Letteratura Giacomo Leopardi immagine antica

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Letteratura Giacomo Leopardi immagine antica

Leopardi: L’IMMAGINE ANTICA
(queste note sono una rielaborazione dello studio di Neuro Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Einaudi, Torino 1991)

1. La malinconia, “quasi” un lutto
Dalle lettere di Leopardi emerge un desiderio erotico sensuale inespresso. E’ vero che il Leopardi soffriva per questo, ma perché evitava di trattare con ragazze e restava in disparte? Perché non aveva compagni? Non è colpa solo di Recanati perché nelle altre città era lo stesso. Era malato, ma non molto, era brutto, ma non più di tanto. Chi lo ha fatto nascere così? Egli incolperà la natura, il padre, la madre, ma anche queste sono ragioni sostitutive. La vera ragione è una inguaribile malattia dello spirito, una “barbara malinconia”, strettamente legata al pensiero , ma da lui attribuita a ragioni fisiche (deforme = insoddisfazione amorosa). Leopardi avverte la somiglianza degli effetti tra malinconia e lutto, ma non poteva cogliere (Freud non era ancora nato!) la differenza tra l’una e l’altro: la prima è inconscia, il primo è conscio. La mancanza di un amore non era la causa della malinconia, ma l’effetto, perché essa è incapacità di amare, essa lo spinge ad autorimproverarsi e a stare in attesa della punizione. E allora egli mostra di voler reagire, ma in fondo non lo vuole e non lo può, perché la ribellione gli aumenta la colpa e la colpa, a sua volta, gli richiede una maggiore dimostrazione di pena. La rappresentazione patetica che fa di se stesso è una deformazione della sua reale infelicità. Per recuperare l’innocenza è necessario sottoporsi al lavoro malinconico, simile a quello luttuoso, al cui culmine c’è l’inclinazione al suicidio, il quale non è altro che un commiserevole eroismo. Il poeta si accorge che il suo discorso di morte non è reale, ma è legato ad un profondo desiderio di vita e di amore: in questo consiste la sua “presa di coscienza” . Leopardi ci chiarisce che il suo discorso di morte è immaginario ed esagerato, ma è necessario per esprimere l’opposto, cioè il desiderio di vita. Se il fondo del cuore produce malinconia e desiderio di morte, lo fa per compensazione ed espiazione: è una proiezione di se stesso come eroe martire . È facile allora la conclusione sulla “vita strozzata” e sulla “delusione storica”: l’atteggiamento lacerato e ossessivo di Leopardi deriva solo in piccola parte da fatti esterni o personali o storici, perché la vera ragione del suo dolore è interiore e antica, è un’istanza primaria che accentua, inconsciamente, i mali, inibisce i possibili piaceri ed esalta, al contrario, la rinuncia, l’impotenza, la virtù e la morte. Da questa necessità nasce il ciclo idillico elegiaco ed eroico, e il suo stesso linguaggio “indefinito”.
Per una conferma si vedano Le memorie del primo amore (1817): emerge un desiderio di amore impedito dalla virtù, avvelenato inconsciamente dalla colpa (non a caso si innamora di una cugina più anziana e già sposata); da questa esperienza nascerà Il primo amore . Quel vago desiderio di vita e di amore colpevolizzato è il nucleo di tutto ciò che sarà “vago e indefinito” nel linguaggio e nelle visioni del Leopardi, perché nascosto anche a lui, cioè inconscio. Le stesse figure femminili dei Canti sono solo vagamente autobiografiche, perché si tratta di finzioni della mente e sostituzioni del soggetto lirico , il quale può amare solo donne immaginarie. Silvia e Nerina sono le raffigurazione di quella infantile fantasia di privazione, che è all’origine della malinconia e che può essere recuperata solo attraverso l’immagine poetica vaga e indefinita. Solo così la poesia può restituire catarticamente quel diletto perduto dalla fanciullezza che la vita non può concedere. Così, la malinconia e il lutto (inconscio e conscio) si intrecciano e si confondono, sostenendo l’una e l’altro le ragioni della poesia.

