Pascoli parole d'amore

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Pascoli parole d'amore

Pascoli:
parole d'amore
di
Natale Missale
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Non c'è solo dolore nelle poesie di questo grandissimo poeta, ma anche quella gioia scaturita dal contatto con la Natura, quella felicità di vivere,  che suo padre e tanti suoi parenti, morti anzitempo,  non poterono assaporare fino in fondo. "Rimangano rimangano questi canti sulla tomba di mio padre!… Sono frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane", scrive il Pascoli nella prefazione alla raccolta di poesie Myricae (Pascoli - Opere vol.I - Rizzoli, pag. 69). Egli dunque considera le sue poesie fiori, parole d'amore. Ecco come, in questo modo, Giovanni dichiari quasi di aver vissuto la sua vita per sé e per gli altri che non hanno potuto viverla, e come l'abbia gustata per sé e per gli altri che non hanno potuto gustarla. Questo sacrificio d'amore esala da ogni sua poesia, anche dai versi che sono vere e proprie lacrime di parole, come quelle, per esempio, di cui abbonda la prima poesia di questa raccoltà: Il giorno dei morti: "E quel cipresso fumido si scaglia / allo scirocco: a ora a ora in pianto / sciogliesi l'infinita nuvolaglia …. Sibila tra la festa lagrimosa / una folata, e tutto agita e sbanda. / Sazio ogni morto, di memorie, posa." Oppure quelle altre che mette in bocca a suo padre, che anziché gridare vendetta contro chi, sconosciuto, gli ha tolto la vita, implora per lui perdono; e quelle altre rivolte a Dio, affinché protegga i suoi figli orfani, e la loro madre, sua sposa. Lacrime di parole, come i due conclusivi versi di questa triste poesia: "O madre! Il cielo si riversa in pianto / oscuramente sopra il camposanto".
Ma ecco: mano mano che ci si inoltra nell'animo di questo poeta attraverso le sue poesie, ci viene incontro quell'elemento di musicalità che riesce ad armonizzare l'animo di chi legge, così come riesce a fare una composizione musicale mozartiana o d'altro grande maestro. Pascoli ha un contatto intimissimo con ogni parola. Riesce a spremere da ognuna di esse il succo dello spazio-tempo da lui vissuto ad ogni istante. Tuffandosi dentro ogni cosa sentita, ne esce fuori come zuppo di emozioni, che ci vengono spruzzate addosso con lo scoppiettante incalzare delle rime. Ma ogni parola viene esaltata da tutte le altre, in un gioco di amplificazioni reciproche capaci di creare sinfonie mitologiche. Una scena campestre, un tramonto, un treno che passa, vengono visti come in un "mondo delle idee" platonico, un mondo vero. Tutti abbiamo assistito alla mietitura, ma se lo facciamo con gli occhi di Giovanni, la scena diventa archetipica, capace, cioè, di racchiudere in sé, tutte le centinaia di migliaia di mietiture diverse, cui ognuno di noi ha assistito. Quante volte abbiamo osservato nostra madre o nostra nonna cucire? Ma quante altrettante volte questo cucire ci è sfuggito nella sua essenza? Pascoli, il nocciolo di esso,  ce lo offre in pochi versi: "c'è del biondo alla finestra / tra un basilico e una mente: / è Maria che cuce e cuce". Anche il Pascoli osserva come noi qualcuno che cuce (la sorella Maria), ma egli riesce a cogliere l'essenza dell'azione che a noi era sfuggita, distratti dalla dolcezza della cucitrice di turno. Oltre che tale dolcezza Giovanni, con quel "cuce e cuce" ci offre, nella ripetitività dell'azione, la non azione della sorella, che, come un maestro Zen, dimentica di sé, lascia che sia il cucire; ed allora, per tutto il tempo in cui l'ago va e viene, "Maria è", ed essendo ci fa assaporare l'Essere da cui si mostra cucendo. Sembra paradossale tutto questo, soprattutto alla luce dell'ateismo del Pascoli, ma spesso i poeti, pur dichiarandosi senza-Dio, riescono a sfiorare le vesti della Bellezza e della Verità, nascoste in madre Natura. Non solo. Spesso l'ateo poeta sposta i confini della propria anima in tutte le direzioni, riuscendo ad amare, e quindi essere, ogni cosa. Vedi per esempio Romagna (Op. cit. pag. 88):  "E s'abbracciava per lo sgretolato / muro un folto rosaio a un gelsomino: / guardava il tutto un pioppo alto e slanciato, / chiassoso a giorni come un birichino": Giovanni si fa pioppo, rosaio e gelsomino, straripando da sé.
