Letteratura Gabriele D' Annunzio Decadentismo

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Letteratura Gabriele D' Annunzio Decadentismo

Introduzione
La parola Decadentismo deriva dal titolo di una rivista francese “Le Décadent” usato in tono dispregiativo dalla critica “benpensante nei confronti dei primi poeti decadenti (i così detti “poeti maledetti”, tra cui Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, i quali diedero vita al Simbolismo e che riconoscevano in Baudelaire il loro maestro).
Oggi il termine è usato per indicare un preciso momento storico che va grosso modo dal 1880-90 al 1950.
Positivismo e Decadentismo
Il Decadentismo si presenta come una ripresa esasperata dei motivi irrazionali impliciti o espliciti nel primo romanticismo (infatti si incontra talvolta la definizione di neoromanticismo), come reazione spiritualistica al Positivismo, che veniva respinto nei suoi presupposti intellettuali e nelle sue manifestazioni sociali e morali. Il positivismo fu un complesso movimento culturale nato verso la metà del secolo XIX, che reagiva alle astrazioni dell’idealismo e dello spiritualismo. Segnò un ritorno al concreto, allo studio dell’uomo e della natura, in ciò che la realtà è di fatto, rifiutando ogni costruzione astratta ed affermando che l’unica fonte del sapere è la percezione e che ci si deve attenere alla pura esperienza. Quindi nell’attività speculativa bisogna procedere come per le scienze sperimentali; la filosofia si assume il compito di stabilire i rapporti delle varie scienze.
Il sogno più ambizioso del positivismo fu quello di persuadere che la scienza, distruggendo le “superstizioni” religiose, sarebbe riuscita a dare una spiegazione razionale ed esauriente al mistero dell’esistenza ed avrebbe posto i fondamenti per una migliore convivenza tra gli uomini.
Caratteri del Decadentismo
La critica radicale del decadentismo tende soprattutto al ripudio dei valori tradizionali: Dio (almeno come precisa confessione religiosa), morale, ragione, solidarietà sociale, vengono rifiutati allo stesso modo della comprensione della realtà che diventa semplice apparenza, perché la realtà vera è quella indefinibile e misteriosa della vita inconscia del singolo.
Le conseguenze di questo assoluto soggettivismo, dell’esaltazione dell’IO individuale, dell’affermazione e convinzione che solo nell’inconscio risiede la vera realtà, si risentirono in tutti i campi dell’attività umana:
- Sul piano individuale, la frantumazione della realtà e l’esasperato individualismo provocano il senso del mistero, la solitudine, l’incomunicabilità, l’angoscia, a cui si reagisce o con un’orgogliosa affermazione dell’Io (Superomismo-D’Annunzio) oppure, accasciandosi smarriti sotto il peso di un mistero che ci circonda che ci soffoca (Vittimismo-Pascoli).
Il comportamento è caratterizzato dall’amoralismo, dal sensualismo (la vita del senso, non controllata razionalmente ed eticamente, si manifesta in forma autonoma e rappresenta la manifestazione totale dell’essere), dall’estetismo (atteggiamento dello spirito che, al di sopra di ogni cosa pone il bello, i valori estetici, che perciò diventano regole di vita, la vita diventa ricerca e culto del bello, nell’indifferenza per la verità e la morale), dall’attivismo (azione per l’azione in sé, senza alcun fine che la giustifichi e la trascenda).
-Sul piano politico-cociale, trionfa il nazionalismo (corrispettivo del superomismo), che provoca l’imperialismo, il razzismo, il mito dei popoli giovani, la dittatura e la guerra, mentre passano in secondo piano i problemi sociali, quando non si giunge alla repressione vera e propria dei dei movimentati popolari e operai.
La poetica del Decabantismo
Arte, poesia, letteratura sono sentite come i valori in un mondo senza valori: morte tutte le fedi, resiste, implicata o consapevole, la fede nella parola e nel suo ufficio orfico (e cioè religioso e misterico). La poesia é sentita come l’unico tramite tra la creatura e l’inconscio; non é una forma di conoscenza, ma un atto di vita, é la realtà stessa dell’inconscio, perché l’incinscio si può dire che esista solo quando lo rivela la parola, che é creazione totale e assoluta; la parola, cioé, non é una forma che esprime un contentuto, non é un segno che rinvia alla realtà, ma é la realtà stessa, e precisamente la misteriosa realtà dell’inconscio che si esprime. Dice D’Annunzio: “il verso é tutto e può tutto”. E Ungaretti. “quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata é nella mia vita/come un abisso”. La parola dunque é atto spontaneo, irriflesso, alogico, irrazionale e la poesia rifiuta ogni mediazione intellettuale nella ricerca dell’ignoto e dell’assoluto.
