L’uomo romantico si sente coinvolto per migliorare la storia e nel 1800 ciò vale a dire che l’uomo penserà alla libertà. (La storia non è più lo svolgersi di azioni secondo ragioni meccaniche)

Del romanticismo il Manzoni è indubbiamente uno tra i maggiori esponenti a livello Europeo, anche se spesso gli viene attribuito un legame con la corrente settecentesca dell’illuminismo, il movimento antagonista per eccellenza della corrente romantica. Manzoni, nei suoi componimenti, racchiude un’originalità e unicità che non lasciano spazio solo ed esclusivamente a fredde strutture razionali definite, né la loro esistenza presuppone un preciso scopo strumentale; tutte le opere nascono sotto la spinta di particolari sentimenti, siano essi rabbia, tristezza, felicità, voglia di libertà, amore per la patria.
Il borghese non accetta un’esistenza delimitata e razionale, ma si lascia guidare dal sentimento: lotta per la libertà perché riconosce di averne il diritto, ama la patria perché la sente propria, ha un’istruzione perché solo così può continuare a riguardarsi e difendere ciò che gli spetta.
Inutile sottolineare che il Manzoni incarna l’ideale del Romanticismo da ogni punto di vista, anche Umberto Saba, in seguito, ne sottolineò l’unicità definendolo il poeta “onesto”, unica eccezione per l’interesse storico. La storia costituì il campo delle osservazioni morali, il paragone dell’agire umano, la storiografia manzoniana è molto particolare per una diffusa religiosità che lo conduce a intendere e spiegare il male, la perversità e le calamità. Naturalmente i romantici consideravano inspiegabile l’origine del bene e del male così come ritenevano Dio l’Essere esistente a priori, dunque la pretesa del Manzoni era inammissibile. Sicuramente si deve tantissimo a questa corrente, un solo secolo ha modificato scuole di pensiero dalle radici millenarie, a volte calibrandone meglio l’ottica e allargando gli orizzonti alla modernità dei tempi attuali, e si deve riconoscere anche un grande merito a molti intellettuali che, proprio come il Manzoni, sono stati i precursori e i promotori del cambiamento.

Il romanticismo entra in Italia attraverso la garbata mediazione di una grande “operatrice culturale”, madama de Stael (1766-1817). Il suo articolo, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, esce nel gennaio del 1816 sulla Biblioteca italiana, periodico milanese promosso e divulgato a cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli italiani ad aprire i propri orizzonti, a guardare anche alla produzione d’oltr’Alpe e, in particolare, agli sviluppi della cultura in Inghilterra, Germania e Francia, dove ormai si sta diffondendo il romanticismo. Quest’ultimo, propugna un’arte diretta a un ampio pubblico borghese, mira a riprodurre i problemi degli uomini, calati nella realtà, si propone una funzione importante, perché vuole educare le menti e i cuori.
Anche Alessandro Manzoni, come dicevamo, vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto; conosciamo le sue idee su questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al marchese Cesare D’Azeglio nel 1823. Egli ritiene assurdo l’uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura d’evasione, elaborata secondo l’imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei classici. Invece l’opera d’arte deve essere educativa, cioè deve aiutare l’uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo testo Manzoni elabora una formula che mette a fuoco la sua concezione poetica. In pratica, considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché s’indirizza ad un pubblico vasto; in modo particolare, sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell’Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. In nome della ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana sino al settecento. In fine, anche la religione è vissuta in sintonia con il vaglio della ragione. L’esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un grande romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria.
Manzoni rimane comunque estraneo a questa situazione, troppo assorbito dalla sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa (1818-1819). Segue, però, con attenzione e partecipazione, condividendone il programma di un periodico: Il Conciliatore che nasce dall’intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico. Inevitabile, quindi, proprio alla luce dell’evidente intento patriottico, che intervenga l’occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al giornale. L’impegno sociale del Conciliatore, che mira alla “pubblica utilità”, istruendo i milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere, lo pongono sulla linea del Caffè, del quale, i “conciliatori” si considerano eredi e prosecutori.

Gli anni del “periodo creativo” del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani, “spazzati via” dalla conquista francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri paesi europei, si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando l’indipendenza e l’unificazione delle regioni italiane: esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili.

                                                         

La vita di Manzoni.

 

Giansenismo: nome che deriva dal nome latinizzato Giansenio, vescovo olandese, che elaborò una dottrina diffusasi in Europa (nel 17°sec.).
Questa dottrina è rimasta nell’ambito del cristianesimo e nel 1653 fu condannata dai cattolici: è una dottrina morale fondata sulla base del pensiero filosofico di S.Agostino e sostiene che l’uomo non ha grazia perché privatane dal peccatooriginale; solo Dio però può donare la grazia. Egli la concede gratuitamente solo ad alcune persone, senza basarsi sui meriti.
Questa è una versione pessimistica perché l’uomo, non avendo la grazia, è in balia del peccato, a questo punto, un uomo, per apparire giusto agli occhi di dio, deve avere fede e fare opere buone.
Questa dottrina ebbe grande influenza su Manzoni, che frequentò per molto tempo questi giansenisti.
QUALCHE CURIOSITA’: pare che il Manzoni soffrisse di AGORAFOBIA (paura di stare in spazi aperti con molta gente); la sua vita è stata segnata da una impietosa catena di lutti (gli 11 figli morirono prima di lui, tranne due).
Nel 1812 inizia a scrivere “I promessi sposi”, la sua opera più grande e ritenuta ancora oggi, caposaldo della letteratura italiana e del romanticismo; dieci anni dopo, nel 1850, il Manzoni si sente di scrivere i principi che lo hanno portato a scrivere il romanzo. Morirà uscendo da una chiesa e scivolando da uno scalino nel 22 maggio del 1873. Nel 1874 ci fu una messa in suo onore al duomo di Milano, dove venne onorata la messa da requiem composta per lui da Giuseppe Verdi.

 

OPERE PRINCIPALI.

Manzoni è un poeta prosatore e tra le sue opere si possono ricordare:

  • Inni sacri: sono cinque e dedicati a: Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La passione, La Pentecoste. In questi canti il Manzoni esprime la sua fede; tutte queste poesie comunicano cioè la visione della fede con cui l’uomo sopporta l’urto delle vita. Manzoni ci insegna dottrine religiose limitando l’esito poetico. Egli si prefigge uno scopo pedagogico, quindi utilizza un linguaggio semplice.
  • Adelchi: tragedia composta tra il 1819 ed il 1822. Siamo nel contesto dell’occupazione longobarda, quando Carlo vuole combattere contro i longobardi. Adelchi è il figlio del re longobardo Desiderio. Lo sfondo di questa vicenda è la battaglia dei due popoli.

Adelchi non vuole combattere e ciò rappresenta la figura di un uomo cauto e saggio. Ermengarda, figlia di Desiderio, sposa ripudiata da Carlo Magno dopo questo fatto si rifugia in un convento.
Questo a grandi linee è lo sfondo delle vicenda. Ermengarda è ripudiata dal marito per questioni di stato. In questa vicenda traspare il dolore che diventa strumento di espiazione della sventura.

  • Marzo 1821 e il 5 maggio: definite le “odi civili”, Marzo 1821 prende spunto dai civili, dai quali sembrò partire un moto di liberazione della Lombardia dagli Austriaci. Celebra il diritto dei popoli a essere liberi dagli Austriaci.

5 Maggio è da un lato dedicata alla morte di Napoleone celebrandolo, mentre dall’altro, condanna le sue gesta. Napoleone colpisce i limiti della sofferenza umana e con la fede affronta la morte. Ciò dimostra come la tematica dei Promessi Sposi sia già stata chiarita in precedenza.

Date principali sulla vita di Manzoni.

      • Nascita di A.Manzoni
  • compose l’”Adda”
    • stringe amicizia con Monti e Foscolo

1808                   l’”Urania”    (inizia il periodo di maggior produzione 1812-1827)

    • compone i cinque “Inni sacri”
  • “Marzo 1821”- “Il 5 maggio”
  • “Adelchi”-“Discorso su alcuni punti della storia longobarda i Italia”
  • la lettera “Sul Romanticismo”
  • “I Promessi Sposi”
    • pubblicazione definitiva de “I promessi sposi”
      • muore Alessandro Manzoni

Fin dalle opere giovanili, Manzoni sente l’esigenza di una lettura che sia utile moralmente; ci sono chiaramente dei passi avanti per una letteratura sempre più reale, più vicina al popolo, dove si pone il problema della lingua cioè renderla adatta alle nuove idee, cosa che il Manzoni fa sin dall’inizio.
Fu segnato dai letterati lombardi che lo introdussero nel romanticismo che lo portò alla stesura di un’opera nuova come i Promessi Sposi. Con i Promessi Sposi, si afferma il patrimonio di novità: Manzoni con questo romanzo, si colloca come un nuovo intellettuale perché ha l’intento di fare un’opera realistica e popolare.
E proprio con questo romanzo, che non ha precedenti, è il primo nel suo genere: lui non ha inventato nulla, ma ha fatto suoi i principi del romanticismo calandoli nel contesto di questo romanzo. E’ un innovatore nell’affrontare il problema della lingua.           

 

IL NATALE.

[13 luglio - 29 settembre 1813]

 

      Qual masso che dal vertice
Di lunga erta montana,
Abbandonato all'impeto
Di rumorosa frana,
Per lo scheggiato calle
Precipitando a valle,
Batte sul fondo e sta;
      Là dove cadde, immobile
Giace in sua lenta mole;
Né, per mutar di secoli,
Fia che riveda il sole
Della sua cima antica,
Se una virtude amica
In alto nol trarrà:
      Tal si giaceva il misero
Figliol del fallo primo,
Dal dì che un'ineffabile
Ira promessa all'imo
D'ogni malor gravollo,
Donde il superbo collo
Più non potea levar.
      Qual mai tra i nati all'odio
Quale era mai persona
Che al Santo inaccessibile
Potesse dir: perdona?
Far novo patto eterno?
Al vincitore inferno
La preda sua strappar?
      Ecco ci è nato un Pargolo,
Ci fu largito un Figlio:
Le avverse forze tremano
Al mover del suo ciglio:
All'uom la mano Ei porge,
Che si ravviva, e sorge
Oltre l'antico onor.
      Dalle magioni eteree
Sporga una fonte, e scende
E nel borron de' triboli
Vivida si distende:
Stillano mele i tronchi;
Dove copriano i bronchi,
Ivi germoglia il fior.
      O Figlio, o Tu cui genera
L'Eterno, eterno seco;
Qual ti può dir de' secoli:
Tu cominciasti meco?
Tu sei: del vasto empiro
Non ti comprende il giro:
La tua parola il fe'.
      E Tu degnasti assumere
Questa creata argilla?
Qual merto suo, qual grazia
A tanto onor sortilla?
Se in suo consiglio ascoso
Vince il perdon, pietoso
Immensamente Egli è.
      Oggi Egli è nato: ad Efrata,
Vaticinato ostello,
Ascese un'alma Vergine,
La gloria d'Israello,
Grave di tal portato:
Da cui promise è nato,
Donde era atteso uscì.
      La mira Madre in poveri.
Panni il Figliol compose,
E nell'umil presepio
Soavemente il pose;
E l'adorò: beata!
Innanzi al Dio prostrata
Che il puro sen le aprì.
      L'Angel del cielo, agli uomini
Nunzio di tanta sorte,
Non de' potenti volgesi
Alle vegliate porte;
Ma tra i pastor devoti,
Al duro mondo ignoti,
Subito in luce appar.
      E intorno a lui per l'ampia
Notte calati a stuolo,
Mille celesti strinsero
Il fiammeggiante volo;
E accesi in dolce zelo,
Come si canta in cielo,
A Dio gloria cantar.
      L'allegro inno seguirono,
Tornando al firmamento:
Tra le varcate nuvole
Allontanossi, e lento
Il suon sacrato ascese,
Fin che più nulla intese
La compagnia fedel.
      Senza indugiar, cercarono
L'albergo poveretto
Que' fortunati, e videro,
Siccome a lor fu detto,
Videro in panni avvolto,
In un presepe accolto,
Vagire il Re del Ciel.
      Dormi, o Fanciul; non piangere;
Dormi, o Fanciul celeste:
Sovra il tuo capo stridere
Non osin le tempeste,
Use sull'empia terra,
Come cavalli in guerra,
Correr davanti a Te.
      Dormi, o Celeste: i popoli
Chi nato sia non sanno;
Ma il dì verrà che nobile
Retaggio tuo saranno;
Che in quell'umil riposo,
Che nella polve ascoso,
Conosceranno il Re.

 
 
 
 
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I Promessi Sposi.

Sono l’opera alla quale il Manzoni dedicò il suo impegno maggiore, lavorandovi intensamente dal 1821 al 1827 e sottoponendola a nuove revisioni fino al 1842, anno in cui uscì l’edizione definitiva.  Suggestionato dalla lettura sia di Walter Scott che di cronache milanesi del Seicento, Manzoni ambienta il suo romanzo nella Lombardia seicentesca durante la dominazione spagnola. Secondo il modello del romanzo storico, lo scrittore, dopo un attento e accurato lavoro di ricerca, ricostruì fedelmente la cornice storica, creando invece con la sua fantasia la vicenda e i personaggi che vi si muovono. I Promessi sposi sono Renzo e Lucia, due giovani di modestissima condizione sociale, che vengono ostacolati nel loro matrimonio da don Rodrigo, un potente signorotto del luogo che minaccia il pavido don Abbondio, il curato che avrebbe dovuto celebrare le nozze. Consigliati da fra Cristoforo, i due si separano: Renzo va a Milano e Lucia si reca a Monza. Mentre Renzo si trova coinvolto nei tumulti per la carestia (viene arrestato, ma riesce a fuggite dal cugino Bortolo a Bergamo, che faceva parte della repubblica di Venezia), Lucia viene rapita per conto di don Rodrigo, con la complicità della monaca di Monza, dall’Innominato. Questi, tuttavia, già sull’orlo della redenzione, si converte, rinnegando il suo passato delittuoso, e, a testimonianza del proprio riscatto, libera Lucia e la protegge nel suo castello mentre infuriano i saccheggi dei lanzichenecchi. Scampati alla peste che intanto ha seminato la morte anche tra i personaggi (ne muoiono, tra gli altri, anche don Rodrigo e fra Cristoforo), i due giovani si ritrovano e possono finalmente sposarsi stabilendosi nel bergamasco dove Renzo avvia l’attività di imprenditore tessile. La complessa tessitura dell’intreccio riflette un articolato sistema ideologico: la giustizia calpestata, l’oppressione politica e familiare, l’inefficacia delle rivolte popolari, il riformismo come unica strada praticabile, l’intervento risolutore della Provvidenza, confluiscono nell’emblematicità delle situazioni dei personaggi, riflettendo anche la problematicità dell’intellettuale Manzoni. Questi, infatti, vede nei valori religiosi di un cristianesimo militante una possibilità di trasformazione sociale e spirituale che investe tutti i personaggi, da quelli eccellenti a quelli mediocri. Per il suo rigore strutturale, per la scrupolosità dell’approfondimento psicologico, attento a cogliere le più diverse sfumature dei comportamenti, per l’efficacia espressiva della lingua, il romanzo manzoniano costituì un modello indelebile della narrativa italiana dell’ottocento. L’assunzione degli umili a protagonisti dimostrò in maniera definitiva che il genere romanzesco poteva configurarsi come il più adatto a soddisfare le esigenze di realismo e di approfondimento storico proprie della cultura Ottocentesca.