Quando un filo d'erba viene estirpato, un uccelletto ucciso, un muro abbattuto, alla sua anima manca ove posarsi, stendersi, e la sua poesia diviene allora un "buco nero" pieno d'energia che, mentre inghiotte la cosa sparita, ce ne rimanda la vita. E' il caso di La quercia d'Hawarden (op. cit. pagg. 555 - 557). Essa sta lì abbattuta dalla scure, ma Giovanni, cantandone la vita passata, la fa rivivere per sé e per noi: "O nidi che celava il tuo fogliame! / O nell'alto pietà stridula e varia / di voli fermi, come d'api a sciame! / O stormi usati che al dorar dell'aria / scendean in te per celebrar la festa / della lor giovinezza, o centenaria! / O stormi erranti che per l'aria mesta / di nubi nere in te scendean fidenti / a sfidare il fragor della tempesta!" Adesso, la terra dove giganteggiava la quercia è un deserto: la scure della morte l'ha finita, come ha finito William Ewart Gladstone, quel ministro inglese, che ospitava in casa chiunque lottasse nel proprio paese per la libertà. Egli come la quercia ospitava esseri liberi, entrambi da soli erano come un bosco, ma adesso, ove si trovavano è rimasto un lido, "lido a cui scaglia i flutti la bufera / che già s'appressa…/ vento di guerra, vortice di strage / corre la terra, e le speranze sante / nel cielo scuro svolano randage" Entrambi, alberi della libertà, sono morti. Il vuoto lasciato dalla quercia, energicamente, ricrea la natura accogliente della stessa, attraverso i versi di un poeta che non sopporta il vuoto d'una vita stroncata. L'assenza della quercia è una tragedia per tutti coloro che in essa trovavano rifugio: era la casa della libertà di diecimila esseri che adesso "svolano randagi", volano, cioè, senza grazia e senza geometrie, senza gioco, senza felicità, senza libertà. Tuttavia, questo dilagare dell'anima e dello spirito riusciva solo a spostare l'orizzonte del mistero, perché il sapiente: "Oh! Scruta intorno gl'ignorati abissi: / più ti va lungi l'occhio del pensiero, / più presso viene quello che tu fissi: / ombra e mistero". (Id. pag. 99). Il Pascoli, pur essendo riuscito a sublimare il suo dolore in altissima poesia attraverso un lungo lavoro di soluzione di esso, pur essendo riuscito a far della sua vita un forno in cui cuocere il suo tempo disperato, pur avendo conseguito l'inossidabilità del suo stupore per poter poetare "all'infinito", non riesce a crescersi e continuamente rincorre la sua ombra come Peter Pan. Nella poesia Abbandonato (Op. cit. pag. 105) riesce persino a far "piangere sorrisi": un solitario bambino moribondo viene assistito da un Santo, da un Angelo e da Maria, i quali cercano di traghettarlo in Paradiso, ma lui ha voglia di pane, di un panno caldo per il letto freddo, della presenza di mamma per dormire sul suo petto. Tutti sono sconsolati, ed a quel punto "La Vergine Maria piange un sorriso" ed "egli va, desolato, in Paradiso". La Vergine Maria che piange un sorriso è di una forza poetica incredibile: in un verso, il Nostro riesce a conciliare due opposti, due parallele che mai avrebbero potuto incontrarsi. E questo è genio poetico. Questa strana atmosfera d'amore e di morte percorre tutta la poesia di Giovanni: quante volte i cipressi fanno da protagonisti nelle suoi versi! Con la loro maestosa altezza e flessibilità, con i loro fitti rami sempre pronti ad accogliere nidi di qualunque tipo di volatili, con il loro simbolismo di guardiani dei cimiteri. Nella poesia La civetta (Op. cit. pag. 107) vengono detti guglie di basalto; nero colonnato. Come un tempio, in questi pochi versi, i cipressi, ovvero la Natura, accolgono i nidi di tutti gli esseri, ma un grido di fattucchiera echeggia in mezzo alla brughiera mentre tutta la vita dorme entro i cipressi: è la civetta (la morte sempre in agguato nella Natura), che passando "con ali molli come il fiato", scuote il nido di ogni vivente, mentre l'eco della stridula voce lascia orme nell'aria.
