Letteratura Verga antologia

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Letteratura Verga antologia

ANTOLOGIA DI GIOVANNI VERGA
“FANTASTICHERIA”
La pubblicazione della raccolta  “Vita dei campi” segna sicuramente una data “storica” nella biografia letteraria di Giovanni Verga. Infatti fra le otto novelle in essa contenute alcune sono ritenute fra le migliori del Verga verista. Sono in gran parte storie di uomini e donne dominati e sopraffatti dalle più elementari passioni, prima fra tutte l’ amore, che in un modo o nell’ altro riconducono alla tragedia.
La novella “Fantasticheria” ha la forma di una lunga lettera scritta da Verga ad un amica, che alcuni anni prima aveva visitato con lui Aci Trezza. Per quanto riguarda il titolo, esso indica il divagare della fantasia dello scrittore sui ricordi del breve soggiorno ad Aci Trezza. L’amica è il simbolo di quei raffinati ambienti aristocratici e borghesi dei romanzi scritti da Verga; la povera gente di Aci Trezza è il simbolo del mondo degli umili che Verga pone al centro sei suoi interessi. I due mondi, quello aristocratico e borghese, e quello dei poveri sono intenzionalmente contrapposti nella novella. Tutta la simpatia di Verga va al mondo dei poveri, dove egli vi scopre all’ interno valori positivi e insospettati, come l’attaccamento alla famiglia, che invece vengono a mancare nel mondo aristocratico e borghese, scalzati dalla superbia, dall’ egoismo.
Questo racconto serve come introduzione ai "Malavoglia", di cui anticipa la vicenda e i temi. Si narra della giornata di una dama, che, colpita da Acitrezza e dal suo paesaggio, decide di fermarvisi un mese in villeggiatura. Dopo un solo giorno però capisce che la vita nel paesino siciliano scorre monotona e ripetitiva e decide d ripartire. All'ottica della grande dama, che visita da turista la marina catanese, si contrappone quella dei poveri abitati di Acitrezza che vi abitano. L'autore dichiara che solo assumendo il punto di vista di questi ultimi sarà possibile capirne la vita. Verga paragona il mondo in cui vivono i paesani di Aci Trezza, composto dai loro valori come la famiglia,l’attaccamento alla casa e al lavoro,gli affetti sani, semplici e puri, a quello delle ostriche; perché stando le ostriche accalcate l'uno sull'altra, si aggrappano caparbiamente allo scoglio e resistono alla violenza delle onde anche grazie alla loro vicinanza reciproca,seguendo il motto: l’unione fa la forza. Asportare una sola ostrica dallo scoglio può costituire un pericolo per tutte le altre; se una conchiglia viene strappata dallo scoglio, inoltre, non potrà essere più riattaccata alle altre, né sarà capace di vivere autonomamente; mentre per quanto riguarda l’organizzazione della loro società,Verga, la paragona a quella delle formiche, perché è organizzata secondo regole ed architetture precise, che interagiscono tra di loro e che si comportano in base ai ruoli, a loro assegnati.

ROSSO MALPELO
La novella “Rosso Malpelo”, fa parte della raccolta Vita dei campi. Essa  è incentrata sulla vita di un ragazzo che lavora in cava di rena, conosciuto da tutti con il soprannome di Rosso Malpelo per via del colore rosso dei capelli che nella superstizione popolare equivaleva a cattiveria e malizia,cosa che gli crea numerosi problemi. Viene spesso maltrattato, incolpato di tutto ma Malpelo non si ribella mai, anzi, accetta di essere punito nonostante sia innocente. Nonostante sia così malvoluto da tutti egli,quasi per carità, lavora nella stessa cava di sabbia dove suo padre, mastro Misciu Bestia, morì travolto da una frana interna alla cava durante uno sconsiderato e mal pagato lavoro notturno. Il giovane era con il padre al momento del fattaccio e si adoperò immediatamente per cercare di salvare il genitore scavando a mani nude, ma senza esito e poco importò all’ingegnere che dirigeva i lavori. Con la morte del padre Malpelo inasprisce il già poco gentile carattere e fa della prepotenza uno stile di vita.
Conosce poi un giovane detto Ranocchio che nonostante avesse il femore lussato per via di una caduta da un ponte,aveva iniziato a lavorare nella cava. Malpelo lo tiene sotto la sua ala protettiva e gli insegna come sopravvivere a suon di botte,quasi come se fosse un asino. Ranocchio diventa l'unica persona che conti nella vita del giovane una volta perso il padre. In famiglia, infatti, non ha nessuna considerazione né da parte della madre né da parte della sorella che lo maltratta credendo che egli trattenga parte della paga ricevuta alla cava.
Un giorno mentre scavava, Malpelo trova le scarpe del padre ma la possibile scena di vedere il suo piede nudo uscire dalla sabbia gli incute paura,e si allontana così da quella zona della cava. Infatti pochi giorni dopo viene ritrovato il corpo,quasi imbalsamato,e la madre tolse e diede i suoi indumenti a Malpelo,che sembrava ora vestito con abiti nuovi .Ereditò poi anche il piccone e la zappa. Conservava tutto ciò con gran cura,erano ricordi di suo padre,non voleva separarsene. Nel finale della storia, Ranocchio si ammala,la febbre è costante,sputava continuamente sangue,tanto che la sera veniva portato fuori dalla cava sull’asino, ma nonostante ciò, continua a lavorare nella cava. Malpelo era in gran ansia per il suo “unico amico” e lo va a trovare a casa,dove la madre è in preda alla disperazione per la salute precaria del figlio. Quando anche il suo amico Ranocchio muore, Rosso, accetta una missione pericolosa e scompare per sempre nei cunicoli della cava. Probabilmente si perde o muore per asfissia, ma nessuno se ne preoccupa, nemmeno i coetanei che lavoravano con lui.
Nella novella Verga esprime la sua concezione di impersonalità naturalistica,provando a sparire dalla realtà raffigurata. Il punto di vista narrativo è quello della collettività dei minatori,di cui assume i caratteri feroci e fatalistici,anche attraverso i frequenti riferimenti al mondo animale e alla superstizione popolare:l’asino è la bestia sottomessa,bastonata proprio come Malpelo,i cani rappresentano la gente pronta a “cibarsi” l’una dell’altra,le civette rappresentano la notte,il momento in cui Rosso perde suo padre e così via.