 

 

Giacomo Leopardi

 

 

Nasce a Recanati, una cittadina dello Stato Pontificio, geograficamente e ideologicamente lontana dai centri politici e culturali del tempo. A Recanati le idee muove giungevano in ritardo, mutilate e distorte dalla censura pontificia.
Nella famiglia Leopardi, di antica nobiltà ma economicamente decaduta, l’atmosfera era fredda e cerimoniosa. Il padre, conte Monaldo, aveva impiegato molto nella sua biblioteca, comprendente migliaia di libri di ogni genere. La madre, Adelaide Antici, aveva sostituito il marito nella gestione degli affari della casa.
Giacomo viene educato in casa con i fratelli da un precettore ecclesiastico il quale ben presto non ha più nulla da insegnargli. Quindi continua a studiare da solo utilizzando la biblioteca paterna. Sono “sette anni di studio matto e disperatissimo”, come egli stesso li definì, dal 1811 al 1818, che hanno gravi ripercussioni sulla sua salute già malferma. Risalgono a questo periodo le traduzioni dal latino e dal greco, la stesura di imponenti opere di erudizione e i primi componimenti poetici.
Man mano che si allargano gli interesse culturali, cresce anche l’insofferenza per l’ambiente recanatese gretto e meschino. L’amicizia con lo scrittore Pietro Giordani rompe l’isolamento del giovane e gli fa desiderare di uscire da quel mondo ristretto.
Egli va maturando le sue convinzioni politiche, filosofiche e poetiche. Nel 1819 per molti mesi non può leggere e scrivere perché la sua malattia agli occhi si aggrava e questo accentua la sua disperazione e il suo pessimismo.
Constatando l’ignavia e la sua meschinità del mondo, egli guarda con profonda nostalgia al passato, alle età primitive, alla fanciullezza del mondo.
Tra il 1819-21 compone gli idilli: “Alla luna, La sera del dì di festa”, L’infinito, La vita solitaria, Il sogno”. Il piacere della poesia è del resto l’unico antidoto contro la noia e l’insofferenza per il natio borgo selvaggio.
Nel 1822 si allontana da Recanati e giunge a Roma dagli zii materni. Ma è deluso dall’ambiente sociale e dalla vita culturale della città e dopo pochi mesi torna a Recanati.
Se in un primo momento egli aveva visto nella natura una madre benevola che con il velo delle illusioni e con la forza della fantasia aveva tenuto nascosto agli uomini l’”arido vero”, adesso vedeva la natura come un meccanismo freddo e indifferente che delude ogni speranza e condanna gli uomini a una perpetua infelicità che avrà fine solo con la morte.
Nel 1824 il suo pensiero trova chiara e organica sistemazione delle “Operette morali”, dialoghi satirici in prosa nei quali l’autore medita con ironia e partecipazione commossa sulla condizione dell’uomo. Nel 1825 avviene la seconda uscita da Recanati. Si reca a Milano, a Bologna, Firenze, Pisa, dove incontra importanti intellettuali e riceve manifestazioni di stima e di ammirazione. Nel 1828 torna a Recanati e l’atmosfera degli anni giovanili suscita il lui emozioni e ricordi. Compone: “A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830, grazie a una sottoscrizione degli amici toscani che lo sovvenzionano economicamente, Leopardi va a Firenze. Qui si innamora di Fanny Targioni Tozzetti, ma non è corrisposto. Questa passione gli ispira cinque componimenti d’amore, il Ciclo di Aspasia. Rivede Antonio Ranieri che aveva conosciuto qualche anno prima e con lui si trasferisce a Roma, poi a Napoli dove trascorre gli ultimi anni della sua vita. Muore durante un’epidemia di colera.

Le tre conversioni
Questi tre anni sono decisivi non solo perché consolidano e rendono definitiva nel giovane poeta la concezione che la vita è dolore e noia, ma anche perché gli fanno maturare quegli orientamenti di pensiero e di sentimento che lo porteranno a tre specifiche “conversioni”: una di natura letteraria per la quale abbandona gli studi filologici per dedicarsi alla letteratura ed alla poesia; una di natura politica per la quale ripudia le idee conservatrici e reazionarie ed abbraccia le idee patriottiche dei liberali (la cui più nobile testimonianza è nei canti “All'Italia” e “Sopra il monumento di Dante”, entrambe del 1818); la terza di natura filosofico-religiosa per la quale rinnega la primitiva fede religiosa e fa propri l'ateismo e la concezione meccanicistica degli illuministi.
Il Leopardi si determinò quindi ben presto all’idea, divenuta col tempo incrollabile, che la vita è dolore e che, specie per l’uomo, meglio sarebbe il non venir mai al mondo.

Il pessimismo
A questa drastica definizione del “male di vivere”, da cui discende ovviamente il concetto che la felicità non esiste se non nella vana speranza che sempre gli uomini nutrono per il loro avvenire, il Leopardi pervenne attraverso tre fasi che gli studiosi sogliono definire del dolore personale, del dolore storico e del dolore cosmico.
La prima è rappresentata soprattutto dai cosiddetti piccoli idilli (“L'infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”), composti tra il 1819 ed il 1821, e dal famosissimo “Il passero solitario”, che, pur essendo stato composto nel 1829 ed essendo comunemente inserito fra i “grandi idilli”, fu in effetti concepito tra il 1819 ed il 1821 e collocato dal poeta stesso insieme con i piccoli idilli: qui il Leopardi canta il proprio dolore e l'ineluttabilità della propria infelicità .
La seconda fase è rappresentata dalle : Operette morali” del 1824 nelle quali il Leopardi svolge una ironica ma accesa requisitoria contro il Progresso, che invece di favorire l'uomo offrendogli i mezzi di un maggior benessere, lo ha sostanzialmente allontanato dallo stato beato della primitiva ignoranza, durante il quale egli “sentiva senza avvertire” e fantasticava a suo piacimento finché la Ragione non gli svelò il triste vero della sua fatale infelicità; contro la Filosofia, che si affanna a convincere l'uomo di essere una creatura privilegiata mentre invece è la più infelice di tutte proprio perché è in grado di comprendere il suo malessere ed è fortemente desiderosa di piaceri di cui non potrà mai godere; contro la Natura che crea incessantemente nuovi individui per poi distruggerli non senza averli prima tormentati («So bene - così uno sperduto islandese apostrofa la Natura - che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.» e la Natura così risponde: «Tu mostri di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale, sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento»; ma a quest'altra obiezione dell'islandese la Natura non dà - perché non vuole o, forse, non sa dare - alcuna risposta: «Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima, dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?»).
La terza fase, quella del dolore cosmico, già abbozzata nelle Operette, si sviluppa nei grandi idilli
A Silvia”, “Le ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”), composti tra il 1828 ed il 1830: tutte le creature dell'universo soffrono perché coinvolte nel processo di trasformazione che la Natura è costretta ad operare per garantirsi un'esistenza perenne, ma l'uomo soffre maggiormente per tre motivi precisi: perché è dotato di sensibilità per cui avverte scientemente il proprio dolore; perché ha un irrefrenabile desiderio di felicità che non esiste; infine perché solo all'uomo tocca di raggiungere la punta estrema dell'infelicità, che consiste nella “noia” (“taedium vitae”), cioè nell’assenza totale di ogni sensazione sia di bene che di male: il pastore errante dell'Asia dice alla sua “greggia”:

Quando tu siedi
all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?-

 

 

La concezione della Natura.

A questo punto della sua riflessione è chiaro che la Natura, che pure un tempo gli era apparsa benigna, in quanto aveva fornito l'uomo della fantasia e, quindi, della capacità di eludere la conoscenza della triste realtà creandosi miti e illusioni a proprio piacimento (ed era stata colpa dell’uomo e della sua stolta sete di conoscenza se la Ragione aveva poi squarciato il velo che nascondeva la verità), e poi indifferente verso i problemi dell'uomo, destinato anch'esso, come tutte le altre creature, all'incessante processo di “creazione e distruzione” che è indispensabile alla conservazione dell'universo, ora gli appaia matrigna nei confronti dell'uomo nel quale ha instillato il desiderio di felicità, pur sapendolo destinato all'infelicità, ed al quale ha dato un'acuta sensibilità ad avvertire il dolore, pur potendolo creare insensibile.
Questa avversione verso la Natura, questa ostilità ossessivamente sentita nei suoi confronti, egli ribadì anche nel suo estremo messaggio agli uomini, nel suo testamento morale, cioè ne “
La ginestra”, in cui esorta gli uomini ad accettare virilmente il proprio stato di infelicità e ad unirsi per contrastare fieramente la comune nemica, benché la lotta sia impari e la vittoria impossibile:

Nobile natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli oddi e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aìta
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.


Filosofia - Religione – Morale.
Naturalmente una così ostinata avversione contro la Natura e, praticamente, contro la vita dell'universo non reggerebbe se non inquadrata in una visione di radicale ateismo. Lo stesso Leopardi, in un'epoca in cui forse era ancora in qualche modo credente (1818?), aveva avvertito: «Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza una vita futura».
Ed ancora qualche tempo dopo, quando aveva già rinnegata la fede cattolica ed aveva abbracciato l'ateismo illuministico, egli ribadiva la necessità di un credo religioso, se non altro per motivi morali: «La filosofia indipendente dalla religione - scrive in una notazione dello “Zibaldone” datata 16 giugno 1920 -, in sostanza non è altro che la dottrina della scelleraggine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente, e come l'hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente. Perché tutto il bello e il buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù, la giustizia, la magnanimità ecc. essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie, quella scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura aveva nascosto sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo le rivelate, per necessità viene a concludere che il vero partito in questo mondo, è l'essere un perfetto egoista e il fare sempre quello che ci torna in maggior comodo e piacere». Ma, nonostante queste premesse, egli rinnegò ogni valore positivo prima attribuito alle religioni, in quanto queste promettono una felicità ultraterrena, mentre l'umanità aspira ad una felicità terrena, “da essere sperimentata dai sensi e da questo nostro animo tal quale egli è presentemente”. Il cristianesimo in particolare gli pare “più atto ad atterrire che a consolare o a rallegrare”.
La condizione dell’uomo si profila, così, disperata e dovrebbe logicamente convincere che il miglior partito sarebbe proprio il suicidio.
D’altra parte, una tentazione del genere il Leopardi la aveva avuta realmente da giovane. Sul piano della pura razionalità, il Leopardi accetta codesta conclusione, ma la respinge energicamente con la forza del sentimento. Infatti, nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio”, che è del 1827, il Leopardi non può non convenire sulla giustezza delle argomentazioni di Porfirio in favore del suicidio, ma finisce con l’accettare le ragioni del sentimento enunciate da Plotino.

