Pascoli proprio non sapeva

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Pascoli proprio non sapeva

QUEL CHE PASCOLI PROPRIO NON SAPEVA
Giovanni Pascoli continua a essere il più discusso, e se non mi sbaglio anche il più studiato, dei nostri poeti di fine Ottocento. Quanti critici e scrittori di versi sono tornati sul Pascoli negli ultimi quarant' anni? Il perché di tanto interesse è un po' complicato da spiegare. Intanto è accertato che l' autore di Myricae, dei Canti di Castelvecchio e dei Poemetti ha influito profondamente, non meno di Gabriele d' Annunzio, sul rinnovamento poetico della prima metà del Novecento; basta pensare ai crepuscolari, a Ungaretti e soprattutto a Montale (che è intriso di Pascoli quanto di d' Annunzio). E in grazia di che cosa ha influito? Dicendola in breve: per il carattere evocativo e l' andamento parlato della sua lingua, per le squisitezze tecniche (l'uso naturale del lessico vernaco-lare, la sintassi franta, i particolari "umili" adibiti a funzione simbolica e non rappresentativa), per i sottofondi irrazionali e "perversi" sfiorati e insieme elusi dalle parole. Noi amiamo in Pascoli questi sottofondi innominabili, amiamo quel decadente che egli non sapeva di essere e non avreb-be voluto essere: il poeta di Gelsomino notturno, Il sogno della vergine, Casa mia (dove l' appa-rizione della madre morta "non anche sazia di lagrime" consente al poeta di confessare piamente al fantasma la sua vita soave "tra le sorelle brave", "tra le sorelle pure"). Poesie dei Canti di Castelvecchio, a cui è d'obbligo aggiungere le pregiatissime Il vischio e Digitale purpurea dai Poemetti. Come si vede, le nostre preferenze non sono originali. D'altra parte, i problemi eviden-tissimi dell'influsso di Pascoli non ci interessano più direttamente. E allora avanziamo un'ipotesi: si continua a discutere e a studiare il Pascoli perché si è attirati dalla mostruosa contraddizione tra certi suoi altissimi esiti e la sua pertinace, coltivata ignoranza di sé. Una strategia dispendiosa L' espressione ignoranza di sé può sembrare troppo vistosa e brutale. Ma tant' è. Essa ci fa toccare senza reticenze il punto paradossale del Pascoli. La sua poesia più attraente per noi, la più nuova in assoluto per le qualità visionarie e la maestria dello stile, si fa strada attraverso una immane Rimozione. La strategia difensiva messa in atto dal poeta è dispendiosa. Gli è costata l'accusa di essere querulo e vittimista. Ma non s' è forse capito da un pezzo che la presenza ossessiva della morte e il ricorrente motivo del pianto, andando ben oltre le note vicende biografiche, non fanno che compensare la sublimazione morbosa e spesso melensa delle represse pulsioni libidiche? "Nel mio cantuccio d' ombra romita/ lascia ch' io pianga sulla mia vita!". Di conseguenza non stupisce affatto che il Pascoli fornisca nel Fanciullino una poetica suggestiva ma incongrua, diciamolo pure, buona a tutti gli usi. Il suo lirismo più morbidamente ambiguo, straziato nella fuga immobile, nasce nonostante la poetica romantico-popolare e falso-antica proclamata in quel famoso saggio. Il quale ha consentito letture parziali e distorte variamente fertili. Ho sentito affermare tante volte che in quelle pagine si esprime l' idea simbolista della "poesia pura". Ora, la poesia pura di cui parla il Pascoli è tale perché, fuori di proposito, con innocente naturalezza, "di per sé ci fa meglio amare la patria, la famiglia, l'umanità". Se si legge tranquillamente il contesto del Fanciullino, risulta del tutto evidente che la "poesia pura" argomentata dal Pascoli non ha niente da vedere con quella dei simbolisti e decadenti. E' invece quella che per istintiva bontà ignora il male, lo schifa, essendo una cosa sola con la "virtù". Il