Caratteri della poesia decadente
- Simbolismo. E cioé la parola, il verso diventano “simboli”, perché rivelano l’inconscio e il misterioso linguaggio della natura che l’intelletto non può intendere: il paesaggio suggerisce il senso di una misteriosa pressenza, di qualche cosa che sta oltre la bella forma o la bella natura. L’uomo passa “tra foreste di simboli” (Baudelaire).
- Analogia. La poesia cerca e ritrova, spesso con procedimento sinestetico (comprensione simultanea attraverso sintesi e scambi di senzazioni tattili, visive e auditive) e sopprimendo il legame sintattico  “come” (rinunciando, in parole povere, alla similitudine tradizionale ed impiegando la metafora, che é un paragone abbreviato), rapporti e corrispondenze di cose apparentemente diverse o addirittura ostili. L’ analogia rappresenta i legami e le trasmutazioni delle cose tra loro.
(Esempi di analogie: Pascoli: “Soffi di Lampi”. “Pigolio di stelle”.
- Musicalità. La parola perde il suo peso concettuale e conta soprattutto per il suo valore musicale, evocatore di immagini e senzazioni indefinite.
- Panismo. E cioé: dissolvenza dell’uomo nell’universo e viceversa, per la perdita di una netta distinzione tra le due realtà, private di una loro autonomia.
- Frammento lirico. La poesia ha un breve, ma intenso respiro e rifiuta le architetture lunghe e complesse, perchè é rapida intuizione e senzazione e perché il poeta nell’inconscio ritrova una realtà frammentaria.
- Rifiuto della sintassi, del lessico e della metrica tradizionale ed Impiego di una scrittura più o meno asintattico, automatica (vedi il “monologo interiore” di Joyce), di un linguaggio, cioé, che registra l’affiorare disordinato dell’inconscio: Impiego altresì del Verso Libero, mentre i Vocaboli non sono quasi mai adoperati nel loro significato abituale (tutte cose che spiegano l’ oscurità dei poeti moderno).
- Rifiuto della funzione civile della poesia, almeno nelle forme tradizionali (im quanto la poesia mantiene comunque il suo carattere di “messaggio”).
- Nuovo sentimento del tenpo: vengono travolte le normali distinzioni tra presente-passato-futuro (determinante fu l’influenza di Bergson)
- scomparsa di una netta distinsione tra realtà esterna e mondo interiore, con completo assorbimento della prima nel secondo.
Gabriele D’Annunzio (premessa)
Il D’Annunzio fu l’interprete più prestigioso della offensiva antipositivistica, antirazionalistica, antidemocratica di fine secolo XIX. Temperamento sensuale, irrazionale, egoistico, attese alla celebrazione orgogliosa del proprio “io”, come centro di innumerevoli sensazioni, e della propria vita vissuta al di là di ogni norma e legge umana. Nell’amore fisico, nell’istinto sensuale, nell’ebrezza erotica ritrovò lo stimolo per fondersi con la misteriosa anima della natura, per attingere il segreto della vita, intesa come perenne rinnovarsi di forme di bellezze e di forza, come festa di suoni e di colori.
Il D’Annunzio rifiuta la ragione come strumento di conoscenza e di fondazione di valori spirituali e si abbandona alle suggestioni dell’istinto e del senso; considera la sensualità l’unico mezzo per attingere la vita segreta e frofonda dell’ “io” e per attuare la comunicazione immediata del proprio essere con le forze primigenie della natura (PANISMO: dissolvenza dell’uomo nell’universo e nell’universo dell’uomo; riduzione della coscienza in puro essere istintivo).
La poesia é scoperta, adeguamento e trascrizione del continuo ritmo, cangiante e molteplice, con cui la natura dà vita alle sue innumerevoli forme; la parola, ridotta a pura musica avocativa, quasi completa dell’opera della natura; é creatrice di una nuova realtà. Il poeta é “un mistero musicale con in bocca il sapere del mondo”; “il verso é tutto e può tutto”; “la parola é una cosa profonda, in cui per l’uomo di intelletto sono nascoste inesauribili ricchezze” (D’Annunzio).