Le illusioni.
In effetti il Leopardi amava la vita e questo suo amore noi non dobbiamo mai trascurare di considerare se veramente ci preme di penetrare nella sua poesia e se vogliamo spiegarci quei quadretti di vita così luminosi e gioiosamente rivestiti dei più splendidi colori a dispetto dell'amara conclusione che la vita è male. Tutto questo verificheremo a proposito dei “Canti”. Per ora ci basti ricordare che anche il Leopardi, come già il Foscolo, suggerisce di crearsi delle “illusioni”, cari compagni dell'esistenza, non tanto per dare un senso e un valore alla vita, ma per trarne conforto nell'affrontare i mali che essa ci presenta. Purtroppo al Leopardi le illusioni non furono di alcun sollievo perché tutte le distrusse sotto i colpi della fiera ragione, ma nondimeno nessun altro poeta le dipinse così affascinanti e lusingatrici come seppe dipingerle lui.
La poetica.
Occupiamoci ora della “poetica” del Leopardi.
I primi scritti teorici sulla poesia risalgono agli anni 1816-18, all'epoca, cioè, in cui più accesa era la polemica fra i neoclassici ed i romantici. Si tratta di una “Lettera ai sigg. Compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la baronessa Di Stäel Holstein ai medesimi”, che non fu mai pubblicata né dalla rivista milanese, cui era stata indirizzata, né dal Leopardi; e del poderoso “
Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica”, composto nel 1818 ed affidato all’editore milanese Stella perché lo pubblicasse o sulla rivista “
Spettatore” o in opuscolo a parte, ma che non fu mai pubblicato vivente l’Autore.
Entrambi gli scritti furono pubblicati postumi nel 1906. Più significative indicazioni sono però contenute in varie pagine dello “Zibaldone”, in cui la poetica del Leopardi si va sempre più delineando in termini romantici, laddove nei primi scritti appare dichiaratamente, sia pure con qualche “distinguo”, favorevole ai classicisti. D’altra parte l’iniziale formazione letteraria del Poeta, così profondamente legata agli studi di filologia classica, non poteva sortire effetti diversi.
Nella “Lettera” il Leopardi si dichiara esplicitamente d’accordo con la tesi del Giordani, secondo la quale la perfezione raggiunta dagli autori classici antichi nell’arte è da considerare definitiva e incapace di ulteriore progresso: “
Se gli scienziati italiani s'istruiscono con diligenza dello stato delle scienze loro presso gli stranieri, questo è perché le scienze possono fare e fanno progressi tutto giorno, dove che la letteratura non può farne, cosa che l’Italiano [il Giordani] autore della lettera a voi indirizzata ha dopo infiniti altri dimostrato egregiamente, e a cui non so per qual ragione la illustre Dama abbia fatto vista di non badare”. Ma il Leopardi condivide l’accusa della De Stäel, secondo cui gli Italiani, allo stato presente, non sanno far altro che imitare stupidamente gli antichi, anche se nega risolutamente che il rimedio potrebbe trovarsi nel conoscere meglio le lettere europee moderne: “
Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori e disaminamento di gusti stranieri. O noi sentiamo l'ardore di quella divina scintilla, e la forza di quel vivissimo impulso, o non lo sentiamo. Se sì, un soverchio studio delle letterature straniere non può servire ad altro che a impedirci di pensare, e di creare di per noi stessi; se no, tutti gli scrittori del mondo non ci faranno poeti in dispetto della natura... noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli antichi... perché essi quando volevano descrivere il cielo, il mare, le campagne, si metteano ad osservarle, e noi pigliamo in mano un poeta, e quando voleano ritrarre una passione s'immaginavano di sentirla, e noi ci facciamo a leggere una tragedia, e quando volevano parlare dell’universo vi pensavano sopra, e noi pensiamo sopra il modo in che essi ne hanno parlato... Ebbene date dunque agl'italiani altri modelli, fate che leggano gli autori stranieri: questo è mezzo certo per aver novità e cacciare in bando il rancidume. Vanissimo consiglio! Apriamo tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne' nostri campi tutte le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i poetuzzi Italiani correranno in frotta a berne, e a disguazzarvi, e se n'empieranno sino alla gola... si aumenterà del doppio il vocabolario delle nostre frasi e delle nostre idee; e dopo dieci anni tutte le frasi e tutte le idee aggiunte diverranno viete e comuni; e noi torneremo là onde eravamo partiti, o più veramente ci inoltreremo buon tratto verso il pessimo”.
Il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, che doveva inizialmente essere una lettera aperta di risposta alle argomentazioni del Cavaliere Lodovico Di Breme sulla poesia moderna pubblicate sullo “Spettatore italiano” e che invece si ampliò in un’opera organica, svolge una serrata critica ai risultati ottenuti dai poeti romantici. Basta dare una scorsa ai titoli di alcuni capitoli che compongono il Discorso per rilevare la durezza con cui il Leopardi tratta i poeti romantici: “
L'ufficio del poeta è imitar la natura. I romantici al contrario cantano l'incivilimento"; "La corruzione dei gusti fa sì che la poesia romantica diletti un infinito numero di persone”; “La seconda cagione di questo diletto è la rozzezza di molti cuori e di molte fantasie”; “
La terza cagione è la novità della poesia romantica, laddove l'assuefazione ha fiaccato il diletto della poesia classica”; “I romantici cercano, per commuovere i lettori, le più strane cose che si possano immaginare e gli eccessi di qualsivoglia genere; e ne fanno materia di poesia”; “
La psicologia, caos di sofisticherie e di frenesie, è una delle principalissime singolarità usate dai romantici”; “I romantici, con la loro impudica ostentazione della sensibilità, hanno fatta la poesia di celeste e divina vergine verissima baldracca”.
Nel “Discorso” tuttavia sono già fissati alcuni concetti fondamentali della originale poetica leopardiana, che sostanzialmente si avvicinerà sempre di più all’essenza della poetica romantica. E' già chiaro, ad esempio, l’orientamento a distinguere fra “poesia di immaginazione” e “poesia di sentimento” secondo come era stato teorizzato dallo Schlegel, dalla Stäel e, in Italia, dal Sismondi; c'è l’affermazione che la vera poesia è quella di “immaginazione”, tipica degli antichi, ingenua e istintiva, e non già quella del “sentimento”, propria delle età civili, dei moderni (“non cercheremo la natura e le illusioni di un tempo dove tutto è civiltà e ragione e scienza, e dove è scemato e scema l'uso dell'immaginazione”); c'è ancora l'affermazione che la condizione psicologica degli antichi è simile a quella dei fanciulli dell’età civile (“
quello che furono gli antichi siamo stati noi tutti, dico fanciulli e partecipi di quell'ignoranza che infiamma la fantasia”) e che pertanto agli uomini moderni non resta che ispirarsi ai ricordi dell'infanzia se vogliono fare una poesia che si avvicini, per quanto possibile, a quella veramente autentica degli antichi (“io senza fallo... mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui”).
Successivamente il Leopardi tornerà spesso su questi concetti e li approfondirà in varie annotazioni dello “Zibaldone”, come in questa (datata Recanati 14 dicembre 1928) in cui ricorre il tema della “rimembranza”: “
Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago”.
A questo punto ci sembra opportuno tracciare una sintesi, più o meno schematica, della poetica del Leopardi, per scrupolo di chiarezza.
Il Leopardi distingue, dunque, la poesia in “poesia d'immaginazione” e “poesia di sentimento”: la prima nasce dalle sensazioni primordiali dell’umanità ed è espressa con immagini di pura fantasia; la seconda nasce da stati d'animo più complessi e sofisticati ed è espressa in forme elaborate ed artificiose: la prima è tipica delle età antiche, irrazionali, “ignoranti”; la seconda delle età civili, in cui la ragione ha prevalso sulla fantasia ed il tragico vero ha inibito le illusioni.
Da ciò discende che la vera poesia è ormai preclusa all'uomo moderno, il quale, però, pur dispone di una risorsa per far poesia all’uso antico: egli può scavare nella memoria le impressioni, le emozioni che la natura suscitò in lui quand'era fanciullo, e riviverle e rappresentarle con immediatezza con il loro stesso linguaggio, cioè con un linguaggio pressoché infantile, suggestivo nella sua indeterminatezza, libero il più possibile da ogni ingerenza culturale. Da ciò discende ancora che l’unico “genere” poetico che l’uomo moderno può e deve usare è quello “lirico”, dato che quelli “epico” e “drammatico” impegnano eccessivamente la ragione e la cultura del poeta.
Interessante è, a questo riguardo, ricordare la teoria leopardiana sulle lingue: le lingue nascono tutte poetiche, cioè tali da rispondere alle esigenze fantastiche degli uomini primitivi; man mano che l’uso della ragione ha consentito all’uomo di avviare il cammino del cosiddetto progresso e lo ha reso sempre più consapevole dei fenomeni naturali, le lingue si son dovute adattare alle nuove esigenze di natura scientifica e sono perciò divenute sempre più razionali, precise, oggettive, fredde, impoetiche. Le lingue poetiche erano quelle degli antichi, mentre le lingue moderne sono scientifiche e razionali, inadatte alla poesia. Fra queste ultime si salva in qualche modo quella italiana, perché l’Italia è indietro agli altri paesi europei in fatto di progresso scientifico. Tuttavia, anche nell’uso della lingua il poeta moderno ha qualche risorsa da spendere e questa consiste nell’usare un linguaggio fanciullesco, istintivo, che adoperi i vocaboli non nel loro reale significato, ma nel significato che avevano nell’infanzia dell’autore, e adoperi anche vocaboli arcaici, propri dell’età fanciullesca della nazione, ormai in disuso e perciò capaci di mille sensazioni, di mille evocazioni, capaci di creare un’atmosfera di lontananza ricca di mille suggestioni.
I grandi idilli.
Sempre a Pisa, nello stesso anno 1828, il Poeta scriverà una delle sue poesie più belle, “A Silvia”, il primo dei “Grandi Idilli”, cui seguirono, tra il 1829 ed il 1830, gli altri cinque composti a Recanati, dove era stato costretto a ritirarsi per il ricomparire dei suoi soliti malanni fisici.
Questi canti, scritti “in sedici mesi di notte orribile”, costituiscono il capolavoro del Leopardi.
E' bene precisare subito che nei grandi idilli il Leopardi confonde il suo dolore con quello universale, che “canta” ispirandosi ai cari ricordi della fanciullezza: la rimembranza antica avvolge d’un velo di pudore il pianto del cuore e consente al Poeta un sentimento di tenerezza che lo tiene lontano sia dall'invettiva consueta contro il destino e, più ancora, contro la Natura, sia dal bisogno di usare le “tinte fosche” che meglio converrebbero alla sua ispirazione. Più che cantare gli effetti brutali del dolore che sommerge impietosamente tutto ciò che esiste, egli canta tutto ciò che di bello, di verginale, di consolante si trova purtroppo solamente nei sogni dell’infanzia e non mai nella realtà: quei sogni, quelle illusioni, quegli “ameni inganni” non possono rivivere che in versi sognanti, in versi accarezzati dalle dolci note di una musica lontana, che erano liete ed ora si caricano via via di una tenera malinconia: non trovano posto la disperazione e la rabbia; ed anche quando il Poeta non può fare a meno di riconoscere ed affermare per l'ennesima volta che “è funesto a chi nasce il dì natale”, il tono della voce è pacato, il cuore sembra non aver dimenticato l’immagine sognata della Primavera che ride a un suo segreto amante, gli occhi sono asciutti di pianto, forse perché non hanno più lacrime da versare, ma forse anche perché il Poeta non ha cuore di intristire il ricordo della sua fanciullezza (come appunto si fa dagli adulti che nascondono le proprie pene ai fanciulli).
Il primo dei grandi idilli fu, come già detto, “A Silvia”, composto a Pisa nel 1828. Anche questo canto, come già “Il sogno”, rievoca la tenera immagine di Teresa Fattorini, morta giovanissima (all'età di 21 anni, ma il Poeta anticipa la morte ancor prima del “limitar di gioventù”, in quanto la fanciulla qui è assunta come simbolo della caduta d’ogni sua antica speranza).
In “A Silvia” il Leopardi rievoca gli anni della sua prima adolescenza, quando sovente si affacciava alla finestra rapito dal canto della fanciulla, che sognava un lieto avvenire. Ma la sorte le fu avversa e stroncò violentemente ogni cara illusione:

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.

Ecco come è descritta la morte prematura della fanciulla: solo due parole vestite a lutto: “morbo” e “perivi”; tutte le altre vestite a festa: a cominciare da quel “tenerella” - che vien subito dopo “perivi”- che non sembra affatto riferita ad una fanciulla sul letto di morte, ma piuttosto ad una bambinella che ti gironzola intorno timidamente allegra; e poi: “il fior degli anni”, “molceva”, “dolce lode”, “negre chiome”, “sguardi innamorati”, “dì festivi”, “amore” ! Tornano alla mente le parole del De Sanctis: “chiama illusioni l'amore..., e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. E si noti con quanto affetto e - diremmo quasi - riconoscenza il Poeta si rivolge alla Speranza, che lo ha abbandonato dopo averlo illuso ma anche allietato negli anni dell'adolescenza:

 

Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!

 

Quasi certamente l’anno dopo, nel 1829, dopo il ritorno a Recanati, il Leopardi compose quel canto che aveva in mente da circa dieci anni e che volle inserire tra i piccoli idilli: “Il passero solitario”. E' infatti l'unico di questo ciclo che si ispiri al “dolore personale”. Ma lo stile è quello adulto del Leopardi maggiore.
La canzone, a schema libero, si divide in tre strofe: la prima descrive il modo di vivere del passero solitario, che non si cal d’allegria, schiva gli spassi, canta e così trascorre il più bel fiore dell’anno e della sua vita; la seconda strofa descrive la vita giornaliera del Poeta, assai simile a quella del passero solitario, perché anch’egli non cura sollazzo, riso e amore ed anzi da loro quasi fugge lontano, rinviando ogni diletto in altro tempo, nonostante il tacito ammonimento del sole che, dileguandosi tra lontani monti dopo il giorno sereno, “par che dica che la beata gioventù vien meno”; nella terza strofa c’è l’amara conclusione che si ricava dal raffronto delle due vite:

Tu, solingo augellin. venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.

Questo canto è singolarissimo nella produzione leopardiana: concepito in età di circa ventun anni, già a quell’epoca si ispirava ad una situazione psicologica più antica ed era perciò scevro di ogni urgenza passionale e conseguentemente di ogni tinta drammatica. Rievocato poi in età di trentun anni, lasciò intatta la sua primitiva freschezza, quasi per nulla risentendo del travaglio intellettuale intercorso nel frattempo nell’Autore delle “Operette Morali”. Il quale, con la sua sensibilità di grande poeta, ben comprese che il posto da assegnare a questo canto nella raccolta era tra i primi idilli. E qui l’avremmo lasciato volentieri anche noi, se avessimo saputo rinunziare per una volta allo scrupolo didattico, se cioè non ci fossimo posti il dubbio che il giovane lettore avrebbe potuto non comprendere le ragioni più intime del salto di qualità dello stile conseguito dal Poeta.
Nello stesso anno 1829, sempre a Recanati, il Leopardi sentì il bisogno di affidare ai versi de “Le Ricordanze” le proprie emozioni a contatto delle cose a lui più care che, lasciate un tempo, quando aveva voluto fuggire dal “borgo selvaggio”, ritrovava ora intatte e così ricche di ricordi, ancora avvolte in quelle “fole” che la sua fantasia fanciulla -“improvida d’un avvenire mal fido”, direbbe il Manzoni- aveva saputo ricamare su di esse. Ora, però, quei cari ricordi, rievocati con tanta nostalgia, non valgono tuttavia ad attenuare il dolore della presente condizione, di una vita che si consuma nel segno dell’abbandono, senza amore, travolgendo inesorabilmente “ il caro tempo giovanil; più caro / che la fama e l'allor, più che la pura / luce del giorno, e lo spirar” e per di più in un “soggiorno disumano”. Dal contrasto doloroso fra gli “ameni inganni” d'un tempo e l’infelicità del momento nasce il fulcro di questo canto:

 

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d'affetti e di pensieri,
obliarvi non so.
............................................................
...Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
consolarmi non so del mio destino.

Ma il Poeta sa bene che la sventura non è soltanto sua:

...E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

Anzi la vita tutta è niente altro che “inutile miseria”:

...Fantasmi, intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio: non ha la vita un frutto,
inutile miseria.

L’ultima strofa rievoca un personaggio femminile, Nerina, morta in giovane età e perciò assunta dal Leopardi come simbolo della giovinezza infranta, del fatale crollo d’ogni speranza all’apparir del vero, dell’inconsistenza delle illusioni umane. Si è a lungo discusso se Nerina fosse solamente un simbolo od anche il ricordo di una fanciulla realmente esistita ed amata dal Poeta. La concretezza di molti riferimenti che il Leopardi fa alla vita vissuta da Nerina fa propendere per la seconda ipotesi. In tal caso, però, risulta difficile risalire all’individuazione della donna cui si riferirebbe il Poeta: gli studiosi sono divisi fra la Teresa Fattorini del canto “A Silvia” ed una certa Maria Belardinelli che sei anni prima di morire andò a vivere con la famiglia a Recanati ed abitò nei pressi della casa Leopardi (morì il 3 novembre 1827, in età di 27 anni). E' chiaro che, in mancanza di una qualche indicazione dello stesso Autore, non si possa andare al di là di semplici congetture, ma è ancora più chiaro che poco interessi alla comprensione del canto conoscere la verità: Nerina è Nerina come Silvia è Silvia: due momenti della “storia dell’anima” leopardiana, due fantasmi evocati dal sepolcro dei sogni infranti:

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita.

Riferimenti concreti che fanno pensare ad una creatura reale. Ma Nerina è soprattutto il simbolo della rapidità con cui passano i sogni, della nostalgica ricordanza che ne avanza e su cui mesto riluce delle stelle il raggio. Sembra quasi che nel Leopardi la Natura, una volta tanto, appaia pietosa della condizione umana (come i foscoliani “rai di che son pie le stelle alle obliate sepolture”), ma non è così perché anche qui è lo stato soggettivo del Poeta a sentir mesto il raggio delle stelle, come già prima gli era apparso “nebuloso e tremulo” il volto della luna.
Un esame approfondito e dettagliato di questo brano (che lasciamo alla sensibilità ed alla intelligenza del giovane lettore) consentirà un contatto più diretto con gli "ameni inganni” che allietarono la fanciullezza e l'adolescenza del Leopardi ed una presa di coscienza dell' "animo” con cui il Poeta li rievocò da adulto, dopo avere scoperto il vero volto della realtà ed avere sperimentato sulla propria persona "il male di vivere”.
In soli quattro giorni (17-20 settembre 1829) il Leopardi compose "La quiete dopo la tempesta”, che consta di tre strofe di diversa lunghezza: nella prima il Poeta descrive la gioia festosa che sopraggiunge negli uomini quando, passata la tempesta, ricompare il sereno: "Ogni cor si rallegra, in ogni lato / risorge il romorio, / torna il lavoro usato”; nella seconda medita sulla consistenza di questo piacere che non esiste in positivo, ma è soltanto "figlio d'affanno”, "gioia vana”, "frutto del passato timore”; nella terza, infine, ringrazia sarcasticamente la Natura per i doni che porge ai mortali:

O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge; e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor; beata
se te d'ogni dolor morte risana.

