Pascoli opere

Pascoli opere

 

 

 

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Pascoli opere

Giovanni Pascoli   (liberamente tratto da Enrico Galavotti , Luigi Tripodaro, antologia della critica ecc. )

1855

Nasce, quarto figlio, da Ruggero e da Caterina Allocatelli Vincenzi.

1861–1871

Studia nel collegio dei padri Scolopi a Urbino.

1867

Il padre viene assassinato mentre torna a casa in calesse.

1868

Muore la madre

1871–1873

Frequenta il liceo a Rimini.

1873

Vince una borsa di studio – lo esamina Carducci – e si iscrive alla facoltà di lettere dell'Università di Bologna.

1876-1877

Anni di miseria perché ha perso la borsa di studio; trascura gli studi, frequenta l'anarchico Andrea Costa, si impegna in riunioni e attività politiche. Si iscrive all'Internazionale Socialista di Bologna

1879

Nel settembre viene arrestato per aver partecipato ad una dimostrazione di anarchici ma viene prosciolto in dicembre.

1882

Si laurea in greco e con l'interessamento di Carducci ottiene un posto al liceo di Matera.

1884

È trasferito al liceo di Massa, dove qualche anno dopo chiama a vivere presso di sé le sorelle Ida e Maria.

1891

Prima edizione di Myricæ.

1892

Vince la prima medaglia d'oro al concorso di poesia latina ad Amsterdam.

1895

Il matrimonio della sorella Ida lo sconvolge. Scrive alla sorella Maria da Roma, dove è "comandato" al Ministero della pubblica istruzione: "Questo è l'anno terribile, dell'anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d'ira, nel pensare che l'una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de' miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire, di tutto!"

1897-1903

Insegna letteratura latina all'Università di Messina, dove vive, ma ritorna spesso a Castelvecchio, presso Barga, dove ha affittato una casa di campagna che nel 1902 compra col ricavato dalla vendita di cinque medaglie d'oro conquistate al concorso di Amsterdam.

1904

Pubblica i Poemi conviviali e l'edizione definitiva dei Primi poemetti.

1905

Succede a Carducci nella cattedra di letteratura italiana all'Università di Bologna.

1906

Pubblica Odi ed Inni.

1909

Pubblica i Nuovi poemetti e le Canzoni di Re Enzio.

1912

Muore di cancro a Bologna il 6 aprile, viene sepolto a Castelvecchio (LU)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OPERE PRINCIPALI

1891

Myricae (la fondamentale raccolta di versi esce nella 1a edizione)

1907

Canti di Castelvecchio (edizione definitiva)
Pensieri e discorsi

1897

Poemetti

1909

Nuovi poemetti
Poemi italici

1898

Minerva oscura (studi danteschi)

1911/12

Poemi del Risorgimento

1903

Canti di Castelvecchio (dedicati alla madre)
Myricae (edizione definitiva accresciuta)
Miei scritti di varia umanità (di essi fa parte « Il Fanciullino »)

 

 

1904

Primi poemetti
Poemi conviviali

 

 

1906

Odi e Inni

 

 

Nel complesso rapporto di vecchio e di nuovo che caratterizza gli ultimi decenni dell'Ottocento (non solo italiano), la funzione di Pascoli nell'ambito della produzione poetica è di un'importanza fondamentale: Pascoli è da considerare per così dire uno spartiacque che segna l'inizio del Novecento. I suoi rapporti col Decadentismo, meno vistosi di quelli di D'Annunzio, sono in compenso più profondi e la sua influenza sulla posteriore poesia italiana - sul piano del linguaggio e dei moduli espressivi - sarà determinante.

PASCOLI ED  IL DECADENTISMO     L’IDEOLOGIA PASCOLIANA
La concezione pascoliana della realtà è fondata sulla dominante presenza di un mistero insondabile al fondo della vita dell’uomo e del cosmo.
Mentre il Positivismo, fiducioso nella scienza, aveva concepito l’inconoscibile come una sorta di territorio ignoto da sottoporre progressivamente a una ricerca condotta col metodo sperimentale, Pascoli ne fa il centro di una sofferta meditazione. La scienza, secondo lui, ha ricondotto la mente dell’uomo alla coscienza del suo destino inesplicabile, non ha assolutamente donato libertà all’uomo, ma, anzi, la società industriale, valorizzata dal positivismo, soffoca l’uomo, gli nega ogni piacere: viene così definito il "rifiuto della storia" secondo il quale la storia viene contrapposta al mondo campestre delle piccole cose.
L’uomo, secondo Pascoli, brancola nel buio, ignaro della sua origine e delle finalità del suo vivere, è un essere fragile mosso da impulsi ciechi che lo spingono spesso all’odio e alla violenza. Di conseguenza, l’atteggiamento del poeta di fronte alla realtà è caratterizzato dalla "vertigine" davanti al mistero dell’essere, da una perplessità davanti al problema insolubile del dolore, del male, della morte.
Bisogna ancora inserire Pascoli nel generale orientamento del tempo, il Decadentismo, che rifiutava la civiltà contemporanea: mentre autori come Huysmans, Wilde, D’Annunzio concretizzano questo rifiuto con il vagheggiamento di un mondo di pura bellezza , Pascoli lo concretizza o con il ripiegamento intimistico, spesso vittimistico, oppure nel vagheggiamento della campagna e delle umili cose, di un paradiso perduto. Nel poeta, inoltre, il rifiuto della storia dà come conseguenza amara la solitudine, l’autocommiserazione, lo smarrimento di chi non riesce a vedere altro che la Terra come un atomo opaco del male. Ne deriva, quindi, la visione di una vita tutta raccolta nell’ambito della famiglia, gelosamente custodita e difesa.


"...Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello che è morto!
ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
soltanto..."

da: Nebbia


Pascoli che costituisce l'esempio più significativo del Decadentismo in Italia. Egli, pur appartenendo da una formazione di matrice positivistica, riflette quella crisi della scienza che caratterizza la cultura di fine secolo segnata dall'esaurirsi del Positivismo e dall'affermarsi di tendenze spiritualistiche. Pascoli crede che al di là dei confini raggiunti dalla scienza si apra il mistero, l'ignoto verso cui l’anima si protrae per captarne i messaggi enigmatici.
In conseguenza di tutto ciò assiste alla scomparsa dei moduli di ordine del reale: non esistono più gerarchie di ordine tra gli oggetti, e ciò che è grande può essere rimpicciolito e ciò che è piccolo si mescola a ciò che è grande. Tutti gli oggetti, per questo, si caricano di valenze allusive e simboliche che rimandano sempre a qualcosa che è al di là di essi. Da ciò deriva una soggettivazione del reale, che perde la sua consistenza oggettiva. Il mondo è allora visto attraverso il velo del sogno e le cose sfumano le une dalle altre, mentre tra le cose si istaurano legami segreti (corrispondenze) che solo abbandonando la visione corrente possono essere colti. Oltre alle corrispondenze per Pascoli non esiste più un vera distinzione tra l'io e mondo esterno, ma l'io si confonde nella realtà oggettiva e le cose acquisiscono una fisionomia antropomorfizzata.
Da questa visione del mondo scaturisce la poetica pascoliana che trova la sua maggiore espressione nel saggio "Il Fanciullino". Alla base di esso vi sta la perfetta coincidenza tra il poeta e il fanciullo che sopravvive nel fondo di ogni uomo. Il Fanciullino è colui che vede tutte le cose con stupore e meraviglia come se fosse la prima volta. Per questo il mondo nuovo che lui scopre ha bisogno di un nuovo linguaggio che sappia esprimere la gioia, il dolore, che è proprio delle cose. Il poeta diventa così un veggente, cioe' colui che, per privilegio, può volgere lo sguardo al di là del dato reale e esplorarne il mistero.
In questo quadro si inserisce la concezione della poesia pura senza fini pratici: non si propone obiettivi civili, morali, pedagogici e propagandistici. Tuttavia, precisa Pascoli, la poesia in quanto pura ottiene "effetti di suprema utilità orale e sociale". Per Pascoli, quindi, è implicito il messaggio sociale che sottende la poesia: un'utopia umanitaria che invita all'appagamento di tutti gli uomini, al di là delle barriere sociali. Il rifiuto delle "lotte di classe" si trasferisce al livello dello stile: egli ripudia il principio aristocratico del classicismo. A questo principio si attiene fedelmente nella sua attività poetica proponendosi sia come cantore delle realtà umili e dimesse sia come celebratore delle glorie nazionali ed evocatore dei miti e degli eroi classici.
Egli fin da giovane subì l'influenza delle idee socialiste. Tale atteggiamento aveva concrete motivazioni sociali in quanto esprimeva le inquietudini di un gruppo che si sentiva minacciato dalla avanzata civiltà industriale moderna, che alla tradizionale cultura umanistica preferiva i nuovi saperi scientifici e tecnologici; a ciò si univa il risentimento per i processi di declassazione da cui gli intellettuali erano particolarmente colpiti. Successivamente trasformò i suoi ideali socialisti in una generica fede umanitaria nutrita di elementi provenienti dal cristianesimo, dal francescanesimo, dall'evangelismo pacifista.
Il socialismo per lui era un appello alla bontà, all'amore, alla fratellanza, alla solidarietà tra gli uomini, un impegno ad alleviare le sofferenze degli infelici e le miserie dei poveri. Alla base di tutto vi era un radicale pessimismo e la convinzione che la vita umana non e' che dolore e sofferenza.
È essenziale distinguere in Pascoli la novità che - specie nella prima produzione - si cela e si confonde, apparentemente, con il rispetto o la prosecuzione di temi e di forme di quella produzione veristica che per i primi due-tre decenni del secondo Ottocento era stata egemone: i "quadretti di genere", le rappresentazioni di scene della vita dei campi che troviamo in Myricae e che paiono rimandare a tanta produzione letteraria e figurativa di quei decenni, in realtà sono per Pascoli lo scenario sul quale proiettare inquietudini, smarrimenti, un senso del vivere fatto di ansiose perplessità. E di conseguenza i dati "realistici" presenti nelle sue liriche si caricano di significati e di simboli, diventano quasi dei "correlativi oggettivi', per significare altro che ne trascende l'apparenza. Con questa prima fondamentale novità Pascoli per un verso si inseriva in un orientamento presente a livello europeo in quegli anni (il simbolismo) per un altro trovava le modalità più adatte e suggestive per esprimere un senso della vita sotteso da turbamenti adolescenziali, da incertezze e da paure di fronte alla realtà storica contemporanea, e, di conseguenza, tutto proiettato verso il vagheggiamento del proprio nido familiare, verso la contemplazione della campagna come idilliaco "rifugio", verso l'ossessivo ricordo dei morti: una tematica, questa, che è collegata alla dolorosa esperienza biografica del poeta.
Ma a parte ciò, il processo di rinnovamento realizzato da Pascoli si manifesta, oltre che nella dimensione simbolica della sua poesia, in parecchi altri modi. Anzitutto, sul piano linguistico egli adotta frequentemente un lessico nel quale o entrano termini tecnici, gergali, relativi al mondo della campagna, o c'è posto per termini che sono al di qua della comunicazione, privi di senso, "pregrammaticali" (Contini), ma carichi di valenze fonosimboliche, di suggestioni evocative (le onomatopee, ad es.). Inoltre, Pascoli apparentemente rispetta la prosodia e le forme metriche tradizionali, ma in realtà il singolo verso o la struttura strofica sono dissolti e disarticolati: al posto della loro compattezza armonica tradizionale, subentrano e si insinuano una versificazione e una musicalità frantumate dalle cesure, dilatate dagli enjambements, o rotte da pause, da attoniti spazi di silenzio.