pasticcio teorico del Pascoli sta sotto i nostri occhi, se vogliamo vederlo. Da un lato c' è il principio poetico autonomo, libero da ogni condizionamento, la "poesia pura" (e qui Pascoli sarebbe vicino a Edgar A. Poe, Baudelaire, Mallarmé); e subito dall' altro lato, c' è il sentimentalismo virtuoso che assegna alla "poesia pura" un confine naturale: l' impoetico (sottolineatura del Pascoli) "è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l' estetica proclama brutto". C'è da domandarsi se nel Fanciullino la difesa strategica non si faccia esplicitamente puerile per tenere a bada ciò che la poesia, forse, chissà, nella sua purezza ingovernabile, potrebbe voler dire. Si è dato troppo credito a questa poetica che per fortuna corri-sponde solo parzialmente alla poesia pura e impura scritta davvero dal Pascoli. Ed è anche tale groviglio di equivoci che attira l' attenzione e lo studio. Piange e piange senza ritegno, il fragile poeta, ma nasconde più di quanto rivela. E con ciò non "rigenera l' umanità", ma fa il bene della poesia. Di una cosa il nostro poeta era iperconsapevole, del fatto che la poesia è un' arte. E l' arte, si sa, non soltanto è studio; è continuamente lavorìo, ricerca di spunti, manipolazione di influssi, incrocio e "riscrittura" di fonti, elaborazione di effetti, laboratorio. Perché il poeta s'arrabatta tanto (e del resto gli piace di arrabattarsi e bricolare)? A sentire lui perché a forza di "studio" può ritornare ingenuo, ritrovare dentro di sé il mitico perenne ragazzino; e poi, furba innocenza, perché impara così "a far diverso" dai suoi modelli. Ecco ancora un aspetto seducente, un modo di lavorare (non insolito) che stimola le indagini se è possibile reperire indizi e prove; manoscritti e appunti dell' autore, abbozzi, lettere, libri che ha letto e utilizzato, correzioni, e così via. E' chiaro che in tal caso l' esame esegetico delle poesie si arricchisce di fatti e di ipotesi illuminanti. Sotto questo aspetto, Giuseppe Nava è tra coloro che hanno indagato con più profitto la poesia del Pascoli negli ultimi anni. Dopo averne procurato l'edizione critica, ora ripubblica Myricae  col commento riveduto e ampliato. Prima di avere in mano questo volume curato da Nava non mi passava per la mente la voglia di rileggere il "romanzo dell'orfano" (come Giacomo Debenedetti definì Myricae per affermarne l'intenzionale struttura costruita in parecchi anni e numerose edizioni). Ma il commento del curatore non è soltanto un lavoro di filologia e una ricognizione critica dei contributi altrui. A volte, leggendo le note di Nava, potete tenere la persona di Pascoli quasi per prototipo e, sbirciando nel laboratorio, osservare stupiti come lavora un poeta. Non starò a enumerare la fitta rete di influssi ricostruita da Nava e le reminiscenze da antichi e contemporanei, italiani e stranieri (il curatore accenna anche alla prodigiosa e inconsapevole memoria poetica del Pascoli). Se il punto di riferimento importante è, ovviamente, Carducci, altrettanto notevole è la presenza tematica e linguistica del primo d'Annunzio, e anche scontati sono i rapporti con gli altri poeti della scuola carducciana (spunti ricavati da Panzacchi, Mazzoni, Marradi, per esempio). Meno scontata la presenza in Myricae di Tommaseo, Aleardi, Praga. E c' è il Prati, c'è lo Zanella; e Victor Hugo e Gautier; e Poe. Particolarmente interessanti sono le fonti erudite o di prosa, come Il cannocchiale aristotelico del Tesauro, che secondo Nava potrebbe essere la prima fonte delle onomatopee uccelline, derivate poi pari pari da La vita degli animali del naturalista tedesco Brehm. Sapevate che vengono di lì le voci dei passeri e delle rondini: scilp, scilp, dib, dib e vitt, videvitt? Curiosa l'elaborazione del passo manzoniano