Pochi giorni dopo il Poeta compose “Il sabato del villaggio”, che è tra gli idilli più suggestivi per la grazia e la soavità con cui viene descritta l’attesa della festa in un semplice villaggio. Una serie di quadretti luminosi e riposanti e solo sullo sfondo il colore della malinconia che tarda a mettersi in evidenza: la donzelletta che viene dalla campagna recando un mazzo di fiori che serviranno ad incorniciare la sua fresca bellezza il dì di festa; la vecchierella che siede di fronte al sole cadente (simbolo anche del suo imminente tramonto) e si lascia per un po' trasportare in questa atmosfera di spensieratezza, riandando sull'onda dei ricordi al tempo della sua giovinezza, quando ancora sana e snella, festeggiava con la danza i suoi anni migliori; i fanciulli che gridano festosi nella piazza; lo zappatore che torna a casa fischiettando, mentre il falegname si affretta a completare il lavoro per rendersi libero la domenica. Tutto questo per nulla adombrato dallo sfondo che, però, alla fine emerge e si impone all'attenzione dell'osservatore:

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Morale: la felicità non esiste in atto; esiste solo nella speranza d’un futuro migliore (che poi si svelerà come un inganno) o nella rimembranza del tempo passato (ricordando cioè gli anni della speranza senza tener conto della realtà che ne seguì). Ecco perché il sabato è il miglior giorno della settimana e non già la domenica, che non appaga le attese della vigilia; e la fanciullezza è la migliore stagione della vita umana, perché precorre alla festa della vita, che è l’età virile, che poi sarà inevitabilmente piena di affanni e di pene. Il canto termina con un'esortazione ai fanciulli di godersi la loro età felice e di non crucciarsi se la maturità tardi a venire:

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

L'ultimo dei grandi idilli è il “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, il capolavoro dei capolavori, secondo il nostro giudizio. L'idea di questo canto venne al Poeta da un articolo del barone Meyendorff comparso nel settembre del 1826 sul “Journal des Savants”, in cui si diceva dell'esistenza di pastori nomadi asiatici che usavano trascorrere la notte, seduti su di una pietra, a contemplare la luna ed a sfogare le proprie tristezze.
Il Poeta presta i propri pensieri ed i propri sentimenti alla semplice ed ingenua voce del pastore e fa interrogare la luna sul mistero della vita. La vita della luna è simile a quella del pastore: sorge la sera e va contemplando i deserti fino al suo tramonto, proprio come il pastore che “sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe”, finché a sera, stanco, si riposa. L'unica differenza è che il corso della luna è immortale, la vita del pastore breve.
Ma qual è il fine di entrambi? La vita dell'uomo è paragonabile ad un vecchio che trascina a fatica le sue infermità e le sue miserie “per sassi acuti, ed alta rena, e fratte”, finché giunge al termine del suo corso: un precipizio che lo annienta nel nulla. Infatti già il nascere, per l’uomo, è causa di tormento e rischio di morte. Poi, fin da fanciullo, i genitori debbono consolarlo dell'esser nato. Ma, “se la vita è sventura, perché da noi si dura?” Forse la luna sa il perché della vita, a chi sorrida la primavera, a chi giovi l’estate, e mille altre cose che son celate al semplice pastore. il quale, però, sa una cosa di certo: che la sua vita può forse giovare ad altri, ma a lui è male. Ed anche quando riposa senza alcun patimento, un peso occulto gl’ingombra il cuore: la noia; a differenza del gregge che invece sembra beato quando non è afflitto da alcun dolore presente. Il pastore conclude il suo lamento immaginando che forse, se avesse le ali per volare in cielo e contare le stelle ad una ad una, sarebbe più felice. Ma il cuore gli nega di appigliarsi a questa candida illusione:

O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

E' questo il canto supremo del dolore cosmico e della noia. Osserva lo Zumbini: «Nel nostro pastore le formidabili interrogazioni sul mistero della vita e del mondo sono precedute e accompagnate dalla più ingenua maniera di guardare l'una e l'altro; in ciò il maggior effetto del canto, da ciò un'altra forma, pur nuova fra le mille adoperate dal poeta medesimo, a significare il suo pensiero supremo».

L'ultimo Leopardi .
Siamo così giunti agli ultimi canti, all' “ultimo Leopardi”. “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale dove una giovane donna è rappresentata in atto di partire accommiatandosi dai suoi” rivolge alla Natura un'altra accusa: quella di non aver voluto rendere lieta almeno la morte! Infatti, se la vita è sventura, la morte, che ce ne sottrae, dovrebbe essere bene accetta. Eppure chi mai potrebbe

Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
per dover egli scemo
rimaner di se stesso,
veder d'in su la soglia levar via
la diletta persona
con chi passato avrà molt'anni insieme,
e dire a quella addio senz'altra speme
di riscontrarla ancora
per la mondana via;
poi solitario abbandonato in terra,
guardando attorno, all'ore ai lochi usati
rimemorar la scorsa compagnia?

“Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” è un canto doloroso quanto il precedente, anch’esso rivolto contro la Natura che distrugge in un attimo, con la morte, una stupenda bellezza che tanto conforto e gioia ha dato ai mortali:

Tal fosti: or qui sotterra
polve e scheletro sei...
....................................
...or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
quale splendor vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d'aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
divien quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto, si dilegua.

“Palinodia al marchese Gino Capponi” è un lungo canto (di ben 279 versi) in forma di epistola, nel quale il Leopardi polemizza ironicamente col nuovo movimento di pensiero scientifico, economico e politico che preannunciava gloriosamente ed enfaticamente una nuova era di progresso, di pace, di libertà: insomma di felicità per l’uomo. Il Leopardi, fingendo, di ritrattare le sue idee sul dolore universale e sulla sua ineluttabilità per accettare le nuove speranze propagandate dai nuovi intellettuali, in effetti ribadisce il suo pessimismo e soprattutto il suo giudizio negativo sul progresso: felici potranno mai essere gli uomini fra mille nuove comodità, se fra loro continueranno a regnare gli odi, le guerre, le invidie, le frodi; se la Natura continuerà a distruggere tutto quello che crea come un fanciullo che atterra il castello or ora costruito "perché gli stessi a lui fuscelli e fogli / per novo lavorio son di mestieri"? Ed ecco con quanto sarcasmo il Poeta apostrofa i filosofi del suo tempo:

Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
dell'età ch'or si volge! E che sicuro
filosofar, che sapienza, o Gino,
in più sublimi ancora e più riposti
subbietti insegna ai secoli futuri
il mio secolo e tuo! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e che domani abbatterà, per girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!

Nel 1836, non lontano dalla morte, il Leopardi compose “La ginestra o il fiore del deserto”, che è come un messaggio d’amore e di pietà per il genere umano, un testamento morale in cui il sentimento fa un estremo tentativo per sovrastare la ragione a dispetto della verità che proclama. I nuovi filosofi vanno blaterando la superiorità dell’uomo sulla natura, le grandi risorse che egli ha per farsi artefice del proprio destino: vengano allora alle falde del Vesuvio per meditare sulla realtà del rapporto uomo-natura vedendo ancor oggi i resti delle antiche città di Pompei e di Ercolano distrutte in pochi minuti dalla violenza della Natura. Che differenza c’è fra un popolo di formiche annientato dalla caduta di un pomo e la gente di Pompei ed Ercolano sommersa da una sola improvvisa eruzione del Vesuvio? La verità è che la Natura è possente e non si cura degli uomini più che delle formiche! E' stupida la vanità dell’uomo che vuol porsi a dominatore dell’universo e si crea divinità amiche pronte ad intervenire in suo favore. Molto più saggio colui che virilmente riconosce lo stato della propria miseria, l'infelicità universale e non se la prende col compagno di sventura, con l’uomo, ma con la vera responsabile che è la Natura. Solo quando l’umanità saprà fare a meno delle religioni e delle false promesse di una felicità ultraterrena e riconoscerà che la vita è dolore e nulla si può fare per modificarla, solo allora sarà possibile l’avvento di una nuova ed autentica moralità che unirà gli uomini in un vincolo di solidarietà contro la comune nemica, la Natura.
Se “La ginestra” rappresenta il testamento morale del Leopardi, “Il tramonto della Luna” ne rappresenta l’addio al mondo. E' l’estremo saluto che il Poeta rivolge a questa valle di lacrime: gli ultimi versi li dettò, poche ore prima di morire, ad Antonio Ranieri. Il Leopardi paragona le tenebre notturne, che avvolgono ed annullano le cose dopo il tramonto della luna, all’infelicità che avvolge la vita degli uomini dopo che è trascorsa la giovinezza. Però se le cose dopo poche ore di oscurità tornano ad essere illuminate dalla più vivida luce del sole, nessuna speranza di rifiorire resta all’età dell’uomo dopo il tramonto della sua primavera:

 

Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla quale poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l'altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.

Con la parola “sepoltura” il Leopardi mise fine alla sua esistenza di uomo infelice e di poeta.
A completare la raccolta dei “Canti”, il Leopardi volle includere, nell'edizione napoletana del 1835, alcuni brevi componimenti (traduzioni o rifacimenti), e precisamente: “Imitazione” (1818), “Scherzo” (1828), “Dal greco di Simonide” (1823 o 1824) “Dello stesso” (1823 o 1824).

Giosuè Carducci.

 

 

Nato in Versilia, a Valdicastello, frazione di Pietrasanta (Lucca), il 27 luglio del 1835 da Michele, che esercitava la professione di medico, e Ildegonda Celli, figlia di un orafo fiorentino.



Trascorse nella cittadina lucchese soli i primissimi anni della sua infanzia, finche nel 1838 fu costretto a seguire il padre prima a Castagneto poi a Laiatico. Ma Michele con il ritorno del granduca di Toscana, Leopoldo II(1849), nella provincia, si sentiva isolato per le sue idee mazziniane e quindi si trasferì a Firenze. E Qui Giosuè compì i primi studi presso le scuole dei padri Scolopi di San Giovannino fino al 1852. Tra tutti gli insegnanti fu attratto particolarmente dal fisico Eugenio Barsanti e dal insegnante di retorica Geremia Barsotti che gli trasmise l'amore per Orazio e Fantoni.
Ma già in precedenza egli aveva goduto dei benefici della biblioteca paterna nella fattispecie dei classici(Omero, Virgilio, Ovidio, oltre al poeta di Venosa) e Alfieri, Leopardi, Foscolo ma non disdegnando Giovanni Berchet, mostrava avversione per il Manzoni. Nello stesso anno nacque «l'Accademia dei Filomusi» di cui cofondatori furono Nencioni e Gargani.

 

É il caro padre Barsotti a consigliargli un concorso per un posto gratuito di convittore presso la Regia Scuola Normale di Pisa(1853)che poi vinse. Il tipo di insegnamento antiquato, lo colpisce in senso negativo ma nonostante ciò si laurea in filosofia e filologia con una tesi sul poema cavalleresco, nel 1855 a soli vent'anni! É dell'anno seguente, il primo incarico operativo, è professore di retorica presso una scuola di San Miniato al Tedesco(Pisa). Proprio in questo ambiente nacque il gruppo degli «Amici Pedanti» che vide tra le sue fila i già citati Nencioni e Gargani ma anche il Chiarini e che rivendicava la virtus e vis classica contro i sentimentalismi della seconda generazione romantica.

 

 

Sono anni travagliati e dolorosi quelli che seguono. Pubblicò presso il Ristori di San Miniato le Rime. Il 4 novembre del 1857 il fratello Dante si suicida, si dice, dopo un violento litigio col padre e il 15 agosto muore suo padre Michele per malattia improvvisa. La sua condotta si fa alquanto sospetta, tanto che deve cambiare ambiente e pur avendo vinto nel 1857 la cattedra di greco al Ginnasio di Arezzo, le sue idee repubblicano-giacobine e l'ateismo, dissuasero le autorità toscane a non assegnargliela. Allora visse dai proventi di lezioni private e dalle «cento lire toscane per tomo» che gli derivavano dalla direzione della collana «Diamante» presso l'editore Barbèra. Dopo tanto patire, un evento felice rasserena l'animo rinfrancandolo, infatti il 7 marzo del 1859 si sposa con la cugina Elvira Menicucci, il loro amore era sbocciato molti anni prima.


Adesso si apre una nuova stagione nella vita di Giosuè, è nominato professore di latino e greco nel liceo di Pistoia. Ma è nel 1860 che compie il salto di qualità ed è nominato dal Ministro della Pubblica Istruzione, Terenzio Mamiami, professore di eloquenza (poi letteratura italiana) all'Università di Bologna, aveva compiuto appena venticinque anni!!!
Egli respira l'aria pura dello studio bolognese e legge oltre a Mazzini, scrittori e poeti come Hugo, Goethe, Von Platen, Shelly, Tierry, Bèrenger, Barbier, Quinet, Michelet, Teine, Blanc. Nel 1863 pubblica le Stanze, l'Orfeo, le Rime di Angelo Ambrogini (al secolo Poliziano) e due anni dopo pubblica l'inno A Satana che suscitò un vespaio di polemiche. L'inno forgiato dall'innato anticlericalismo carducciano, contrapponeva la cultura illumunistica, della rivoluzione, del progresso scientifico al Sillabo di Pio XI.

 

Il nuovo Ministro della Pubblica Istruzione Broglio (di ispirazione manzoniana) lo trasferisce d'ufficio, all'Università di Napoli, siamo nel 1868, ma egli non si piega al provvedimento che sa tanto di epurazione ideologica. Ha scagliato e continua a scagliare infatti, numerosi strali contro la mediocrità della classe politica italiana che non aveva saputo conseguire un unità completa e che aveva inibito ed emarginato, nella persona del re, Giuseppe Garibaldi.

 

Tuona in opere come Sicilia e rivoluzione, Dopo Aspromonte, Per il quinto anniversario della battaglia di Mentana. Ma la raccolta che incarna la denuncia, l'attacco è proprio Giambi ed Epodi(1867-69).Pubblica a Pistoia nel 1868 la raccolta Levia gravia e ripubblica un anno dopo l'Inno a Satana approfittando della concomitanza col Concilio Ecumenico.Le sue idee avverse alla politica governativa gli valsero la sospensione dell'attività e dello stipendio per tre mesi.Il '70 si apre e si conclude con avvenimenti funesti che lo colpiscono nell'intimo. Infatti gli muore la madre (3 febbraio) e il figlioletto Dante (9 novembre) di travaso celebrale. Da questo avvenimento luttuoso, nasce la struggente «elegia» Pianto antico. Ma chiusa questa infelice parentesi si apre per Giosuè una stagione di amori e di muse ispiratrici: l'affascinate Carolina Cristofori Piva è la Lina delle Primavere elleniche o la Lidia in altri passi, Adele Bergamini, Dafne Gargiolli è Lalage e la indimenticata Annie Vivanti.

 

Nel 1871 escono presso l'editore Barbèra di Firenze, le Poesie, raccolta che comprende Decennali, Levia graviae Juvenilia e due anni dopo è la volta di Nuove poesie(confluite nelle Rime nuove)presso il Galeati di Imola. Ma la sua attività si esplica anche in campo saggistico e filologico nell'opera Studi letterari e poi nel 1876 in Bozzetti critici e discorsi letterari. E dal 1875 si lega a Zanichelli per cui curerà molte edizioni delle sue opere. Nel 1877 ammira le vestigia dell'Urbe in compagnia di Lalage e nello stesso periodo presso lo Zanichelli esce la prima edizione delle Odi barbare, ma l'instancabile viaggiatore fa visita a Venezia e Trieste.Le sue posizioni radicali si ammorbidiscono e passa da un repubblicanesimo acceso alla monarchia.Tant'è vero che già nel 1878 colpito dal fascino della regina Margherita, moglie di Umberto I, le dedica l'ode Alla Regina d'Italia

 

Nel 1880 escono presso lo Zanichelli, Juvenilia e quelli che seguono sono anni di intensa collaborazione anche con riviste letterarie come «Cronaca bizantina» di Sommaruga a Roma, presso cui usciranno «Confessioni e battaglie»Il Fanfulla della domenica», «La Domenica letteraria» e «La Domenica del Fracassa». Segue una edizione delle Nuove odi barbare presso lo Zanichelli(1882). L'ultimo anelito giacobino-repubblicano è rappresentato dalla raccolta di sonetti Ça ira, rievocazione della rivoluzione francese presso il Sommaruga(1883). Guai fisici lo debilitano infatti ha una paresi al braccio destro ma nonostante ciò, continua la sua fervente attività. Scrive un saggio in onore del Prati e sul Parini principiante, nel 1886 è nominato Accademico della Crusca. Nel 1887 tiene una prolusione su Dante all'università di Roma ed è sempre lui, un anno dopo, a celebrare l'ottocentenario dell'università di Bologna. Avvia presso lo Zanichelli la edizione completa delle sue opere(1889-1905)che lo impegna quasi fino alla morte. La sua attività culturale lo porta ad intervenire nel 1897 in senato, per la tutela e la pubblicazione degli scritti leopardiani. E siamo nel 1899 quando fa ristampare presso Zanichelli, Rime e ritmi e pubblica il commento, presso il Sansoni, alle Rime del Petrarca, che aveva composto con l'ausilio di Severino Ferrari. Contemporaneamente la paralisi gli preclude l'uso della mano destra.