Una cosa è stata poco sottolineata dai molti commentatori di Pascoli, e cioé la capacità che egli ha di stimolare tutti i sensi del lettore. Questo accade perché Giovanni si abbandona alla Natura, e a tutti gli esseri cui essa dà sostentamento, con tutti i sensi. Ed allora ecco i profumi dei fiori, del frumento, della menta e del basilico, della campagna dopo il temporale; ecco ancora le stupende scene presentate al nostro sguardo con tale intensità d'amore da divenire a volte quasi insopportabili al cuore; quindi ecco i sapori, le sinfonie pastorali mai uguali; ed infine anche gli abbracci delle madri ai figli, dei figli alle madri e alle nonne, o le ideali carezze del poeta ad ogni cosa tocchi la sua sensibilità. Vediamo allora "bimbetti" mentre "mamma li stringe all'odorato seno"(Festa lontana); vediamo il carro passare e d'improvviso "sbuca il can dalla fratta, come il vento; / lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia. / Il carro è dilungato lento lento, / Il cane torna sternutando all'aia" (Il cane). Oppure "Il bimbo dorme sopra lo sgabello, / fra le ginocchia, al ticchettio dell'ago (Dopo?); oppure ancora "Di tra un silenzio candido di trine / parla il mistero in suono di vagito"(Vagito). Tutto ciò può accadere perché il mondo vive sempre a mezzanotte: buio fitto, tutte le finestre sono chiuse, si dorme: ovvero nessuno che sia consapevole della propria esistenza e di quella degli altri. Per fortuna di tanto in tanto qualche finestra illuminata indica la presenza d'un poeta: "Tutto è chiuso, senza forme, / Senza colori, senza vita. Brilla, / Sola nel mezzo alla città che dorme, / una finestra, come una pupilla / aperta…" (Mezzanotte). Sì, i poeti sono la pupilla aperta dell'umanità che dorme sonni profondi, mentre la vita scivola fra sogni che coprono la Natura con tutti i suoi corpi-simboli. Il poeta vigila e canta, e mentre canta scrive con parole le musiche più belle che la vita ci regala, ma che il nostro russare copre irrispettosamente. La pupilla del Pascoli non solo è aperta sul mondo e brilla, ma canta pure la gioia del suo vedere e del sentire d'ogni senso. Leggendo le poesie di Giovanni, a volte si ha la sensazione che con esse egli abbia cercato di rallentare la corsa del mondo e del tempo per consentire a tutti noi di aprire gli occhi e di vedere quello che lui ha visto, di odorare quello che lui ha odorato e di gustare e toccare quello che lui ha gustato e toccato, paradossalmente ci ha offerto anche le cose che sono sfuggite ai suoi sensi. Ecco allora come bisogna approcciarsi alle sue poesie: bisogna rallentare, come davanti a un quadro in un museo, e aprire la finestra dell'attenzione, dell'esser-ci, per consentire alla Natura racchiusa nel dipinto di scavalcare la cornice e di raggiungerci coi suoi colori, profumi, suoni, tocchi, gusti. A quel punto "Il gallo canta, fuggono le larve" (Povero dono), laddove il gallo altri non è che l'alba, e le larve non sono che i fumosi irreali sogni. La vita è lì col suo doppio aspetto di verità e bugia, di simbolo e concretezza, di corpo e anima. La vita è lì che si osserva dai diecimila occhi degli esseri, che sono proprio per il suo Essere. Solo allora ci siamo veramente, e viviamo, perché non è più nostro il vivere, ma d'una VITA UNA e IMPERSONALE, che in noi si vive