della vigna di Renzo in una poesia, Lapide, che peraltro presenta qualche affinità con una composizione di Hugo. E così La notte dei morti corrisponde a un episodio del romanzo L' eredità di Mario Pratesi (apparso nel 1889). Numerosi sono gli spunti manzoniani e leopardiani; ma più colpisce l' importanza, sottolineata da Nava, di un'opera di Michelet, L'oiseau, "per la formazione della simbologia natu-rale del Pascoli". Una poesiola, Morte e sole, può scaturire da una massima di La Rochefoucauld, un'altra da un passo di Omero, o da Saffo, o da Cicerone. Tutto è buono per il poeta che mette in forma un proprio sistema. E qual era il sistema del Pascoli: di pigliare le cose, tutte quante, le piccole e le grandi, animate o inanimate, il fuscello, il musco [muschio] su una pietra, un uccello, una nuvola, un oceano, uno scroscio, un sibilo, una voce, una gallina, un sogno, una persona viva o morta, pigliare le cose e miracolarle. Ma per Pascoli miracolarle non voleva dire risanarle; al contrario: voleva dire farle apparire, nelle parole lucide e sonanti, per quello che sono, ombre struggenti, fantasmi variopinti che scemano verso l'oscurità e l'ignoto. Una poetica che sta a mez-za strada tra Victor Hugo e il decadentismo. E secondo me la si legge al meglio nella poesia intitolata appunto Il miracolo, che, osserva giustamente Nava, è il testo più vicino alle Corre-spondances di Baudelaire e alle Voyelles di Rimbaud (ma non perché derivi da quelle). Potrei commentare a lungo questa bella poesia, viziata tuttavia da un' enfasi che sarebbe stato facile evitare. Pascoli è troppo modesto, immagina che un mago, il poeta che è dentro di lui, gli tocchi gli occhi e che le pupille si aprano alla visione della natura. L'enfasi, superflua, è tutta qui; ciò che il poeta vede, la gradazione dei colori è stupendamente raccolta nelle cinque strofe, dal bianco al nero. Tutto è visione, eppure tutto è molto semplice. Non abbiamo visto anche noi a volte "in cielo bianchi lastricati con macchie azzurre tra le lastre rare"? Le nuvole sanno assumere anche tale aspetto (da non con fondere con le pecorelle). Mai spiegare ai lettori L'inizio esclamativo, vagamente evangelico ("Vedeste, al tocco suo, morte pupille!"), con quel "Vedeste" ripetuto nell'incipit di ogni strofa, tranne l' ultima, ci mette un po' a disagio, depotenzia la normalità allu-cinata delle immagini affidate a prescelti effetti fonici (per un poeta simbolista consapevole della propria poetica le analogie tra colori, immagini, suoni vocalici, non si sarebbero mai appoggiate all' eccezionalità di un "tocco" esterno). Eppure, Pascoli sapeva benissimo, o lo imparò, che una poesia, per quanto strana possa apparire, non deve spiegare ai lettori che sta per essere misteriosa. Se è vero che Myricae è costruito come un romanzo lirico autobiografico, bisogna tene-re a mente che esso si apre con il mestissimo, lacrimevolissimo Il giorno dei morti, e si chiude con il delirio d'immobilità di Ultimo sogno, dove il poeta, guarito di una malattia, in un silenzio improvviso vede al capezzale la madre morta e la guarda "senza meraviglia". E' libero, ma non vuole esserlo, è inerte, guarito ma come morto. E sente un fruscìo sottile, assiduo, come di cipressi, "quasi d'un fiume che cercasse il mare/ inesistente, in un immenso piano:/ io ne seguiva il vano sussurrare,/ sempre lo stesso, sempre più lontano". Un romanzo notturno sentimentale e funereo.  Che potrebbe anche avere una sinistra attualità.                   .                                                             (ALFREDO GIULIANIla Repubblica – il Venerdì, 7.2.1992 )

 

 

Fonte: http://www.liceorighiroma.it/cms/wp-content/uploads/2013/03/pascolidigiuliani.doc

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