Letteratura Giacomo Leopardi il pessimismo nei Canti

Letteratura Giacomo Leopardi il pessimismo nei Canti

 

 

 

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Letteratura Giacomo Leopardi il pessimismo nei Canti

La presente tesi di laurea si propone di presentare ai lettori la persona e la poetica di Giacomo Leopardi, uno dei più grandi scrittori italiani dell’Ottocento. Il Leopardi è conosciuto come filologo, traduttore, filosofo grazie alle sue meditazioni annotate sulle pagine di una specie del diario Zibaldone, autore satirico, grazie alla sua prosa filosofica satirica Operette morali e come poeta grazie alla sua raccolta poetica Canti.
Nella presente tesi vogliamo orientarci sulla poetica del Leopardi proponendo la sua raccolta di poesia Canti. Per capire che cosa ha influenzato il suo lavoro poetico vogliamo soffermarci sulle condizioni nelle quali scrisse le sue canzoni. Cercheremo di dare uno sguardo alla vita del Leopardi, la quale fu corta ma assai interessante, e all’ambiente in cui Leopardi è vissuto. Siamo dell’opinione che proprio per l’ambiente in cui crebbe, per la mancanza dell’amore, per la sua sensibilità e per la sua capacità di vedere oltre, nacque la sua particolare visione del mondo, la cosiddetta „filosofia leopardiana“ di stampo pessimistico.
Cercheremo di concepire i suoi pensieri pessimistici, che creano la sua filosofia, e gli argomenti delle sue poesie. Successivamente cercheremo di spiegare come si manifesta il suo pessimismo nelle singole poesie.

1. LA VITA DI GIACOMO LEOPARDI

            Nel primo capitolo della presente tesi cerchiamo di presentare ai lettori la vita di Giacomo Leopardi. Siamo dell’opinione che per capire l’opera di Leopardi sia indispensabile conoscere alcuni parti della sua vita  che la influenzarono in gran parte.
Abbiamo tratto il curriculum di Leopardi dall’introduzione di Paolo Ruffilli all’edizione delle Operette morali e dal capitolo di Gino Tellini nel libro Storia della letteratura italiana diretto da Enrico Malato .
Giacomo Leopardi naque il 29 giugno 1978, a Recanati, dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Recanati, un piccolo centro dello Stato Pontificio, fu una zona retriva sia dal punto di vista dell’economia e del lavoro (ci sopravviveva una gerarchia di tipo feudale), che dal punto di vista culturale. Non ci arrivavano le idee nuove che circolavano in Europa già dal secolo precedente. Questa arretratezza era causata per opera del clero e dell’aristocrazia terriera i quali custodivano ogni penetrazione di cultura e idee di rinnovamento. Lo stesso Leopardi definisce l’ambiente di Recanati con queste parole:

“Qui, amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri  di questo silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito […]“.

Il conte Monaldo fu un buon esempio di codino di questo tipo. Si occupava di studi e dello scrivere, però nelle sue opere si profilavano posizioni retrive, religiosità bigotta, ossessione di conservazione e fedeltà allo Stato Pontificio.  Per di più scrivendo dimenticava di amministrare il dominio familiare, e presto la famiglia si trovò in una crisi economica. Sua moglie, la marchesa Antici, che temeva di perdere il patrimonio, assunse subito l’amministrazione. Fu una donna capace e decisa, però severa e priva di  qualsiasi sentimenti verso la sua famiglia. Si segnalava per una religiosità bigotta. Impose in casa una disciplina severissima e Leopardi con i suoi fratelli crescevano in un’atmosfera fredda,dove i genitori erano quasi sempre assenti. Giacomo, bisognoso d’affetto, si legò ai suoi fratelli, e in particolare a Paolina, sua sorella, due anni minore di lui.
Dell'infanzia di Giacomo non sappiamo molto. Ma era un bambino di aspetto bello,  sveglio, a cui piaceva raccontare storie e sceneggiate. Da sua madre prese una bellezza particolare, la quale però  fu distrutta più tardi dai suoi studi.
A partire dal 1807 Giacomo venne affidato al precettore di casa, ma già dopo un anno si rese autonomo e cominciò a studiare da solo. Si gettò agli studi usando la ricca biblioteca paterna cercando di attirarsi l’attenzione, l’affetto e l’approvazione del padre.
Nel 1815 compì studi disordinati e vari, imparò a parlare 7 lingue, coltivò interessi filologici, geografici, astronomici , ottenne una padronanza nel campo degli scritti classici. Dopo aver compiuto questi studi, ebbe  idee omologhe a quelle del padre: conservatorismo, fedeltà ai dogmi della chiesa, accademismo, atteggiamento  politico antirisorgimentale.
Durante gli anni dello studio cominciò a scrivere in versi, scrisse poemi, sonetti, tragedie, coltivò anche la prosa e fece alcuni traduzioni.
A partire dall’ anno 1816 si effettuò la cosiddetta conversione letteraria, politica e filosofica del Leopardi. Il poeta si spostò dagli studi eruditi di filologia alla poesia, cioè al “bello”. Non volle più imitare i modelli antichi, ma creare la poesia propria, che non nasce dalla cultura e dallo studio degli autori ma da un impulso sovrumano.
In questo periodo i rapporti già formali con il padre peggiorarono  a causa del suo distacco dai modelli che Monaldo professava. L’unico conforto per il poeta isolato fu la corrispondenza con Pietro Giordani. Giordani diventò suo consigliere e grazie a lui Giacomo cominciò a leggere molti moderni, come L’Alfieri e il Foscolo . Giordani contribuì anche alla sua conversione politica, dalle idee reazionarie alle idee patriottiche , ma questa conversione deteriorò ancora di più i rapporti con  suo padre. Leopardi progettava di fuggire da Recanati, sperando di trovare altrove quel che gli mancava a Recanati. Ma il suo tentativo fu scoperto e impedito dal padre.
Leopardi  partì per la prima volta da Recanati nel 1822 e con acconsentimento dei genitori  andò a Roma. Il suo soggiorno a Roma fu per lui profondamente deludente. Fu scandalizzato dalla città che trovò decadente, culturalmente mediocre, e perse la concezione idealizzata delle donne.
Nel 1825 Leopardi, invitato a Milano dall’ editore Antonio Fortunato Stella,  ripartì da Recanati. A Milano si incontrò con molti letterati del tempo e pubblicò i suoi lavori per  Stella. Da questo momento cominciò a pubblicare le sue opere e fu capace di mantenersi senza l’auito economico dei genitori.
Nello stesso anno giunse a Bologna dove conobbe Antonio Ranieri. In questa città si trovò bene e ci restò fino all’anno seguente. Nel 1827 si trasferì a Firenze e in seguito a Pisa. Durante il soggiorno di Pisa, Giacomo si sentì felice e il suo stato fisico migliorò. Nel novembre del 1828 Giacomo dovette tornare  a Recanati, per causa dell’aggravamento delle condizioni di salute. Si fermò a Recanati per un anno e mezzo però ci si trovò di nuovo come in esilio. Dopo 16 mesi di permanenza noiosa e opprimente a Recanati partì per Bologna e non tornò mai più a casa. A Bologna stabilì con Ranieri un’amicizia ancora più stretta  e in seguito si recò con lui a Roma e poi a Firenze. In questi anni la sua condizione di salute peggiorò gravamente e Ranieri con sua sorella dovettero badare a lui.
Nell’aprile del 1836, Leopardi e Ranieri si stabilirono in una villa ai piedi del Vesuvio perché Leopardi aveva bisogno di un’aria più asciutta. Nel 1837 a Napoli scoppiò un‘epidemia di colera. La salute del Leopardi si aggravò all’improvviso e morì a Napoli, il 14 giugno del 1837. Fu sepolto fuori la chiesa di San Vitale a Fuorigrotta. Nel 1939 i suoi resti furono trasferiti presso la cosiddetta tomba  di Virgilio, a Napoli nel parco di Piedrigrotta.

2. IL PESSIMISMO LEOPARDIANO

            Per concepire l’opera del Leopardi è indispensabile capire la sua visione pessimistica del mondo. Non si tratta di un pessimismo qualsiasi ma di una filosofia, che influenzò tutto il suo lavoro e che proviene anche dalla sua vita piuttosto infelice. Nel presente capitolo cerchiamo di spiegare come naque questa sua visione pessimistica del mondo e più tardi anche spiegare come si manifesta nelle sue opere.
Gli studiosi di solito distinguono tre fasi del pessimismo leopardiano: il pessimismo personale e soggettivo, il pessimismo storico o progressivo e il pessimismo cosmico o universale.  Altri parlano solo del pessimismo storico e del pessimismo cosmico, perché il passaggio dalla prima alla seconda fase non è esplicito. Alcuni aggiungono ancora la fase del pessimiso eroico. Noi abbiamo seguito la divisione che troviamo in Giulio Ferroni e nel libro del Sapegno. Ci siamo permessi di aggiungere il pessimismo personale: oltre le fasi distinti dai vari studiosi, si può vedere un pessimismo che è presente in tutta la vita del Leopardi, ed è proprio questo personale e soggettivo.
Occorre però precisare che anche se in alcune opere emerge più una fase o l’altra, queste sue opere non si possono sempre rigidamente inquadrare in una delle fasi.  Bisogna rendersi conto che dividendo il pessimismo leopardiano in tre fasi, non si tratta di tre momenti completamente diversi del pensiero e della filosofia leopardiana. Non si può fissare i suoi pensieri in fasi troppo precise e chiuse in se stesse, perché non arrivano mai in giudizi definitivi e in risultati accertati. Questi pensieri a volte ritornano, si sovrappongono e qualche volta, addirittura, si contraddicono.