Alla classe media del suo tempo il D’Annunzio apparve il realizzatore di tutti i sogni proibiti: coraggio indomito, aspirazione alla potenza, desiderio di gloria, esperienze erotiche eccezionali, eleganza raffinata, eloquenza sonora, disprezzo per la plebe; da quì la sua fortuna immensa e la sua vita straordinaria e la sua arte prestigiosa esercitarono su un numero grandissimo di persone.
Oggi, naturalmente, il giudizio sulla abbontantissima produzione dannunziana é molto diverso e cioé fortemente limitativo; la critica, pur tra incertezze e oscillazioni sul valore dell’opera dannunziana in generale e di qualche composizione in particolare, ha fissato già qualche punto fermo: ha individuato qualche pagina felice (o comunque significativa) dei romanzi; ha indicato l’acme della poesia dannunziana nel 3° libro delle “Laudi” (“Alcyone”); ha riconosciuto nella “figlia di Iorio” il capolavoro teatrale; ha visto nella narrativa autobiografica diretta nell’ultimo periodo (e in particolare in “Notturno”) la prova più convincente di D’Annunzio narratore.
Sensualismo dannunziano
Elemmento prevalente e caratterizzante del D’Annunzio uomo e poeta é la SENSUALITA’ nel significato più ampio del termine; e cioé non solo come lussuria (anche se tale aspetto é frequente), ma come SENSITIVITA’, come acutezza straordinaria dei sensi, come facoltà di comprendere con realtà e di entrare in contatto con essa attraverso tutti i sensi: udito, tatto, vista, gusto, olfatto, con l’esclusione delle altre facoltà umane intellettuali e spirituali.
Di conseguenza caratteriziamo l’opera e la vita dannunziane l’amoralità, la disumanità, l’orgia di parole-suoni.
Il sensualismo dannunziano dà luogo a composizioni equivoche e fallite dal punto di vista artistico (e umano!) quando si impantana nella lussuria, quando si sofferma con crudele compiacenza su aspetti ripugnanti e animaleschi e quando si raffina e si sublima nell’estetismo di creature d’eccezione; raggiunge invece esiti poetici quando il poeta si abbandona ai brividi più tenui e impalpabili della natura immedesimandosi con le cose stesse, il mare, i fiumi, (panismo) e quando, per una più o meno oscura coscienza del proprio fallimento, infonde alle sue pagine note di sincera malinconia.
Il D’Annunzio rimase sempre più eclettico, aperto a varie e diverse esperienze e influenze (Carducci, Parnassiani, Simbolisti, Naturalismo, Verga, narratori russi, Nietzsche); rimase sempre un meraviglioso       “dialettante di sensazioni” (Croce); la sua arte cioé non ebbe uno svolgimento vero e proprio; sostanza di fondo e immutabile resta il Sensualismo, che in superfice si colora diversamente:
- barbarico e primitivo (Novelle della Pescara - La figlia di Iorio, anche se in questa tragedia, ambientata in Abruzzo, il paesaggio, l’ambiente e i personaggi sono remoti e favolosi);
- raffinato ed estetizzante (Andrea Sperelli, protagonista del “Il Piacere”);
- esausto e malinconico (Poema peradisiaco);
- eroico (Laudi e teatro)
- intimo e raccolto (narrativa autobiografica diretta dell’ultimo periodo).
Neppure la dottrina del Superuomo, alla quale il D’Annunzio ricorse per formarsi un senso della vita che sentiva venirgli meno, riuscì ad imprimere una svolta decisiva alla vita e alla produzione dannunziana, ad arricchirle di nuovi elementi di autentica umanità. Il D’Annunzio restò un istintivo senza centro di pensiero e senza coscienza; il superomismo, dopo il periodo di sensualismo stremato espresso nel Poema paradisiaco, valse solamente a ridurre il poeta alla libertà orgogliosa del suo canto; nel mito del superuomo il D’Annunzio trovò la giustificazione e l’asaltazione del suo mondo sensuale, del suo individualismo amorale.
Né debbono essere sopravvalutati il tono sommesso e l’espressione più sobria e misurata degli ultimi libri, derivanti più da un affinamentodei modi consuenti, da una maggiore perizia tecnica che da una nuova poetica e da un nuovo sentimento della vita.