Se è indiscutibile che queste sono le novità di fondo del Pascoli migliore, è altrettanto vero che la sua produzione è assai ampia e presenta altri aspetti che non sono stati - come invece quelli che abbiamo elencato - fertili di sviluppi. Nei Poemi conviviali ad esempio Pascoli realizza componimenti raffinatamente letterari che traggono spunto e suggestioni da capolavori (l'Odissea, soprattutto) e quindi si distinguono per la parnassiana ricercatezza di un «linguaggio antiquario» (Contini), sono cioè un'opera di letteratura che nasce da una preesistente letteratura. Nei componimenti di Odi ed inni (le sue ultime cose) quel Pascoli che in Myricae e nei Poemetti era stato il cantore delle "umili cose" affronta la celebrazione delle idealità civili e patriottiche e si trasforma - con risultati discutibili - in un poeta vate, sull'esempio di Carducci e di un certo D'Annunzio: una metamorfosi, questa, collegata ad un confuso itinerario ideologico che fa sì che questo poeta inizi la sua carriera come cantore del chiuso nido familiare e la concluda come celebratore della conquista della Libia.

TEMI DELLA POESIA PASCOLIANA
IL NIDO:
La famiglia viene concepita, da Pascoli, come famiglia d'origine, chiusa ed esclusiva, costituita in alternativa al matrimonio. In poesia il tema del nido simboleggia la famiglia e viene visto come un luogo caldo, protettivo e segreto. Tale protezione comporta però l'isolamento dalla realtà: si ha quella che viene definita "chiusura sentimentale". Questa è una situazione psicologica sofferta che lo conduce anche ad esasperare il tema dell'eros che verrà visto in maniera regredita.
Il nido come caposaldo ideologico, come groviglio di legami tra i familiari viventi e tra questi e i loro morti ritorna in tante liriche di Pascoli (La voce, La cavallina storna, Romagna, Il nido dei farlotti, ecc.). Su questo argomento ha scritto Giorgio Barberi Squarotti:
Nella dissoluzione della società che non sa dare misura e valori e propone costantemente la volgarità o la pena, il dolore o il male, l'estremo e unico rifugio appare al Pascoli, appunto, il «nido» familiare, a cui partecipano, legati dagli affetti e dalle complicità irrazionali del sangue, i vivi e i morti della famiglia, costituendo il luogo caldo e accogliente di un rifugio (non idillico, tuttavia, mai) di fronte a una storia che presenta immagini d'orrore, d'oppressione, di morte, e di fronte a una condizione umana che è dominata dal terrore onnipresente della morte, che rende illusioni i gesti degli uomini, e ne segna d'inutilità ogni tentativo d'emergere, anche il male e il dolore inflitti (si leggano Nel carcere di Ginevra, Il Negro di Saint-Pierre, Al Re Umberto). I rapporti sociali si riducono al nucleo «privato», avulso da ogni contatto, che è il «nido» (e il simbolo ornitologico è proprio dal Pascoli insistentemente usato per indicare tale stato). Dapprima, il «nido» è esclusivamente quello familiare, popolato di pochi vivi e di un'infinità di morti dolenti e aggressivi (i maligni, aspri, insistenti, queruli morti familiari del Pascoli): fra i quali sono anche la madre, i fratelli, le sorelle, tutti ugualmente connotati dal pianto e da un inesauribile rancore: quello ferito a morte dalla malvagità degli uomini (Il giorno dei morti; accenni in Romagna; X agosto; La notte dei morti; La tovaglia; Il nido di «farlotti»). In essi domina, custode, la madre: che è la depositaria delle ragioni del sangue e della terra, quella che convoca il giovane figlio al rito crudele e inesorabile dell'investitura della vendetta contro l'assassino del padre (La cavalla storna), quella che viene con la «voce stanca, voce smarrita, Col tremito del batticuore» a rimproverare più che a confortare il figlio tentato di morire.

I MORTI:
Collegato al tema del nido, ricorrente è il tema dei morti: la vita di Pascoli, infatti, scandita da lutti, ha influito molto sulla sua produzione. Il tema dei morti viene espresso, attraverso la tecnica del correlativo-oggettivo, che consiste nel proiettare i propri stati d'animo su oggetti della realtà che, così, si carica di significati simbolici. Così avviene in Myricae e nei Canti di Castelvecchio. Ecco alcuni esempi:


"…veniva una voce dai campi:
Chiù…
…Sonava lontano il silgulto:
Chiù…
…e c'era quel pianto di morte…
Chiù…"     
                                               

Nella poesia L'assiuolo il motivo conduttore è il canto notturno e lamentoso di questo uccello, l'assiuolo appunto, che viene considerato, dalla tradizione popolare, come il simbolo della tristezza, della vita dolorosa che si protende verso la morte.

"...Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini...
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero; disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono...
Ora là nella casa romita,
lo aspettano, aspettano invano..."

In X Agosto viene ricordato, attraverso un lungo paragone con la morte di una rondine, l'assassinio del padre, avvenuto proprio il 10 agosto del 1867. Questo giorno è inoltre la festività di S.Lorenzo in cui si verifica il fenomeno delle stelle cadenti, simbolicamente viste come un pianto di stelle che inonda la Terra , definita atomo opaco del male.

 

"…Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari...
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse..."

Nella poesia Il gelsomino notturno il tema preponderante è quello dell'eros che viene spesso accostato al ricordo ossessivo dei defunti.

 

"Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore…
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate,
fredda, dei morti."

In Novembre viene descritta l'estate dei morti, o meglio il periodo iniziale di novembre. Con una serie di notazioni paesaggistiche viene richiamata l'idea della primavera; ma è un'illusione breve: i rami sono stecchiti, il cielo vuoto, la terra arida e compatta per il freddo; grava su tutto un silenzio sconfinato. Vi è, senz'altro, il contrasto dell'apparenza con la realtà: realtà che è tutta connotata da espressioni funeree.

 

LA NATURA E LE PICCOLE COSE:
La Natura è concepita da Pascoli come una presenza misteriosa e complessa che il poeta deve interpretare attivando l'immaginazione e aguzzando i sensi. Inoltre, condividendo le posizioni antipositivistiche e negando l'idea che la scienza abbia portato la felicità, Pascoli crede che la società industriale soffochi l'uomo condizionandolo pesantemente. Per questo contrappone la società alla Natura, agli aspetti semplici e dimessi della campagna. Perciò egli assume uno stato d'animo tipicamente decadente in quanto evade dalla realtà misteriosa e ostile rifugiandosi in luoghi chiusi, circondandosi di piccole e semplici cose rassicuranti e protettive.