2. Il discorso di morte
Nel 1816 (un anno prima dell’inizio della corrispondenza con Giordani e quindi del suo contatto con il mondo), il Leopardi scrive l’idillio Le rimembranze e Appressamento della morte, in cui si ribadisce quanto dirà poi in Amore e morte (del 1833): «Quando novellamente / Nasce nel cor profondo / Un amoroso affetto / Languido e stanco insiem con esso in petto / Un desiderio di morir si sente» (vv. 27-31): il nascere dell’amore coincide con la nascita di una metafora di morte («come non so», v. 32). Questi due testi ci confermano che la malinconia è presente non solo dal 1819 (data della “conversione filosofica”), ma anche prima della corrispondenza con il Giordani. Non è un caso che il Leopardi scelga un idillio funebre (ispirato dall’idillio III di Mosco, tradotto dallo stesso Leopardi ): già qui il Leopardi è in preda ad un bisogno di autopunizione e di rivalsa che si rivela nelle lettere al Giordani. E’ noto infatti che l’infanzia di Leopardi è piena di lutti familiari (nove fratelli, di cui sei morti prima di lui). Nell’idillio c’è una chiara corrispondenza tra Dameta e il piccolo Leopardi. Questo è forse l’unico vero testo autobiografico del Leopardi, nel senso che  il solo ad andare alle radici della sua vita, cioè all’infanzia (fondamento privilegiato di ogni autobiografia): qui è un fratellino piccolo che muore, non un Bruto o una Silvia o una Nerina.
Nell’Appressamento il voler morire indica una vendetta luttuosa contro di sé, una dimostrazione di innocenza, mentre la paura di morire allude alla proibizione e significa la paura di una pena. Prima c’è la paura di morire (la paura di essere punito), poi di conseguenza c’è il bisogno di dimostrare la propria innocenza con la dichiarazione di essere pronto alla morte e portando la svalutazione sino al punto di mostrarsi quanto più possibile infelice, malinconico e virtuoso.