2.1 Il pessimismo personale e soggettivo
Naque per causa della mancanza dell’amore da parte dei  genitori, per effetto dell’ambiente recanatese, giudicato arretrato dal poeta, in cui fu costretto vivere e per i suoi problemi sanitari. Sette anni dello studio disordinato e intensivo, di cui abbiamo menzionato nel capitolo precedente, gli causarono gravi problemi fisici: ebbe febbri ricorrenti, una statura bassissima, una grave forma di scoliosi, alla schiena gli crebbe una doppia gobba e divenne quasi cieco.
Lo stesso Leopardi descrive la propria apparenza con queste parole:

“E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima  tutta quella gran parte dell’uomo, che  è la sola a cui guardino di più; e coi più bisogna conversare in questo mondo.”

            I suoi problemi fisici gli impedirono di dedicarsi pienamente all’attività letteraria e intellettuale. Giacomo si sentiva solo. Il suo aspetto accendeva nella gente la compassione e non l’amore, non aveva amici né conoscenti. A Recanati si sentiva come in prigione, soffriva l’arretratezza della Marca dove i libri e le riviste non avevano grande circolazione e la gente era ignorante. In una lettera a Pietro Giordani spiegò la sua situazione con le seguenti parole:

“Unico divertimento a Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza.”
Il conte Monaldo, dopo la conversione ideologica del Leopardi, si comportava in maniera fredda, disinteressata e sentiva un’assoluta disapprovazione verso i pensieri del figlio.  Giacomo aveva in questi anni con suo padre un rapporto di odio-amore e di identificazione-rifiuto.

2.2 La fase del pessimismo storico o progressivo
            L’essenza del pessimismo storico del Leopardi può essere precisata in tre coppie polari: storia verso modernità, natura verso ragione ed illusione verso vero.
Era diffusa l’idea del progresso e dell’uomo come creatore della realtà che derivava dall’Illuminismo del Settecento. Tutto ció che non era dimostrabile per mezzo della ragione era considerato falso e la ragione doveva avere il predominio assoluto nella vita della gente. Il Leopardi, invece, considerava la ragione come la causa dell’infelicità umana. Affermava che la storia, e la ragione portata con essa, non erano il progresso, ma il regresso. Nell’età primitiva gli uomini vivevano in simbiosi con la natura e invece nell’età moderna gli uomini si sono allontanati dalla natura, nella loro vita prevalevano la ragione, la fredezza, la funzionalità e quindi la loro vita era artefatta. Il Leopardi giudicava la ragione come la “nemica della natura”. Seguì la filosofia di Rousseau che sosteneva che gli uomini furono felici solo nell’età primitiva quando vivevano in simbiosi con la natura benigna. Ma poi si misero a cercare “il vero”, aiutandosi con la ragione, e invece trovarono soltanto il dolore e l’infelicità. La ragione quindi è colpevole dell’infelicità umana ed è in contrasto con la natura, madre delle illusioni che protegge gli uomini.
Il Leopardi era depresso perché sosteneva che la gente, per causa della ricerca del vero che era falso, perse le illusioni e cadde nella disperazione. Gli uomini sono felici solo nell’età dell’infanzia e della giovinezza perché questo è l’età in cui abbiamo dentro di noi le illusioni.  La maturità, invece, è l’età in cui, mediante la ragione, scopriamo il dolore: sapere di più significa soffrire di più. La felicità, quindi, non è condizionata dal conoscere il vero, ma al contrario, dall’ ignorarlo. Però nel Leopardi fu anche una grande forza di cercare la verità e disprezzava gli ignoranti.
Questa fase del pessimismo leopardiano fu evolta già intorno al 1817 e si sviluppava approssimativamente fino al 1820.
2.3 La fase del pessimismo cosmico e universale
            Durante la fase del pessimismo cosmico il Leopardi continuava ad analizzare le cause dell’infelicità umana, però il suo parere riguardo ai motivi dell’infelicità contraddiceva quello della fase del pessimismo precedente e involgeva tutte le creature, sia gli uomini che gli animali.
Il Leopardi rivalutò la ragione e la natura. La ragione distrugge le nostre illusioni, però tramite di essa ci rendiamo conto della realtà dell’esistenza e cioé della nostra inutilità e del dolore che accomuna tutti gli esseri viventi. La felicità non è più guardata come un bene perduto per causa della ragione, ma come un bene irreale e irragiungibile. La natura genera nell’uomo il desiderio di ottenere la felicità: questa, però non esiste. Esiste solo una felicità sfuggevole e temporale con la quale l’uomo non si accontenta mai. Il Leopardi giudica questo piacere solo come una breve fase della cessazione del dolore, il quale si alterna alla noia. Finché l’uomo soffre, cerca di evitare il dolore, ma mentre il dolore cessa, l’uomo cade in noia.
Ogni comportamento umano è guidato da un’aspirazione alla felicità a causa del naturale attacamento di ciascun individuo a se stesso. Nelle società attaccate alla natura, cioé nelle società antiche, l’amor proprio è lo stimolo alla virtú e alle pregiate illusioni. Nelle società civilizzate e moderne, al contrario, l’amor proprio è radice dell’egoismo, derivato proprio dalla caduta delle illusioni. Quanto più si manifesta l’egoismo nella civilizzazione tanto più si svillupa la guerra di tutti contro tutti e in conseguenza la felicità diventa irreparabilmente irragiungibile.
La natura non è più guardata come la madre benigna ma come il promotore dell’infelicità umana per causa della sua ignoranza e del suo trattamento dell’uomo con ostilità. La natura non dá la vita - la vitalità, la forza del sentire e dell’illudersi -  ma solo l’esistenza – il cieco svolgersi di un ritmo biologico. L’uomo non è più considerato come una creatura colpevole del suo male ma come una vittima della natura che lo tradisce.
Questa fase del pessimismo fu elaborata intorno al 1823, e fu pienamente espressa nelle Operette morali del 1824.

La filosofia leopardiana ha come l’obiettivo essenziale capire il senso del vivere, esaminando i rapporti dell’individuo con la società, con la storia e con la natura.


 3. LA POETICA LEOPARDIANA

            La prima educazione leopardiana fu arcadica e montiana. Derivava dall’ambiente retrivo della chiusa atmosfera provinciale in cui viveva e dall’educazione in base alla cultura umanistica ottenuta nella biblioteca paterna, che il Leopardi considerava antiquata. I suoi primi lavori furono influenzati dalla tradizione poetica dal Tre al Cinquecento, dai grandi scrittori classici della seconda metà del Settecento come il Monti e dal scrittore preromantico il Cesarotti .
Nel 1816 il Leopardi incontrò le dottrine del romanticismo e cominciò a seguire la polemica tra classici e romantici. Tentando di parteciparvi scrisse nel luglio del 1816 una Lettera ai sigg. compilatori della «Biblioteca italiana» e nel marzo del 1818 un’altra lettera spedita all’editore Stella Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica le quali però non furono pubblicate. Queste lettere giunsero nelle mani del Giordani, il quale riconobbe nel Leopardi un grande talento, e iniziò con lui la corrispondenza. L’amicizia col Giordani creò nel Leopardi un sentire civile e contribuì al formarsi del suo stile.
Il Leopardi all’inizio rifiutava le idee del Romanticismo, però man mano si avvicinò al Romanticismo continuando a dichiararsi classicista. La sua poetica cominciò ad avviarsi verso la scuola romantica di cui, però, sdegnava l’esagerata affettazione e il gusto della rappresentazione del cupo, dell’orrido o dell’astruso. La sua attenzione si rivolgeva al patetico e alla soggettività dell’Io poetico. Nel Leopardi avvenne anche il distacco dal Monti perché si creò un’opinione che la vera poesia non è quella di imitazione servile ma quella dei sentimenti: una poesia immediata, piena di intimità e di idee del poeta.
Il Leopardi non si può però dire pienamente poeta del Romanticismo italiano. Anche se si spostava verso il Romanticismo difendeva il Classicismo: non rifiutava del tutto l’imitazione dei classici, la quale concepiva come non servile se si rivitalizasse il più ampio significato della loro poesia, la quale si fonda sulla forza del cuore e della natura, che stimolano nell’uomo l’immaginazione e una forte capacità di sentire. Giudicava dunque la poesia classica come una poesia originariamene sentimentale, dove «sentimentale» non significava «affettato» come nel Romanticismo.
Il romanticismo leopardiano era diverso da quello dominante in Italia e il Leopardi doveva accomodarlo al suo personale modo di sentire. Nel 1819 compose i primi Idilli dov’è evidente il suo concetto dell’infinito  e della rimembranza: il poeta descrive le immagini che portano con sé il remoto e l’oscuro, le immagini del fantasticare fanciullesco, che è sempre vago, indeterminato, naturale e senza limiti. La sua poesia, quindi, ritorna al mondo dei ricordi di impressioni ed affetti infantili, e rievoca un tempo e uno spazio perduti ed inafferrabili.
Fra il 1828 e il 1830 la poetica leopardiana raggiunse il suo culmine. Dei tre fondamentali generi della poesia il Leopardi scelse la lirica come l’unica vera essenza della poesia. La lirica significava per il Leopardi il canto del cuore che non conosceva regole e si esprimeva immediatamente con una semplicità ricercata del sentimento: la lirica era lo specchio che rifletteva le pene e le gioie del poeta nel momento stesso in cui le provava. Questo assoluto e puro lirismo possiamo trovare nei grandi Idilli dove il poeta ci svela la sua anima e le sensazioni e i moti interni di essa.