Il Superuomo
Il mito del “superuomo”, derivato al D’Annunzio dalla lettura di Nietzsche, ha un posto di rilievo nella personalità e nell’opera dannunziana. Il Salinari ne fa risalire la nascita al 1895, con la prima puntata del romanzo Le vergini delle rocce, uscita sul “Convito”, la rivista diretta da Odolfo De Bosis. La concezione del superuomo é profondamente aristocratica: il protagonista del romanzo, Claudio Cantelmo, appartiene a una razza diversa dai comuni mortali, ha l’energia e la forza - che in altri tempi gli avrebbe consentito di riprendere il compito che si addice ai suoi pari, il compito cioé “ di colui che indica una meta certa e guida i seguaci a quella” e che ora, invece, debbono essere concentrate e trasformate in poesia. “La forza é la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile” ed essa si manifesta con la volontà di dominio con l’amore della violenza, lo sprezzo del pericolo, la capacità di godere e di aderire al mondo con tutti i propri sensi. Collegata con la forza é l’esuberanza sensuale, il libero disfrenarsi dei diritti della carne e della natura umana, e accanto di essa si pone, senza contraddizione, il culto della bellezza, valori che pochi sono in grado di comprendere e di creare, linea discriminante degli eletti dalla plebe -.
Il superuomo dannunziano non é però fuori dal tempo, perché la sua polemica si indirizza - contro la plebe, ma anche, e soprattutto, contro la nuova borghesia dell’industria e del commercio e contro i principi di libertà e di ugualianza da essa prolungati con la rivoluzione - .
Il mito del superuomo fu variamente giudicato dalla critica. In genere si é visto in esso un elemento intellettualistico, un mito che lo scrittore avrebbe sovrapposto alla propria natura, falsando l’autentica voce della sua poesia, che perciò vivrebbe al di fuori di esso, in zonee più spontanee e intime, libera dalle magniloquenze retoriche di quella ingobrante ed inutile sovrastruttura letteraria. Osserva ad esempio il SOLMI: - Allorché aspirò al “pensiero”, cioé a decantare moduli e ideali di vita soltanto vagheggianti e ineffettivi, ricavati per estrazione dell’esperienza reale, come furono l’estetismo e il superomismo, si perse nella vacuità del puro suono, nella metafora ricercata, nel gesto sontuoso e irreale -.
Il Gargiulo vede invece nel mito del superuomo il tentativo, da parte del D’Annunzio, di costruirsi una concezione della vita sviluppando l’originaria vocazione di poeta paesista. Ma l’atteggiamento del superuomo non riuscì a fare D’Annunzio un “poeta panico”: il sentimenti panico che innerva le Laudi e i contemporanei romanzi e drammi resta, a ben guardare, un motivo falso. Ne é riprova il fatto che “la vena impetuosa d’ispirazione naturalistica (del Canto nuovo) fu coperta e nascosta da tutta la produzione in cui il poeta andò variamente narrando le sue angosce di uomo sensuale, o falsando e sfalsando la propria natura nella ricerca d’un senso della vita che gli mancava, ( per sgorgar poi fuori in Alcyone...) trascinando ancora con sé i detriti della produzione ultima, del superuomo -.
L’ideale del superuomo ed il sentimento panico
Con la possibilità del Superuomo è congiunta una particolare concezione della vita: il D’Annunzio ricorse al Superuomo per formarsi un senso della vita, che sentiva mancargli. Egli non si contentava, come uomo, di essere solo un sensuale senz’altro, o meglio solo una voce destinata ad esprimere particolarmente la vita del mondo fisico. Aveva bisogno di una più alta, più comprensiva, più larga concezione del mondo; e la trovò nella “morale eroica” e nel Superuomo. Il Superuomo dannunziano sa che il mondo è il suo giardino, di cui egli può cogliere tutti i frutti: i frutti sono proprio fatti apposta per lui, disposti per la soddisfazione del suo infinito desiderio. Sa anche che il mondo tutto è una specie di cera molle su cui egli può imprimere, dovunque gli piaccia, il suo “suggello imperiale”. In altri termini, vive in un mondo in cui sono aboliti i rapporti di necessità di questo mondo, in cui ogni legame concreto tra le cose è distrutto. Non è che vi si respiri un’aria rarefatta: l’aria vi manca addirittura. Ma il Superuomo dannunziano, come dice A. Gargiulo, sa un’altra cosa (ed in ciò si vede come il poeta faceva una traduzione “estetica” del Superuomo nietzschiano, la più adatta alla sua indole): egli sa che la natura, tutto ciò che essi, è fatto per essere configurato da lui in forme di bellezza, per cui egli possa gioirne anche e soprattutto per questa via: la natura aspira alla bellezza, e l’opera del poeta continua quella della natura. Per questa parte, come tutti sanno, concorse alla formazione del Superuomo dannunziano l’opera di Angelo Conti, e, più dell’opera, forse, la conversazione di questo “discepolo” del D’Annunzio, che fu invece, per un verso, un suo maestro. D’Annunzio, naturalista per eccellenza, doveva già essere molto disposto ad accogliere una concezione dell’arte come continuazione della natura, o addirittura come uguale alla natura. Egli diceva, con Conti, nel suo discorso “Nel tempio di Dante”: “i versi di Dante sono i musicali fratelli delle montagne, dei ghiacciai, dei fiumi, delle forze originarie. La medesima verità si esprime in essi e nelle scritture misteriose che fanno aspre le rupi. Ma è assai più facile fondere ed abbattere la più ardua rupe che mutare un verso dell’Inferno”.