3. La “camera oscura”
Le labili tracce del fantasma che traspare come ricordo di una minaccia di morte violenta e di una paura traspaiono dalle prima pagine dello Zibaldone, come pure nella lettera al Giordani del 6 marzo 1820: si tratta di sensazione infantili di luce impedita; si prosegue poi con la favola di Aviano con la minaccia di essere mangiato dal lupo: non è solo paura di morire, ma di morire di morte violenta ed essere privato della giovinezza e dell’amore. Da notare che anche nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) il Leopardi, riferendosi agli errori dell’educazione, ricorda il terrore provocato dal timore che la luna potesse essere strappata dal cielo: questo deve aver richiamato alla mente del poeta una fantasia infantile associata all’immagine della tempesta (simbolo della punizione); già nei testi del 1816-1817 la luna è associata ad un sentimento di violenza e di minaccia . Si può ritenere che la descrizione dei timori panici contenuta nel Saggio si riferisca, più che alle fonti, all’esperienza stessa del fanciullo Leopardi (che infatti ribadirà tali paure nello Zibaldone). Nel cap. VIII del Saggio, per esempio, si mettono insieme diverse fobie infantili, tutte in qualche modo legate al pericolo di perdere il primitivo desiderio (si tratta di un pericolo pulsionale): paura degli spettri (i genitori), paura del lupo cattivo (il padre), paura dei temporali (le punizioni ). Al Saggio si possono ricondurre i temi fondamentali e più scottanti della poesia e del pensiero leopardiano, perché è il testo che ne riproduce il meccanismo generativo. Ciò viene confermato da Zibaldone 531 (20 gennaio 1821) e 3518-3519 (25 settembre 1823): qui la paura degli scoppi e degli spari festivi viene definita strana e inspiegabile razionalmente, Leopardi dice di averla provata nell’infanzia e nell’adolescenza fino a quando, per il solito capovolgimento catarchico che gli farà piacere il dolore, diventerà piacevole e amabile . All’idea della fanciullezza come età vagamente felice si accompagna il vago ricordo di antiche minacce e solitarie paure e quindi ancora di sofferenza.
La paura della morte è iniziata da bambino come paura di una punizione traumatica e Leopardi più tardi ne attribuisce la colpa all’educazione: così il Saggio diventa il primo testo leopardiano che contenga la sua protesta. Infatti, quando decide di cominciare a scrivere lo Zibaldone, nel 1817, si trova nella stessa situazione dell’infanzia: la luna, il buio, il rumore dei cani .
Nei Canti gli errori non saranno più le minacce spaventose che hanno colpito la sua immaginazione infantile, ma saranno gli errori naturali, le illusioni piacevoli, le speranze; tuttavia, anche nel dolce ricordo del “primo entrar di giovinezza” si nasconde l’antico fantasma di privazione e di castigo, che il vero colpevole dell’inerzia amorosa del poeta e dei suoi personaggi femminili, perché ha impedito fin da prima  i loro sogni d’amore con la minaccia e poi li ha troncati con la realtà della morte, sentita come punizione. L’amore per Silvia era già prima impossibile. Il poeta accusa la natura e il destino, perché ormai ciò che per il fanciullo era privazione e paura della punizione da parte dei genitori è diventato, per la coscienza razionale e morale del poeta, un destino mortale, una legge di natura.
Già la scrittura epistolare (specialmente al Giordani) contiene un’esplosione di metafore legate alla paura del divoramento e al desiderio di divorare l’oggetto amato (la malinconia lo divora; lo studio lo alimenta; si beve i suoi giorni amari). Tra gli effetti più clamorosi c’è l’evidente esagerazione espressiva di La quiete dopo la tempesta (vv. 32-41): come può un semplice temporale aver provocato questo effetto? C’era bisogno di esagerare così? In Zibaldone 36 compare l’immagine della camera oscura: la situazione è detta continua, cioè dalla fanciullezza alla vita adulta : l’angoscia consiste in terrori notturni. La camera oscura è sentita come il luogo dell’esecuzione punitiva da parte dei genitori (e specialmente del padre), motivata dalla solitudine e dall’oscurità e dalla minaccia di divoramento che proviene da rumori esterni; è il luogo in cui si è determinata nel bambino la colpevolizzazione del suo desiderio di piacere; è il luogo in cui il dolore della perdita ha innescato la svalutazione malinconica di se stesso, l’istanza autocritica che lo porterà al pessimismo filosofico e morale; è il luogo della rivalsa e della consolazione perché, soffrendo, potrà proclamare la sua innocenza: qui è la radice del titanismo leopardiano, il quale è coraggio di esagerare per rivalsa alla propria sofferenza, di invocare sempre la morte pur temendola: è l’eroismo della vittima. L’immagine della camera oscura rimane nella filigrana dei Canti sia esplicitamente sia nell’immagine del luogo chiuso ed aperto come centro di un ascolto e di una visione. Essa è il polo attorno a cui ruota l’universo fantastico e memoriale del Leopardi, ma non è unico, bensì doppio: ha in sé un’altra stanza, l’altra sponda, la stanza perduta che è dolce immaginare e rimpiangere malgrado la paura notturna. E’ la stanza da dove il poeta da grande sente venire voci femminili , è la stanza dei genitori che, indicando il divieto, accende la fantasia e il desiderio. Fuori e lontano da quelle finestre il poeta guarderà e ascolterà e non potrà immaginare se non un indefinito piacere .
Quanto alla luna, essa fa parte integrante della scena fanciullesca; è la scintilla che accende il fuoco del ricordo e dell’estasi immaginativa. Il buio della camera è dovuto all’assenza della luna: la si può vedere, ma solo riflessa. La luna è figura fruttuosa di quella luce che resta nella camera sognata e quindi è la guida verso quella stanza: è l’indizio principale del legame profondo tra il poeta e i fantasmi della sua infanzia, è un luminoso cordone ombelicale che lo lega alla natura che l’ha generato. Nel proemio dello Zibaldone e in Le ricordanze, la luna appare come al di là di ogni rappresentazione, una specie di fuori-testo. Immagine allucinatoria e sostitutiva, soggetta però al divieto paterno (che può tirarla giù dal cielo), la luna esprime un contrasto tra la serenità e la paura . Nel Canto notturno alla luna si chiede, come alla madre, il perché della nascita ; la luna de Il tramonto della luna è la metafora della fine della giovinezza (senza l’oggetto del desiderio e la guida luminosa, la giovinezza è oscura).
L’oscurità della notte e il buio della camera, come mancanza della luce della luna e privazione dell’amore, sono spesso qualificati con metafore che si riferiscono all’accecamento, in opposizione al “mirare”, che è l’azione tipica del soggetto poetico, soprattutto in riferimento agli occhi, i quali sono nominati 37 volte nei Canti, non solo ad indicare lo sguardo, ma ad accogliere spesso o il pianto o la paura (si ricordi il mal di occhi del Leopardi).