 IL TEMA DELL'EROS
Il modello dell'amore romantico, durante il periodo decadente, si scontra con le nuove realtà sociali, entra in crisi, ma non decade per lasciar posto ad un nuovo modello.
La crisi dell'amore romantico si rivela una crisi di approfondimento, di rifiuto del modello, che in alcuni casi sfocia nella violenza, nella voglia di scandalizzare; per lo più, però, si assiste a forme di dilatazione della sensibilità dovute anche alla caduta di molti tabù sessuali, con la conseguente legittimazione della sessualità spontanea, "diversa": l'amicizia maschile e femminile, la sessualità e l'amore diventano terreni di ricerca e di sperimentazione psicologica, e vanno a nutrire potentemente l'immaginario collettivo.
Per capire come Pascoli affronta il tema dell'eros, bisogna analizzare la sua vicenda personale: l'infanzia del poeta è segnata da molti lutti, dall'assassinio del padre alla morte della madre, mentre la maturità è caratterizzata dai vincoli affettivi che legano Pascoli alle sorelle, soprattutto Mariù. Lentamente, quindi, matura la convinzione della famiglia concepita come famiglia d'origine ed esclusiva costituita in alternativa al matrimonio: egli non avrà mai relazioni amorose, né si sposerà in quanto concepisce questi eventi come impossibili nella propria vita.
Dagli studiosi, la sintomatologia di Pascoli è considerata tipica di una fase erotica infantile, e quindi una regressione dell'erotismo adulto, che attrae e insieme fa paura.
Nella poesia non c'è un filone esplicito dedicato all'amore: l'eros compare solo per vie indirette e trova espressioni simboliche, come i fiori de Il gelsomino notturno, che lo distanziano dall'io lirico dell'autore; il rapporto sessuale fra uomo e donna, a volte è stravolto in scena di violenza, in altri casi è solo accennato rapidamente, con l'utilizzo di un linguaggio evocativo ed indeterminato.

"…Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento…
E' l'alba: si schiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova."

da: Il gelsomino notturno

Come già ricordato in precedenza questo scrittore interpretò la direzione più "tranquilla" del movimento decadente. Infatti molte delle sue poesie prendono spunto dalla "piccole cose" della vita umile e comune, una vita avvolta nel mistero e nella sofferenza. Per il Pascoli comunque la vita non è un dramma, ma piuttosto una ricerca del doppio significato delle piccole cose, un significato che può scoprire solo un poeta, che, con la sensibilità e lo stupore di un fanciullino che scopre per la prima volta il mondo, riesce ad intuire.
Il linguaggio è molto veloce, espressivo, con ritmi cadenza che danno alla poesia un tono musicale. Ci sono varie note impressionistiche e il linguaggio è piuttosto ridotto all'essenziale, cosa che prelude alla letteratura del Novecento (ermetismo). Il lessico è un'alternanza di parole dotte a parole comuni, denotando però una profonda conoscenza in ambito botanico: infatti quando tratta di alberi e piante (ma anche di animali), chiama per il proprio nome specifico il soggetto in questione. Ma soprattutto il Pascoli cerca di evidenziare il doppio significato delle cose, la loro anima, adottando un linguaggio ricco di allusioni e analogie. Cura, inoltre, molto l'aspetto fonico, anche questo presente su due livelli: il primo livello si riferisce a quello diretto che si percepisce leggendo la poesia; il secondo, più profondo, lo si sente immergendosi nella poesia e cogliendone ogni suono come se fosse reale, riuscendo così a sentirsi in mezzo al contesto della poesia. Quindi ogni parola assume un significato fonosimbolico.
 
Le tematiche assunte dal Pascoli sono quelle della natura e delle piccole cose (la natura, la campagna, la poetica del fanciullino, cantati in opere come "Canti di Castelvecchio", in "Myricae", "Primi poemetti" o in "Poemetti nuovi"), la morte e il mistero (la morte consente, al poeta, il ricongiungimento con i propri cari morti. Vede in queste poesie l'umanità come un'ombra che vaga smarrita sulla Terra avvolta dal mistero, come nella poesia "Nella nebbia"), il ricordo e il dolore (il dolore nel ricordo del padre assassinato, il Male che vince nel mondo, atomo opaco del male, per colpa degli uomini, che esorta ad essere più buoni, e non per colpa della Natura, madre buona), il cosmo (in quanto è un mare di mistero), impressioni ("Il tuono", "Il lampo", "Il temporale").
 Da questo elenco delle tematiche del Pascoli, si può notare come i temi del Decadentismo siano evidenti: il ripiegamento del poeta in se stesso e nelle piccole cose, l'attrazione, mista a paura, verso l'ignoto e il mistero, il ricordo quasi continuo alla morte e la ricerca di un qualcosa al di là di questa.

L'IDEOLOGIA POLITICA: 
 
-  Il socialismo pascoliano è umanitario e utopico,  aborre la lotta di classe propugnata dalle teorie marxiste e affida alla poesia la missione di diffondere l'amore e la fratellanza.
 
- Pascoli, come tanti altri giovani del suo ceto, trasformava in rabbia e in impulsi ribelli contro la società l'emarginazione di cui era vittima; egli sentiva soprattutto gravare su di sé il peso di un'ingiustizia immedicabile, dell'uccisione del padre, lo smembramento della famiglia, i lutti, la povertà: tutto ciò gli sembrava l'effetto di un meccanismo sociale perverso contro cui è necessario lottare.
 
- L'adesione al socialismo fu "più di cuore che di mente"; la sua militanza attiva nel movimento si scontrò presto con la repressione: arrestato rimase alcuni mesi in carcere; questa terribile esperienza lo portò ad abbandonare ogni forma di militanza attiva; ciò è da collegarsi ad una crisi generale della sinistra: Pascoli rifiutava il socialismo marxista che si fondava sul concetto di "lotta di classe" e sull'inconciliabilità d'interessi fra capitale e lavoro.
 
- Pascoli aveva una visione molto pessimistica: era convinto che la vita umana non è che dolore e sofferenza, per questo gli uomini devono cessare di farsi del male fra loro e amarsi e soccorrersi a vicenda; la sofferenza, tuttavia, purifica ed eleva in quanto rende le creature moralmente superiori.
 
- Tra le classi non vi devono essere odi e conflitti; ogni classe deve conservare la sua distinta fisionomia, la sua collocazione nella scala sociale, ma deve collaborare con le altre con spirito di solidarietà; il segreto dell'armonia sociale consiste nel fatto che ciascuno si contenti di ciò che ha.
 
- Il suo ideale di vita s'incarna nell'immagine del proprietario rurale, che coltiva la sua terra e guida con saggezza la sua famiglia.
 
- Fondamento dell'ideologia di Pascoli è la celebrazione del nucleo familiare, che si raccoglie entro la piccola proprietà; questo senso geloso della proprietà, del nido chiuso ed esclusivo, si allarga ad inglobare l'intera nazione: sono queste le radici del nazionalismo; egli sente con partecipazione il dramma dell'emigrazione: l'italiano che è costretto a lasciare la sua patria è come colui che è strappato dal suo nido; esistono nazioni ricche e potenti, "capitaliste", e nazioni "proletarie", povere, deboli ed oppresse (tra cui l'Italia): le nazioni povere hanno il diritto di cercare la soddisfazione dei loro bisogni, anche con la forza (in questo caso si tratta di guerra di difesa); celebra, quindi, la guerra di Libia come occasione di riscatto per l'Italia.

 IL PENSIERO
Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento.
La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del "nido" familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.
L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto:
...tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta che hai rischiato di far fallire l'altra. La felicità tu non l'hai data e non la potevi dare: ebbene, se non hai distrutta, hai attenuata oscurata amareggiata quella che ci dava la fede...
Pertanto, perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua meditazione proprio ciò che il Positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo dell'ignoto e dell'infinito, il problema dell'angoscia dell'uomo, del significato e del fine della vita.
Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il destino di dolore che incombe su di essi.
La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro l'altro, e si abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di protezione, cosicché la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno accanto all'altro e rincalza il letto con un sorriso.
I DUE FANCIULLI
Questo componimento testimonia un aspetto importante del Pascoli poeta: la sua vocazione "narrativa", che si esprime in testi che egli stesso definì «poemetti» e, in maniera più articolata e ambiziosa, nei Poemi conviviali. 
Sul piano formale merita attenzione l'uso della terzina dantesca: Pascoli nella sua produzione dà prova di una grande disponibilità a utilizzare tutte le forme metriche della tradizione, anche le forme più "chiuse" e più rigidamente strutturate, com'è il caso appunto della terzina. Ma all'interno di questa scelta egli introduce la sua novità, la sua specificità: in questo consiste il suo sperimentalismo, in questo egli è, secondo la felice definizione dei Contini, «un rivoluzionario nella tradizione». Si veda qui, ad esempio, come la solida struttura della terzina venga per così dire insidiata e frantumata dalla frequenza delle cesure (v. 1; 4; 39; 42, ecc.) e degli enjambements (vv. 1-2; 2-3; 7-8, ecc.) dovuti al fatto che l'andamento sintattico (logos) non coincide con la misura metrica (melos): si creano così misure metriche nuove, inedite, all'interno dell'endecasillabo.
Il componimento ci sembra di particolare interesse perché esprime con chiarezza, nella sua struttura narrativa di exemplum o di apologo, un caposaldo dell'ideologia pascoliana, cioè la sua aspirazione a un rapporto di pace e d'amore fra gli esseri umani, il suo vagheggiamento di un mondo fatto di fratelli (è significativo che il vocativo Uomini del v. 39 diventi alla strofe seguente fratelli; legati, l'uno e l'altro termine, dalla collocazione chiastica di pace). Alla base di questa conclusione - o meglio, di questa aspirazione - c'erano parecchie cose: la sua personale esperienza dei frutti della violenza, la paura del mondo contemporaneo con il progressivo accentuarsi della competitività, ecc.
Qui questa aspirazione alla fraternità e alla pace sociale nasce da una sorta di smarrimento cosmico: nulla sappiamo del destino dell'uomo (vv. 34-35: ombra... silenzi cupi), povera ed effimera cosa è, in una prospettiva di eternità, la sua vicenda (vv. 36-38). Siamo di fronte a un umanitarismo, a un solidarismo che prescinde dalle risposte che a questi problemi fornisce la religione. In una lettera a padre Semeria, cui dedicò questo componimento, Pascoli scrive: «Io penso molto all'oscuro problema che resta... oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse».
OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE
Pascoli usa ancora forme classiche come il sonetto, gli endecasillabi o le terzine, ma la sua poesia costituì la prima reale rottura con la tradizione. Al di là della sua apparente semplicità, è dalla poesia di Pascoli che genera buona parte della poesia del Novecento. Le numerose pause che generano spezzature all'interno del verso, oppure le frequenti rime sdrucciole che producono accelerazione; l'uso insistito delle onomatopeee, la presenza di parole ricavate dalla lingua dei contadini così come da quella dei colti, l'introduzione di temi fino ad allora rifiutati dai poeti importanti, tutto concorre a produrre una poesia che è rivoluzionaria nella sostanza e nelle intenzioni più che nella forma esteriore.
Il poeta è, per Pascoli, colui che è capace di ascoltare e dar voce alla sensibilità infantile che ognuno continua a portare dentro di sé pur diventando adulto. La poesia scopre nelle cose rapporti che non sono quelli logici della razionalità e attribuisce ad ogni cosa il suo nome. Essa, senza proporsi direttamente scopi umanitari e morali, porta ad abolire l'odio, a sentirsi tutti fratelli e a contentarsi di poco, come avviene nei fanciulli.
... io vorrei trasfondere in voi, nel modo rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. [...] Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura. E vorrei invitarvi ala campagna. (dalla Prefazione ai Primi poemetti, 1897)