Alcuni critici caratterizzano il Leopardi come poeta romantico mentre gli altri come poeta classico. Rimane però ovvio che la poesia leopardiana è del tutto originaria ed estranea sia agli schemi classici sia a quelli romantici.  Il suo pessimismo lo avvicina ad alcuni dei grandi romantici europei però dall’altra parte lo allontana da essi il suo impegno razionale. I tratti fondamentali che lo contrappongono ai romantici sono la sua razionalità e il suo modo realistico del guardare alla condizione dell’uomo.

4. CANTI

            Il presente capitolo è interamente dedicato ai Canti. Cercheremo di presentare ai lettori la caratteristica dei Canti: struttura, linguaggio, argomenti di base, elenco e contenuti delle singole poesie ecc.

4.1 Le edizioni
            I singoli poemi pubblicati nei Canti furono scritti nell’arco di molti anni. La prima raccolta delle canzoni composte fra  il 1818 e il 1823 fu pubblicata a Bologna nel 1824 sotto il nome Canzoni del conte Giacomo Leopardi e comprendeva 10 canzoni. Nel 1826 a Bologna fu pubblicata l’edizione dei Versi che comprendeva tutte le liriche non comprese nelle Canzoni del 1824.   La prima pubblicazione dei Canti, uscita nel 1831 a Firenze e curata da Antonio Ranieri sotto la guida del Leopardi, comprendeva tutte le poesie dei Versi e delle Canzoni con delle piccole modifiche.  La seconda pubblicazione dei Canti, apparsa ancora in vita dell’autore, uscì a Napoli nel 1835. Questa edizione fu accresciuta di undici poesie e di una piccola appendice. L’ultima e completa pubblicazione dei Canti uscì nel 1845 e fu accresciuta dei due canti composti nel 1836: Il tramonto della luna e La ginestra o il fiore del deserto. Dopo la morte di Antonio Ranieri si riscoprirono degli autografi napoletani, i quali il Ranieri possedeva fin dalla morte del Leopardi. Questi furono riprodotti per la prima volta nell’edizione critica dei Canti curata da Francesco Moroncini nel 1927. Questa edizione segna una tappa fondamentale negli studi  della poesia leopardiana.
I Canti sono quindi una scelta dove il Leopardi rifiutò alcune poesie giovanili le quali furono più ispirate ai poeti della sua epoca, come per esempio al Monti o al Foscolo, e considerate dal Leopardi come troppo legate ai suoi modelli.
Le composizioni non scelte dal Leopardi spesso vengono pubblicate in appendice. La poesia La ginestra o il fiore del deserto fu considerata dal Leopardi come il canto conclusivo. Tutte le composizioni che si trovano in varie edizioni dopo questo canto furono aggiunte dopo la morte del Leopardi.

4.2 Le forme metriche
            Il Leopardi creò un nuovo tipo della canzone chiamata «canzone libera» o «canzone leopardiana». Si tratta di un tipo di canzone estremamente libera la quale è formata da stanze con un numero variabile di versi e senza nessun sistema di rime preordinato. Il poeta usa endecasillabi e settenari sciolti.
Le prime canzoni leopardiane avevano ancora una forma più regolare che rispettava la forma tradizionale con le strofe con un numero di versi fisso. Per esempio le due canzoni del 1818 All’Italia e Sopra il monumento di Dante hanno una misura retorica magniloquente, seguono gli schemi delle canzoni del Petrarca e sono influenzate dalle canzoni eroiche del Seicento e del Settecento: sono elaborate convenzionalmente con un linguaggio sostenuto.
La canzone A Silvia, la quale fa parte dei cosiddetti grandi Idilli , fu la prima «canzone libera». Segna il passaggio dalle canzoni di forma regolare alle canzoni di forma libera. Le poesie che facevano parte degli Idilli sono componimenti fuori da ogni schema, spesso in endecasillabi sciolti combinati con i settenari, talvolta spezzati da enjambents, con rime interne.

4.3 Il titolo Canti
Il nome della raccolta prende lo spunto dal carattere delle poesie scritte tra il 1828 e il 1830. In proposito il Ferroni scrive l’impulso per il quale fu nato il nome Canti:

“Poesie […] che si propongono come «canti» che sgorgano direttamente dalle sensazioni immediate del poeta, con la leggerezza e la spontaneità musicale e vocale del canto degli uccelli.”

La poesia del Leopardi si avvicina alla musica. Lui non «imita» i fatti vissuti, ma «canta» i sentimenti.