4. Infinito e indefinito
Nel Discorso (1818) il Leopardi afferma che l’antichità e la fanciullezza sono le età più propizie per la poesia: immagine antica e immagine fanciullesca sono la medesima cosa; ma questa poesia immaginativa è solo teorica perché dell’infanzia non resta che il sogno o il ricordo, un senso di delusione, di inganno: il rappresentarci felici è l’unica illusione che ci rimane.
Accanto al compianto luttuoso e al lavoro malinconico, il Leopardi teorizza il ricordo della fanciullezza, una rimembranza poetica dilettosa (mentre i romantici insistono sul terribile e sull’orrido). Se la poesia romantica riproduce i “terrori” della fanciullezza, la poesia leopardiana della rimembranza indefinita deve rendere dilettosi anche quei timori e paure, deve neutralizzare l’affiorare del fantasma. Contro la poesia realistica dei romantici, il Leopardi sostiene una poesia “meravigliosa” (cfr. il Discorso). La poesia del Leopardi non sarà mai realistica, anche quando tratta di cose reali e quotidiane; sarà invece “vaga, oscura e indefinita”, metterà sempre un velo di pianto, di compianto, di rimpianto e di rimembranza tra il suo sguardo e le cose. Il Leopardi non farà mai poesia “popolare” e non cercherà mai l’orribile e il pauroso; egli si preoccuperà di agire sempre sulla “immaginativa” e sul “sentimento” del lettore.
L’infinito rappresenta in forma intensa il dispositivo generale di tutta la poesia di Leopardi Il “colle” diventa, catarticamente, “caro” e rappresenta la scena della camera oscura: infatti è “ermo” e ha una siepe che impedisce di vedere, ossia provoca una specie di accecamento , un ostacolo a vedere l’oggetto amato e quindi ad amare e avere piacere. Il “ma” (v. 4) segna la protesta, perché il poeta “mira” ugualmente e, se non può avere, allora immagina. Non potendo immaginare la persona amata, perché smarrita dalla coscienza, si “finge” (v. 7) l’interminato, ossia l’infinito che allude al finito, al passato, raffigurando così la morte e il suo sovrumano silenzio e la profondissima quiete (vv. 5-6). Nella quale raffigurazione (“ove”, v. 7), prima il “cor per poco non si spaura” (v. 8), pensando alla propria morte e alla minaccia; poi, dopo l’infinito, ecco l’eterno, che viene in mente per contrasto tra il silenzio e la “voce” del presente che passa, come sono passate le “morte stagioni” (v. 12). Ma questa volta, nell’immensità del lutto e della malinconia, che lo riporta alle radici dell’animo, dove il pensiero “s’annega” e diventa confuso, vago e indefinito, la morte non spaventa più perché diventa eroica, espiatrice, e si intravede in essa come un fondo di luce e di allegria, un desiderio che sopravvive ormai innocente e rende piacevole e “dolce” il naufragare nel mare immaginario, metaforico, della pena scontata e dell’amore ritrovato.