Myricæ (1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto, come dice lo stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il titolo è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici), umili pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi.
Il titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci e anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del 1891. Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere che la critica ha definito "del Pascoli migliore", poeta dell’impressionismo e del frammento: "Son frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane", scrisse il poeta nella Prefazione del 1894.
E' dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più alla vita della campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi "impressionistici", dove le "cose" sono definite con esattezza, col loro nome proprio (per esempio prunalbo per biancospino). Vi compaiono anche poesie (Novembre, Arano) in cui le "cose" si caricano di una responsabilità simbolica e già si affaccia il tema dei morti (X Agosto), sottolineando una visione della vita che tende a corrodere i confini del reale –avvertito come paura e mistero- per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere, Orfano, L'assiuolo).
Nella raccolta, cresciuta nel tempo dalle 22 poesie della prima edizione alle 155 dell'ultima, tolti pochi componimenti rimasti a sé, le poesie si ordinano per temi, corrispondenti ai cicli annuali della vita in campagna. La raccolta si apre con Il giorno dei morti, il giorno in cui il poeta si reca al camposanto che "oggi ti vedo / tutto sempiterni / e crisantemi. A ogni croce roggia / pende come abbracciata una ghirlanda /donde gocciano lagrime di pioggia." In questa giornata "Sazio ogni morto, di memorie, riposa."Non tutti però. "Non i miei morti."

L'ASSIUOLO
L'assiuolo è un rapace notturno (in Toscana detto popolarmente "chiù" per il verso che emette) spesso presente nella poesia di Pascoli e generalmente sentito - come d'altra parte nella tradizione popolare - quale simbolo di tristezza e di morte. Il suo verso inquietante scandisce la lirica e via via si carica di valenze simboliche: dall'iniziale «voce dai campi» (v. 7) diventa «singulto» (v. 15) e infine «pianto di morte» (v. 23). Come primo avvio alla lettura di questa lirica tramata di sottili rapporti ci sembrano pertinenti queste osservazioni di E. Gioanola e I. Li Vigni: «Siamo alle soglie dell'alba un'alba di luna - e il lugubre grido dell'assiuolo, annunciatore di morte nella credenza popolare, agisce probabilmente nella semincoscienza del dormiveglia e suscita una serie di immagini inquietanti, tutte più o meno riferibili alla realtà, ma travolte nella loro essenza e nel loro ordinamento sintattico da un forte vento d'angoscia. E naturalmente i versi, che nascono su un materiale così poco coordinato come quello onirico, svolgono un discorso per elementi staccati; non logicamente dipendente, secondo una sintassi franta, a blocchi giustapposti. L'origine dello stile pascoliano è proprio qui».
La lirica fu inclusa nella quarta edizione di Myricae (1903).


Ad integrazione di quanto si è detto nella presentazione, per aiutare a cogliere meglio la cifra di questa lirica- il trasformarsi del dato naturale in dato simbolico -, aggiungiamo alcune osservazioni, derivate e opportunamente mediate da un famoso saggio di Gianfranco Contini. Il quale rileva che alla base della poesia del Pascoli c'è una dialettica fra determinato e indeterminato, fra precisione e imprecisione, fra oggetti «determinatissimi e computabili» e «sfondo effuso» sul quale essi si situano. Dato, questo, che risulta con particolare evidenza in liriche come Nebbia, Gelsomino notturno, L'assiuolo.
«E che il fondo generale sia effuso e diffusivo, alta imprecisione qui condizionata da un'alta precisione, è questo un dato che ricollega Pascoli al maggior laboratorio simbolistico: diciamo, a Mallarmé e alla sua condanna del "sens trop précis" (“significato troppo preciso”), oppure al programma verlainiano ("De la musique avant toute chose", "De la musique encore et toujours") (“La musica prima di tutto”; “Musica ancora e sempre”)» (Contini).
Per creare questa indeterminatezza e questa imprecisione il poeta ricorre a vari sintagmi, riconducibili più o meno al paradigma «nero di nubi» (v. 6). E a questo proposito il Contini scrive:
Non da «nubi nere», ma «da un nero di nubi»: è cioè estratta la qualità, e i sostantivi servono soltanto a determinare, come se fossero essi gli epiteti, la qualità fondamentale. Questo procedimento non è evidentemente invenzione di Pascoli, benché sia stato elaborato non molti decenni prima di lui, nella cultura francese, e più precisamente, secondo la constatazione d'uno specialista tedesco, dai fratelli de Goncourt. È questo uno fra gli istituti tipici di quello che gli studiosi di stylistique, e in particolare uno dei fondatori della scuola ginevrina, Charles Bally, definiscono impressionismo linguistico.
Queste osservazioni chiariscono a sufficienza la sapienza tecnica e la raffinata preziosità della migliore poesia pascoliana. Ma si presti attenzione anche al gioco dei parallelismi (vv. 11, 12, 13) e delle allitterazioni (vv. 12, 13, 15, 19), all'utilizzazione del linguaggio pre-grammaticale (chiù) in funzione fonosimbolica.

NOVEMBRE
Una serena e tersa giornata di novembre può per un attimo suggerire un'illusione di primavera e riportare quasi il profumo degli albicocchi in fiore. Ma si tratta di un'illusione che presto scompare, e alle iniziali impressioni subentra la stupefatta constatazione di un inverno che non è solo indicazione stagionale ma metafora dell'esistenza. Pubblicata sulla rivista «Vita nuova» nel 1891, la lirica fu inclusa nella edizione di Myricae dello stesso anno.
È, per comune riconoscimento della critica, una delle composizioni più suggestive dell'intera produzione poetica pascoliana. Come la maggior parte delle Myricae, anche questa - malgrado il titolo - più che a descrivere la natura in un particolare momento (nel caso specifico, i giorni della prima metà di novembre detti "estate di San Martino o "estate dei morti") è rivolta a penetrare il segreto senso delle cose; e a scoprire in esse un messaggio di morte o un precario senso di fragilità, di vuoto.
Non sfugga la perfetta struttura del componimento. La prima strofe rende, con una nitida precisione di contorni veramente classica, l'impressione di una improvvisa primavera; ma la seconda ribalta la prima e, intessuta tutta da una fitta trama di parole-chiave (secco, stecchite, nere, vuoto, cavo, sonante), avvia verso la conclusione e legittima, con coerente gradualità di trapassi, il tono della terza. Quest'ultima è tutta incentrata sulla constatazione di una fredda legge di morte come unica e vera realtà che rimane dopo la momentanea, effimera illusione di colori e profumi primaverili.
Sull'aspetto metrico cadono particolarmente opportune per questa lirica le osservazioni del Bigi circa la compresenza (nella poesia del Pascoli) di «due diversi piani ritmici, uno vicino e scoperto e uno segreto e lontano». In questo caso la struttura ritmica, compatta e classica, della strofa saffica è dissolta dal di dentro, resta quasi come involucro esterno e subentra un ritmo scandito da pause, da lunghi silenzi. L'endecasillabo è frantumato, ricco di spezzature, di enjambements (con più evidenza ai vv. 1-2, 7-8, 11-12); notevole la simmetria dei versi iniziali di ogni strofe (vv. 1, 5, 9): sono endecasillabi a minore, spezzati da una forte cesura, in cui il primo emistichio («Gemmea l'aria»; «Ma secco è il pruno»; «Silenzio, intorno»,) enuncia quasi il tema e il tono della strofe.