e canta. Ma l'uomo dorme e crede di essere protagonista d'una vita che ignora, e fino a che dormirà, il male sarà l'erba più diffusa sulla nostra terra, "E tu, Cielo, dall'alto dei mondi / sereni, infinito, immortale, / Oh! D'un pianto di stelle lo inondi / quest'atomo opaco di Male!" (X Agosto). La terra come "atomo opaco di Male"; opaco, senza luce, senza amore, e tanto piccolo da essere insignificante nell'economia dell'universo. Ma allontaniamoci da questa bruttura, per sorseggiare un poco di quella vita contadina ricca di poco e di bello: "Mentre nell'aia, là, del contadino / trebbiano nel silenzio del mattino" (Stoppia). Vivere abbracciati alla Natura nel più rispettoso dei silenzi; confondere il proprio corpo con cose, vegetali, animali, uomini, in religioso mutismo, in sacra attività. Un grazie continuo si leva da quell'aia silenziosa, un sì totale alla Natura Madre, un grazie smisurato. Pur così ricco di silenzio, questo quadro sonoro, fa ricordare i mille altri, quei buchi neri che, trattenendoci lungo gli orizzonti degli eventi, ci rallentano il tempo, dilatando la nostra età per anni ed anni, mostrandoci stelle nane e soli immensi, che, inghiottiti, stanno dal fondo dell'imbuto, girando come splendidi dervisci ruotanti. Non vorremmo però inflazionare di esaltanti aggettivi questo breve saggio. Freniamo quindi il nostro entusiasmo, per continuare questo bel viaggio attraverso l'opera in versi di Giovanni. Spesso si odono in essa echi leopardiani, nonostante il Pascoli, ostinatamente, si attiene alla lunghezza dei versi. Sentiamo questi echi, per esempio, in In chiesa: "Sciama con un ronzio d'api la gente / Dalla chiesetta in sul colle selvaggio; / e per la sera limpida di Maggio / vanno le donne, a schiera, lente lente; … / Il rombo delle pie laudi nell'aria / palpita ancora; un lieve odor d'incenso / sperdesi tra le mente e le ginestre. Oppure in Notte: "Siedon fanciulle ad arcolai ronzanti"; oppure ancora in Rammarico: "Il cielo s'alza e tutto trascolora; / passano stelle e stelle in lenta corsa"; o infine ne I gattici: E pigra ancor la nebbia mattutina / sfuma dorata intorno ogni sarmento". Ma il Leopardi, il Carducci (suo maestro) e i mille poeti che l'hanno preceduto ci sono tutti, ma il nostro breve lavoro non consente un approfondimento in tale direzione. Alla fine, come sempre accade, ogni poeta è la risultante di tutti i poeti che l'hanno preceduto, con in più quel condimento essenziale che è il succo della propria vita. Ecco perché, in fin dei conti il Pascoli è il Pascoli ed il Leopardi, il Leopardi. Le poesie di ogni poeta non sono che traiettorie, linee originate da un punto di autoconsapevolezza, ma ogni linea dà vita ai ricami più impensabili, imprevedibili, e la bellezza si veste degli abiti più belli, dei colori più accesi, degli odori, dei sapori, degli abbracci più sentiti. Quindi, quando emulando il suo maestro il Pascoli canta "Il fiume va con lucidi sussulti / al mare ignoto dall'ignoto monte. / Spunta la luna: a lei sorgono intenti / gli alti cipressi dalla spiaggia triste, / movendo insieme come un pio sussurro" - quando Giovanni così canta, è lui e solo lui a scorre come fiume fra sussulti e tristezze, fra luccichii notturni e pii sussurri. Prepotentemente, entra in ogni verso il cuore e la mente del poeta.