5. I Canti: estraneità e mito (I fase: 1818-1823)
Il libro leopardiano si forma, anche editorialmente, su una linea che esclude le Rimembranze e mette ai primi tre posti All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai: ne esce un Leopardi di maniera che si occupa di politica e di attualità (come Foscolo, Monti, Giordani e Manzoni). Tuttavia, neppure in questi testi mancano i motivi tipicamente leopardiani: in All’Italia l’immagine della morte campeggia e proprio l’enfasi retorica serve ad esagerare il pianto, il dolore e la delusione. Nel Monumento vengono ripetuti gli stessi temi e le stesse forme: presente vs passato, il pianto e le lacrime, i figli e la madre, il voler morire e il rammarico di morire .
Ma la sua ispirazione più schietta è il tema amore-morte. Ne Il primo amore (X) la poesia nasce dalla malinconia che aumenta con il suo vuoto quando le immagini poetiche si allontanano e resta l’alienazione dei piaceri: “Tornami a mente” (v. 1), oltre alle rimembranza petrarchesca, è un tipico esempio di come Leopardi trasferisca nel passato ogni attualità penosa . Ai vv. 4-6 il verbo mirare: gli occhi sono impediti di mirare (guardare concretamente) perché abituati già da prima a vagheggiare interiormente una figura antica; poi subentrano i rumori e il poeta diventa “orbo” : allora può agire solo la ricordanza che gli fa chiudere gli occhi di fronte alla diversa realtà .
Anche in Per una donna inferma di malattia lunga e mortale e in Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano e arte di un chirurgo ritorna la raffigurazione dell’oggetto del lutto e della malinconia: dalla morte del fratellino alla perdita della cugina si passa alla morte di donne innocenti e pietosamente compiante; da una poesia più autobiografica si passa ad una poesia più letteraria (Petrarca) e da questa ad un’espressione originale e moderna, tipicamente leopardiana, che arriverà sino a Silvia e a Nerina, passando attraverso Saffo e Aspasia.
Lo stesso regime ambiguo della ricordanza è presente in Alla luna (XIV) che illustra più chiaramente il fenomeno del compiacimento del proprio dolore mostrandolo quasi come un destino (vv. 10-15). L’indefinito che congiunge il poeta al suo passato (o meglio al suo inconscio) è piacevole proprio perché contiene in sé l’idea vaga della morte come espiazione sacrificale in vista di una speranza ancora più indeterminata (la luna lo indirizza verso la sorgente del piacere). La stessa mimesi mortale compare ne La vita solitaria (XVI), dove ritorna l’estraneità amorosa , il sentirsi escluso (è un’autoesclusione) che è l’effetto non di una delusione reale, ma di un’angoscia che si instaura nel momento in cui si accorge dell’amore .
Tra il 1821 e il 1823 Leopardi compone sette canzoni “classicheggianti”: sono tutte collegate dall’intellettualistica contrapposizione tra antichi e moderni che nasconde la polemica antipaterna e, più sotterraneamente, il conflitto di fondo tra la paura (della morte e della solitudine) e il coraggio (dell’immaginazione e della protesta). Nella nozze della sorella Paolina (IV): virtù delle donne antiche; A un vincitore nel pallone (V): contro la cultura dei padri; Bruto Minore (VI): contro Giove, figura paterna ; Alla primavera o delle favole antiche (VII): contro la scomparsa delle favole antiche; Inno ai Patriarchi o de’ principii del genere umano (VIII): desiderio di un padre mai avuto; Ultimo canto di Saffo (IX): rimprovero al padre per averlo fatto brutto (vv. 50-54), il poeta non può godere del paesaggio sereno (vv. 1-6) e allora gode di visioni luttuose (il rumore del carro, vv. 11-12, richiama quello del tuono); c’è una colpa nel suo animo, ma non sa quale (vv. 37-39): il sospetto di avere una colpa archetipica gli deriva dall’atteggiamento punitivo del padre e della madre che l’hanno privato della bellezza e della salute; ma, come al solito, imputa la cosa al fato (vv. 46-49).
In queste canzoni il poeta vorrebbe far tacere, sotto il mito, la sua paurosa inquietudine, la quale ritorna proprio da quell’antichità che la fantasia poetica vorrebbe descrivere felice; tuttavia, se si va in profondità, si capisce il valore simbolico di questa scelta: la sua colpa non può essere del tutto nascosta. Anche in Consalvo (XVII) ritorna la coppia amore-morte : il desiderio di morire è la punizione per aver nutrito il desiderio amoroso. Così pure, in Alla sua donna (XVIII), il desiderio d’amore non riguarda una donna reale: sembra trattarsi di un amore platonico, ma in realtà è un fantasma primario che ne incarna il desiderio .