DA “I MALAVOGLIA”
•           “COME LE DITA DELLA MANO”
Il brano, tratto dal romanzo "I Malavoglia" di Verga,  si apre con la descrizione della famiglia protagonista, che vive ad Aci Trezza, un paesino di pescatori sulla costa orientale della Sicilia, pochi chilometri a nord di Catania.
I Malavoglia erano sempre stati numerosi. Era una brava famiglia di pescatori, tutto il contrario di quello che diceva il nomignolo, perché in realtà si chiamavano Toscano. Il loro patrimonio era costituito dalla casa del nespolo e dalla barca `Provvidenza'.
Quella dei Malavoglia era una famiglia patriarcale. Padron 'Ntoni soleva parlare per proverbi, fra i quali "Per menare il remo le cinque dita devono aiutarsi fra loro" comparando i membri della famiglia alle dita della mano. Padron 'Ntoni era infatti il pollice, il dito grande, il capofamiglia; poi veniva suo figlio Bastianazzo,un uomo grande e grosso che ubbidiva agli ordini del padre, e la moglie Maruzza, una donna bassina e minuta che badava alla famiglia, detta la longa;infine i nipoti, in ordine d'anzianità: `Ntoni, di circa 20 anni, che le prendeva dal nonno; Luca, secondo il nonno molto più maturo del grande; Mena, o meglio Filomena, soprannominata Sant'Agata perché stava sempre al telaio; Alessi (Alessio); e Lia, ossia Rosalia
Padron `Ntoni conosceva molti proverbi appresi dagli antichi come "Per far da Papa bisogna saper far da sagrestano", che usava per crescere figli e nipoti. Egli era la "Testa Quadra" della famiglia ed era molto preciso, tanto che sarebbe stato eletto consigliere comunale se non fosse stato per don Silvestro che disse che era un sostenitore della monarchia che voleva spadroneggiare ad Aci Trezza. Ma non erano cose vere e padron `Ntoni continuava a farsi gli affari suoi.

•           ORA  È TEMPO DI ANDARSENE
Nel passo conclusivo dei Malavoglia si può intuire lo stato d'animo di 'Ntoni di fronte alla scelta  di allontanarsi definitivamente dalla casa del Nespolo e da Alessi e Mena, gli unici componenti della sua antica famiglia, sopravvissuti tenacemente alle avversità del destino.
Dopo la morte di Padron ‘Ntoni, Alessi, il più giovane dei nipoti è, infatti,  riuscito a riscattare la casa del Nespolo, dove vive insieme alla moglie e ai figli della sorella Mena e, quando vede 'Ntoni, che ritorna dopo essere uscito di prigione, lo accoglie subito, e gli dà una ciotola di zuppa. Ma, quando il fratello dopo aver mangiato, comincia a fare domande sul nonno e sulla sorella Lia non risponde, così ‘Ntoni inizia a sentirsi “di troppo”, sente l'atmosfera fredda e quasi  indifferente della casa per cui prende la decisione di andarsene definitivamente. Prima di andarsene, però,fa un giro per la casa per vedere se era tutto come prima. Così dà un ultimo addio ai suoi familiari e se ne va lasciando  il cane che abbaia. Dopo essersi incamminato ‘Ntoni arriva in piazza dalla quale si riesce a notare il paesaggio di Acitrezza e il mare insieme ai suoi stupendi faraglioni. Rimane lì fino all’alba. Infine torna a guardare il mare per l’ultima volta e dice che è tempo di andarsene prima che arrivi qualcuno…
L'ambiente di Aci Trezza è sempre lo stesso, immutato nel tempo, quasi non segnato dal progresso che altrove ha fatto sentire potentemente i suoi effetti. 'Ntoni è reduce dal periodo di carcerazione a Pantelleria per contrabbando, ritornando a casa, avrebbe forse sperato di integrarsi nuovamente nel vecchio nucleo familiare. Egli intuisce invece che tutta quella vecchia realtà ora è per lui profondamente mutata ed è del tutto inconciliabile con la sua visione del vivere. Egli ad esempio capisce di non riuscire a riadattarsi alla vita di fatiche e di miserie a cui lo costringerebbe la permanenza nell'isola. Ma soprattutto è il senso di estraneità e l'implicito e sordo rifiuto della famiglia e dell'intera comunità (che dovrebbe invece accoglierlo) a costringerlo a ripartire.