Non possiamo lasciar passare sotto silenzio il grande amore per la Natura che unisce Holderlin e Pascoli. Ovviamente va ricordato come il primo ha una tensione verso il Divino che il secondo non ha, e che ad un dato momento della sua vita si consegna alla follia. Pascoli invece rimane fino all'ultimo ancorato alla Natura, soprattutto alla terra che così prematuramente ha accolto le ossa di tanti suoi familiari. Il suo dolore gli fa quasi da ancora  e da telescopio: da un canto consegna i suoi sensi all'universo e si lascia riempire di esso per creare poesie, per cantare; d'altro canto  fugge verso i più lontani spazi, dilagando come un mistico credente, ma trattenuto dal filo di bronzo del dolore covante sotto ogni attimo di vita. Di qui la paradossale situazione dei suoi versi, che esplodono ed implodono in un continuo alternarsi di espansione e contrazione. Ecco dunque il Pascoli abbandonarsi a Il lampo, che, come un occhio nella notte, si apre un solo istante per lasciar apparire una casa, e si chiude "nella notte nera". Oppure eccolo abbandonarsi al successivo Tuono, che dopo la luce saettante che lo precede, rimbomba, rimbalza, rotola cupo, per poi svanire e lasciar posto a un canto di una madre e al moto di una culla. E cosa sono queste oscillazioni, queste espansioni e contrazioni, se non immensi abbracci? Cosa mai fa il nostro Giovanni, se non allargare le sue braccia all'infinito e stringere tutto ciò che riesce a contenere? Forse non ci abbiamo mai fatto caso, ma l'abbraccio di un poeta non è per nulla inferiore a quello di un astrofisico o di un biologo: lo sconfinamento di un poeta a volte riesce persino a superare la velocità della luce ed a sciogliere l'enorme massa accumulata con tale accelerazione oggi ancora impossibile. Potremmo ipotizzare che, in prossimità dei 300.000 kilometri al secondo, l'amore del poeta, anziché continuare ad espandersi, dia vita ad un big-bang poetico, producendo un'ulteriore accelerazione poetica.
Molte sono le cose cui si va incontro andando a spasso per l'immenso paesaggio poetico pascoliano. Oltrre a paradossi, sconfinamenti, sinfonie musicali e tante altre cose, a volte ci si può imbattere nell'invisibile. In questo, Giovanni è un maestro. Nella poesia Nevicata (Op. cit. pag. 177) Dopo averci raccontato che: "Nevica: l'aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve;…/ E le ventate soffiano di schianto / e per le vie mulina la bufera;" - riesce a mostrarci qualcosa di non visibile: "passano bimbi: un balbettio di pianto; / passa una madre: passa una preghiera". Con un'alchimia poetica semplice e immediata, riesce a trasformare una madre in una preghiera. E lasciamo al lettore approfondire attraverso quali itinerari di amore egli vi giunga. E con ciò abbiamo dato conto del titolo di questo breve saggio: le poesie del Pascoli sono "parole d'amore", perché oltre ad essere contenitori d'affetti, sono perfetti ingredienti alchemici capaci di trasmutazioni. Ma le trasmutazioni si compiono in tanti modi, anche con le lacrime: "Tale quell'orto ci apparì tra i veli / del nostro pianto, e tenne in sé riflessa / per giorni un'improvvisa alba dei cieli" (Il vischio - op. cit. pag. 219, della raccolta Primi Poemetti). In questa stessa poesia, bellissima e tristissima, Giovanni vive la sua futura morte facendosi albero, un albero attaccato da un parassita vegetale, il vischio, che gli succhia ogni energia, ogni bellezza, ogni soavità, ogni profumo, il tutto ridotto ormai ad "una perla pallida di muco" che "distilla il glutine di morte". E qui l'operazione alchemica possiamo