Poesie(1859-1903)uscite presso lo Zanichelli, nel 1905, sono una raccolta scelta di opere. Ed è nel 1906 che riceve in Bologna, dall'ambasciatore di Svezia, il premio Nobel per la letteratura, morirà solo un anno dopo, nella notte fra il 15 e il 16 febbraio a Bologna, per broncopolmonite. Giace nella Certosa di Bologna

 

Il pensiero.

Sin dagli esordi, nel suo impegno con l' Accademia dei Filomusi e i seguito con gli Amici Pedanti, fu chiara ed inequivocabile, l'avversione al romanticismo svuotato dei paradigmi iniziali e pieno di languido sentimentalismo come quello che rispecchiavano le produzioni di un Prati e di Aleardi. Non criticò, ma apprezzò l’opera di Giovanni Berchet o di Goffredo Mameli, in cui c'era l'afflato patriottico, della prima generazione romantica, che pensava al riscatto della nazione italiana. Si spiega in quest'ottica il recupero della classicità, come l'età eroica per eccellenza. Questa grandezza del passato spicca notevolmente se confrontata con la pochezza e la mediocrità di un Risorgimento che nato sotto la spinta di altri intenti aveva portato ad un'unita incompleta e prodotto una classe politica e dirigente che era stata la diretta responsabile di tentennamenti e fallimenti. L'eroe è colui che afferma se stesso contro tutto e contro tutti, egli è diverso dagli altri, e non esita per affermare se stesso e la sua diversità a ricorrere al gesto estremo e stoico del suicidio. L'affermarsi dell'eroismo era in un certo senso una limitazione anche di ordine religioso.
Infatti l'eroismo cozza con la morale degli «umili», propria del cristianesimo. Questo ateismo non della prima ora, dal momento che nel 1848 aveva scritto A Dio, può esser visto anche come adesione ideale alla cultura settecentesca e illuministica. Inoltre il cristianesimo, come sostiene in Alle fonti del Clitumno, aveva raso al suolo quel mondo da lui tanto celebrato. L'eroismo che fu genuinamente presente in quegli uomini vestiti di rosso e di ardore che «fecero l'Italia» sbarcando a Quarto o combattendo sull'Aspromonte e resistendo a Mentana ma a volte esso è trasfigurato e non di rado tra i regi eserciti, compaiono legioni e grandissimi generali romani come gli Scipioni. Ma è pur vero che tra armi e battaglie spesso si apre uno squarcio rasserenante di natura incontaminata (la fresca rappresentazione della sua Maremma) e da questo mondo splendido emerge un saggio che dispensa certezze che batte e ribatte le parole per forgiarle con l'atteggiamento di un «artiere».
Chi è costui? Egli è il poeta vate! La dimensione spazio-temporale spesso è desunta da repertori librari. L'amata Grecia, non la vide mai, ma la sognò nelle molteplici sfaccettature. Contemplò le vestigia della città eterna, fu a contatto con i resti della civiltà etrusca, conobbe i primordi della civiltà umana, la preistoria. Scelse di fondere il «pragmatismo» romano-italico con il «colorismo» greco creando così una dimensione particolare una ricetta alla crisi basata su ritorno a costumi più morigerati e ligi.

Tra Illuminismo e Romanticismo:
la figura di Ugo Foscolo

 

Foscolo fu una figura chiave nella cultura italiana dell’età napoleonica. I temi della sua opera letteraria e le vicende della sua vita tormentata fecero di lui un modello e un esempio per i giovani più ardenti della sua generazione e della successiva, romantica e risorgimentale. La sua cultura, di stampo classico, si aprì ben presto alle sollecitazioni più vive della cultura europea; egli continuò il modello del “poeta civile” settecentesco già incarnato da Parini e Alfieri, che prese ad esempio, e vi aggiunse la partecipazione alla politica del suo tempo con una nuova dimensione di protagonista eroico e sfortunato: gli amori appassionati e spesso infelici, i contrasti interiori, l’ardore patriottico e l’esilio.
Foscolo aderì al pensiero degli illuministi francesi e dimostrò entusiasmo per gli autori del passato che proprio allora suscitavano un rinnovato interesse e che saranno considerati “maestri” dai romantici: Omero, Dante, Shakespeare.
Foscolo nacque nel 1778 a Zante, l’antica Zacinto, isola ionia sotto il dominio veneziano a cui si ispirerà per la composizione, nel 1803, di un sonetto, ove il poeta svolge il tema dell’esilio ripensando alla sua patria lontana. Il suo nome di battesimo fu Niccolò, che egli stesso sostituì con quello di Ugo. Nel 1792 si trasferì a Venezia dove aderì con entusiasmo alle idee libertarie e giacobine che giungevano in quegli anni dalla Francia. Riguardo alle sue idee politiche, fu soprattutto il Trattato di Campoformio  del 1797 a deludere profondamente il Foscolo, che aveva creduto nella missione liberatrice della Francia rivoluzionaria e giacobina e che vedeva invece, con Napoleone, intenta ad una politica di potenza e di rapacità. Nonostante il suo pessimismo riguardo all’impossibilità di realizzare i suoi ideali trovò conferma nelle teorie di Machiavelli, rimase tuttavia animato da un ardente patriottismo derivato dalla sua cultura classica, ma capace al contempo di aprirsi alle sollecitazioni rivoluzionarie della sua epoca, come l’idea dell’Italia nazione libera ed indipendente.
Allo stesso modo, sul piano esistenziale e filosofico Foscolo derivò dal sensismo e dal materialismo del ‘700 una concezione meccanicistica e pessimistica della vita, dominata da una forza cieca che travolge tutte le cose nell’incessante moto della materia.
Nonostante la cultura illuministica si rivelasse quindi incapace di fornire un significato ottimistico al destino sociale e individuale dell’uomo, Foscolo:

  • da un lato vi rimase fedele per la forza della sua validità razionalistica e dei suoi principi innovatori che rompevano in modo netto con la cultura dell’Ancien Règime;
  • dall’altro coltivò l’illusione della non vanità dei grandi ideali, perennemente insorgenti dai moti profondi del cuore e del sentimento, anche se contraddetti dal vero e dalla ragione.

Se nella sua vita e nel suo pensiero emerse costantemente il conflitto tra ideale e reale, tra sentimento e ragione, fu nella poesia che Foscolo riuscì a trovare una composizione a tale conflitto.
La sua prima prova letteraria, il romanzo dell’Ortis che gli diede la fama per la sua veemente e sincera carica di passionalità, non costituì infatti il canone poetico della sua produzione successiva, bensì il prorompente bisogno di esprimere la contraddittorietà della sua stessa vicenda personale, che si riflette nella disomogeneità dello stile e della lingua.
La poesia di Foscolo, concepita dall’autore stesso come armonia, equilibrio, dominio della ragione sulle forme oscure dell’irrazionalità, che egli trovò la misura della sua espressione artistica migliore, ancorata ai modelli del classicismo.
Il suo classicismo non si risolse però mai in un puro estetismo, vuoto culto della bellezza esteriore, ma fu la forma che gli permise di dominare ed esprimere tutta la ricchezza del suo contrastato rapporto con la sua epoca, infatti della sua poesia migliore Foscolo stesso disse che essa era “sintesi di passione divorante e di pacata meditazione”.
Foscolo spiega la sua poetica classicistica e la sua valorizzazione della poesia come momento superiore e incontaminato della condizione umana. Ma se il valore assegnato al soggetto può suggerire analogie con la cultura romantica, in Foscolo mancano la volontà di comunicazione sociale e la collocazione della scrittura letteraria entro il dibattito ideologico-politico che caratterizza il Romanticismo italiano.
Dall’Illuminismo Foscolo deriva una visione laica e immanente della storia e della società, nonché una solida prospettiva materialistica. Ma dall’Illuminismo Foscolo si rileva poi assai distante nella concezione dell’intellettuale e del sapere. Gli illuministi rinnegano la concezione tradizionale dell’intellettuale come letterato, uno scienziato al servizio della società; Foscolo, alò contrario, conferma la subalternità del pensiero scientifico rispetto alla poesia e all’arte, e vede nell’intellettuale non un operatore sociale, ma una coscienza collettiva.
Proprio per la sua sfiducia nel progresso e nella scienza, Foscolo è da considerarsi l’erede di Parini, mentre per il suo pessimismo sociale è erede di Alfieri: egli si accontenta di attribuire alla poesia la gestione eroica dei grandi valori della civiltà. La divisione della società in padroni e servi è data per incancellabile; ma alla civiltà spetta di qualificare il dominio dei primi in nome di valori nobili: la poesia deve essere l’interprete di questi valori e la forza capace di trasformare la verità espressa dalla classe dominante in verità valida anche per le classi ad essa soggette.
Tra le poche opere di Foscolo compiute e approvate stanno le Ultime lettere di Jacopo Ortis, un romanzo epistolare la cui composizione impegnò a lungo l’autore, tra il 1798 e il 1817, il quale si assicurò la fama in tutt’Italia.
I temi dominanti sono due: 

  • l’amore per la patria, tradita dal cinismo di Napoleone
  • l’amore per Teresa, impossibilitato a realizzarsi a causa della meschinità delle convenzioni sociali.

Sono presenti comunque nel romanzo molti altri temi, tanto che l’Ortis appare come una sorta di repertorio di tutti i temi della successiva produzione foscoliana.
Il tema patriottico svolge un’amara riflessione politica sulla vana lotta per la patria perduta, sulla vita degli italiana, sul cinismo del potere.
Il tema amoroso è svolto in termini già decisamente romantici. Teresa è la “divina fanciulla”, idealizzata per le sue virtù morali più che per la sua bellezza, la quale altro non è che un riflesso della sua nobile anima.
Il sentimento e la virtù predominano sulle forze della passione, e sono qui assenti sensualità e galanteria.
Il suicidio di Ortis nasce infine dall’impossibilità di realizzare nel suo tempo i suoi ideali politici e i suoi sogni d’amore. Il suo suicidio non è però un atto di rinuncia, bensì un “suicidio eroico”, un gesto di protesta che ribadisce la propria diversità di fronte ad un mondo meschino e vile.
Il romanzo è intriso di riferimenti letterari e di sensibilità preromantica, per i suoi toni ora appassionati ed eroici, ora sentimentali e languidi. Particolare nel romanzo è la sua spontaneità e immediatezza.
Il romano epistolare ha contribuito a rendere Foscolo famoso, ma sarebbe erroneo tralasciare altre opere che ha fatto sue come le Odi, nelle quali prevale la celebrazione della bellezza femminile trasfigurando la realtà per mezzo del mito della “bellezza ideale”.
Due sono i temi fondamentali:

  • la bellezza serenatrice il quale scopo è rasserenare l’uomo da mali della vita portandolo ad un’immaginazione armonica
  • la poesia eternatrice che rende immortale il ricordo della bellezza femminile.

Nelle Odi Foscolo ricorre al mito, che rappresenta l’aspirazione a costruire con la poesia un mondo di pura bellezza ed armonia.

Nei Sonetti ritroviamo contenuti a carattere etico, amoroso e politico.
I primi otto sono ancora di carattere autobiografico e presentano ancora discontinuità stilistica e tono troppo accesi che ricordano le disuguaglianze del romanzo, nei seguenti quattro sonetti si attua una purificazione dal tema autobiografico in cui il poeta supera il lamento per a propria sofferenza individuale e giunge ad un canto che si fa universale, solenne e pacato. Dal punto di vista stilistico, si collocano al livello della più alta tradizione lirica italiana.
I Sepolcri è il carme della maturità artistica di Foscolo. Esso realizza un perfetto equilibrio fra:

  • l’elemento soggettivo e passionale.

 

  • la tendenza alla trasfigurazione della realtà.

Nei Sepolcri ricorrono infatti tutti i temi già presenti nell’Ortis e nei Sonetti ma elevati dal piano puramente sentimentale ed estetico a quello della più ampia riflessione storico-filosofica
L’elemento che consente questa prospettiva più ampia e più serena è costituito dalla religione delle illusioni. Per mezzo di essa il poeta riesce a superare il pessimismo. Se la morte infatti è la fine di tutto per l’individuo, non lo è però per fa società: pertanto possiamo e dobbiamo continuare a credere nelle generose “illusioni”.

       SOPRA: La prima pagina dell’edizione
milanese delle Poesie del 1803.

La novità dei Sepolcri è costituita dall’importanza che assume la prospettiva storicistica, che Foscolo riprende dal pensiero di Vico. Grazie ad essa il poeta può superare il suo pessimismo politico e collocare in una luce positiva i valori della convivenza civile.
Il culto dei morti testimonia infatti il trionfo della civiltà sulla primitiva condizione ferina dell’uomo; il Sepolcro non ha solo quindi un valore soggettivo, affettivo, ma anche politico e civile: esso è testimonianza del passato, della tradizione e della storia di un popolo e dell’umanità.
Esso, conservando il ricordo dei grandi uomini, è di esempio alle generazioni future.
Il tema della poesia eternatrice è presente nella parte finale del carme: la poesia, con la sua bellezza immortale, garantisce meglio delle tombe il ricordo dei grandi. Come sempre in Foscolo, è l’antica Grecia a fornire il modello più alto di poesia ed eroismo, e la bellezza assume valore etico.
L’incentrare il discorso sulla funzione civile dei sepolcri permette a Foscolo non solo di superare il contrasto fra ideale e reale, ma di superare l’astrattezza del razionalismo settecentesco per aprirsi a tematiche romantiche: la rivalutazione della storia, l’idea risorgimentale, la religione laica dell’umanità e dei suoi valori.
Mediante la forza della poesia egli supera ed arricchisce la cultura illuministica richiamando l’attenzione sull’uomo storico concreto, legato da amore e solidarietà agli altri uomini.
Lo stile dei Sepolcri è un esempio del migliore classicismo, in quanto l’autore unisce un tono alto e solenne alla profondità del sentimento e al calore della fantasia: prevale un tono oratorio teso a persuadere il lettore; le espressioni sono spesso lapidarie; si ricorre frequentemente al mito e alla metafora che non hanno solo valore esornativo, cioè che serve ad ornare, ad abbellire; il lessico, latineggiante e letterario, conferisce nobiltà all’espressione senza nulla togliere all’intensità e modernità del sentimento.
Le Grazie videro luce nel clima sereno della Firenze del 1811 dove il poeta visse gli anni più tranquilli della sua vita. Esse sono una matura applicazione del concetto caro al poeta della bellezza serenatrice ove la realtà contemporanea non è dimenticata, ma è presente soltanto per accenni indiretti.
La società e la storia sono qui volutamente trasfigurate mediante il mito: non si tratta però di una fuga dalla realtà ma viene ribadito il valore etico, oltre che quello estetico della poesia.
La bellezza non è infatti che un presagio di quella armonia dell’universo nella quale trovano posto i nobili ideali morali per mezzo dei quali la vita dell’uomo si sottrae ai limiti della materia e dei sensi.

