Pascoli ideologia politica

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Pascoli ideologia politica

IDEOLOGIA POLITICA DI PASCOLI

L’adesione al socialismo
Dai principi letterari di Pascoli affiora una concezione di tipo socialista, di un socialismo umanitario e utopico, che affida alla poesia la missione di diffondere l’amore e la fratellanza. Per capire questo punti di arrivo della poesia pascoliana è indispensabile collocarla entro le coordinate dell’ideologia politica dello scrittore.
Durante gli anni universitari, il giovane Pascoli subì l’influenza delle ideologie anarco-socialiste, soprattutto per il fascino esercitato da Andrea Costa, agitatore e tribuno attivo proprio in Emilia-Romagna.
Socialismo e anarchismo
L’adesione all’anarchismo e al socialismo era un fenomeno diffuso tra gli intellettuali piccolo borghesi del tempo. L’insofferenza ribelle nei confronti delle convenzioni e la protesta contro le ingiustizie avevano una matrice culturale, risalivano cioè ad un clima ancora romantico, ma avevano anche più concrete motivazioni sociali, quali le inquietudini di un gruppo che si sentiva minacciato nella sua identità dall’avanzata della civiltà industriale moderna, che toglieva prestigio alla tradizionale cultura umanistica, privilegiando nuove competenze e nuovi saperi, scientifici e tecnologici; a ciò si univa il risentimento e la frustrazione per i processi di declassazione a cui il ceto medio tradizionale era sottoposto dall’organizzazione moderna della produzione, processi da cui gli intellettuali erano particolarmente colpiti.
In questo quadro sociologico rientrava perfettamente la figura del giovane studente Giovanni Pascoli, proveniente dalla piccola borghesia rurale, declassato e impoverito, che quindi, come tanti altri giovani del suo ceto, trasformava in rabbia e in impulsi ribelli contro la società l’emarginazione di cui era vittima. Pascoli sentiva soprattutto gravare su di sé il peso di un’ingiustizia immedicabile, l’uccisione del padre, lo smembramento della famiglia, i lutti, la povertà: tutto ciò gli sembra l’effetto di un meccanismo sociale perverso, contro cui era necessario lottare. Aderì quindi all’Internazionale socialista.
L’adesione di Pascoli al socialismo
Il movimento anarco-socialista, ai suoi primordi, non aveva basi ideologiche rigorosamente definite, il suo impegno politico obbediva più al «cuore» che alla «mente», come allora si diceva, a moventi sentimentali e umanitari. Di tal genere fu anche l’adesione di Pascoli. La sua militanza attiva nel movimento si scontrò però ben presto con la repressione poliziesca. Arrestato per una manifestazione antigovernativa, venne tenuto mesi in carcere e processato. Fu per lui un’esperienza terribile: quando uscì assolto dal processo, abbandonò definitivamente ogni forma di militanza attiva.

Dal socialismo alla fede umanitaria
Ma questo distacco non va fatto risalire solo a traumi personali, a motivazioni private, intime e psicologiche: esso deve essere collocato nell’ambito più vasto di una generale crisi della sinistra.
Dall’utopia al socialismo scientifico
Il 1879, l’anno del processo subito da Pascoli, fu anche l’anno di una svolta capitale del socialismo romagnolo che, traendo una lezione salutare dal fallimento dei moti anarchici, abbandonò il pensiero utopico di Bakunin per accostarsi a quello di Marx. Il socialismo marxista si fondava essenzialmente sul concetto di lotta di classe, sull’inconciliabilità di interessi fra capitale e lavoro e sullo scontro violento, rivoluzionario che doveva opporli, sino al trionfo di una delle due forze, il proletariato, che avrebbe cancellato l’altra e tutto il sistema economico e sociale che su di essa si reggeva.
Il rifiuto pascoliano della lotta di classe
Era questo un principio che ripugnava alle tendenze più profonde dell’animo di Pascoli, il quale, nella sua prospettiva utopica, idealistica, intrisa di pietà evangelica, non poteva accettare conflitti violenti, ma sognava un affratellamento di tutti gli uomini, di tutte le classi sociali.
Il poeta non rinnegò gli ideali socialisti, ma, rifiutando recisamente la «gelida» dottrina marxista, li trasformò in una generica fede umanitaria, nutrita di elementi provenienti dal cristianesimo primitivo, dal francescanesimo, dall’evangelismo pacifista e non violento di Tolstoj. Socialismo per lui era un appello alla bontà, all’amore, alla fraternità, alla solidarietà fra gli uomini, voleva dire impegno ad alleviare le sofferenze degli infelici e le miserie dei poveri, a diffondere la pace.
Il pessimismo e il valore morale della sofferenza
Alla base vi era un radicale pessimismo, la convinzione che la vita umana non è che dolore e sofferenza, che sulla terra domina solo il male: per questo gli uomini, vittime della loro infelice condizione, devono cessare di farsi del male fra loro, sopire odi e contese, amarsi e soccorrersi a vicenda dinanzi alle dure prove dell’esistenza. Dal cristianesimo primitivo, privato della sua dimensione teologica e trascendente e ridotto a semplice codice etico, Pascoli traeva la concezione del valore morale della sofferenza, che purifica ed eleva: dolore e lacrime possono divenire un tesoro prezioso, le vittime del male del mondo sono per un certo verso delle creature privilegiate, perché le sofferenze le rende moralmente superiori. Per questo, pur dinanzi ai soprusi e alle ingiustizie, non bisogna abbandonarsi agli odi, ai rancori e al desiderio di vendetta: il dolore, perfezionando il nostro animo, deve insegnare il perdono.