DA MASTRO-DON GESUALDO

  • MASTRO-DON GESUALDO RICORDA

Nel  IV capitolo della prima parte del romanzo, mastro-don Gesualdo si reca alle sue terre per controllare i suoi dipendenti e poco dopo il tramonto arriva alla fattoria della Canziria, uno dei suoi possedimenti, dove la serva Diodata gli prepara la cena. La ragazza è assonnata, il protagonista, invece, soddisfatto di se stesso, si abbandona all’onda dei ricordi .
Infatti, gli venivano in mente le giornate impegnative che trascorreva da ragazzo. Giornate in cui doveva portare il gesso dalla fornace di suo padre a Don ferrante. Quante volte piangeva  per le frustate del padre perché gli morivano gli asini per il trasporto, che costavano dieci o dodici tari. Il padre, Mastro Nunzio, doveva portare una famiglia avanti, con molti figli ed una moglie sempre malata. Poi, quando lo zio, Mascalise, lo portò con se a cercar fortuna il padre si arrabbiò con il figlio e ci vollero circa 7 anni per far pace. Questo perché il figlio era diventato un uomo molto ricco, proprietario di molte terre,quindi comandava molte persone  e per Mastro Nunzio era difficile da accettare un altro capo in famiglia. Gesualdo incominciò a guadagnare per tutta la famiglia, grazie alle sue nottate passate a lavorare, a pregare, a dormire qualche volta due ore al giorno se poteva, a mangiare un pezzo di pane nero al giorno se poteva, senza fare festa. Una vita piena di sacrifici fatta da Gesualdo volta sempre al risparmio di ogni singola cosa, fatta per farsi apprezzare da tutti e soprattutto dal padre.
Don Gesualdo ne aveva guadagnata di roba ma aveva passato molte notti senza dormire. Erano venti anni che non andava a dormire prima di vedere il cielo come si mettesse.
Aveva molti pensieri per la testa come: la coltura delle terre, il rischio delle terre prese in affitto, i guai del cognato Bugio e la felicità del padre per il suo lavoro, per lui non c’erano feste e mai domeniche. Dopo tutto questo pensare, le notti, per Mastro - don Gesualdo, erano sempre inquiete e il domani pieno di speranze e di timori.
Gesualdo è, insomma un uomo che si è fatto da sé: da muratore è diventato imprenditore e ricco operaio. Questo percorso gli è costato, però, sacrifici, rinunce, solitudine, odio e lavoro.

•           MORTE DI MASTRO-DON GESUALDO
Il brano La morte di Mastro don Gesualdo descrive la triste fine del vecchio che il male sta lentamente portando alla tomba: quel male dato dai dispiaceri di cui è stata intessuta la sua vita.
Gravemente ammalato, infatti, Gesualdo viene condotto a Palermo dal genero che sta sperperando l'immensa fortuna accumulata dal suocero , per essere curato dai migliori medici . In realtà la medicina non può far nulla. la figlia lo trascura .
In queste pagine finali, Gesualdo si preoccupa, però, ancora della “roba” che vede  dilapidata  per le spese “pazze” del genero. Il tentativo di dialogo con la figlia naufraga nella incomunicabilità ormai nel palazzo della figlia si sente un estraneo.
È  un individuo sopportato persino dalla servitù che lo disprezza per il salto che era stato capace di fare. Non gli è più nemmeno concesso di vivere in nostalgie e ricordi, perché la morte incombe.
Non si fida di nessuno e si sente abbandonato a se stesso, morirà, infatti, senza alcun conforto.
Il dialogo della servitù alla notizia della morte chiude la vita di un uomo che ha combattuto senza riposo né risparmio, tra continue amarezze, in una solitudine sempre più cupa e pallida: un vinto.

 

 

 

Fonte: http://classe4ba.altervista.org/antologiaverga.doc

Sito web da visitare: http://classe4ba.altervista.org

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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