ARANO
La lirica, come tante altre di Myricae, trae spunto dalla vita dei campi: qui, l'aratura autunnale. Ma il paesaggio e il lavoro degli uomini sono immersi in un clima, in un' "aura” particolare, e ciò che si sarebbe potuto risolvere in un semplice e scontato bozzetto dì maniera realistica, diventa espressione di uno stato d'animo, di un sentimento del vivere segnati di intensa malinconia. 
Richiamiamo l'attenzione su un aspetto fondamentale di Myricae: la frantumazione, l'atomizzazione dell'endecasillabo tradizionale, ottenuta non tanto con il frequente ricorso all'enjambement (elemento, questo, non nuovo nella poesia italiana) quanto con la spezzatura sintattica, cioè con un andamento paratattico che comporta l'accostamento di brevissimi enunciati (vv. 4-6) fortemente staccali l'uno dall'altro, e con l'insistente punteggiatura (un caso limite è il v. 9; «e il pettirosso»).

Canti di Castelvecchio (1903): nella raccolta sono compresi e approfonditi i temi di Myricæ ma ha particolare incidenza il tema del nido familiare e delle memorie autobiografiche e compaiono parecchi componimenti di impianto narrativo; finito il vagabondaggio per la campagna di Myricæ se ne inizia uno nuovo: ma ora è un viaggio attorno al suo giardino, entro i cancelli e entro il suo orto.
Il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte, si traduce ora in una sorta di allucinazioni, nel ricordo dei morti ("Mi son seduto in una panchetta / come una volta.../ quanti anni fa? / Ella, come una volta s’è stretta sulla panchetta", La tessitrice), ora nell’auscultazione di richiami impercettibili ("... mi chiamano le canapine / coi lunghi lor gemiti uguali", Le rane), ora nello sconfinamento dei ricordi -suggeriti ad esempio dal suono delle campane- ai limiti del preconscio: "Mi sembrano canti di culla / che fanno ch’io tori com’era / Sentivo mia madre... poi nulla... / sul far della sera" (La mia sera). Sono trasalimenti dell’animo e simboli che però lievitano frequentemente da notazioni realistiche, espresse attraverso un discorso addirittura narrativo: "E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai miei cari / Sono apparse in mezzo ai viburni / le farfalle crepuscolari" (Il gelsomino notturno). Si può dire che nei Canti sta il punto del massimo compenetrarsi tra i due aspetti della poesia pascoliana: il simbolo e la realtà.

LA MIA SERA
Un momento della giornata - il crepuscolo, e poi la sera - diventa in questa lirica momento simbolico, la sera diventa la mia sera con una sapiente trasposizione del dato oggettivo (le stelle, le voci della natura, il placarsi dell'«aspra bufera») a significato esistenziale.
Un aspetto fondamentale della tecnica poetica del Pascoli è l'uso sperimentale che egli fa delle forme poetiche tradizionali, la dissoluzione che all'interno di esse egli opera. Questa lirica offre parecchi esempi in tal senso:
- i versi 19 e 34 sono ipèrmetri, cioè con una sillaba in più dopo la rima, sono versi di dieci e non di nove sillabe.
- di conseguenza i versi rispettivamente seguenti, il 20 e il 35, sono di otto e non di nove sillabe: ciò perché la sillaba in più dei versi precedenti (v. 19 -no; v. 34 -no) viene anticipata e "computata" nella misura metrica del novenario.
Questo contribuisce ovviamente a dissolvere e scompaginare le forme metriche tradizionali.
Ma c'è un'altra tecnica dì cui Pascoli si serve per realizzare questa dissoluzione, ed è la frantumazione del verso col ricorso a cesure e pause che ne spezzano l'unitaria armonia, la musicalità. Si vedano ad esempio il v. 3 spezzato dalla cesura, i vv. 11 e 17 con gli effetti prodotti dall'accento sulla prima sillaba, il v. 29 e il 31.
Come in molte altre liriche del Pascoli, anche in questa c'è il ricorso all'onomatopea ai vv. 4 e 34. È opportuno notare che la voce onomatopeica (gre gre ... Don Don) non resta isolata ma è inserita in un tessuto, in un contesto fonico che la riprende e la circonda di echi. Fanno eco al gre gre e costituiscono un tessuto fonico omogeneo breve, ranelle, tremule, trascorre; lo stesso vale per Don... Don con Dormi... Dormi.
Questo procedimento - la ripresa e la trama di gruppi fonici simili (allitterazione, assonanza) - caratterizza d'altra parte tutto il componimento ed è particolarmente vistoso nell'ultima strofe (cantano... sussurrano... sembrano... fanno).
Nello stabilire un rapporto tra fenomeno atmosferico, dato naturalistico (la sera) e condizione esistenziale, enunciato sin dal titolo, il poeta procede per gradazioni, per accenni contrapponendo agitazione e quiete (lampi... tacite stelle; scoppi... pace; cupo tumulto... dolce singulto ecc.) sino a far coincidere la pace e la quiete con una regressione nell'infanzia: il suono delle campane di oggi, di questa sera, dà pace perché riporta ai canti di culla, invita al dormire, alla perdita della consapevolezza. Che poi culla rimi con nulla non è senza significato, come è stato notato dalla critica: dalla regressione all'infanzia si arriva, come vagheggiamento di pace, al non essere, all'annullamento.

NEBBIA
In questi versi la nebbia - anche se qua e là connotata nella sua realistica entità di fenomeno atmosferico - è assunta a simbolo di un atteggiamento esistenziale, e di una visione del mondo; essa assume il significato di elemento di separazione tra il poeta e la realtà, di difesa del "nido" (simbolo fondamentale nell'ideologia pascoliana), di esclusione dalla lacerante contingenza storica.
Per l'analisi di questa lirica è opportuno rifarsi a quanto si è detto per L'assiuolo, cioè alla dialettica fra determinatezza e indeterminatezza che, come ha messo in luce il Contini, è una costante della poesia pascoliana.  A questo proposito egli scrive:
Pensate a Nebbia. Qui sopra un fondo di bruma o di fumo vedete emergere dei primi piani, precisamente dei primi piani in senso cinematografico, una siepe, una mura, due (due di numero) peschi, e ancora (sempre numerabili) due meli, un cipresso. Ma dei primi piani non si giustificano se non in rapporto a un fondo, a un orizzonte, il quale esso è indeterminato, cioè a dire, per definizione, non se ne sentono e non se ne rappresentano attualmente i limiti: questi oggetti determinatissimi e computabili si situano sopra uno sfondo effuso.
Va aggiunto inoltre che ciò che qui è "messo a fuoco", ciò che è "determinato" è il piccolo mondo, il nido che protegge e isola (e come altrove troviamo la siepe, qui abbiamo l'orto ai vv. 19 e 29 e la mura al v. 11). Ancora una volta è il nido a difendere dall'ignoto, dal dolore provocato dalla morte (v. 8), dal pianto delle cose (v. 14), a nascondere (un termine che non casualmente echeggia da una strofe all'altra). Ma il rifugio in questo orizzonte familiare e angusto diventa in questa lirica vagheggiamento e accettazione del distacco dalla vita, vocazione di morte. In questa prospettiva il cane del v. 30 («qui, solo quest' orto, cui presso / sonnecchia il mio cane») diventa, secondo la suggestiva indicazione del Tropea, «sonnolento idolo totemico di questo familiare universo funebre».

GELSOMINO NOTTURNO
Per acquisito giudizio critico questa lirica è da considerare uno dei risultati più alti e originali della produzione pascoliana. Per essa più che per qualsiasi altra del Pascoli è difficile indicare la trama, produrre una traduzione prosastica: ciò perché vi è portato all'estremo quel processo di rarefazione dell'elemento logico-narrativo che è una caratteristica fondamentale della poesia moderna e che Pascoli (in tanta parte della sua produzione) ha introdotto nell'ambito della poesia italiana. La lirica quindi - che deriva il suo esile pretesto realistico dalla caratteristica del gelsomino notturno, che solo di notte apre la sua corolla per richiuderla ai primi raggi del sole - è tutta una trama di impressioni apparentemente disordinate e casuali nel loro succedersi, ma in realtà legate reciprocamene da sottili e rarefatti rapporti; da una logica del sentimento più difficile da cogliere, ma forse più vera della logica della ragione.
Questi versi furono scritti dal Pascoli per le nozze dell'amico Raffaele Briganti e in essi è adombrato - con mirabile levità simbolica - il tema dell'unione di due esseri; e del conseguente germogliare, dentro l'urna molle e segreta, di una nuova vita.
La lirica venne pubblicata in un opuscolo "per nozze" nel luglio 1901, e poi inclusa nei Canti di Castelvecchio (1903).
Su questo testo esiste una produzione critica che ne ha messo in luce - a volte con sofisticata sottigliezza - l'originalità e la complessità. Noi ci limitiamo a sottolineare alcuni dati fondamentali.
La tematica affrontata si collega in un certo senso a quella di Digitale purpurea: è anche qui dominante - sia pure attraverso una complessa trama di mediazioni simboliche - il tema dell'eros aI quale il Pascoli si accostò sempre con una sensibilità turbata e adolescenziale, con un complesso rapporto di attrazione e frustrazione. Questo componimento cioè mostra con risultati poetici di alta suggestione «quali sono le condizioni, sempre anomale, ma sempre straordinariamente acute, dentro cui Pascoli sente l'esperienza erotica: come sofferenza, morte, violazione, rinunzia, esperienza misteriosa e preclusa» (Tropea). L'atteggiamento del poeta dinnanzi all'atto nuziale, all'unirsi degli sposi nella loro casa, è quello di un adolescente ,"è un morboso coesistere di vaghe e conturbanti idee di violenza (vv. 21-22: «i petali / un poco gualciti») e di attrazione voyeristica (vv. 19-20:-«Passa il lume su per la scala; / brilla al primo piano: s'è spento...»). Ma questo tema di fondo - il morboso turbamento di fronte all'eros è inserito nella rappresentazione di un "notturno" fitta di voci, di sensazioni, di corrispondenze (v. 1, .«i fiori notturni»; v. 9, «i calici aperti»; v. 10, «l'odore di fragole rosse») che analogicamente ad esso si collegano.