4.4 Temi delle singole poesie
            Parallelmente con lo svilupparsi delle idee del Leopardi si sviluppava e cambiava anche la sua poesia. Siccome i Canti furono scritti nell’arco di molti anni, le singole poesie variano di struttura e di contenuto ideologico. In questo sottocapitolo riportiamo brevemente gli argomenti base delle singole poesie, seguendo il loro ordine cronologico dell’ultima edizione dei Canti. Cercheremo di precisare ai lettori anche i periodi in cui le varie poesie furono scritte perché possano meglio seguire lo svolgersi delle sue idee. In uno dei capitoli posteriori ci dedicheremo a un’analisi più dettagliata di alcune di queste poesie che riteniamo importanti per il tema del pessimismo della presente tesi di laurea.
All’Italia e Sopra il monumento di Dante, composte a Recanati nel 1818, sono due canzoni patriottiche e civili, con una misura retorica e un tono alti. Sono canzoni di gusto classico, ma ci si sente già la sensibilità preromantica e l’influenza della poesia del Goldoni. La canzone All’Italia è scritta con una retorica vivace, piena di sentimenti, passionale e sincera. Sopra il monumento di Dante, invece, è scritta con un’oratoria più costruita, più complessa e più fredda. Le canzoni decantano il «glorioso» passato dell’Italia e lo mettono in contrasto con la «negatività» del presente. Il poeta si rivolge al popolo italiano presente e cerca di scuoterlo a risvegliare la sua virtù.
Ad Angelo Mai , composta a Recanati nel 1820, è una canzone civile che prende lo spunto dal ritrovamento, grazie al Mai, del trattato ciceriano De re publica. Con questa canzone il poeta sottolinea ancora una volta il contrasto tra gli eroi del passato e la letargia del «secolo morto» presente. Con questa canzone il Leopardi si avvia verso una poesia sentimentale e filosofica: il canto è pieno di affetti e di riflessioni.
Le canzoni Nelle nozze della sorella Paolina e A un vincitore nel pallone, composte entrambe a Recanati nel 1821, propongono modelli di virtú in contrasto con le mediocrità del presente: un modello di femminilità patriottica nella prima e un modello di vigorosa forza maschile nella seconda. Il poeta continua a sviluppare l’idea della decadenza e del progressivo invecchiamento del genere umano. Le canzoni vengono scritte con una retorica alta e in esse si trovano numerosi riferimenti ad Angelo Mai, all’Alfieri, al Petrarca, a Dante e ad altri uomini grandi del passato.
La canzone Bruto minore, scritta a Recanati nel 1821, descrive la figura mitologica di Bruto che il poeta vede come il simbolo della morale. Il poeta esplica il tema del suicidio: la natura non è più l’ispiratrice delle azioni umani, perché l’uomo segue la ragione e quindi vive contro la natura. E vivendo contro la natura, può anche morire contro essa. La morte di Bruto è vista come protesta contro il destino dell’umanità infelice. Ma d’altra parte, Bruto, con questo atto compie l’azione contro la virtú, dimostrandosi incapace di contrastare il destino.
Nella canzone Alla primavera, composta a Recanati nel 1822, il poeta paragona l’età dell’umanità all’età dell’uomo per manifestare il progressivo invecchiamento del genere umano: l’uomo si allontana dalla natura usando la ragione, e quindi si sente vecchio ed incapace di rinascere quando arriva la primavera essendo stanco della conoscenza della realtà. Il poeta rimpiange le illusioni le quali ci ha tolto la natura levando così anche i nostri sentimenti. Con l’andar del tempo l’uomo sarebbe diventato «gelido» nei confronti di tutto.
Un tema simile a quello di Alla primavera e di Bruto minore si trova nella canzone Inno ai Patriarchi, anche questa composta nel 1822 a Recanati, dove il poeta parla di nuovo del decadimento del genere umano da uno stato felice a quello di sfortuna per causa dell’eccessivo uso della ragione.
Con la canzone Ultimo canto di Saffo, risalente al 1822, il poeta torna al tema del suicidio. In questa canzone viene distrutto l’idolo dell’amore. Al contrario di quanto avviene in Bruto minore, in questa canzone viene rappresentata l’infelicità di un solo animo: l’animo di Saffo uccisasi a causa della propria bruttezza fisica e per la mancanza dell’amore. Questo tema è più intimo, più autobiografico, più umano e scritto con parole più semplici.
Il primo amore, composta a Recanati nel 1817, è una canzone di un carattere ben diverso dalle canzoni precedenti. Parla la vicenda interiore dell’Io poetico: affetto, emozione e amore per la cugina di Monaldo e malinconia vissuta dopo la partenza di essa da Recanati.     Il passero solitario, avviata a Recanati nel 1819, e terminata a Firenze nel 1830, apparve la prima volta nella seconda edizione dei Canti come la prefazione ai cinque idilli giovanili. La canzone ha una struttura lineare, articolata in tre stanze, dedicate la prima al passero solitario che non partecipa alla vita degli altri uccelli, la seconda al poeta, anch’esso trascorrendo la sua giovinezza da solo, la terza alla parallela tra il passero, la cui vita solitaria è naturale, e il poeta, la cui vita solitaria è innaturale.  
Con i piccoli idilli L’infinito, La sera del dí di festa, Alla luna, Il sogno e La vita solitaria, composti tra il 1819 e il ’21 a Recanati, il poeta abbandona la realtà oggettiva e si avvia verso la rappresentazione di sensazioni, moti interni, ricordi, sentimenti fugaci dell’anima ecc. L’infinito comincia con la descrizione del paesaggio naturale e della «siepe» che ostacola lo sguardo del poeta che si mette a immaginare gli spazi senza limite, e immerge il suo pensiero nell’infinito, nell’eternità del tempo e dello spazio. La sera del dí di festa si apre con il prospetto al paesaggio notturno illuminato dalla luna. Il poeta osserva immagini e suoni del giorno festivo il quale si spegne e al suo cuore si accende la malinconia per questo giorno definitivamente «morto» sia come tutti gli altri giorni passati e dimenticati. Un altro tema della canzone è quello dell’amore per una donna che non sa nemmeno di questo affetto che il poeta prova verso di lei. Nella canzone Alla luna il motivo paesistico serve a suggerire lo stato d’animo del poeta che ricorda i giorni passati della sua fanciullezza la quale, anche se dolorosa, raddolcisce la memoria.  Ne Il sogno il poeta ricorda un sogno mattuttino in cui gli  appare l’immagine di una fanciulla morta giovane. Il poeta vede la crudeltà del destino umano, la vanità della speranza e il mondo ch’è tutto rovescio. Sente il dolore per la morte della ragazza e per la propria solitudine. Il tema della solitudine è presente anche ne La vita solitaria. La canzone è piena di particolari felici della vita quotidiana e in contrasto con essi è descritta la vita del poeta lontana da ogni rapporto e desiderio.
L’idillio Consalvo, composto tra il 1831 e il ’33 forse a Firenze, viene avvicinato ai modelli romantici con gli elementi patetici e sentimentali. Quest idillio è connesso con i canti scritti più tardi che appartengono al ciclo di Aspasia e trattano lo stesso tema di mortuaria ispirazione amorosa dove viene esaltato il legame tra la morte e l’amore.
Alla sua donna fu composta nel 1823, a Recanati, dopo il ritorno del Leopardi da Roma dove aveva perso una concezione ideale della donna. Riflette sull’amore e con una leggera ironia si rivolge a una donna ideale che però non esiste: solo questa donna potrebbe dare un senso alla sua esistenza ma la comunicazione con essa non gli è possibile, perché lei è solo un fantasma.
L’epistolia Al conte Carlo Pepoli fu scritta nel 1826 a Bologna. Questo idillio è sospeso tra la poesia e la prosa, tra la sensibilità e l’intelligenza e tra il cuore e la ragione.
Il Risorgimento, scritto nel 1828 a Pisa, fu una prefazione della nuova stagione poetica leopardiana e cioè quella di grandi Idilli. In questa canzone, dal carattere patetico e intimo e dal linguaggio melodrammatico, il poeta descrive il suo improvviso incendio dei sentimenti dopo il lungo periodo del «silenzio» del suo cuore, quando non vedeva nessun differenza tra la sua vita priva di emozioni e la morte. In questa canzone è ben evidente il cambiato rapporto del poeta con la natura, che il poeta vede come «sorda» verso i sentimenti del genere  umano e priva di pietà siccome mantiene gli uomini in vita solo per farli soffrire.
A Silvia , composta nel 1828 a Pisa, è il primo dei grandi Idilli. I temi dominanti in tutti i grandi Idilli sono la rimembranza della giovinezza perduta con la quale si sono persi anche gli ideali e i sogni, l’accusa della natura per la sua impassibilità e la nullità della vita umana. Nella canzone A Silvia il poeta si rivolge alla natura traditrice e alla speranza perduta con la sua scoperta del «vero». Le ricordanze, composta nel 1829 a Recanati, è un flusso di ricordi del poeta, che evoca gli anni passati a Recanati. Il poeta rivive al presente la sua infanzia passata, identificandosi con lo stato d’anima di quella volta: vive le emozioni di allora che sono da una parte dolorose ma dall’altra parte sono familiari e quindi care. Ricorda le speranze della giovinezza che furono soltanto dolci «inganni». Si rivolge ancora una volta alla ragazza morta prematuramente che aveva già cantato in A Silvia. L’essenza del canto è il dolore, la disperazione e la caduta delle illusioni. Nel Canto notturno , composto tra il 1829 e il ’30 a Recanati, è trasparente il pessimismo leopardiano. L’idillio viene cantato da un pastore dell’Asia, il quale discorre con la Luna porgendole le domande sul senso dell’andamento dell’universo e descrivendole la vita «mortale». L’uomo è visto come una creatura condannata a vivere in questo mondo senza averne voglia. L’ultimo verso della canzone abbraccia in questo stato tutti gli esseri viventi: «è funesto a chi nasce il dí natale». Le canzoni La quiete dopo la tempesta e Il sabato del vilaggio sembrano a prima vista essere semplici immagini della quotidiana vita recanatese. Ma il paese qui raffigurato non rappresenta la realtà esterna, bensí il movimento interno del cuore del poeta. Ne La quiete dopo la tempesta si descrive come la vita quotidiana della gente torni ad essere calma dopo la tempesta spiacevole. Senza questa tempesta, che rappresenta il dolore o il dispiacere, l’uomo non si sarebbe goduto la calma, cioè la gioia. Secondo il Leopardi la gioia è elusiva perché nasce soltanto dalla cessazione del dolore. Anche Il sabato del villaggio tratta il tema della gioia che non esiste nel presente, possiamo solo aspettarla e sperare che venga nel futuro, ma quando arriva è soltanto momentanea e presto cessa.
Il pensiero dominante, composto fra il 1830 e il ’32 a Firenze, è il primo dei cinque canti amorosi del cosiddetto «ciclo di Aspasia», scritti per l’impulso dell’amore per Fanny Targioni-Tozzetti di cui il Leopardi frequentava il salotto letterario. «Il pensiero dominante» dell’autore è l’amore considerato come il sentimento più alto che dia la vita al cuore umano. L’amore, anche se provoca il dolore è un’emozione di vita e di felicità. Nel canto Amore e Morte, anche questo composto a Firenze nel 1832, il poeta rappresenta l’amore e la morte come le potenze le quali liberano l’uomo dall’infelicità: grazie alle passioni amorose la vita non è oziosa e grazie alla morte cessa qualsiasi dolore che opprime l’uomo.  Sono forze che vengono connesse tra loro: l’amore può distruggere man mano ogni energia vitale e condurre l’uomo alla morte, oppure il tormento della passione amorosa può essere talmente grande che soltanto la morte è capace di annullarlo. La cortissima caznone A se stesso, composta nel 1833 a Firenze, esprime il pessimismo cosmico del Leopardi. Non ha più nessune illusioni, anche l’ultima, l’amore, che considerava eterna è caduta. Vede come inutile l’universo e il vivere in esso. L’ultimo canto ispirato dall’amore per Fanny Targioni-Tozzeti si chiama Aspasia e fu composto forse nel 1834 a Napoli. In questo canto ritorna il tema dell’amore. Il poeta si rende conto di aver scambiato gli oggetti dell’amore. Credeva di amare una donna però amava soltanto l’ideale femminile prodotto dalla propria fantasia. Il suo amore risulta quindi vano e lui si congeda da esso. Dal canto precedente torna l’idea dell’infinita inutilità dell’universo.
Dopo il «ciclo di Aspasia» seguono due canzoni sepolcrali,  composte entrambe tra il 1834 e il 1835 a Napoli. La prima di queste due canzoni, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, esplica le riflessioni sulla morte e sulla vita. Il poeta rifflette se sia disgraziato o fortunato quello a cui la vita viene presa dalla morte: «il vivere è sventura, grazia il morir» . Gli uomini possono invocare la morte, siccome essa mette fine ai dolori della vita, però non possono desiderare la morte altrui. La morte distrugge per sempre gli affetti e i rapporti tra gli uomini e con questo atto prende all’uomo l’ultima consolazione alla sua infelicità. Il Leopardi vede la negatività assoluta di questa condizione umana. Si rivolge alla natura che non si occupa né del male né del bene degli uomini, verso i quali è del tutto indifferente. Nella seconda canzone, Sopra il ritratto di una bella donna, il poetariprende la visione della donna adombrata in Aspasia. Descrive la splendida bellezza della donna ritratta sul monumento funebre. La sua bellezza è però fugace perché viene distrutta dalla morte e la donna si riduce in polvere, fango e scheletro. Il poeta mette in contrasto il carattere materiale dell’uomo che è fragile e anche vile, però allo stesso tempo capace di sentimenti elevati e azioni nobili.
L’acre componimento satirico Palinodia al marchese Gino Capponi fu scritto nel 1835 a Napoli. Il Leopardi chiama il secolo in cui vive «Aureo secolo» e descrive, però con una forte ironia, tutti i benefici e progressi che porta con sé: «Tali dolcezze e sí beata sorte alla prole vegnente il ciel destina». Decanta, sempre con ironia, giornali che portano nuove notizie di questi invenzioni del secolo dell’oro. Più seriamente il Leopardi aggiunge che tutte queste opere grandiose degli uomini saranno però distrutte dalla morte e che nessun uomo può essere felice. Poi con una crescente ironia dice che, per fortuna, grazie gli «eccelsi spiriti» del suo secolo, radunati intorno alle gazzette e ai giornali, viene data agli uomini una felicità collettiva. Il poeta si rivolge continuamente a Gino Capponi, chiamandolo, sempre con ironia, «lodato», «spirto gentil», «candido» ecc. Il suo secolo lo chiama «virile età» che aspira alla felicità, ormai prossima a diventare realtà. Con questa finta aderisione al progresso, in realtà, smaschera l’aspirazione della borghesia all’accumulo di beni materiali.
L’ultima canzone del Leopardi, la cui strofa conclusiva sarebbe stata dettata al Ranieri poco prima della morte si chiama Il tramonto della luna e fu composta nel 1836 a Torre del Greco. Il tramonto della luna e l’immergersi di tutte le cose nel buio corrisponde all’abbandono della giovinezza, dopo il quale la nostra vita rimane oscura. Ma a differenza della luna, che risorge sempre, la giovinezza non torna più e l’uomo viene gettato nella vecchiezza. La vecchiezza porta con sé tutti i dolori della vita, priva l’uomo di tutte le speranze però ne lascia i desideri.
L’ampia canzone La Ginestra o il fiore del deserto è molto complicata e come tale è oggetto di interpretazioni contrastanti. Noi non siamo in grado di interpretare tutti i temi in essa trattati. Uno dei temi dominanti, però, è la visione della «natura matrigna», la quale non esita a mandare agli uomini i terremoti, le epidemie, i maremoti o altre disgrazie. Gli uomini dovrebbero liberarsi di miti e illusioni e conoscere il vero per non essere indifesi e per poter lottare collettivamente contro la natura. Tutto il canto è dominato dall’opposizione tra la «luce» cioé il vero espresso nei pensieri dell’Illuminismo e la «tenebre» cioé le cieche illusioni in cui gli uomini preferiscono immergersi. Il poeta guarda le pendici desolate del Vesuvio e guarda le stelle che scintillano nel cielo, e si rende conto della fragilità e della piccolezza del genere umano. Non sa se avere pietà per le fantasticherie degli uomini, che considerano l’800 come il culmine della civiltà e della scienza, o se deriderle. Nell’ultima strofa si rivolge di nuovo alla ginestra, che nello sguardo del poeta assume un carattere eroico: questo fiore, cosciente della propria infelice condizione, che anima il paesaggio vesuviano inospitale, è segno di resistenza della vita di fronte alla distruttiva natura: è pronta a piegare il suo «capo innocente» quando sarà sommersa dalla lava, ma mai si piega a esaltare la natura e quindi rappresenta il segno di resistenza della ragione.
Le ultime due canzoni della raccolta, Imitazione e Scherzo, sono canzoni molto brevi, di una sola strofa. La prima canzone è di datazione incerta, non si sa se sia stata scritta nel 1818 o nel 1828, la seconda canzone fu scritta nel 1828 e tutte e due apparirono per la prima volta nell’edizione del 1835. Entrambe trattano l’arte della traduzione. «Imitazione» è per il Leopardi l’opera del traduttore che vuol dare alla traduzione una propria impronta personale. Nello Scherzo il poeta si rivolge alla Musa chiedendo dov’è sparita dall’arte la lima. La Musa risponde che la lima è consumata e ora le opere si scrivono senza essa. L’arte e lo studio sono cose ormai ignote dalla professione di scrivere libri perché i lettori non riconoscono nemmeno l’arte più sopraffina. Così l’eccellenza dello stile non serebbe durevole e apprezzata. Questa critica è rivolta dal Leopardi ai suoi contemporanei che non si preoccupavano della forma del loro lavoro.