La mitizzazione del piccolo proprietario rurale
La concordi fra le classi
Tali princìpi dovevano per lui valere non solo tra gli individui, ma a maggior ragione nei rapporti fra le classi. Ogni classe, contadini, operai, borghesi, doveva conservare la sua distinta fisionomia, la sua collocazione nella scala sociale, ma doveva collaborare con tutte le altre, con amore fraterno e spirito di solidarietà. A questo fine era necessario evitare la bramosia di ascesa sociale, che poteva generare scontri e sopraffazioni, frustrazione e infelicità.
Il segreto dell’armonia sociale consiste per Pascoli nel fatto che ciascuno si contenti di ciò che ha, che viva felice anche del poco. Il suo ideale di vita si incarna nell’immagine del proprietario rurale, che coltiva personalmente la terra e guida con equilibrata, amorevole saggezza la sua famiglia. La proprietà è per il poeta un valore sacro e intangibile, la base indispensabile della dignità e della libertà dell’individuo. Ma il poco è preferibile al molto, il piccolo al grande: la felicità è possibile solo nella dimensione del piccolo podere.
L’idealizzazione del mondo e dei valori rurali
Pascoli mitizza così il mondo dei piccoli proprietari agricoli come mondo sereno e saggio, baluardo che difende i valori fondamentali, la famiglia, la solidarietà, la laboriosità. Era un mondo che in realtà, negli anni di Pascoli, stava ormai scomparendo, cancellato dai processi di concentrazione capitalistica che si facevano sentire anche nelle campagne ed assorbivano la piccola proprietà, schiacciata dall’insostenibile concorrenza. In luogo del piccolo proprietario subentravano grandi entità impersonali, come banche e società anonime.
Pascoli lo sapeva bene, come dimostra un articolo pubblicato sulla “Tribuna” nell’agosto del 1897, insieme con il poemetto La siepe, ma innalzava egualmente il suo inno a quella realtà che andava scomparendo, rifugiandosi nel sogno di un passato idealizzato e contrapponendolo ai processi moderni di sviluppo capitalistico, al trionfo della grande industria, all’estendersi delle grandi metropoli, che generavano in lui orrore e angoscia.

Il nazionalismo
Il fondamento dell’ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo familiare, che si raccoglie entro la piccola proprietà, cementato dai legami di sangue, dagli affetti, dai dolori e dai lutti pazientemente sopportati. Ma questo senso geloso della proprietà, del «nido» chiuso ed esclusivo, si allarga agevolmente ad inglobare l’intera nazione. Si collocano qui, in questa zona privata, le radici del nazionalismo pascoliano.
Il dramma dell’emigrazione e la patria come «nido»
Per questo egli sente con tanta partecipazione il dramma dell’emigrazione, che proprio in quegli anni tocca proporzioni impressionanti: l’italiano che è costretto a lasciare il suolo della patria è come colui che viene strappato dal «nido», dove ci sono le radici più profonde del suo essere.
La tragedia dell’emigrazione induce Pascoli a far proprio un concetto corrente del nazionalismo italiano primo-novecentesco: esistono nazioni ricche e potenti, “capitaliste”, e nazioni “proletarie”, povere, deboli, oppresse. Tra queste vi è l’Italia, che non riesce a sfamare i suoi figli e deve esportare mano d’opera, destinata, nei paesi stranieri, ad essere schiavizzata, disprezzata, vilipesa, trattata a volte con brutale violenza. Ebbene, le nazioni “proletarie” hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei loro bisogni, anche con la forza.
La legittimazione delle guerre coloniali
Pascoli arriva dunque ad ammettere la legittimità delle guerre condotte dalle nazioni proletarie per le conquiste coloniali, in modo da dar terra e lavoro ai loro figli più poveri. In tal caso, per il poeta, si tratta di guerra non di offesa, ma di difesa, e pertanto sacrosanta.
Sulla base di questi princìpi, nel 1911 Pascoli celebra la guerra di Libia come un momento di riscatto della nazione italiana, che trova in essa la sua coesione spirituale, completando il processo risorgimentale, dando una coscienza nazionale alle sue plebi e attribuendo loro dignità civile attraverso il possesso della terra. In tal modo, non senza contorsioni e contraddizioni concettuali, Pascoli fonde insieme socialismo umanitario e nazionalismo colonialistico.

 

Fonte: http://www.itdavinci.gov.it/elearning/claroline/backends/download.php?url=L1FVSU5UQS8wMDZfSWRlb2xvZ2lhX3BvbGl0aWNhX2RpX1Bhc2NvbGkuZG9j&cidReset=true&cidReq=LETITA1516

Sito web da visitare: http://www.itdavinci.gov.it/

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