Per quanto riguarda l'aspetto metrico, va sottolineata la differenza di ritmo che si instaura tra versi che pure sono uguali (tutti novenari): in ogni strofe i primi due novenari hanno un ritmo incalzante, concitato, ascendente, con quell'impennata prodotta soprattutto dall'accento sulla seconda sillaba e poi sulla quinta e sulla ottava («E s'àprono i fiòri notturni»); gli ultimi due invece sono caratterizzati da un ritmo discendente, fortemente pausato nel mezzo con accento sulla terza, quinta e ottava sillaba («Sono appàrse in mèzzo ai vibùrni»). L'alternanza ritmica è sottolineata dal fatto che costantemente si susseguono unità ritmico-sintattiche costituite da due versi (1-2, 3-4; 5-6, 7-8; ecc.). Questa alternanza si spezza solo nell'ultima strofa, nella quale il v. 21 (« È l'alba: si chiudono i petali») ha una forte pausa dopo la terza sillaba ed è ipérmetro, per cui la sillaba li di petali si elide con la prima del verso seguente e permette la rima di peta con segreta.

A proposito di questa alternanza ritmica il Vicinelli ha osservato (ma è ormai un dato critico acquisito) che «nella movenza impennata dei primi due versi il Pascoli ha rinvenuto il grafico, l'immediata significazione musicale dell'aggressività con cui la natura e la notte stringono l'assedio dei loro inviti d'amore. Negli ultimi due con quel gorgo lento che la sosta centrale produce ha trasfuso un crollare smemorato e blando». L'anomalia ritmica dell'ultima quartina (dei v. 21 soprattutto) servirebbe a sottolineare questo "crollare", questo smemorato languore, dopo la notte nuziale. (questa attenzione ai dati metrici non è eccessiva: ricorderemo col Debenedetti che questa è «una poesia, dove le figure metriche sono altrettanto significative quanto le immagini».).

Poemetti (pubblicati nel 1897 e poi sdoppiati in Primi poemetti, 1904 e Nuovi poemetti, 1909): costituiscono una vera e propria epica rurale sul modello delle Georgiche virgiliane: cantano, in terzine dantesche, l’amore di Rosa per il cacciatore Rigo, la vita contadina, il lavoro dei campi (La sementa, La piada, L’accestire).

A queste composizioni si intrecciano altre percorse da un simbolismo insistito, e talvolta esplicito (Il libro); si accampa quella che è stata definita "una poesia astrale", aperta a "voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco" (La vertigine)


DIGITALE PURPUREA
Questa lirica è collegata ad un ricordo di collegio della sorella Maria, la quale aveva raccontato al poeta che un giorno la Madre maestra aveva vietato alle allieve di avvicinarsi ad un fiore in un angolo del giardino perché il suo profumo era velenoso. L'episodio biografico fornisce al Pascoli lo spunto per intessere una complessa trama simbolica: due amiche rievocano la loro vita di collegio e i loro turbamenti adolescenziali; e quel fiore (la digitale purpurea, appunto) assume al significato di tentazione, attrazione-timore del proibito, colpa. Il rapporto simbolico fiore = eros è d'altra parte presente altre volte in Pascoli (ad esempio nel Gelsomino notturno) e rientra nel gusto liberty. Ma, come è noto, Pascoli si accosta alla tematica amorosa con un atteggiamento non esente da ambivalenza e senso di colpa. La lirica fu inclusa nei Primi poemetti (ed. 1904).
Il tema di fondo che percorre questo componimento è da ricondurre alla sensibilità, alla personalità del Pascoli e a specifiche esperienze biografiche; lo si potrebbe definire l'ambiguo e morboso atteggiamento - fatto di attrazione e repulsione insieme - di fronte all'eros (presente anche nel Gelsomino notturno). A questo dato specifico della personalità del poeta va aggiunta anche la (per lui) traumatica esperienza del matrimonio della sorella Ida, adombrata qui nel personaggio di Rachele, mentre la fedele sorella Maria conserva nella rappresentazione poetica «esile e bionda, semplice di vesti / e di sguardi» (vv. 2-3) - il suo nome reale. 
Scrive a questo proposito Mario Tropea:  Naturalmente [dell'esperienza erotica] non può essere. protagonista Maria (la "sorella buona" della realtà, qui trasfigurata nel poemetto), ma un'immagine speculare e complementare di lei, cioè Rachele nella quale, date le morbose ambivalenze della poesia e della vita affettiva di Pascoli, non sembra improbabile scorgere l'immagine dell'altra sorella Ida, che sposandosi aveva affrontato quell'esperienza per così dire traumatizzante per Mariù e Giovanni, esperienza assimilata quindi nell'inconscio alla voluttà, alla violazione e pertanto aborrita, ma pure attraente, qui per altro verso rimossa come esperienza di morte, come espiazione, punizione di chi aveva tradito l'unità del "nido" domestico (la documentazione del morboso turbamento causato in Pascoli dallo sposalizio di Ida si trova nelle lettere inviate a Mariù in questo periodo).
Ma nello stesso momento in cui forniamo queste indicazioni, ci sembra necessario ricordare che bisogna guardarsi dai troppo meccanici rapporti fra vicenda privata e trascrizione poetica: è alle modalità poetiche che bisogna prestare attenzione. In tale ambito ci limitiamo a sottolineare anzitutto la dimensione narrativa che distingue i Poemetti rispetto alle Myricae. In questo componimento tale dimensione narrativa si esplica su diversi piani: racconto, dialogo, rievocazione. Non può sfuggire, fra l'altro, la calcolata struttura del poemetto, nel quale fra la prima e la terza parte per così dire si incunea la seconda, che con la descrizione dell'ambiente , del clima conventuale - quel "sentore" di innocenza ma anche di mistero... - in certo qual modo "ritarda", con inquietante sospensione, la scoperta del proibito.
Sul piano metrico sussiste anche in questo caso la «compresenza di due diversi piani ritmici» messa in luce dal Bigi, il quale scrive: La terzina dantesca rimane, almeno nei momenti più felici, solo un primo piano, un organismo metrico antico e grave, con cui entra in suggestivo contrappunto o colloquio la voce rotta, inquieta e sommessa del poeta. Gli artifici di cui il poeta si vale a questo scopo non sono sostanzialmente dissimili da quelli già analizzati nel primo gruppo di Myricae: sfasatura fra ritmo metrico e ritmo sintattico, sintassi analitica e franta (qui accentuata dalla frequente introduzione del discorso diretto), interne corrispondenze di accenti e di suoni, armonie imitative ed onomatopee: tutti artifici tanto più sensibili quanto più forte è il loro contrasto con un metro tradizionalmente robusto come la terzina. Basterà citare, soprattutto, come prova della maggiore complessità e raffinatezza, rispetto a Myricae, del giuoco dei due piani ritmici, il finale di Digitale purpurea, dove il ritmo della terzina, in questo caso allusivo al tema serenamente e religiosamente arcaico del convento, è ormai drammaticamente sfaldato dai fortissimi enjambements e dalle profonde pause sintattiche, a cui è musicalmente affidato l'altro e più segreto tema del poemetto, la «misteriosa attrazione verso l'ignoto», il «consenso alla tentazione della morte» (Getto)

ITALY
Della produzione pascoliana orientata verso moduli epico-narrativi, verso il "poemetto", basti ricordare Italy, lungo componimento in due canti (450 versi) che il poeta completò nel 1904 e volle - come suona la significativa epigrafe che vi premise - «sacro all'Italia raminga». La vicenda cantata è infatti il ritorno di una famiglia di contadini della Garfagnana, emigrati da anni in America, all'antico focolare, al paese di origine. Da questa situazione iniziale si snoda la trama: la guarigione, nella terra dei padri, della piccola Molly arrivata malaticcia in Italia; la morte della vecchia nonna; il ritorno degli emigrati in America.
Italy affronta il tema dell’emigrazione (anch’esso riflesso di quello del nido) dove il contrasto campagna-città, infanzia-maturità, spogliato delle sue connotazioni autobiografiche, si oggettiva nel contrasto tra la vita patriarcale che si svolge nella campagna nativa e quella febbrile della metropoli americana, tutta tesa ai "bisini" ("business" gli affari) e al successo. Il contrasto si risolve sul piano linguistico in un audace sperimentalismo.