6. I Canti: compianto e interrogazione (II fase: 1828-1837)
Quando riprende la poesia, nel 1828, con Il risorgimento (XX), Leopardi si rivolge ancora alla “prima età” (vv. 1-6; 25-28; 97-100). In A Silvia (XXI) l’interrogativo iniziale è rivolto ad una donna morta: si tratta quindi di una commemorazione funebre in cui la morte è poetica; si piange si di una perdita iniziale, epoca di sentimenti che non si possono dire se non con metafore di morte. L’immagine della morte permette al poeta di incolpare la natura e il destino (vv. 36-39), di nascondere sotto finzioni “ragionevoli” l’accusa parentale. E’ il pianto su una tomba che racchiude un amore di donna combattuto e vinto in battaglia da un morbo “chiuso” (ritorna l’idea delle imposte chiuse, della stanza chiusa): è un circuito dominato da una legge carceraria di esclusione. Silvia torna sul limite ultimo del girare degli occhi del poeta; così, il compianto su una donna perduta diventa un affetto acerbo e sconsolato su se stesso (vv. 49ss.), affetto acerbo perché radicato nell’infanzia dolorosa e sconsolata.
I nomi di Silvia e di Nerina non sono reali ma arcadici: l’unica realtà che esiste è quella psichica del ricordo, a cui si aggiunge il riflesso inevitabile dell’epoca più lontana. Ne Le ricordanze (XXII) il Leopardi ritorna agli anni della delusione e all’inizio della rappresentazione eroica di se stesso . Le ricordanze sono al centro della poesia dei Canti, perché il ricordo è fondamentale nell’universo poetico leopardiano : dopo sette anni di studio tranquillizzante (perché espiatorio) ritorna il “vero”; lo studio e la virtù nutrivano un ideale di gloria che il ritorno della colpa mostra essere mero desiderio, vago immaginare, per cui resta solo l’ombra catarchica della morte (vv. 77-103). Il ricordo è duplice: dolce quello delle speranze e acerbo quello della delusione che rinvia al trauma infantile; anche a distanza di un decennio, il Leopardi ripercorre il suo cammino partendo da una fanciullezza austera e speranzosa, ma segretamente segnata dai terrori della precedente infanzia che ha cercato di nascondere e di assimilare. La sua poesia ne riceve un’impronta definitiva, un marchio di rimpianto dolce e straziante, tipico di chi non riesce a superare del tutto l’antica paura di essere violentato. Contro questi sussulti del profondo, il Leopardi adopera il farmaco mimetico e luttuoso della morte desiderata o subìta, protestata in una figura femminile (Silvia e Nerina: vittime sacrificali uccise per pagare un peccato antico di cui sono ignare come lui). Nerina non c’è più, ma non c’era neppure da viva: era una sembianza che veniva da una memoria nascosta (altrimenti penseremmo ad un Leopardi che passa da una donna all’altra). La realtà poetica finge e nasconde una reale assenza, un’immagine d’amore perduta per sempre; la pietà per la sua scomparsa è pietà per se stesso, del viver suo così vile: in questo modo, la donna di ogni suo sospiro diventa “compagna d’ogni mio vago immaginar” (v. 171).
Il Canto notturno di un pastore errante nell’Asia (XXIII) è come l’amplificazione poetica dell’inconsapevolezza leopardiana, del suo non capire perché, il perché di un atteggiamento straniero, un perché che diviene cosmico e filosofico. La domanda sul “perché delle cose” sarebbe banale se non sfociasse in una insistita disperazione, in una commossa personificazione della luna. La situazione idillica e pastorale è quella a cui il Leopardi ricorre più facilmente per ritornare verso l’originaria natura: è un’immaginare ancora la morte (l’inattività del pastore confina con la morte). La vendetta leopardiana verso i genitori, colpevoli di averlo fatto nascere (averlo staccato dal seno materno), si esalta nel distruggere la vita: lo spaurimento iniziale ha generato una visione catastrofica dell’esistenza.
La quiete dopo la tempesta (XXIV) non descrive, come sembra a molti, una situazione idillica, ma è un canto amaro che termina con l’invocazione della morte. La serenità iniziale è fittizia: il piacere è vano e non esiste in sé (vv. 42ss.). Anche Il sabato del villaggio (XXV) ha il valore di un apologo triste basato sulle vane speranze dell’attesa: la donzella ha davanti a sé l’immagine della vecchierella che diventerà, mentre i rumori sono di gente che si illude di essere felice.
Il pensiero dominante (XXVI) è (finalmente) il pensiero di un amore senza oggetto reale e senza speranza, che si allieta di se stesso come di un sogno che fa dimenticare la realtà. Tutto fa credere che il pensiero sia quello di Alla sua donna, ma non è così. Il pensiero d’amore continua in Amore e morte (XVII), in cui l’amore risveglia il coraggio , ma di morire tale è il suo effetto malinconico . L’invocazione finale della morte ben si collega con A se stesso (XXVIII).
Chiunque sia Aspasia (XXIX), il suo personaggio viene collegato in uno spazio sentimentale immaginario . La regressione all’immagine primaria della donna è espressa in termini chiari, insieme con l’opposizione reale vs ideale, vista vs visione, presente vs passato, vita vs sepolcro . Aspasia ha ispirato al poeta la solita accusa al “fato mortale” (è morte la perdita delle illusioni infantili). Meglio morire che vivere senza amore. In Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi (XXX), la donna viene uccisa nell’immaginazione del poeta perché non si allontani da lui, e la morte è l’unico mezzo per non perderla e per associarla alla sua sorte ; lo stesso tema compare in Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima .
Nemmeno La ginestra (XXXIV) rappresenta una svolta, anzi riannoda tutti i fili. Al centro del poemetto ritorna il tema della paura, il terrore della sua infanzia , e il ripetersi della sensazione fanciullesca dell’indefinito (vv. 158-185).
Finita la poesia e tramontata la luna, Il tramonto della luna (XXXIII), ritornano definitivamente il buio e la solitudine della “camera oscura” iniziale, immagine antica .