 

Informiamo il lettore che in questa sezione su Foscolo la trattazione è avvenuta in modo generalizzato, omettendo la trascrizione di eventuali frammenti dei capolavori del suddetto autore poiché ci si è soffermati in particolare sullo stile, il pensiero, gli ideali tralasciando l’approfondimento delle singole opere.
Simone Ballario

 

Silvio Pellico nacque a Saluzzo il 25 giugno 1789.
Dopo aver studiato a Pinerolo ed a Torino, andò a Lione per fare pratica nel settore commerciale; rientrato in Italia nel 1809, si stabilì a Milano. Qui conobbe il Monti ed il Foscolo e qui cominciò a scrivere, all'incirca dal 1812, specialmente per il teatro, ideando tragedie formalmente ancora classiche, ma già romantiche da un punto di vista contenutistico.
Nel 1815 fu rappresentata la sua tragedia Francesca da Rimini, in cui l'episodio dantesco venne interpretato alla luce delle forti influenze romantiche e risorgimentali con le quali Silvio Pellico era entrato in contatto nella città lombarda; sempre a Milano fu per qualche tempo direttore del Conciliatore.
Fu proprio a causa del suo profondo afflato patriottico che nel '20 venne arrestato con l'accusa di carboneria: condannato a morte, la sentenza fu commutata in 15 anni di carcere duro, da scontare nella fortezza di Spielberg, in Moravia. Nel 1830 arrivò anticipatamente la grazia imperiale e, tornato in Italia, lo scrittore scelse Torino, si ritirò completamente dalla politica attiva e si estraniò dai circoli letterari, vivendo grazie ad un posto di bibliotecario presso la marchesa di Barolo.
Ad ogni modo non dimenticò l'esperienza carceraria, un evento che divenne il soggetto dell'opera memorialistica Le mie prigioni, del 1832. Nello scritto, il più conosciuto dell'autore, si narrano l'arresto , la vita nel carcere e la liberazione dello stesso Pellico, che volle però porre l'accento (in stile manzoniano) sul percorso spirituale legato alla vicenda, i cui effetti furono la riscoperta della fede ed una rassegnata indulgenza verso l'esistenza e verso gli esseri umani. Tanto in carcere quanto dopo la liberazione compose diverse tragedie (Ester d'Engaddi, Iginia d'Asti, Gismonda, Erodiade, Tommaso Moro), delle cantiche (Tancredi, Morte di Dante) e varie liriche.Morì a Torino il 31 gennaio 1854.
La materia narrativa de Le mie prigioni è costituita dall'esperienza carceraria dell'autore e va dal 13 ottobre 1820 (data dell'arresto dello stesso) al 17 settembre 1830 (il giorno del suo ritorno a casa). Silvio Pellico intraprese la stesura dell'opera nel 1831, spronato dal proprio confessore, e la concluse un anno dopo. Superati i problemi derivanti dalla censura piemontese grazie al ministro Barbaruox, Le mie prigioni uscì per l'editore Bocca nel novembre del '32. Nella traduzione francese del 1843 comparvero anche i cosiddetti "capitoli aggiunti" (redatti originariamente sempre nel '32), facenti parte di un'opera autobiografica più ampia che l'autore non portò a termine, ma della quale salvò le parti relative al periodo immediatamente successivo alla propria liberazione ed alle motivazioni che lo avevano spinto a raccontare la sua esperienza carceraria. L'edizione francese completata dai "capitoli" fu quella che poi venne tradotta in italiano e la sua redazione originale venne scoperta nella Bibliotèque Nationale di Parigi solo nel 1932.

 

Carlo Porta.


(1775-1821)
Illuminista ma favorevole ai  romantici nella polemica contro i neoclassici, fu attento osservatore della vita quotidiana e ritrasse, in dialetto milanese, con un tono tutto suo che ad un tempo canzona le proprie creature e suscita per esse un vivo senso di commozione, le miserie materiali e morali degli umili popolani, la meschinità dei preti, la sicumera dei nobili decaduti, l’arroganza dei nuovi ricchi. Più che castigare i costumi del suo tempo, si compiace di descriverli, ma diviene severo quando si tratta di bollare le prepotenze degli oppressori e soprattutto la perfidia dei “falsi liberatori” francesi. Di lui si ricordano soprattutto le novelle “La Ninetta del Verzee”, il “Lament del Marchionn di gamb avert”, le “Desgrazi de Giovannin Bongee” e le succose satire anticlericali “Miserere”, “El viagg de fraa Condutt”, “Meneghin biroeu di ex-monegh” (cioè “servo di ex monache”), ecc.

LA MIA POVERA NONNA LA GH’AVEVA

La mia povera nonna la gh’aveva
On vignoeu arent ai Pader Cappiscin:
el guardian ghe le benediseva:
i soeu fraa beveven mezz el vin.
La nonna in del morì la me diseva:
Te lassi sto vignoeu, el mè Frnzeschin;
s’el voeur bev el guardian lassa ch’el beva:
usellin tira a casa el porscellin.
Quand ecco tutt a on tratt Napoleon
El dà ona soppressada ai fratarij.
S’ciavo suo, sur vin, la protezion.
Credeva de fann pù nanch on boccaa:
inscambi mò hoo impienii tucc i vassij,
inscambi hoo bevuu anch quell che dava ai fraa.
Eppur in sti agn pasaa
Gh’avarev giugaa el coo che senza lor
No scusavem né nun né nost Signor!

Giuseppe Gioacchino Belli.
(1791-1863)
E’ il primo grande poeta romanesco. Attento osservatore e sagace descrittore della vita romana del suo tempo, in più di 2200 sonetti ci presenta popolani, aristocratici, prelati di alto e basso rango, funzionari, dei quali sa cogliere e rappresentare in pochi tratti efficacissimi le caratteristiche salienti ed, ovviamente, soprattutto i difetti. La sua satira è più pungente verso i preti corrotti perché è animata da un senso di profonda autentica religiosità (non per niente verso la fine della vita si dedicò con zelo alle pratiche religiose e fu nominato poeta ufficiale della curia papale), una religiosità che gli impose in termini quasi ossessivi il tema dell’aldilà, come appare chiaramente da questo sonetto:
 


Cqua non ze n'esce: o ssemo ggiacubini,
o ccredemo a la legge der Ziggnore.
Si cce credemo, o mminenti o ppaini,
la morte è un passo cche vve ggela er core.
Se curre a le commedie, a li festini,
se vva ppe l'ostarie, se fa l'amore,
se trafica, s'impozzeno quadrini,
se fa dd'ogni erba un fasscio... eppoi se more!
E doppo? doppo vienghieno li guai.
Doppo sc'è ll'antra vita, un antro monno,
che ddura sempre, e nun finissce mai!
E' un penziere quer mai, che tte squinterna!
Eppuro, o bbene o mmale, o a galla o a ffonno,
sta cana eternità ddev'esse eterna!

(Da qui non si scappa: o siamo giacobini o crediamo alla legge di Dio. Se ci crediamo, o poveri o ricchi che siamo, il passo della morte ci agghiaccia il cuore. Si va a teatro, alle feste, all'osteria, si fa l’amore, si traffica, si ammassano quattrini, si mescola un po' di tutto... ma poi si muore! E dopo? Dopo vengono i guai, viene la resa dei conti. Dopo c’è un’altra vita, un altro mondo che dura in eterno, non finisce mai! E quel mai ti sgomenta. Eppure, nel bene o nel male, in Paradiso o all’Inferno, questa cagna di eternità deve essere eterna!). 

 

 

 

Giuseppe Giusti.
Nato a Monsummano nel 1809 e morto precocemente di tisi a Firenze nel 1850, è l’altro importante poeta dialettale della prima metà dell’Ottocento. Liberale, fu però successivamente moderato, tanto che, nella rivoluzione del '48, pur partecipando al nuovo regime in qualità di deputato legislativo, auspicò ben presto il ritorno del Granduca, preoccupato della svolta a sinistra che il nuovo governo intendeva effettuare. Quando però il Granduca tornò con l’appoggio delle armi austriache, deluso si ritirò a vita privata. Nella quale praticamente condusse la maggior parte della propria esistenza, senza nemmeno professare l’avvocatura e vivendo di rendita. Nei suoi “Scherzi” egli riflette questa sua mentalità, questa aspirazione alla vita tranquilla, un po' comune alla borghesia toscana e nettamente in contrasto con le idealità di quelle  poche personalità eroiche che meditavano sui destini dell’Italia unita e indipendente, ma anche operavano fieramente, a rischio della vita, per portare a compimento il programma risorgimentale. Ecco perché la sua polemica politica fu moderata e intrisa di un diffuso, anche se superficiale, umanitarismo che giunge a fargli sentire pietà anche per l’esercito oppressore. Nella sua più celebre poesia, “Sant’Ambrogio”, racconta d’essere entrato  un giorno nella cattedrale di Milano e di aver ascoltato un coro di soldati “settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati”, messi in Lombardia dall’imperatore d’Austria “a far da pali”. Le note di quel coro (“O Signore, dal tetto natio” da “I Lombardi alla prima crociata” del Verdi) erano così toccanti e poi cantate con sincera partecipazione, che per un po' conciliarono l’animo del poeta con quegli stranieri. Ben presto, però, l’avversione verso di loro tornò a farsi sentire, quand’ecco che “da quelle bocche che parean di ghiro, / un cantico tedesco lento lento / per l'aer sacro a Dio mosse le penne”: era una preghiera, ma sembrava un lamento, un canto di nostalgia di cose care abbandonate per venire in una terra straniera, fra gente che li odia, “strumenti ciechi d'occhiuta rapina”. Il Poeta si commuove e manca poco che abbracci un caporale! In effetti il Giusti col suo buon senso vede giusto quando afferma:

e quest'odio che mai non avvicina
il popolo lombardo all'alemanno,
giova a chi regna dividendo e teme
popoli avversi affratellati insieme.

La realtà della politica imperialistica  austriaca era proprio questa, ma francamente è fuori luogo suscitare un senso di pietà e di fratellanza verso un esercito oppressore che, sia pure costretto e con suo danno, faceva valere la forza delle sue armi contro gl’Italiani e costituiva pur sempre il nemico da combattere e da respingere fuori del territorio nazionale.
Ma il Giusti fu modesto  di  slanci generosi non solo per quanto attiene al sentimento patriottico: il suo atteggiamento nei confronti della vita in generale  fu di corto respiro e  si esercitò entro ristretti orizzonti. Il pregio maggiore della sua arte sta nella comicità caricaturale con cui disegna macchiette e marionette umane, mettendo soprattutto alla berlina sovrani inetti e sudditi impotenti. In “Il re travicello”, ad un popolo di rane che si lamenta per aver avuto come re un travicello:

Un tronco piallato
avrà la corona?
O Giove ha sbagliato,
oppur ci minchiona:
sia dato lo sfratto
al Re mentecatto,
si mandi in appello
il Re Travicello.

 

il poeta lancia una solenne ammonizione: 

Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha denti
è fatto a pennello
un Re Travicello!  

 

 

la musica romantica.

Secondo una poetica largamente condivisa da buona parte dei romantici, la musica strumentale era considerata molto superiore a quella vocale. Nel breve ma intenso saggio La particolare e profonda essenza della musica Wackenroeder così si esprime: “Quando tutti i moti più intimi del nostro cuore spezzano, con un grido solo, gli involucri delle parole, come se queste fossero la tomba della profonda passione del cuore, proprio allora quelli risorgono, sotto altri cieli, nelle vibrazioni di corde soavi di arpe, come in una vita dell’al di là, piena di trasfigurata bellezza, e festeggiano come forme d’angeli la loro risurrezione”. Audacemente la musica tocca la misteriosa arpa, e traccia in questo oscuro mondo, ma con preciso ordine, precisi e oscuri segni magici, e le corde del nostro cuore risuonano, e noi comprendiamo la loro risonanza. La superiorità della musica sulla parola è dunque sancita senza mezzi termini nelle dense pagine di Wackenroeder in cui a tratti sembra voler rifarsi proprio all’allegoria della leggenda del santo ignudo: “[…]quale arte meglio della musica sa rappresentarla, e con significati più profondi, più ricchi di mistero e più efficaci sa esprimere le incognite dell’anima?…E appunto questa delittuosa innocenza, questa terribile oscura ambiguità, simile agli oracoli, fa sì che nel cuore umano la musica sia veramente come una divinità…”
Il Romanticismo, sempre pervaso da questa ambiguità irrisolta si pone dunque il problema: musica pura o musica che si unisce alla parola, alla poesia? Ambiguità presente negli scritti sulla musica dei grandi romantici ma anche nella stessa musica romantica. Il romanticismo infatti da una parte ha visto il trionfo del sinfonismo, della musica cameristica, pianistica e in genere di tutte quelle forme salutate come musica pura, che rifugge da ogni contatto con altri tipi di espressione artistica e prima fra tutte la poesia, secondo dettami di tanti filosofi e scrittori romantici.
Senza dubbio esistono nel Romanticismo due grandi filoni di pensiero e questi due filoni hanno anche un preciso riscontro sul piano del concreto sviluppo della storia della musica. Da una parte la musica strumentale pura, il classicismo viennese, il sonatismo romantico, il sinfonismo e parallelamente i teorizzatori della supremazia del genere strumentale, da Wackenroder a Hoffman, da Schopenhauer a Hanslick; dall’altra la sinfonia a programma, il poema sinfonico, il Lied romantico e tutto il fiorire di melodrammi romantici, e anche in questo caso non mancano i teorizzatori della necessità di questa contaminazione.
Leggendo gli scritti sulla musica dei primi romantici, colpisce il fatto che spesso il privilegiamento della musica strumentale pura o come verrà detto più tardi dalla musica assoluta si accompagni ad un’esaltazione della musica più antica, dal canto gregoriano sino a Palestrina.
Dice Hoffman, parlando di Beethoven, considerato il rappresentante del vertice dello sviluppo dell’arte romantica: ”La musica è la più romantica di tutte le arti, perché ha per oggetto l’infinito”. Ma il termine Romanticismo non designa per Hoffman solamente un periodo storico con le sue determinazioni stilistiche ma viene usato come una categoria universale atta ad indicare il trionfo della musica nella sua piena esplicazione.

 

 

 

I MOMENTI PRINCIPALI DEL ROMANTICISMO IN MUSICA.

Dopo il massimo fulgore del classicismo, raggiunto con Hayden e Mozart, i compositori cercarono di superarne i limiti. I musicisti del periodo romantico cercarono un’espressione più diretta di quanto permettessero le forme del classicismo: la loro linea rifletteva bene il periodo di sconvolgimenti politici dell’Europa del tempo, che si fecero sentire anche in altri campi artistici. L’età detta “delle rivoluzioni”, tra il 1789 ed il 1848, fu associata alla partecipazione attiva di artisti ed intellettuali: in particolare in Francia scrittori, pittori e musicisti tra cui Flaubert, Baudelaire, George Sand, Hugo, Berlioz ed i pittori impressionisti di fine secolo, tentarono di scuotere la visione materialista del periodo.
Gli artisti romantici traevano ispirazione da un modello di vita semplice ed armonizzato con la natura, pacifico e puro. Gli ideali rivoluzionari, come si sa, fallirono miseramente il loro scopo iniziale, quando alla fine delle rivoluzioni seguirono semplicemente nuove tirannidi. Fu questo fallimento a scatenare l’altra componente del romanticismo, ossia l’evasione dalla realtà: anche stavolta, in tutti i campi si nota un desiderio di esotismo e di non banale. In particolare in questo periodo si risvegliò un forte interesse verso il medio evo, soprattutto i suoi primi secoli, così come verso il macabro, in particolare nelle opere di Poe, Baudelaire e Dostoievskij: ai nostri tempi, seppure in misura decisamente minore, un movimento simile si riscontra nella cosiddetta “New Age”.

TRASFORMAZIONI.

Con Beethoven, ed ancora di più dopo di lui, bisognò ampliare l’orchestra per adattarla a forme espressive più intense: fu aumentato il numero dei fiati, venne perfezionata la costruzione dei legni per migliorarne l’intonazione, fecero per la prima volta la loro comparsa le chiavi, per facilitare la tecnica esecutiva. Anche gli ottoni vennero modificati: entrò il trombone e, con Wagner, tube, trombe e corni a pistoni, anche questi modificati per migliorarne l’intonazione. Anche le percussioni divennero più numerose.
La classe media iniziò ad interessarsi in misura sempre maggiore alla musica colta, per cui le sale concerto si arricchirono di un nuovo pubblico: la lunghezza dei concerti era notevole, comprendendo almeno due sinfonie, movimenti di composizioni varie, suites ed ouvertures. Nacque la figura del direttore d’orchestra, a causa della complessità della gestione di orchestre sempre più grandi, mentre Spohr, Weber e Mendelssohn iniziarono la tradizione di prove condotte con grande disciplina, adeguando così l’orchestra al nuovo ed imponente repertorio.