Per un primo approccio al testo sarà sufficiente premettere che Italy è di straordinario interesse sia per gli sperimentalismi linguistici che Pascoli vi realizza, sia per l'attenzione che dimostra verso un problema fondamentale della società italiana tra Otto e Novecento quale l'emigrazione.
Per quanto riguarda lo sperimentalismo linguistico di Italy, che oggi, dopo le prove di un Gadda (solo per fare l'esempio più prestigioso), non sembra più "scandaloso" come era parso a Croce, è di notevole interesse questo testo di Gian Luigi Beccaria:
“Di Pascoli «virtuoso, che può giocolare a sua posta con le difficoltà metriche e stilistiche più paurose» discorreva quel finissimo lettore di Pascoli ch'è stato Renato Serra. Prima di lui già D'Annunzio, retore grande, aveva avuto sentore del virtuosismo sotteso. Di «magia pratica», «maestria», «esperienza [...] infinita», «destrezza [...] infallibile», «sapienza» nella « tecnica compositiva», di «fucina del grande artiere», di «laboratorio» dell'«uomo di lettere», di «presenza del demone tecnico» parlava D'Annunzio: le attitudini appunto che si concretavano nel suo sperimentalismo continuo, «in quella vocazione di sperimentatore» riconosciutagli poi da Debenedetti. Uno sperimentatore anticlassico, sappiamo, che ebbe a tratti, per l'epoca in cui visse, un potere d'urto non indifferente. C'è chi [Contini] ha richiamato in proposito la novità del plurilinguismo pascoliano che ebbe allora del sorprendente, e dello scandaloso «per chi lo misuri sulla norma della tradizione letteraria italiana».
La trasgressione alla norma monolinguistica compiuta ad esempio con gli ardimenti di Italy parve appunto scandalosa al Croce proprio per la vistosissima eccezione alla norma del linguaggio poetico istituzionale (la presenza della lingua straniera o di una lingua speciale come quella dell'emigrante lucchese che contamina italiano e americano). Introdurre nel discorso letterario parole straniere e termini tecnici, parole della vita quotidiana e dialettismi, già mutava il sistema consueto di segnalazione del linguaggio letterario, infrangeva uno stereotipo. Appunto in Italy, per restare nell'ambito della metrica cui si limita il nostro discorso, la trasgressione alla norma monolinguistica era esposta in posizioni anche forti e scoperte di rima (in Italy, V 5, 7 e 9 Molly, rima con colli: molli, ed ibid. I 1, 3 febbraio con Ohio, III 23 e 25 luì con Italy, V 1 e 3 flavour con Never, VI 13 e 15 gelo con fellow, 23 e 25 tossì con Italy). Vistosa era dunque la deroga alla poetica normativa; e l'eccezionalità doveva costituire tosto l'autorizzazione per nuovi principi costruttivi, se si pensa alla esposizione cercata di parole straniere in rima nei crepuscolari e negli epigoni di questi.
Va inoltre precisato che l'operazione linguistica di Pascoli - il far parlare i suoi protagonisti in un gergo italo-americano, dilatando così i confini della lingua poetica tradizionale - non è gratuita, ma nasce da una necessità poetica: questo stridente impasto linguistico è la testimonianza e il mezzo più valido per rendere quell'intima lacerazione, quel doloroso offuscarsi della voce e del sentimento della terra natale» (Getto) che si sono prodotti nell'animo degli emigrati. La soluzione linguistica è quindi in stretto rapporto col tema di fondo del poemetto.

Per quanto riguarda le implicazioni ideologico-politiche di Italy, basterà ricordare che qui in un modo abbastanza singolare è già evidente quel processo che porta Pascoli dall'ideologia del "nido" alle posizioni nazionalistiche, e che sarà chiaramente enunciato nel discorso La grande proletaria si è mossa. In Italy infatti c'è la solidale rappresentazione del prezzo di dolore e di mutilazione affettiva che l'emigrazione comporta, dell'estraneità e della solitudine dell'emigrato condannato a correre per «terre ignote con un grido / straniero in bocca», ma sempre anelante a ritornare con un gruzzolo per farsi «un campettino da vangare, un nido / da riposare»; ma c'è anche l'auspicio che l'Italia, l'antica madre, un giorno «in una sfolgorante alba che viene / con un suo grande ululo ai quattro venti /fatto balzare dalle sue sirene» riscatterà i suoi figli dispersi (e qui il lirico poeta di Myricae si assume il pesante ruolo di poeta vate, dirottando in una direzione di generico nazionalismo il suo umanitarismo socialisteggiante).

Poemi conviviali (1904): il loro titolo è tratto dalla rivista "Convivio" di Alfredo De Bosis, ma allude anche ai canti degli aedi ai conviti (Triste il convito senza canto). In endecasillabi sciolti, richiamano miti e figure del mondo classico, greco e romano (il mito dell’Ellade percorre come un filo rosso tutto l’Ottocento, da Foscolo a Leopardi, a Carducci, a D’Annunzio): ma la sensibilità decadente di Pascoli stravolge questi miti, fino a farne simboli della infelicità e del mistero, annullando -secondo un procedimento tipico che sottintende la fuga dalla realtà– i confini della storia, per assorbirla in una visione esistenziale: così Alessandro Magno, arrivato ai confini della terra, piange, perché non può più "guardare oltre, sognare" (Piange dall’occhio nero come morte / piange dall’occhio azzurro come il cielo, Alèxandros); così l’etera non è più la creatura splendente di bellezza e di vita della tradizione classica, ma è la donna affannata che, nell’Erebo, è circondata dalle larve dei figli non nati; e "l’odissea" di Ulisse conduce l’eroe non verso le fascinose plaghe del mito (Polifemo e le sirene sono illusorie costruzioni della fantasia), ma verso l’orrenda morte.
CALYPSO
L'ultimo viaggio è il più ampio dei Poemi conviviali, un vero e proprio poemetto in ventiquattro canti brevi. «L'ordito è quello dell'Odissea: Ulisse ripercorre le varie tappe del suo lungo errare, a risognare il suo sogno giovanile, ma invano: a ogni tappa e Circe e il Ciclope e le Sirene si scoprono come illusioni dei sensi; col naufragio dinanzi all'isola di Calypso si spegne il suo sogno estremo».
Non dovrebbe essere difficile cogliere le differenze di risultati poetici fra le altre liriche di Pascoli dei Poemi conviviali, i quali, in gran parte, nascono dalla suggestione di memorie storiche e di realizzazioni poetiche del mondo classico. Nel caso specifico de L'ultimo viaggio, l'opera a cui il Pascoli guarda con ammirazione ed amore è l'Odissea (ne tradusse ampi stralci): il poema nasce quindi come un testo che ne sottintende uno precedente, come una operazione poetica riflessa, vale a dire poesia sulla poesia. Pascoli rifà Omero, con un endecasillabo cui la frequenza degli enjambements conferisce solennità epica, con la ricchezza dell'aggettivazione («pampinea vite», «odoriferi cipressi», «olezzante cedro»), col ricorso alla ripetizione di uno stilema fisso (le «garrule cornacchie» dei vv. 8 e 14), col gusto della descrizione particolareggiata (che ha talvolta, ci sembra, compiacimenti di gusto liberty: v. 38-39, « e sopra l'uomo un tralcio / pendea con lunghi grappoli delI'uve» ; v. 49-50, «Ed ella avvolse l'uomo nella nube / dei suoi capelli»).

Ha messo bene in luce la componente di scaltrita letteratura, di preziosismo, di alessandrinismo che domina i Poemi conviviali, Domenico Petrini (1902-31), che nel 1955 il Contini definiva «il miglior interprete del Pascoli». “Nient'altro nei Conviviali, oltre questa esteriorità preziosa. Per intenderli bisogna guardarli così: poesia raffinata di letterato che s'incanta dell'antico con l'illusione di riviverlo nella sua anima risentendone più d'avvicino le forme. Con un gusto che è schiettamente prezioso: il nome, la parola sono selezionati con cura, attraverso il realistico arrivandosi al raro.
Guardiamo L'Ultimo viaggio di Ulisse. Una piccola "Odissea" in cui continui sono gli echi della poesia omerica, della poesia omerica rifatta italiana da Pascoli. Minuziosa la ricerca del termine tecnico, e minuziosamente accertata: pedagna, scassa, mastra, righino, drizze, caviglie, briglie, scalmi, stroppo, bracci; timone, remo, alleggio, stiva, doghe, canapi, barra, vele, scotte, remi, scalmiere, sartie, stragli, pece, scalmi, stroppi, pale, carena, gomene...
Il particolare non sa sottomettersi in questa poesia, al motivo centrale, ma l'accompagna, come estraneo, con l'inevitabile conclusione di disperderlo in una serie di visioni frammentarie. Tutto il valore dell'opera è nella costruzione della parola: qui passa in secondo piano l'ispirazione volutamente morale, e si scopre nella sua verità e nella sua pienezza l'amore delle forme raffinate: lavoro su materia che preesiste alla creazione del poeta e in cui tutto è lasciato al travaglio formale dell'artista.”

Odi e Inni: contengono componimenti scritti a partire dal 1903. Pascoli qui assume il ruolo di poeta–vate e celebra gli eroi nazionali, le realizzazioni del lavoro e della tecnica, le grandi esplorazioni; il Pascoli aderisce alla tradizione, instaurata dal Foscolo e ribadita dal Carducci, del poeta educatore e vate, depositario di un messaggio; il contrasto tra l'impegno morale e sociale ed il temperamento lirico determina però nella raccolta una certa enfasi oratoria e l'adesione a temi scarsamente sinceri ed efficaci.
Per quanto riguarda il resto della produzione pascoliana, va notato che esiste una netta sproporzione, sul piano qualitativo, tra la poesia e la prosa. Quest'ultima appare infatti nettamente inferiore nelle opere di critica e nei discorsi. I vari poeti sono interpretati in modo troppo personale, deformati ed adattati alla sua sensibilità decadente. Ciò vale anche per le pagine di interpretazione dantesca.