Agli amici suoi di Toscana

La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.
Petrarca

Firenze, 15 decembre 1830.

Amici miei cari,
Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolore, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio.
Il vostro Leopardi

Il passero solitario, vv. 18-22.

Lettere 32 e 42 al Giordani.

Lettera del 18 giugno 1820 e Zibaldone 137-140.

Cfr. Zibaldone 3837-3838 del 5 novembre 1823, dove c’è il malinconico e luttuoso compiacimento del soffrire o, meglio, del rappresentarsi a se stesso come sofferente.

Ahi come mal mi governasti, amore! / Perché seco dovea sì dolce affetto / Recar tanto desio, tanto dolore? (vv. 7-9).

Cfr. Saffo, la “donna mia” de La sera del dì di festa (v. 4), Alla sua Donna; Silvia e Nerina muoiono realmente per permettere a lui di morire insieme a loro, percosso dal comune fato e privato ancora giovane del piacere dell’amore: con lui esse hanno un rapporto di pietà, non d’amore; infatti, le donne del L. o sono irreali o sono puttane.

Cfr. in Leopardi. Prose e poesie, a cura di M.A. Rigoni, vol. I, Milano 1987, pp. 499-504.

La luna che cade diventerà il tema dell’idillio Lo spavento notturno.

Cfr.il cap. XIII dedicato al tuono.

Cfr. anche Zib. 211-212 (16 agosto 1929) e 3078 (1 agosto 1823).

Zib. 515-.516 del 16 gennaio 1821.

Cfr. anche La ginestra, vv. 237-268.

«Era conforto / Questo suon, mi rimembra, alle mie notti / Quando fanciullo, nella buia stanza / Per assidui terrori io vigilava, / Sospirando il mattin» (Le ricordanze, vv. 51-55; il testo è del 1829).

Cfr. Le ricordanze, vv. 136-173.

Cfr. La sera del dì di festa, La vita solitaria, A Silvia, Alla sua donna, Canto notturno.