5. L’ANALISI DEL PESSIMISMO NEI CANTI

            Come abbiamo già detto, parallelamente allo sviluppo del pessimismo leopardiano, si evolveva e cambiava anche la sua poesia. Per questo motivo riteniamo importante fare una breve analisi delle singole poesie (vd. il sottocapitolo 4.4).
I Canti possono essere intesi come una rappresentazione dell’universo, visto, però, dal punto di vista dell'Io poetico. Crediamo che in tutta la raccolta sia evidente la filosofia pessimistica del Leopardi. I temi delle singole poesie variano, però in ognuna si può sentire la sua delusione man mano crescente. Il tema delle prime poesie è il confronto tra l’età passata e quella contemporanea dalla quale il poeta è disgustato. Nelle canzoni successive è presente il tema della delusione dell’uso eccesivo della ragione, tipico della seconda fase del pessimismo leopardiano. Varie canzoni trattano il tema dell’amore da differenti punti di vista. Un altro tema è il concetto della noia. Dopo il ritorno da Firenze diventa per il poeta importante anche il tema della solidarietà e dell’amicizia. La tomba, la sepoltura e la morte sono temi riccorenti che attraversano tutta l’opera. Di grande importanza è il tema della natura ingannatrice, tipico per la fase del pessimismo cosmico.
In questo capitolo cercheremo di fare l’analisi del pessimismo dai principali punti di vista a seconda dei vari temi trattati in varie canzoni.