 

 

 

Artisti principali del Romanticismo.

 

Senza dubbio l’uomo che incarna maggiormente il movimento romantico è Ludwing Van Beethoven. Nel periodo romantico gli autori iniziavano ad affrancarsi dalla corte, proprio in virtù di quel desiderio di libertà espressiva che li portava a mal sopportare le imposizioni dei potenti e perciò allontanarsi dalla loro protezione, e Beethoven incarna integralmente questo spirito. Musicalmente, Beethoven fu classico ed anche romantico, appartenendo ad entrambi i secoli; la sua grandezza sta anche nell’aver accolto e non rigettato gli elementi del classicismo, facendone una nuova sintesi alla luce dell’ideale romantico. La melodia diviene più vaga, l’armonia meno definita, ma il tutto viene comunque calato nella forma per essere controllato: i quaderni di appunti tenuti da Beethoven stesso testimoniano il desiderio di formalizzare e codificare il materiale prodotto, tipico del classicismo.

Non bisogna dimenticare però l’apporto fondamentale degli autori del nostro paese: artisti italiani del calibro di Giuseppe Verdi: con le sue innumerevoli opere occupò la scena mondiale nel campo insieme a Wagner, adottando uno stile diverso da questo. Altri grandi del periodo furono invece Pietro Mascagni, che si rifece alla scuola verista, Ruggero Leoncavallo e Gioacchino Rossini, della prima metà del secolo: egli fu il massimo operista italiano di questo periodo, pur avendo interrotto la sua produzione solo nel 1829 (con il Guglielmo Tell). Il suo genio portò all’opera buffa quel capolavoro che è il Barbiere di Siviglia, che stroncò l’omonima composizione del napoletano Paisiello.
Giuseppe Verdi
Dirige l’Aida     

Giuseppe Verdi.

 

 

Nacque da povera famiglia a Roncole di Busseto il 10 Ottobre 1813. Sviluppatasi in lui molto presto una vigorosa inclinazione musicale, egli ebbe come primo maestro l' organista delle Roncole Pietro Baistrocchi; si esercitava su una modesta spinetta e aiutava i genitori nella bottega, una modesta osteria di paese. A dodici anni si recò a Busseto per aiutare negli affari il suo futuro protettore Barezzi, e fu a Busseto che studiò musica con il maestro di banda Provesi e latino con il canonico Seletti. Fu in seguito a Milano con una borsa di studio del Monte di Pietà e con un sussidio del Barezzi: a diciannove anni tentò di entrare in Conservatorio, ma non vi fu ammesso (!!!) e decise di proseguire gli studi con il maestro Lavigna. Tornato a Busseto, venne nominato maestro di musica del comune e direttore della banda. Nel 1835 sposò la figlia del suo protettore Margherita Barezzi, da cui ebbe due figli che perirono con la madre a Milano negli anni 1838-1840, dove la famiglia Verdi si era nel frattempo trasferita. La sua prima opera fu "Oberto Conte di San Bonifacio"(1839) rappresentata con successo al Teatro La Scala di Milano. La seconda opera "Un giorno di regno"(1840), a soggetto comico, cadde rovinosamente e aggiunse così nuovo dolore alle sciagure familiari. Proprio allora iniziò la straordinaria produzione di opere. La sua instancabile e prodigiosa attività non cedette nemmeno alla vecchiaia che trascorse prevalentemente nella villa di Sant'Agata a pochi chilometri da Busseto, insieme alla inseparabile, fedelissima Giuseppina Strepponi, vissuta con lui dal 1849. Giuseppe Verdi morì a Milano il 27 gennaio 1901 ed è oggi sepolto nella Casa di Riposo dei Musicisti da lui fondata.

 

Gioacchino Rossini.

 

 (Pesaro 1792 - Passy, Parigi 1868)
Compositore italiano. Massimo autore di opere comiche del suo tempo, espresse il proprio talento in modo particolarmente felice nell'opera buffa, affermandosi come uno dei maggiori esponenti dello stile del belcanto, che pone la bellezza della linea melodica al di sopra dell'intensità drammatica o emotiva. Figlio di musicisti, studiò al liceo musicale di Bologna; nel 1806, mentre era ancora studente, scrisse Demetrio e Polibio, la prima delle 40 opere del suo catalogo. A questi anni appartengono la farsa La cambiale di matrimonio (1810) e l'opera buffa La pietra di paragone che, rappresentata alla Scala nel 1812, costituisce l'apice della produzione giovanile. Il secondo intenso periodo della carriera musicale di Rossini, quello degli anni 1813-1817, vede la creazione delle sue grandi opere comiche: L'italiana in Algeri (1813), Il turco in Italia (1814), Il barbiere di Siviglia (scritto nel 1816 in meno di tre settimane) e La Cenerentola (1817). Appartengono a questo periodo anche l'opera seria Tancredi (1813) e la semiseria La gazza ladra (1817). Nel 1815, invitato dall'impresario teatrale Domenico Barbaja, Rossini si trasferì a Napoli, diventando direttore artistico e musicale dei teatri partenopei. A questo felice periodo appartengono Otello (1816), Armida (1817), Mosè in Egitto (1818) e La donna del lago (1819), opere serie che, oltre a occupare un posto centrale nella produzione rossiniana, esercitarono un forte influsso sul futuro melodramma italiano. Da Napoli, Rossini compì frequenti viaggi in Europa e soprattutto a Parigi dove, dal 1824, soggiornò per quasi cinque anni. Qui fece rappresentare molte sue opere precedenti, spesso adattandole per il pubblico francese. Tra le opere di questo periodo si possono ricordare Semiramide (1823), Un viaggio a Reims (1825, in parte poi, nel 1828, confluito in Le Comte Ory, prima opera completamente in francese), L'assedio di Corinto (1826) e soprattutto il Guglielmo Tell (1829). Figlio di musicisti, studiò al liceo musicale di Bologna; nel 1806, mentre era ancora studente, scrisse Demetrio e Polibio, la prima delle 40 opere del suo catalogo. A questi anni appartengono la farsa La cambiale di matrimonio (1810) e l'opera buffa La pietra di paragone che, rappresentata alla Scala nel 1812, costituisce l'apice della produzione giovanile. Il secondo intenso periodo della carriera musicale di Rossini, quello degli anni 1813-1817, vede la creazione delle sue grandi opere comiche: L'italiana in Algeri (1813), Il turco in Italia (1814), Il barbiere di Siviglia (scritto nel 1816 in meno di tre settimane) e La Cenerentola (1817). Appartengono a questo periodo anche l'opera seria Tancredi (1813) e la semiseria La gazza ladra (1817). Nel 1815, invitato dall'impresario teatrale Domenico Barbaja, Rossini si trasferì a Napoli, diventando direttore artistico e musicale dei teatri partenopei. A questo felice periodo appartengono Otello (1816), Armida (1817), Mosè in Egitto (1818) e La donna del lago (1819), opere serie che, oltre a occupare un posto centrale nella produzione rossiniana, esercitarono un forte influsso sul futuro melodramma italiano. Da Napoli, Rossini compì frequenti viaggi in Europa e soprattutto a Parigi dove, dal 1824, soggiornò per quasi cinque anni. Qui fece rappresentare molte sue opere precedenti, spesso adattandole per il pubblico francese. Tra le opere di questo periodo si possono ricordare Semiramide (1823), Un viaggio a Reims (1825, in parte poi, nel 1828, confluito in Le Comte Ory, prima opera completamente in francese), L'assedio di Corinto (1826) e soprattutto il Guglielmo Tell (1829).

 

 

 

Il teatro romantico.
Il Romanticismo, movimento spirituale, letterario ed artistico, si diffuse all'inizio del XIX secolo in Europa. Fu generato dallo "Sturm und drang" in Germania e fu un movimento che prese il nome dall'omonimo dramma scritto da Max Klinger ("Tempesta e impulso", del 1776). Gli Stùrmer, coloro che aderirono a questo movimento, non erano in contrasto con i classici antichi o moderni, ma erano contro le imposizioni delle scuole che insegnavano ad imitarli non lasciando spazio alla creatività. Bisogna essere se stessi, senza imitare nessuno, come fecero i grandi poeti del passato: Eschilo, Omero e Sofocle. Il teatro subisce delle modifiche: le unità aristoteliche vengono abolite e la tecnica è quella medioevalmente libera e fantasiosa, per favorire mutamenti di scena senza limiti di spazio,di tempo e di persone. Abbiamo già ricordato autori come Herder e Schiller, anticipatori di questo cambiamento; ora dobbiamo citarne altri come il grande Heinrich von Kleist (1777/1811) e Schroder (il miglior interprete di questo nuovo teatro). Le commedie rappresentavano le vicende sentimentali che il pubblico apprezzava e ricalcavano il nuovo stile nato in Francia col nome di "Commedia lacrimosa". In Francia il teatro della rivoluzione si prefigge di creare un nuovo Dramma atto a scopo di propaganda sociale e politica ma bisogna capire il modo con il quale si agiva per far questo: una parte dei riformisti seguiva le orme del nascente romanticismo tedesco mentre l'altra, per il culto delle virtù repubblicane di Roma e della Grecia, preferiva rifarsi agli ideali classici. Con l'avvento al trono di Napoleone Bonaparte il teatro francese e quello delle nazioni sotto il suo dominio subì delle variazioni. L'imperatore amava molto il Dramma e la Tragedia e censurò con accurata selezione alcune rappresentazioni, lasciando soltanto quelle che per lui potevano essere allestite. Fu un taglio talmente netto che gli autori videro il loro raggio d'azione limitato e la metà dei teatri francesi dovettero chiudere! L'intento di Napoleone era quello di portare un genere nuovo di teatro ma ottenne soltanto la rappresentazione di buoni spettacoli con niente di innovativo. Una vera e propria riforma si ebbe con François Joseph Talma, che portò delle modifiche nei costumi, nella recitazione, nella dizione e nella mimica (gestualità). Per quanto riguarda gli scrittori di quel periodo, ne ricordiamo alcuni: per la tragedia Lamercier e Arnault, per la commedia Picard, Duval e Etienne. Il melodramma ebbe la parte del leone, fu infatti il genere più acclamato dalla folla parigina, da non confondere con quello italiano o tedesco ma inteso come "drammone avventuroso e aggrovigliato" nel quale i momenti di massima commozione erano sottolineati da un tremolio di violino, concludendo con finali cantati. Il più famoso drammaturgo fu Guilbert de Pixèrècourt. In Inghilterra l'ambiente era sereno, visto che motivi di rivolta verso il proprio governo da parte del popolo non avevano ragione di esistere. Lo scrittore Wordsworth fu in principio entusiasta degli ideali francesi che avevano portato alla rivoluzione, poi però fu costretto a tornare sui suoi passi, quando comprese che la Francia non aveva altro che ambizioni di dominio e di guerra. Questo ripensamento gli favorì la stesura del dramma "I confinanti" (1795) . Il silenzio e la pacatezza dell'ambiente inglese fu scosso dal desiderio di uscire da quella noia, espresso vivacemente da George Byron. Le sue opere non ebbero un grande successo ma fecero da trampolino di lancio per il nuovo genere che stava nascendo. Fra gli altri autori ricordiamo P.B. Shelley un romantico per la concezione dell'amore virtù che elogia l'anima umana, e per il pessimismo, presenza di una forza invincibile nel mondo spirituale: il male, che dà ragione al malvagio e schiaccia l'innocente. Per quanto riguarda l'Italia del'800, bisogna ricordare la prima compagnia denominata "Compagnia Reale Italiana", fondata nel 1806 ed affidata al capocomico Salvatore Fabbrichesi. La sua sede ufficiale fu la Scala di Milano, ed ebbe anche la possibilità di girare per tutta Italia. Altre compagnie sovvenzionate, dalla breve durata, si ebbero nei restanti staterelli. A Firenze si aprì una scuola di declamazione affidata all'attore tragico Morrocchesi. Le compagnie girovaghe proponevano spettacoli di tutti i generi, rivolgendosi ad un pubblico misto, senza far uso di musica nei melodrammi e senza esibire bravure ginniche e acrobatiche. Giovanni Giraud (1776/1834) è uno dei più importanti autori del periodo romantico italiano. La critica in principio gli attribuisce la nomina di "goldoniano" per lo stile con il quale realizza commedie tutte basate sul far ridere. Ma Giraud scriverà ben altro: prendendo un proprio stile denominato "pesante" e "satirico", si sveglierà in lui un risentimento sdegnato contro l'ambiente ed il mondo. La commedia avrà al centro un gran carattere ed intorno figure minori che convergono a lui facendolo vivere e risaltare. Componenti romantiche si riscontrano ne "Le mie prigioni" di Silvio Pellico dove è presente il sentimento patriottico. Il maggior esponente del romanticismo fu Alessandro Manzoni, autore di tragedie come "Il conte di Carmagnola" e "Adelchi", in cui egli ripudiò la mitologia e ogni riforma accademica. Il Manzoni non diede molto al teatro, oltre a queste due tragedie; egli riuscì ad esprimere in pieno quelli che erano i suoi ideali soltanto nel suo acclamatissimo romanzo: "I promessi sposi". Il teatro romantico francese si può riassumere in un nome: Victor Hugo, che fuse la tragedia con la commedia ottenendo un genere avente come regola il sentimento e la passione, in cui non vengono rispettate le unità aristoteliche, non è usato uno stile letterario nobile, ma si prediligono le pittoresche evocazioni del passato, che danno tanta suggestione nell'animo della folla. Tra le opere più importanti dello scrittore francese ricordiamo: "Cromwell", "Ruy Blas", "Hernani" e "Marion de Lorne". I contemporanei di Hugo furono: Alexandre Dumas, padre del dramma popolare in cui è frequente la presenza del primo attore, inoltre ebbe un enorme successo di pubblico con il drammone "La tour de Nesle", del 1832; Alfred de Vigny, conte di animo aristocratico e solitario, compone solo tre drammi; Alfred de Musset, sorretto dalla sua freschezza nuova fra monellesca e malinconica, con cui interpretò l'anima della giovinezza del suo tempo. Egli considera il romanticismo come l'abolizione dello "stilnobile" e tutta la sua opera è piena di una fantasia lieve e di ricordi che ritiene la cosa più dolce concessa all'umanità perché fa da rifugio alle delusioni ricevute dalla realtà. C'è in lui un disprezzo per le forme della tecnica scenica, data la sua convinzione che la sua poesia non fosse trasportabile sul vero teatro, accusando un'incompatibilità tra poesia e rappresentazione scenica di essa.

 

Il teatro romantico in Italia.