Questo modo di concepire l’arte rispondeva ad un’altra tendenza del D’Annunzio: egli aspirava ad uscire dalle singole figurazioni del fisico, proprie della sua natura di artista, per abbracciare con la sua arte l’universo; ad essere, insomma, un poeta panico. Le Laudi furono scritte nel periodo “superumano”; e quel sentimento panico cui il poeta volle dare larghissima esplicazione in queste poesie, fu anche un motivo nelle altre opere, romanzi e drammi, nel periodo medesimo. Fu in queste ultime, come nelle Laudi, un motivo falso. Ma fu, sotto forma di legamenti e rapporti tra tutte le cose, un motivo che rientrava in quello fondamentale di tali opere, cioè nella concezione “superumana” della vita. Il Superuomo è onnipotente e non ha legami di sorta intorno a sé; il mondo in cui egli vive non è il nostro o simile al nostro; è una costruzione particolare in cui sono aboliti i rapporti delle cose; vi domina con l’antistoricità, l’astrazione e l’arbitrio. L’unica armonia che il poeta avesse potuto recarvi dentro era una subordinazione d’ogni cosa al punto di vista del Superuomo stesso. Qual’è questo punto di vista? Il Superuomo sa di essere ultrapotente; ha il senso d’essere il dominatore, il distruttore e creatore assoluto; tratta quindi le cose come gli piace; e, poiché alla sua grandezza giova che le cose siano un infinito complesso armonico ordinato per la sua gioia, egli moltiplica come vuole i legami ed i rapporti tra le cose umane. Il sentimento panico, insomma, che al D’Annunzio serviva come motivo lirico nelle poesie, nei drammi e nei romanzi gli serviva per accrescere la potenza, la frenesia aspirante all’universo, del Superuomo.
Il Salinari infine vede nel Superuomo il punto di arrivo della personalità dannunziana e rifiuta perciò la tesi di chi vorrebbe eliminarlo dalla sensibilità e dall’opera dello scrittore come elemento estraneo alla poesia. Invece proprio dal Studio, in cui si incarna il velleitarismo che il D’Annunzio ebbe in comune con buona parte degli intellettuali italiani, nascono, accanto alla retorica, anche i momenti di autentica poesia.
Il Superuomo nella personalità e nella poesia dannunziana
Il Superuomo è il punto di arrivo della personalità dannunziana. La critica che ha voluto sbarazzarsene come di un fenomeno astratto, soprattutto volontaristicamente dal D’Annunzio alla sua vera natura, ha creato una frattura che poi non è riuscita né a colmare né a spiegare, ha diviso in due quella personalità con una operazione arbitraria che non ha alcuna spiegazione scientifica, ha ricostruito in modo parziale e monco la linea dell’opera dannunziana.