5.1 Il tema del passato in confronto con il presente
            Il tema del glorioso passato dell’Italia messo in contrasto con il presente vano e banale è ben evidente nelle prime poesie della raccolta, scritte tra il 1818 e il 1821. Nelle prime due canzoni il poeta si rivolge continuamente all’Italia che viene personificata. All’inizio della canzone Sopra il monumento di Dante il poeta scrive ad esempio:

”O Italia, a cor ti stia
far ai passati onor; che d’altrettali
oggi vedove son le tue contrade,
né v’è chi d’onorar ti si convegna.
Volgiti indietro, e guarda, o patria mia,
quella schiera d’immortali,
e piangi di te stessa ti disdegna“

Il poeta invita l’Italia ad onorare i grandi del passato, perché di questi nel presente la sua terra è priva. Non ci sono più le persone che potrebbero diventare nella storia immortali, come per esempio Dante, la grandezza del quale ha ispirato il poeta a scrivere questa poesia.
Nella canzone seguente, Ad Angelo Mai, il Leopardi addita il presente come il «secol morto» e gli scrittori classici come grandi maestri della civiltà. Considerava il suo secolo vano e come tale noioso, e quindi la vita in esso come nulla e monotona. Alla fine della canzone il poeta si rivolge al Mai dicendo:

“O scopritor famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi;”

Il Leopardi dice a Mai a continuare nella sua opera, a risvegliare i grandi dell’antichità, poichè il mondo presente è pittusto «morto» che vivo, per causa della mancanza dell’entusiasmo e della magnanimità dei pensieri. 
Il tema del contrasto del passato con il presente forma un tema parziale anche nelle canzoni successive a quelle soprannominate. Nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina il poeta si rivolge a sua sorella dicendole che aggiungerà infelice famiglia all’infelice Italia e poi esplica il tema del progressivo invechiamento degli uomini che non si procacciano nemmeno il vigore del corpo e «in gracil petto» non si può mantenere neanche il vigore dell’animo e del coraggio.
Le canzoni posteriori del Leopardi trattano temi diversi dal tema avanzato in questo sottocapitolo, però anche in esse si può trovare qualche accenno al presente mediocre. Per esempio nella canzone Il pensiero dominante, del 1832, chiama l’età presente come «l’età superba, [...] di virtù nemica», e ne La ginestra, del 1836, la definisce come «secol superbo e sciocco». Nella canzone Palinodia al marchese Gino Capponi, del 1835, chiama il secolo in cui vive «età dell’oro», ma il significato reale delle sue parole è completamente opposto, siccome tutto il canto è scritto con un’ironia amara.

5.2 Il tema del suicidio
            In numerose poesie scritte in un arco del tempo molto lungo è evidente la convinzione del poeta dell’inutilità della vita. La sua opinione all’incongruenza tra la vita e la morte cambia continuamente. Nelle canzoni dal 1821 e il 1822, Bruto minore e L’ultimo canto di Saffo, vede la morte come espediente dall’infelicità e il suicidio come la soluzione di questa situazione. Nel Bruto minore il suicidio viene assunto come il tema centrale, ma viene associato al tema dell’uso esagerato della ragione che ci allontana dalla natura:

“Or poi ch’a terra
sparse i regni beati empio costume,
e il viver macro ad altre leggi addisse;
quando gli infausti giorni
virile alma ricusa,
riede natura, e il non suo dardo accusa?”

Il poeta vuole dire che quando uno si decide a finire con la sua vita «macra», cioè povera nel senso meschina, rifiutando «gli infausti giorni», cioè rifiutando la vita infelice, noi non possiamo condannare chi compie il suicidio in nome della natura, poichè sia la sua vita che la sua morte erano innaturali e la morte non era procurata dalla natura.
Quando l’uomo vive contro la natura, essa non è più ispiratrice delle sue azioni, e l’uomo, essendo infelice non spera più a nulla, perde l’amor di sé e di conseguenza l’idea del suicidio gli dá una terribile allegrezza: «e maligno alle nere ombre sorride».
Anche Saffo, raffigurata nella canzone Ultimo canto di Saffo, perde l’amor di sé. Questa canzone si apre con lo sguardo all’apparire del giorno. Ci viene presentata la natura nei suoi bellissimi aspetti esteriori che inteneriscono il cuore, e in contrasto con la bellezza della natura è messa la brutezza di Saffo:

“Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno.”

La terra è raffigurata come appare agli occhi di Saffo, alla quale l’ingiusta sorte non ha dato niente di questa bellezza.
Secondo il poeta l’uomo privo della bellezza sente di essere escluso dal mondo bello che ama e ammira. È escluso anche dall’amore, perché questo è impedito alle persone brutte.
In questo canto è evidente il parallelismo tra la poetessa greca e il nostro poeta il quale si identifica con la sorte di essa: il mondo dell’amore è precluso a Saffo ma anche al poeta, il quale, come Saffo, non è capace di procurarsi l’amore della donna a causa del suo aspetto non attraente. Il suicidio di Saffo possiamo interpretare come la sua protesta contro la natura che l’ha esclusa dal mondo della bellezza.

5.3 Il tema dell’amore
Il tema dell’amore è annesso con il tema della morte, del dolore e della concezione della donna ideale non esistente.
La prima canzone amorosa della raccolta, Il primo amore, comincia con le seguenti parole:

“Tornami a mente il dí che la battaglia
d’amor sentii la prima volta, e dissi:
oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!”

Fin dall’inizio della canzone il poeta denomina il sentimento amoroso come «la battaglia» che lo tormenta. Nei versi successivi parla dell’amore come di un affetto dolce il quale, però, addolora il cuore che perde la sua serenità.
Il tema dell’amore torna sei anni dopo, nella canzone Alla sua donna. La donna è presentata come immagine della bellezza e della virtù celeste che si trova soltanto nella fantasia del poeta:

“o te la sorte avara
ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?”

Da questi due versi si vede la delusione del poeta che ha smesso di cercare la donna ideale poichè è dell’opinione che questa non esiste: l’unica speranza possibile è che il destino la «prepari» agli uomini che verranno.
Il peso dell’amore viene rivalutato dal poeta più volte. Nel canto Il pensiero dominante, dell’inizio degli anni trenta, definisce l’amore come «dolcissimo» possessore dei pensieri più profondi della sua mente e come il «dono del ciel». In questa canzone l’amore assume quindi una forza positiva. Ritorna anche il tema del presente secolo inutile e della morte; adesso, però, il poeta di sicuro sarebbe contro il suicidio dicendo:

“ La vita della morte è più gentile.
[...] così qual son dei nostri mali esperto,
verso un tal segno a incominciare il corso:
che tra le sabbie e tra il vipereo morso,
giammai finor sí stanco
per lo mortal deserto
non venni a te, che queste nostre pene
vincer non mi paresse un tanto bene.”

 Il poeta si considera esperto dei mali, ma nonostante le sofferenze della sua vita non cade in una disperazione tale da non considerare l’amore come un bene superiore alla pena di vivere.
Dell’aria ben diversa è la canzone A se stesso, che fa parte del ciclo di Aspasia:

“Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.”

L’amore non può essere più considerato come una forza bellissima e come un bene superiore, perché il poeta non crede nemmeno che l’amore esista. L’amore era l’ultima illusione del poeta e adesso, anche questa, è morta per sempre. Sono spenti sia la speranza sia il desiderio di «cari inganni». La terra non è affatto degna di desideri:

“Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta.”

La vita è fatta di dolore o di noia. Il poeta sopporta per l’ultima volta la disperazione e rinuncia in modo definitivo a sperare. Il concetto importante viene ripetuto dentro la poesia molte volte: da queste ripetizioni viene rafforzato il significato delle parole del poeta.
Il pessimismo del poeta in questa canzone è culminante. Vede il mondo e tutto l’universo come brutto, malvagio, inutile e vano. Su tutto l’universo impera il male nascosto.
Questa poesia rappresenta la fase del pessimismo cosmico del Leopardi quando ha perso anche la minima speranza e l’illusione del mondo.

5.4 Il tema della ragione come causa dell’infelicità umana
Come abbiamo già detto nel sottocapitolo 2.2, il Leopardi, nella fase del pessimismo storico, considerava la ragione come la causa dell’infelicità umana. Quest’idea è espressa nella canzone Bruto minore, dove viene esplicata l’idea della vita vissuta contro la natura a causa dell’uso eccessivo della ragione (vd. il sottocapitolo 5.2).
All’anno 1822 risalgono le due canzoni Alla primavera e Inno ai patriarchi dove viene sviluppata l’idea dell’eccessivo uso della ragione che sta contro la natura benigna.
Nella prima strofa della canzone Alla primavera il poeta descrive la bellissima rinascita della natura dopo l’inverno la quale porta con sé buon umore e nuove speranze. Il poeta invita la natura a toccare il cuore gelido dell’uomo. All’inizio della seconda strofa si rivolge alla natura chiedendo se sta vivendo ancora: “Vivi, tu, vivi, o santa natura?”. Dopo questa domanda esplica il motivo perchè la gente non sente più la «materna voce» della natura e attribuisce la colpa a “gl’impuri cittadini consorzi” cioè alla corrotta vita sociale che allontana l’uomo dalla natura. La poesia finisce con i versi seguenti:

“vaga natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’ equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno.”

Il poeta spera che la natura e la scintilla del sentire e dello sperare degli anni «antichi», cioè giovanili, tornino all’uomo che una volta li possedeva, ma poi non li sente più a causa dell’eccessivo uso della ragione. L’uomo si scosta dalla primitiva felicità dataci dalla natura.
Attorno l’anno 1830 il poeta scrisse il componimento Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove cambiò il suo rapporto con la natura, però non cambiò la sua visione della ragione a causa della quale gli uomini sono sfortunati.
Il motivo per cui considera la ragione come la nostra nemica si può capire dalle seguenti parole con le quali il pastore si rivolge alla sua gregge:

“O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.”