In Italia, a partire dai primi anni dell'Ottocento, contemporaneamente allo sviluppo della borghesia urbana e alla formazione di uno strato sociale mediamente acculturato, assistiamo ad un generale interesse degli intellettuali dell'epoca per la “questione nazionale”. Anch'essi sono consapevoli, ormai, della loro responsabilità nell'avvio della  formazione di uno stato  unitario. Il mantenimento di una certa tradizione culturale aveva quale significato e scopo ultimo la ricerca di concretizzare un'identità nazionale: pure le opere teatrali assecondarono questo fine, così come quelle del melodramma, che in questo periodo ebbe in Italia massimo fulgore e un dilagante successo di pubblico. Bene si inseriscono, dunque, all'interno della drammaturgia italiana, a fianco del Manzoni, le opere scritte per il palcoscenico da Silvio Pellico e Giovanni Battista Niccolini, due esponenti di spicco del momento storico, che trasuda volontà di profondi cambiamenti. Silvio Pellico (1789-1854), uomo di lettere e patriota, compiuti i propri studi, si stabilì a  Milano, dove venne in contatto con numerosi scrittori ed intellettuali stranieri e non, che avevano scelto questa città come punto di riferimento aperto ai contatti europei. A colui che passò alla storia della nostra letteratura per il suo diario “Le mie prigioni” (pubblicato nel 1832) - opera che secondo il Metternich fu più dannosa di una sconfitta militare, tanto che gli austriaci tentarono persino di ottenere la condanna  religiosa - fu conferito un unanime trionfo in campo teatrale grazie al dramma storico “Francesca da Rimini”, rappresentato per la prima volta nel1815.
L'opera descrive la struggente vicenda che vede protagonisti i ben noti Paolo e Francesca, l'esempio per antonomasia d'amore passionale e d'ideale romantico. Larga parte della tragedia è dedicata al tema della tentazione e alla lotta strenua contro le insidie del peccato: in  tal senso l'autore tende ad alimentare la tensione patetica del dramma. Questa tragedia, dalla chiara impronta alfieriana, viene trattata dal Pellico attraverso una trama essenziale. In scena incontriamo, infatti, Francesca, suo marito Lanciotto, l'amato cognato Paolo, e il padre di lei Guido da Polenta, già prossimi al momento risolutivo. Il Pellico, richiamandosi alla tradizione dantesca dell'”Amor che a nullo amato amar perdona...”, descrive l'amore di Paolo e Francesca quale sentimento puro, spirituale e reciproco desiderio dell'altro, non un'attrazione fisica fatalmente irrefrenabile. Il personaggio di Francesca  dà inizio in Italia a una delle più seguite tipizzazioni di eroina romantica, caratterizzata dal binomio virtù-sfortuna. Dopo la tremenda esperienza del carcere nella fortezza dello Spielberg in Moravia, Silvio Pellico, graziato nel 1830, tornò a Torino, dove visse come bibliotecario alle dipendenze dei marchesi di Barolo e dove scrisse altre tragedie dai temi sempre storici: “Ester d'Engaddi” (1830), “Gismonda da Mendrisio” (1834), “Leoniero da Dertona” (1834), che tuttavia non ebbero lo stesso riscontro della “Francesca da Rimini”. Il Pellico non riuscì a far rivivere compiutamente le  vicende storiche prese a prestito per la rappresentazione. Il Medio Evo, che ritroviamo nelle sue tragedie, si configura soltanto come fosco sfondo dell'azione scenica, ambiente tetro destinato a far emergere le figure e i sentimenti ideali, che animavano i suoi personaggi.

 

Anche Giovanni Battista Niccolini (1782-1861), poeta dalla versificazione impetuosa e lineare, fu autore di opere teatrali, che hanno come tema il riscatto nazionale e la libertà di un popolo intero. Egli lavorò presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze in qualità di professore di storia e mitologia e, allo stesso tempo, fu bibliotecario dell'Accademia stessa. Sono suoi i drammi storici di forte impegno civile quali "Antonio Foscarini" (1823, in scena nel 1827), "Giovanni da Procida" (1817, rappresentato nel  1830), "Ludovico Sforza" (1834), "Arnaldo da Brescia"

(1843), che è, probabilmente, il suo capolavoro,e "Beatrice Cenci " (1844). Nelle tragedie del Niccolini troviamo influenze schilleriane e byroniane, ma i suoi personaggi spesso sembrano restare brillantemente descritti in modo artificioso e non mostrano di vivere di luce propria. Egli mantenne gli schemi classicistici nel difendere le tradizionali unità aristoteliche, mentre scelse temi che sviluppano  gli ideali ottocenteschi permeati di romanticismo ed ispirati dall'afflato libertario e patriottico. Le conoscenze professorali del Niccolini a volte ingoiano la libera evoluzione della trama, così che l'autore talora tende a  conferire all'azione scenica uno spirito eccessivamente libresco. Riprendendo le concezioni della tradizione dantesca e machiavellica, il Niccolini si lascia trasportare  dalle reminiscenze delle diverse letture amate, in cui l'autore finisce spesso con l'asfissiare i suoi personaggi e la propria fantasia. Egli ottenne, comunque, un certo successo grazie alla rivendicazione di un nuovo regime politico.

Arte romantica in Italia.

Negli anni del Romanticismo in Italia, e in particolare nella metà dell’800, si assiste ad una ricca fioritura di personaggi che, in qualche modo, ancora oggi sono rimasti nella memoria di molti.
Più che il loro nome, oggi sono le loro opere a permanere nella memoria delle persone tramite testi ad essi dedicati ed a musei in tutta Italia.

 

La pittura romantica

 

Come in altre discipline, anche in arte il Romanticismo Italiano presenta caratteristiche sue proprie rispetto a quello europeo, determinate dalla situazione politica del paese.
L’età del Romanticismo italiano coincide con il periodo della restaurazione e, contemporaneamente, con la  nascita e lo sviluppo del movimento risorgimentale che porterà – dopo i ripetuti fallimenti dei moti rivoluzionari – all’unificazione dell’Italia sotto la corona dei Savoia nel 1861.
Carattere peculiare della letteratura romantica italiana  è il suo impegno civile e patriottico, volto a ridestare nell’animo degli italiani lo spirito nazionale, tanto che il termine “romantico” finirà ben presto per assumere, in Italia, il significato di “liberale” o di “democratico”.
Per quanto riguarda l’arte, essa deve avere una funzione sociale, educatrice. Secondo quanto scriveva il Manzoni essa doveva essere: “vero come soggetto, l’utile come scopo, l’interessante come mezzo”.
In Italia mancano grandi personalità: il Romanticismo fu essenzialmente tematico: ai soggetti mitologici furono sostituiti soggetti medievali spesso narrati in tono effettistico; il maggior esponente in questo senso è da considerarsi Francesco Hayez, che fu peraltro anche un buon ritrattista.

 

 

FRANCESCO HAYEZ

 

Francesco Hayez  nasce a Venezia il 10 Febbraio 1791. E’ l’ultimo dei cinque figli di Giovanni Hayez. La famiglia è poverissima e il piccolo Francesco viene affidato ad una sorella benestante della madre, moglie di un commerciante d’arte che possedeva una discreta galleria di dipinti. 
Nel 1809 partecipa ad un concorso per tre posti di alunnato a Roma, indetto dall’Accademia di Venezia. Il concorso è affollato, ma Francesco vince il consistente in una pensione atta a mantenerlo agli studi a Roma per tre anni.
Il primo anno si svolge sotto il patrocinio di Antonio Canova, che sarà il suo principale protettore. Francesco lavora, studia, si reca a Tivoli per riprendere le antichità e prende alloggio nel tempio della Sibilla, intanto fa amicizia con altri pittori che diventeranno famosi come Pinelli e Ingres.
Nel 1820 espone a Milano ed ha occasione di conoscere i protagonisti della vita milanese, compreso il Manzoni, ne ricava numerose commissioni. Ha anche un socio con funzioni di corrispondente all’estero. Nel 1821 torna a Venezia e nel 1822 è nominato supplente per due anni all’Accademia di Brera. Si trasferisce quindi con tutta la famiglia a Milano e i suoi lavori,  compresi gli affreschi di Palazzo Reale vengono osannati, meritevoli di figure accanto a quelli dei migliori nomi.

 

La produzione giovanile dell’Hayez, neoclassica, è caratterizzata da un linguaggio “liscio e gelido” che aveva già rivelato, sedicenne, in un gruppo di famiglia ora conservato nel museo civico di Treviso.
La produzione “romantica” (soggetti storici, di contenuto quasi “politico”, che ebbero le lodi del Mazzini) non rappresenta certo il meglio.

Brizio di Hayez scrive “l’Hayez è grande nei ritratti acuti, ben impostati, trattati con una finezza d’analisi psicologica che si estrinseca in una finezza attenta di paesaggi chiaroscurali: precisi, ma senza durezze lineari o stacchi bruschi di colore”.
Hayez fu anche valente litografo.

 

La scultura del periodo romantico.

Tra il 1820 e il 1890 sono attivi nella bell’Italia diversi personaggi che hanno fatto dell’arte scultorea il loro mestiere e il loro scopo nella vita.
Tra gli autori di quel tempo troviamo Giovanni Duprè nato nel 1817 e autore, fra l’altro, della Pietà custodita nel Cimitero della Misericordia a Siena; Adriano Cecioni le cui opere maggiori sono custodite nella Galleria d’Arte Moderna di Roma e di Firenze; Vincenzo Vela a cui abbiamo dedicato alcuni approfondimenti.

VINCENZO VELA.

 

Nato a Ligornetto il 3 maggio 1820, studiò sotto la guida di Benedetto Cacciatori. Presto si trovò nella cerchia degli artisti milanesi vicini alla posizione di Lorenzo Bartolini, scultore toscano vissuto tra la fine del ‘700 e la prima metà dell’800, e alla pittura romantica di Francesco Hayez (di cui parleremo più avanti).
In particolare, il Bartolini proponeva il ritorno allo studio della natura e alla grande tradizione del Rinascimento italiano, allontanandosi dal gusto neoclassico allora imperante.
Vela cercò di approfondire tale indicazione, scolpendo opere di grande teatralità e plasticità, e diventando uno dei maggiori esponenti della scultura realista.
Nel 1836, sedicenne, Vela partecipò ad un concorso a Venezia dove vinse il primo premio, presentando un soggetto evangelico. Dopo qualche anno ebbe l’incarico da parte del duca Antonio Litta di eseguire un opera per la villa di Vedano al Lambro, e Vela concepì La preghiera del mattino.
Fu il promotore di una scultura verista, reazione alle tendenze classiche della scuola del Canova.
Il gusto del Vela per la rappresentazione del vero appare fin dalle sue prime opere quali lo Spartaco, lo schiavo ribelle esempio lampante delle sue idee democratiche e progressiste, che riprese e terminò a Milano dopo la prima guerra d’Indipendenza e conservato al Museo Vela di Ligornetto, oltre che dalla sua produzione celebrativa, della quale nello stesso museo sono visibili gli studi preparatori.
Vincenzo diete il nome di “Spartaco” all’unico figlio, nato nel 1853.
Nel 1848 partecipò alle cinque giornate di Milano schierandosi dalla parte degli insorti e combattè sulle barricate, contro gli austriaci. Ad Arcore , nel 1849 morì Maria Isimbardi, che aveva sposato Giovanni d’Adda, il quale conosceva già il Vela, e lo incaricò di ricordare la sfortunata consorte nell’apposita cappella realizzata dall’architetto Giuseppe Balzaretti. Lo scultore, che aveva 29 anni, realizzò la scultura intitolandola Donna compianta.
Fervente patriota, svolse gran parte della sua attività a Torino, dove insegnò scultura all’Accademia albertina delle belle arti fino al 1867. Si trasferì quindi a Ligornetto, dove stabilì il suo laboratorio.

 

Nella seconda parte della sua vita pose al centro della sua ricerca artistica la rappresentazione del valore sociale ed eroico dell’azione umana. L’opera Vittime del Lavoro del 1883, conservato alla Galleria Nazionale d’arte moderna, è forse l’esempio più significativo della sua produzione in questo periodo. Tra le sue opere ricordiamo anche Statua della Madonna e Napoleone morente.
Morì il 3 ottobre 1891.

 

 

Donna Compianta (1855)
 La scultura di Vincenzo Vela, presente nella cappella funebre della Villa Borromeo, rappresenta Maria Isimbardi, moglie di Giovanni D’Adda, sul letto di morte.
Giace adagiata morbidamente su un soffice materasso imbottito di piume e ricoperto da un delicato tessuto di cotone ricamato a strisce orizzontali. Il letto è sostenuto da un’imponente e maestosa struttura in legno e sovrastato da un pesante e regale telo di velluto sporgente ai lati sostenuto in cima grazie a due celestiali angioletti.
Maria Isimbardi, posta in penombra, è coperta da un pesante e vellutato lenzuolo che scivola nascondendo la base del letto. Ella è appoggiata supina su un soffice cuscino adornato da un pizzo rigato sui bordi.
La giovane donna è in posa naturale; infatti si può notare la manica destra sbottonata e la capigliatura non del tutto ij ordine, raccolta in una cuffietta.
Indossa una leggera camici da notte.
Il suo sofferente sguardo, così come le mani, è rivolto verso il cielo, verso il Paradiso, come ad indicare la sua inesorabile appartenenza a Dio. Ciò è anche confermato dal crocifisso racchiuso dalle dita della sua mano sinistra.
Al collo, la donna, porta una catenina con appesa una classica medaglietta. Vi è un viso di profilo in rilievo il quale, probabilmente, raffigura la madonna

Architettura nell’800.

Trattando il romanticismo abbiamo potuto notare che non esiste un vero e proprio stile architettonico che si basa sul movimento romantico in se.
Siamo in grado però di citare alcuni “maestri” che hanno vissuto ed operato nel 1800 in Italia.
Tra di essi compaiono architetti neoclassici come Luigi Poletti, autore, per esempio, del Teatro Nuovo (poi Vittorio Emanuele II) di Rimini e del Teatro Comunale di Terni.
Attivi per gran parte del 1800 in Italia anche architetti neogotici quali Giuseppe Mengoni (1829-1877) del quale ricordiamo Piazza del Duomo a Milano, e, sempre nella medesima città, la Galleria Vittorio Emanuele II; in particolare Alessandro Antonelli vissuto fra il 1798 e il 1888.

Alessandro Antonelli.

Alessandro Antonelli nasce a Ghemme (Novara) nel 1798 e morirà a Torino nel 1888.
Compie gli studi a Milano e Torino, e svolge per quattro anni attività negli uffici tecnici demaniali. Dopo aver vinto un concorso dell’Accademia Albertina elabora una concezione funzionale dell’architettura, che gli suggerisce un ambizioso piano di sistemazione urbanistica nel centro storico di Torino. Lì svolgerà attività politica, sarà deputato al Parlamento subalpino, consigliere comunale a Torino e provinciale a Novara.
Sono numerose le opere ad egli attribuibili: case padronali, la villa di Romagnano Sesia, l’ospizio degli orfani ad Alessandria.A Novara, di particolare interesse, la Cupola di S. Gaudenzio, alta 121m che si accorda con la Basilica manierista.Antonelli ha collaborato anche ad opere quali la Basilica di San Pietro a Roma, il Foro romano e il Panteon sempre a Roma.
La tecnica costruttiva dell’Antonelli ha una conferma più tardi nel 1863 con il progetto della Mole Antonelliana a Torino, alta 167,50 metri, caratteristica soprattutto per la cupola piramidale che continua in un’altissima cuspide.L’adozione di nervature in ferro permette la massima tensione della sottilissima muratura. L’opera segna quindi il momento in cui il gothic revival si innesta su alcune conquiste tecnologiche del tutto moderne.
L’edificio della Mole Antonelliana, iniziato nel 1863 quale sede del tempio israelitico, viene portato a termine nel 1897 a cura del comune, che lo destina a sede del Museo del Risorgimento in memoria di Vittorio Emanuele II. La sommità era rappresentata prima da un genio alato, che fu poi distrutto da un uragano nel 1904, e sostituito da una stella dorata. Oggi la Mole ospita il Museo del Cinema.
Demolita da un fulmine nel 1953, la guglia venne ricostruita nel 1960 sui progetti originali.
Il Niccolini, d'altra parte, durante i folgoranti scontri oratori presenti nei suoi drammi, riesce a sollevare problematiche estremamente  attuali per i suoi contemporanei, soprattutto l'ideale della libertà, che doveva concretizzarsi nella nascita e nell'autonomia di un popolo e di uno stato italiano

 

Fonte: http://members.xoom.virgilio.it/multidams/materiale/romanticismo.doc

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