benissimo chiamarla fusione: Giovanni si fonde con l'albero, diventa l'albero. Ma seguiamo un po' il suo canto, come ascoltassimo i gorgheggi d'un usignolo, senza badare al tema o allo sviluppo, e vedendo invece in esso solo armonia e melodia infinite, che come in un adagio wagneriano si dipanano prendendo strade sempre più impreviste: "Era poc'anzi nella valle il ronzo / dell'altre sere. Ogni campana prese / poi sonno in una lunga ansia di bronzo"… - "tra il mutuo calpestio che, dove passa, / lascia nel timo un morto odor di cera" (Il soldato di San Piero in campo) - "vai per un bosco e senti, ove tu vada, / quei fischi uscir più liquidi e più ricchi; / poi, come colpi da remota strada / di spaccapietre, il martellar dei picchi" (La calandra) - "E il telaio sono tra le procelle: / rumoreggiava tutta la contrada / di battenti, di calcole e girelle. / Dopo tanto rumore; alla rugiada: sul verde prato, in una rosea sera, / dritta e lunga, simile a una strada, / c'era la tela; ed era primavera" (La canzone del bucato) - "E nella notte che ne trascolora, / un immenso iridato arco sfavilla, / e i portici profondi apre l'aurora" (Il transito) - "Mentre all'intorno mormora la notte" (Il focolare) - "se mi si svella, se mi si sprofondi / l'essere, tutto l'essere, in quel mare / d'astri, in quel cupo vortice di mondi! / …precipitare languido, sgomento, / nullo, senza più peso e senza senso: / sprofondar d'un millennio ogni momento! / di là da ciò che vedo e ciò che penso, / non trovar fondo, non trovar mai posa, / da spazio immenso ad altro spazio immenso…" (La vertigine) - "S'udiva per le valli e per le strette / l'arido scroscio delle foglie morte…" (L'altra faccia lunare).- " E la terra fuggiva in una corsa / vertiginosa per la molle strada, / e rotolava tutta in sé rettratta / per la puntura dell'eterno assillo / …ella esalava per lo spazio freddo / ansimando il suo grave alito azzurro"… "ma verrà tempo che sia pace, e i mondi, / stringan le vene e succhino d'intorno / e in sé serrino ogni atomo di vita: /  quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto / gelido oscuro tacito perenne; / e il Tutto si confonderà nel Nulla  / come il bronzo col cavo della forma…"(Il ciocco, pagg. 427 - 447) . Ci fermiamo qui, se no, presi dall'entusiasmo, riporteremo tutti i versi pascoliani. 
Nel corso del nostro breve saggio, più d'una volta abbiamo accennato ai Buchi neri, ora, non ci vuole molto per capire come il Pascoli, in questi ultimi versi citati, abbia anticipato la scoperta di essi. I Buchi neri sono masse di stelle talmente concentrate in poco spazio, e la distorsione spazio-temporale intorno ad esse è talmente pronunciata "che tutto ciò che capita nei dintorni della stella - luce inclusa - non riesce a sfuggire alla sua morsa gravitazionale" (Brian Green - L'universo elegante - Einauidi, pag. 67). E' molto oppurtuno concludere questo breve saggio con tale citazione, perché tutto sommato cosa sono i poeti se non stelle che hanno concentrato la loro massa nel cuore, e che con un invincibile campo gravitazionale poetico risucchiano le anime di noi mortali pianeti, imprigionandoci nel fascino della musica delle sfere?

     Grazie, Giovanni, grazie a te ed alla tua splendida Romagna, per tanta bellezza e purezza. Possa il tuo dolore, da nebbia trasformarsi in rugiada per ancora tanti secoli. Possiate, tu e i tuoi cari, riposare in pace. Amen. Grazie di cuore, dal tuo amico Natale Missale.

 

 

 

Fonte: http://www.taote.it/saggi/Pascoli-parole%20d'amore.doc

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