La gregge del pastore, sia come tutti gli animali, non si rende conto della miseria della vita. Se la gregge si trova in un’incomodità o se prova un timore, subito dopo che esso passa, la gregge lo dimentica. E invece gli uomini, usando la ragione si rendono conto della loro infelicità. Per di più la gregge non sente la noia. Come abbiamo già menzionato in capitoli precedenti, il Leopardi considerava la noia come «il male della vita». Quando l’uomo non sente né goia, né dolore, cade in noia. E invece la gregge, giacendo, riposando, masticando l’erba, non ragiona dello suo stato e quindi non sente niente, nessuna noia.

5.5 Il tema della natura ingannatrice
            Questo tema è presente in varie poesie, in alcune forma il tema dominante, nelle altre soltanto un tema parziale. Il primo adombramento della delusione provocata dalla natura si trova nella poesia Il sogno, del 1820, la quale parla della morte prematura di una fanciulla:

“nel fior degli anni estinta,
quand’è il viver più dolce, e pria che il core
certo si renda com’è tutta indarno
l’umana speme.”

La ragazza è morta «nel fior degli anni», cioè giovane, quando la vita è più dolce perché il cuore non si rende ancora conto della vanità di speranze che porta dentro.
Il poeta figura il destino umano come crudele e incolpa la natura che non si occupa del bene della gente.
La natura è vista come indifferente verso le sofferenze del genere umano anche nella canzone Il risorgimento, del 1828.
Ne sono testimonianze seguenti versi:

“so che natura è sorda,
che miserar non sa.
Che non del ben sollecita
fu,ma dell’esser solo:
purché ci serbi al duolo,
or d’altro a lei non cal.”

La natura è «sorda» alla sorte dell’uomo e non sa aver pietà. Non si occupa della nostra felicità e ci mantiene in vita soltanto per farci soffrire e null’altro la interessa.
Il concetto della natura ingannatrice forma il tema predominante nei grandi Idilli, composti tra il 1828 e il ’30. Tra questi abbiamo scelto la poesia A Silvia, come canzone dimostrativa. La canzone comincia con versi lieti in cui però già troviamo degli indizi sulla vicina morte di Silvia:

“Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?”

Il poeta si rivolge direttamente a Silvia, chiedendole se si ricordi del tempo della giovinezza, quando la sua bellezza splendeva nei suoi occhi giocondi e timidi. Parlando della sua «vita mortale» e della sua pensosità evoca in noi l’idea della sua morte.
Nei versi successivi il poeta descrive come Silvia passava il giorno, cantando, lavorando e sognando. Il poeta lasciava gli studi e la guardava dal balcone della sua casa. Il poeta agisce sui nostri sensi: quasi sentiamo il «perpetuo» canto di Silvia, il maggio «odoroso» e quasi vediamo il ciel «sereno».
La quarta strofa segna il passaggio tra lieto inizio e opprimente fine della canzone. Comincia con le seguenti amabili parole:

“Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!”

Finisce però con parole di rovescio improvviso:

“O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?”

Nei versi successivi veniamo a sapere che Silvia è morta prima che la sua gioventù fosse potuta «fiorire» e i suoi sogni si potessero realizzare. Con la morte di Silvia è perita anche la speranza del poeta:

“All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.”

In questa canzone il poeta incolpa la natura che non adempie quello che promette all’uomo giovane, e lo inganna. Il poeta si occupa anche del tema del «vero» il quale è nemico della felicità perché a causa di esso ci rendiamo conto del dolore che ci accerchia, perdiamo la speranza e le illusioni, ci accorgiamo dell’impassibilità della natura, e si aumenta il nostro dolore.
In questa canzone il poeta fa anche un parallelismo tra la vita lineare dell’uomo e la vita circolare dell’anno. Il tempo circolare della natura che rinasce ogni primavera viene dato in contrasto con la vita dell’uomo. Questi da giovane sembra vivere la primavera, è pieno di speranze e di buone intenzioni, poi, però, arriva l’autunno della sua vita, le sperazne cadono e arriva l’inverno, cioè la morte.
Nella canzone sepolcrale Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, degli anni trenta, viene riunito il tema della natura ingannatrice con il tema della morte e del senso della vita. In questa canzone il poeta deluso esprime la sua opinione che meglio sarebbe non essere mai nato.
Il poeta si rivolge più volte alla natura traditrice:

“Madre temuta e pianta
dal nascer già dell’animal famiglia,
natura, illaudabil maraviglia,
che per uccider partorisci e nutri,
se danno è del mortale
immaturo perir, come il consenti
in quei capi innocenti?”

La «madre temuta», cioè la natura, che non merita lode, partorisce e nutre gli uomini all’unico fine cioè quello di ucciderli. Interroga la natura perchè permette ai mortali innocenti morire
La poesia finisce con i seguenti versi:

“Come potesti
far necessario in noi
tanto dolor, che sopravviva amando
al mortale il mortal? Ma da natura
altro negli atti suoi
che nostro male o nostro ben si cura.”

Come poteva la natura ammettere che si formi negli uomini talmente grande dolore che essi amano la morte più che la vita vita? Il poeta poi risponde: ma la natura non si preoccupa né del male né del bene degli uomini, perché è del tutto indifferente.
Ci sono molte altre poesie le quali testimoniano la rottura del rapporto del poeta con la natura. Dobbiamo menzionare ancora, tra i piccoli Idilli, la canzone La sera del dí di festa, dove la natura maligna ci mostra il suo bellissimo aspetto “questo ciel, che sí benigno appare in vista” per ingannarci, però poi ci prende la nostra speranza e riempie i nostri occhi del pianto. Un’altro canto dove il pessimismo del Leopardi assume il suo culmine è il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, dove il poeta addirittura pone la domanda perchè siamo nati e “se la vita è sventura perché da noi si dura?”, perchè continuiamo a vivere?

 

CONCLUSIONE

            Lo scopo della presente tesi era di illustrare i pensieri pessimistici del Leopardi e di spiegare come si manifestano nelle singole poesie.
Nel primo capitolo abbiamo riportato i fatti della sua vita che ritenevamo importanti per capire la sua opera. Nel capitolo successivo abbiamo cercato di chiarire la filosofia leopardiana per intendere in quale modo guardava il mondo e anche se stesso. Nel terzo capitolo, prima di puntare la nostra attenzione sulla raccolta Canti, abbiamo presentato ai lettori la poetica leopardiana. Dopo aver analizzato le pubblicazioni e le caratteristiche formali della raccolta ci siamo concentrati ai temi delle poesie, precisando anche gli anni in cui furono scritte per poter meglio collocarle nelle singole fasi del pessimismo del poeta. Infine abbiamo preso in esame le singole poesie cercando i versi caratteristici per il suo pessimismo e concentrando la nostra attenzione sul modo con cui ha espresso i suoi pensieri. Quest’analisi delle poesie la giudichiamo come la chiave che ci permette di comprendere la filosofia leopardiana.
Come abbiamo visto i temi delle singole poesie che riflettono le idee del poeta sono molto vari perché le idee e i sentimenti del poeta cambiano spesso. A volte le sue poesie sono piene di amore, di speranza, di ammirazione della natura, ma altre volte sono piene di dolore, di disillusione e di invocazione di morte.
Il Leopardi voleva con le sue poesie capire il senso del vivere, i rapporti dell’uomo con la ragione e la natura, più tardi anche analizzare le cause dell’infelicità umana. Voleva far ritornare tra gli uomini la solidarietà diminuendo così il dolore della vita.
Il messaggio dell’opera del Leopardi è grande: il Leopardi, riconoscendo il male della vita e mostrandocelo, ci incita a confederarci per resistere al dolore e per aiutarci reciprocamente con lo scopo di rendere la nostra vita meno dolorosa.
Il Leopardi è un poeta che ha molte cose da dire anche ai contemporanei. La sua opera è fuori dal tempo perché tratta valori universali ed eterni che toccano l’uomo come tale.


BIBLIOGRAFIA

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Tellini, Gino, Giacomo Leopardi, in Malato, Enrico, Storia della letteratura italiana, volume VII, Salerno Editrice, Roma, 1998.

Cfr.: Leopardi, Giacomo, lettera a Pietro Giordani, Recanati, datata 30.4. 1817, citata in Gino Tellini, Giacomo Leopardi, cit., p.731.

Nel 1813 scrisse un importante saggio su astronomia intitolato la Storia della Astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXI, edito da Giuseppe Cugnoni nel 1880.

Nel 1815 cominciò la traduzione degli Idilli di Mosco e della Batracomiomachia e soprattutto tradusse i testi del grammatico latino Frontone, il primo libro dell’Odissea e il secondo dell’Eneide.  

Sono testimonianza de quest’epoca primi componimenti di Canti, tra i quali Il primo amore o l’Appresamento della morte.

Cfr.: l’introduzione di Ruffilli, Paolo alle Operette morali, op.cit., p.10.