Se, invece, ci si impegna in un’analisi scientifica e si pone al centro di quell’opera il superuomo, essa, nel suo complesso, non potrà sottrarsi alla caratteristica fondamentale che la nostra ricerca ha messo in luce; la sproporzione, nel superuomo, fra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, tra il desiderio e la realtà, fra la tensione spasmodica della volontà e la sua capacità di concretarsi ed autolimitarsi. Il tratto distintivo del superuomo (e dell’opera dannunziana) apparirà, così, il velleitarismo. Un velleitarismo alimentato nelle cose dal contrasto fra un’illusione storica propria di vasti gruppi di intellettuali e la realtà italiana. Un velleitarismo che in D’Annunzio si nutre anche del contrasto tra l’infinito proiettarsi della sensualità ed il suo pratico soddisfacimento, fra la tensione dello stile ed il raggiungimento dell’espressione, tra l’aspirazione ad una posizione europea e le radici culturali abbastanza modeste e superficiali. Voglio dire che quella sproporzione è, innanzi tutto, un fatto storico, reale, che si incarna nel nazionalismo passionale e retorico di cui ho parlato prima e i cui la megalomania di Crispi fu la prima espressione politica. Ed è, inoltre, una caratteristica della sensualità dannunziana imprigionata in una spirale senza fine in cui il vagheggiamento di sempre nuove sensazioni supera continuamente il desiderio e mai lo appaga; è nella struttura intellettuale di D’Annunzio così povera -anche rispetto a Nietzsche- di ragioni ideali, di drammaticità morale, di polemica culturale; è infine nel suo stile, almeno nei moduli più diffusi e divulgati in quel lussureggiare d’immagini e di suoni, in quella sovrabbondanza di parole, che crescono e quasi s’inseguono senza mai raggiungere una vera pacificazione nella pienezza espressiva, un vero ritmo, una vera musica.
D’Annunzio, insomma allo stesso modo di Crispi, maneggia “una colubrina come fosse un moderno pezzo di artiglieria”. In lui si determina quel fenomeno che Lukàcs considera caratteristico della poesia decadente: lo smarrimento della differenziazione -nella categoria della possibilità- fra possibilità astratta e concreta. Così i suoi superuomini sono stranamente divisi fra l’altezza degli scopi che si propongono e l’incertezza di poterli raggiungere, fra la tensione spasmodica della volontà ed un desiderio di tregua. Stelio Effrena sogna un’opera d’arte nuova, unica, sovrumana e passa dall’esaltazione che gli proviene dal suo sogno ai dubbi ed alle tristezze di una vita tanto diversa, consumata in gran parte per scopi più meschini, trascinata nella impotenza a realizzare quel sogno. Claudio Cantelmo vorrebbe generare il nuovo Re di Roma e cerca una donna così straordinaria che nessuna delle tre vergini Montagna sembra che possa incarnarla; sarebbero necessarie tutte e tre fuse, con i loro rispettivi pregi, in una sola persona.
Paolo Tarsis, nel forse che sì, forse che no, può tornare al suo sogno di gloria, dopo un lungo smarrimento, solo perché Isabella impazzisce. Incerto debole, indeciso e alla fine sconfitto é Ruggero Flamma ne La gloria. E potrei continuare.
Da un simile atteggiamento valleitario che investe tutta la personalità di D’Annunzio deriva, dunque, quanto di troppo, di falso, di letterario noi troviamo quasi sempre nella sua opera. Lo sforzo di superare quella proporzione connatura al suo stesso mondo ideale e alla sua stessa sensibilità non può che condurre a una dilatazione artificiosa degli atteggiamenti, delle istituzioni, delle immagini, della parole. Ma da quell’atteggiamento valleitario derivano anche i rari momenti di autenticità nella produzione dannunzione. Perché é proprio dalla tensione superomistica che nasce di tanto in tanto un desiderio di quiete, di pausa, di tregua, che non giunge quasi mai alla coscienza della velleità (se questo fosse avvenuto D’Annunzio ci avrebbe dato uno dei motivi più tragici del nostro tempo), ma si manifesta più semplicemente in una sorta di ripiegamento in se stesso e di rifugio nelle memorie dell’infanzia, in un vagheggiamento non più panico ma nostalgico della natura, in una tristezza più umana nutrita d’insoddisfatta delusione, in uno stile di taccuino, modesto e quasi nudo, eppure profondamente musicale. L’allentamento della tensione superomistica, un barlume di coscienza della sua inanità, un atteggiamento di frustrazione é all’origine dei vari momenti in cui D’Annunzio si sottrae a quella sproporzione: delusione e aurorale consapevolezza del proprio velleitarismo che sorgono come antitesi dialettica del superuomo e che, quindi, senza la presenza del superuomo non sarebbero concepibili.

 

Fonte: http://www.luigisaito.it/appunti/decaddannunzio.doc

Sito web da visitare: http://www.luigisaito.it/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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