Un cenno a parte merita la produzione in latino, rappresentata dalla raccolta Carmina, postuma, che comprende 31 poemetti e 73 poesie più brevi, la cui importanza consiste nell'interpretazione che in queste pagine viene fatta di un particolare momento della storia romana. L'autore si orienta infatti secondo la sua sensibilità ed il suo gusto decadente, verso il mondo tardo imperiale, ossia descrive la fine dell'impero romano, con quel senso di tramonto ed anche di speranza nell'avvento di un'epoca di pace. Nei carmi si notano accenni al nascente Cristianesimo, in particolare nel Centurio. L’importanza raggiunta dal Pascoli supera le premesse da cui egli parte: il poeta infatti è alieno dai grandi temi e dai toni energici e risentiti, tuttavia, pur nella semplicità del suo atteggiamento e dei suoi interessi, grazie ad alcune soluzioni elaborate dalla sua sensibilità (fra cui la scelta dei temi semplici del linguaggio, dello stesso simbolismo, che non è artificioso ma fa tutt'uno con l'argomento trattato, la nuova funzione consolatrice ed umanizzatrice della poesia) appare come colui che più di ogni altro ha saputo accogliere ed esprimere lo spirito e la sensibilità poetica del Decadentismo italiano.(Luigi Tripodaro  “Appunti di Letteratura italiana”)

Il fanciullino: La poetica del fanciullino:
In un suo scritto famoso, "Il fanciullino", Pascoli definisce ampiamente la sua poetica.
La poesia non è "logos", cioè razionalità, ma consiste in una perenne capacità di stupore tutta infantile, in una disposizione irrazionale che permangono dentro l'uomo anche quando si è cronologicamente lontani dall'infanzia.
Il poeta viene paragonato al fanciullino che si mette di fronte alla realtà rendendo inattiva la ragione: sa attribuire significati alle cose che lo circondano, estremamente soggettivi.
Il poeta, come il bambino, secondo Pascoli, è privo di malvagità, è caratterizzato dalla condizione di stupore e dalla capacità di riflettere i propri stati d'animo nelle piccole cose.
Il poeta-fanciullino è una figura astratta perchè non tutti i fanciulli sono buoni e, imperfetta in quanto il poeta non riuscirà mai pienamente nel suo tentativo di tornare bambino.
 Questo fanciullino "...alla luce sogna o sembra sognare ricordando cose non vedute mai... parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle; popola l'ombra di fantasmi ed il cielo di dei...".
Il fanciullino "...impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare e... adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e viceversa...".
"... Il nuovo non si inventa: si scopre..." e la poesia consiste nel trovare nelle cose "il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l'oscuro tumulto della nostra anima...".

LA POETICA
«Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l' uno e l' altra. Egli, anzi, quando li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!) più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. É, per usare immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad arringare. Egli non trascina, ma é trascinato; non persuade, ma è persuaso.»[…]
«Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria) che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l' amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre, non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose le quali, per noi, fecero essi.
É così?
……………………………………………………………………..Sì.»                  (G. Pascoli, Il fanciullino, 1897)
I punti essenziali:
Vi è in tutti noi un fanciullo musico (il "sentimento poetico") che fa sentire il suo tinnulo campanello d’argento nell’età infantile, quando egli confonde la sua voce con la nostra – non nell’età adulta quando la lotta per la vita ci impedisce di ascoltarlo (l’età veramente poetica è dunque quella dell’infanzia).
Infatti, è tipico del fanciullo vedere tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta; scoprire la poesia nelle cose, nelle più grandi come nelle più umili, nei particolari che svelano la loro essenza, il loro sorriso e le loro lacrime (la poesia la si scopre dunque, non la si inventa).
Il fanciullino è quello che alla luce sogna o sembra di sognare ricordando cose non vedute mai; è colui che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi alle nuvole, alle stelle, che scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose, che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alle nostra ragione (la poesia dunque ha carattere non razionale, ma intuitivo e alogico).
Il sentimento poetico, che è di tutti, fa sentire gli uomini fratelli, pronti a deporre gli odi e le guerre, a corrersi incontro e ad abbracciarsi, per questo la poesia ha in sé, proprio in quanto poesia una suprema utilità morale e sociale. Non deve proporselo però, in quanto la poesia deve essere "pura", non "applicata" a fini prefissati; il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro.... La poesia ha una funzione consolatoria: fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato.

IL FANCIULLINO
Nello scritto intitolato Il fanciullino, pubblicato nel 1897 e nella sua redazione definitiva nel 1902, Pascoli espresse meglio che altrove i canoni della sua poetica.
Vale la pena sottolineare la «dimensione riduttiva» che ha questa poetica. Pascoli qui si inquadra cioè in tutta una corrente di fine Ottocento (particolarmente operante in Francia) che mira a superare i confini logico-razionali entro i quali prima sembrava dovesse limitarsi la poesia; ma egli, anziché imboccare, in questo superamento, la dimensione visionaria o teorizzare l'impegno di dar voce all'inesprimibile (si pensi a Rimbaud), fa regredire l'attività poetica a stupori infantili, a capacità prelogica, a tinnulo squillo di campanello che ancor può echeggiare nell'incallito animo dell'uomo adulto (ed è qui l'origine di tanti suoi atteggiamenti «pargoleggianti», di quei toni fastidiosamente queruli che di frequente si incontrano nella sua produzione). Visione, questa, che da un lato non può approdare alle arditezze espressive consentite ad altre poetiche anch'esse irrazionalistiche, dall'altro va collegata a quella scoperta dell'infanzia (o regressione nell'infanzia) come fuga dalla storia che è tanta parte dell'ideologia pascoliana.
Sul «fanciullino» ha scritto Giorgio Bàrberi Squarotti:
L'interpretazione del discorso sul «fanciullino» è sempre stata (dal Croce al Binni fino al Salinari) poco comprensiva per le ragioni del Pascoli: il linguaggio volutamente dispersivo, non raziocinante, ma procedente per intuizioni, spunti, illuminazioni improvvise, ha portato gli interpreti a restare sul piano della lettera (cioè all'immagine del «fanciullino», usata allora per definire la poetica e la poesia del Pascoli come una sorta di bamboleggiamento, ovvero come l'esplicazione di un'attenzione per le piccole cose, immediatamente colte con vergine sguardo), senza scendere nel reale significato del simbolo. In realtà, il Pascoli, mentre respinge l'idea di una poesia «applicata» (cioè civile, morale, politica, ecc.), e dichiara che la grande poesia è rara e di breve durata, in consonanza con la linea ottocentesca e novecentesca della «poesia pura» (come ha molto felicemente indicato l'Anceschi), si serve dell'immagine del «fanciullino»-sia per segnalare il modo assolutamente nuovo della sua ottica poetica, che è rovesciata rispetto a quella consueta, normale, obiettiva (cioè «adulta», nel senso della conoscenza razionale e scientifica), e privilegia l'apparire sull'essere, onde può capovolgere i rapporti fra le dimensioni, i luoghi, gli oggetti. In più, il «fanciullino» significa il privilegio accordato a ciò che è pre-razionale di fronte alla scienza e alla ragione: l'invenzione rispetto alla riproduzione realista, iI sogno rispetto al «vero», la «distrazione» rispetto alla logica, l'arbitrarietà del segno e della parola contro la normalità comunicativa. In questa prospettiva, la stessa «poetabilità» degli oggetti è sottoposta a scelta: che è, appunto, quella arbitraria di uno sguardo che si è liberato ormai completamente dalle buone regole di decoro di «classe», a cui la tradizione italiana aveva sottoposto il «poetabile». E' un'idea anti-realistica della poesia e delle sue funzioni: ma è anche uno dei punti più avanzati (alla dine dell'Ottocento) della meditazione di poetica in Italia in consonanza con la poesia moderna in Europa.

 


ELEMENTI DELLO STILE

Il linguaggio:
Pascoli è perplesso di fronte alla realtà e assume un atteggiamento vittimistico. Per questa ragione i suoi temi, che sembrano estremamente semplici, sono carichi di simboli, in quanto egli usa la tecnica del correlativo-oggettivo che gli permette di trasferire i suoi stati d'animo negli oggetti che lo circondano. Perciò egli si serve di un linguaggio simbolico, evocativo e denso si suggestione.
Contini ha individuato, nell'autore, un linguaggio pregrammaticale, uno grammaticale, e un altro postgrammaticale. Il primo è costituito essenzialmente dalle onomatopee, il secondo corrisponde a quello dell'uso e l'ultimo coincide con le lingue speciali. L'uso di questo linguaggio tecnico lo avvicinerebbe allo stile veristico, ma bisogna tenere conto della coesistenza di questi 3 linguaggi che rende possibile un'innovazione: la sua poesia è infatti evocativa e fortemente soggettiva, assolutamente non descrittiva, come prevede la poetica del decadentismo. Tra l'altro Pascoli si impegna in una sperimentazione che lo porta a usare, nel poemetto Italy, un "pastiche" linguistico di grande originalità.
Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.
Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...).
Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche.
La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.
Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.
Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo.

 

 

(liberamente tratto da Enrico Galavotti , Luigi Tripodaro, antologia della critica ecc.   )

 

Fonte: http://digilander.libero.it/leo.eli/classe%20V_MATERIALI/MATERIALI_ITALIANO/AUTORI/02_Pascoli/0_GiovanniPascoli%20_vita-opere-pensiero.doc

Sito web da visitare: http://digilander.libero.it/leo.eli/

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