Pietro Giordani fu uno scrittore del purismo, che visse negli anni 1774-1848.

Vittorio Alfieri fu il poeta e drammaturgo, uno dei maggiori interpreti del patriottismo in epoca prerisorgimentale, nato nel 1749 ad Asti e morto nel 1803 a Firenze.

Niccolò Ugo Foscolo fu uno dei principali letterati del Neoclassicismo il quale preludeva con la sua opera anche il Romanticismo, nato nel 1778 all’isola ionia Zante, morto nel 1827 a Londra.

Queste idee lo ispirarono a scrivere due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante.

Antonio Ranieri fu un intelletuale e scrittore napoletano, che visse negli anni 1806-1888.

Si tratta della villa Ferigni: proprietà di Giuseppe Ferrigni, marito di Paolina Ranieri; si trovava tra Torre del Greco e Torre Annunziata.

Ferroni, Giulio, Storia della letteratura italiana. Dall‘Ottocento al Novecento, Einaudi Scuola, Milano, 1991.

Sapegno, Natalino, Disegno storico della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

Ruffilli, Paolo, op.cit., p.10.

Cfr.: Leopardi, Giacomo, lettera a Pietro Giordani, Recanati, datata 2.3. 1818, citata in Gino Tellini, Giacomo Leopardi, cit., p.734.   

Cfr.: Leopardi, Giacomo, lettera a Pietro Giordani, Recanati, datata 30.4. 1817, cit., p.752.

  Jean-Jacques Rousseau fu un filosofo franco-svizzero, nato a Ginevra, il 28 giugno 1712, morto a Ermenonville, il 2 luglio 1778.

Cfr.: Storia della letteratura italiana, di Ferroni, Giulio, op.cit., p.203.

Malato, Enrico, op.cit., p.772.

Vincenzo Monti fu il maggior esponente della letteratura italiana neoclassica, nato nel 1754 ad Alfonsine di Romagna, morto nel 1828 a Milano.

Melchiorre Cesarotti fu un poeta illuministico e traduttore che tradusse dal greco fra l’altro Iliade, nato nel 1730 a Padova e morto nel 1808 a Padova. 

Si tratta delle dottrine elaborate dai romantici maestri tra quali Madame de Staël, il Breme, il Berchet.

Si parla delle lettere che furono sritte come le risposte agli articoli della Staël e del Breme che trattavano le idee del Romanticismo.

Cfr.: Disegno storico della letteratura italiana, da Sapegno, Natalino, op.cit., p.655.

Questi tre generi sono: la poesia lirica, la poesia drammatica e la poesia satirica.

Razionalità la quale, però, è nel contrario con il suo concetto dell’infinito.

si tratta dei seguenti canzoni: All’Italia, Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze, Ad Angelo Mai quand’ebbe trovato i libri di Cicerona della Repubblica , Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel Pallone, Brutto minore, Alla primavera o delle favole antiche, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano e Alla sua donna.

Si tratta dei seguenti cinque Idilli: L’infinito, La sera del giorno festivo, La ricordanza, Il sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria; delle due Elegie; dei cinque Sonetti; l’Epistola; i tre canti della Guerra dei topi e delle rane; il Volgarizamento della satira di Simonide sopra le donne.

Il Leopardi scelse le città dove pubblicare le sue raccolte in base al contenuto delle opere. Firenze, Napoli e Bologna furono le città del centro poetico e invece Milano, la città dove pubblicò la sua raccolta di prose Operette morali, fu un centro dell’Illuminismo.

Cfr.: Colaiacomo, Claudio, «Canti» di Giacomo Leopardi, in Asor Rosa, Alberto, Letteratura italiana Einaudi. Le Opere, volume III, Einaudi, Torino, 1995, pp. 4-12.

Cfr.: Storia della letteratura italiana, di Ferroni, Giulio, op.cit., p.197 e p.221.

gli Idilli sono divisi in piccoli Idilli e grandi Idilli in base alla loro lunghezza.

Si tratta delle poesie pubblicate per la prima volta nell’edizione fiorentina del 1831.

Cfr.: Ferroni, Giulio, op.cit., p.222.

Il titolo completo è Sopra il Monumento di Dante che si preparava in Firenze.

Angelo Mai fu un cardinale italiano, antiquario, filologo e un importante scopritore di antichi testi, nato nel 1782 a Schilpario, morto nel 1854 a Castel Gandolfo.

Il titolo completo della canzone è Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica.

Cfr.: Ferroni, Giulio, op.cit., p.210.

Il titolo completo è Alla primavera, o delle favole antiche.

Il titolo compatto è Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano.

Giudicando però la metrica e la stilistica la canzone si apparenta piuttosto ai grandi Idilli.

Cfr.: Ferroni, Giulio, op.cit., pp.223-224.

Originariamente questa canzone era intitolata La ricordanza.

Il conte Carlo Pepoli fu il vicepresidente dell’Accademia dei Felsinei, nato nel 1796 a Bologna e morto nel 1881 a Bologna.

Cfr.: Ferroni, Giulio, op.cit.,p.226.

Nell’immagine di Silvia è adombrata Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel 1818.

Il titolo completo è Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Cfr.: Leopardi, Giacomo, Canti, edizione a cura di Gallo, Niccolò e Garboli, Cesare, Einaudi Tascabili, Torino, 1993, p.194.

Targioni-Tozzetti non volle riconoscersi nelle poesie del Leopardi e addirittura scisse al Ranieri di non aver mai dato «la menoma lusinga a quel pover uomo».

Il nome completo è Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accommiatandosi dai suoi.

Cfr.: Leopardi, Giacomo, Canti, edizione a cura di Gallo, Niccolò e Garboli, Cesare, op.cit., p. 244.

Il nome completo è Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima.

Gino Capponi fu storico, pedagogista e uomo politico che con gli amici Lambruschini e Vieusseux fondò il periodico l’Antologia. Nacque nel 1792 a Firenze e qui morì nel 1876.

Questo amaro canto però dovette maturare nell’animo del Leopardi già durante il suo soggiorno fiorentino. Il Leopardi partì nel 1830 per Firenze con molte speranze e aspettative. Venne a contatto con gli intellettuali progressisti del gabinetto Vieusseux, tra cui anche con il Capponi, ma dopo un primo entusiasmo divenne deluso e la sua solitudine si profondò. Quando partì per Napoli era ormai incapace di qualsiasi contatto con la vita.

Cfr.. Leopardi, Giacomo, op.cit., p.260-

Il Capponi considerava la poesia del Leopardi come insoportabile, piena di malinconia e di tristezza affettata, senza nessun’idea nuova.

La ginestra è una pianta che cresce in terreni estremamente aridi e la sua caratteristica è quella di rinascere dopo la catastrofe. Rappresenta la continuità della vita ed è il simbolo della modestia e dell’umiltà.

Il poeta allude alla mentalità ottocentesca che porta con sé le illusioni progressive e le fedi religiose fondate sulla credenza che l’uomo sia il centro dell’universo.  In contrapposizione con esse mette il pensiero del secolo precedente che si rendeva conto della marginalità dell’uomo nell’ordine del cosmo.

L’eruzione vulcanica del Vesuvio distrusse nel 79 d.C. le città Ercolano, Pompei e Stabia. Da qui la visione inospitale e rovinosa del Vesuvio.

Cfr.. Ferroni, Giulio, op.cit., pp. 232-233.

Cfr.: Colaiacomo, Claudio, op.cit., p. 70.

«La lima» sarebbe la rifinitura minuziosa di un’opera dell’ingegno o dell’arte.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 13, vv. 7-13.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 34, vv. 175-177.

A continuare nella sua opera dello scopritore dei testi antichi.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 57, vv.55-60.

Cfr.: Leopardi, Giacomo, Canti, op.cit., p. 56, v. 45.

Saffo fu poetessa greca che visse nel VII secolo a.C.

 Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p.84, vv. 19-23.

 Cit.. Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 91, vv. 1-3.

 Cit.: leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p.145, vv. 10-11.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 212, v. 87.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 229, vv. 2-5.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 229, vv. 10-12.

Quando l’uomo non sente l’amore si annoia, perché è privo di sentimenti, quando però lo sente, porta in sé anche il dolore.

Cit., Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 66, vv. 20-21.

Cit., Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p.. 67, vv. 67-68.

Cit., Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 70, vv. 90-95.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 193, vv. 105-108.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 120, vv. 26-29.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., pp. 165-166, vv.  119-124.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., pp.171-172, vv. 1-6.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., pp. 172-173, vv. 28-31.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 173, vv. 36-39.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 174, vv. 60-63.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p.243, vv. 44-50.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 245, vv. 104-109.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., pp. 109-110, vv. 11-12.

Cit.: Leopardi, Giacomo, Canti, ed.cit., p. 191, vv. 55-56.

 

Fonte: http://is.muni.cz/th/110266/ff_b/TESI.doc

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Autore del testo: H.Závodská

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