Si veda l’inizio e la fine di La sera del dì di festa, ma anche Alla luna, Bruto, Saffo. «Spenta per me la luna», Il risorgimento, v. 22.

«Ed io che sono?» (v. 89).

«Tal si dilegua, e tale / Lascia l’età mortale / La giovinezza» (vv. 20-22); «Ma la vita mortal, poi che la bella / Giovinezza sparì, non si colora / D’altra luce giammai» (vv. 62-64).

Si tratta di una variante del buio e del divoramento.

“Perché il nascer ne desti o perché prima / Non ne desti il morire, / Acerbo fato?” (vv. 121-123).

“Quando più bella a noi l’età sorride, / A tutto il mondo ignoti / Moriam per quella gente che t’uccide” (vv. 151-153).

Qui non siamo molto lontani dalle Rimembranze: è amore per una donna -la cugina- perduta non perché muore, come Nerina, ma perché parte.

“Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, / Io mirava colei ch’a questo core / Primiera il varco ed innocente aprissi”. Nel manoscritto c’è vagheggiava.

“Senza sonno io giacea sul dì novello, / E i destrier che dovean farmi deserto, / Battean la zampa sotto al patrio ostello” (vv. 39-41).

“Orbo rimaso allor, mi rannicchiai / Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, / Strinsi il cor con la mano, e sopirai” (vv. 55.57).

“Amarissima allor la ricordanza / Locommisi nel petto, e mi serrava / Ad ogni voce il core, ad ogni sembianza” (vv. 61-63).

“E l’occhio a terra chino o in se raccolto / Di riscontrarsi fuggitivo e vago / Né in leggiadro soffria né in turpe volto: / Che la illibata, la candida imago / Turbare egli temea pinta nel seno, / Come all’aure onda di lago” (vv. 84-90).

Si tratta di due canzoni, non inserite nei Canti, del 1819. In: Leopardi. Prose e poesie, cit., pp. 385-394.

“Amore, amore, assai lungi volasti / Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno” (vv. 39-40).

“Talor m’assido in solitaria parte, / Sovra un rialto, al margine di un lago / Di taciturne piante incoronato” (vv. 23-25).

Anche nella canzone Il sogno il sogno non è reale e la donna è trasfigurata.

Si veda la lettera scritta a Monaldo a proposito della tentata fuga (12 luglio 1819).

“Due cose belle ha il mondo: / Amore e morte” (vv. 99-100).

“Viva mirarti omai / Nulla spene m’avanza; / S’allor non fosse, allor che ignudo e solo / Per novo calle a peregrina stanza / Verrà lo spirto mio” (vv. 12-16).

Cfr. le lettere al Giordani degli anni 1817-1820.

Già nel 1817 il L. aveva scritto Le rimembranze (Leopardi. Prose e poesie, cit., pp. 345-349).

“Ahi finalmente un sogno / In molta parte onde s’abbella il vero / Sei tu, dolce pensiero” (vv. 108-111).

“Ch’ove tu porgi aita, / Amor, nasce il coraggio” (vv. 22-23).

“Quando novellamente / Nasce nel cor profondo / Un amoroso affetto, / Languido e stanco insiem con esso in petto / Un desiderio di morir si sente” (vv. 27-31).

“Null’altro in alcun tempo / Sperar, se non te sola; / Solo aspettar sereno / Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto / Nel tuo virgineo seno” (vv. 120-124).

“Torna dinanzi al pio pensier talora / Il tuo sembiante, Aspasia” (vv. 1-2). Corsivo mio.

“Perch’io te non amai, ma quella Diva / Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core” (vv. 78-79).

“Morte ti chiama (...) Il loco / A cui movi, è sotterra: / Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno. / Forse beata sei” (vv. 18.22-25).

“Così riduce il fato / Qual sembianza fra noi parve più viva / Immagine del ciel” (vv. 19-21).

“formidabil monte / Sterminator Vesevo” (vv. 2-3). Da notare che l’aggettivo formidabil era già in Amore e morte, v. 46.

“Abbandonata, oscura / Resta la vita” (vv. 27-28); cfr. anche vv. 63-68.

 

Fonte: http://www.luzappy.eu/leopardi/leopardi_bonifazi.doc

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