Letteratura critica letteraria

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Letteratura critica letteraria

TEORIE DELLA CRITICA LETTERARIA
I metodi non debbono essere considerati procedure rigide; sono, piuttosto, ipotesi di lavoro, tutte da verificare e nel caso da modificare nel corpo a corpo con un determinato testo o gruppo di testi.

CAP. 1
1.1 - Al di là della soglia
Non necessariamente la teoria lavora in favore della critica; vi sono anche teorizzazioni sull’arte e la letteratura che tolgono terreno all’analisi critica, o ne limitano i poteri.

PLATONE (428-348 a.c) si trovano le avvisaglie nella filosofia di Platone. Da un lato nella Repubblica Platone arriva al ripudio e quasi alla censura delle favole false dei poeti: non ad esse ma solo ad imitazioni che propongano buoni modelli sociali deve ispirarsi l’educazione nello stato ideale. Tuttavia Platone stesso aveva offerto una diversa soluzione tutta in favore della differenza inebriante dell’arte: nel dialogo intitolato Jone la poesia è un sacro furore( in greco mania) che apparenta il poeta a un essere divino. Egli è trascinato e alterato (è fuori di mente), il fuoco del suo animo è paragonato alla forza magnetica che tiene uniti gli anelli di una catena.
Nozione di sublime gli spunti di Platone torneranno attivi nella nozione di sublime (oltre la soglia). L’arte ha qualcosa che oltrepassa il limite della ragione. L’anonimo trattatista Del Sublime (Pseudo Longino) pone i grandi autori al di sopra delle esistenze comuni in quanto fonti di travolgente entusiasmo. Come l’autore è un posseduto dalla divina ispirazione così l’ascoltatore è travolto dall’irresistibile signoria del suo empito. Il sublime mira all’esaltazione. Questa forza rapinosa può essere oggetto di studio e di insegnamento. Ma il commento agli autori dimostra sempre che la tecnica non basta. Nel greco dello Pseudo Longino il sublime suona Hypsos che significa vetta, altezza: in confronto alla quale il critico rimane sempre a un livello inferiore.

EDMUND BURKE (1729-1797)  la nozione di sublime la ritroveremo anche nell’inglese Edmund Burke autore di una inchiesta sul bello e il sublime. Il sublime è definito un potere che lungi dall’essere prodotto dai nostri ragionamenti li  previene e ci spinge avanti con una forza irresistibile. Il sublime è distinto dal bello ma in entrambi la poesia deve fare impressione, provocare stupore; nel sublime ciò che conta è trasmettere l’affezione fosse pure assente l’idea. I poeti continueranno ad aver successo anche senza conoscenza critica. La dottrina dei piaceri guarda con sospetto l’attività che vaglia e esclude (la parola critica deriva dal greco krinein  giudicare e separare).

THEOPHILE GAUTIER (1811-1872) per lui il critico non è altro che uno scrittore fallito, uno a cui è mancato il fiato, il critico è un eunuco obbligato ad assistere ai sollazzi del padrone.

AI GIORNI NOSTRI  è invalsa l’idea che la letteratura potrebbe fare a meno di tramiti e andare direttamente al rapporto con il lettore. Ancora di recente la critica è stata rimproverata di parassitismo.

1.2 – I modelli del dover essere (la forma–trattato)
Per lungo tempo il trattato è stato la forma dominante della riflessione sulla letteratura, configurando un’attività critica vista della costruzione di un modello. Nessun giudizio può prescindere da un modello derivato dalle esperienze precedenti del critico ma i modelli possono essere più o meno duttili e aperti.

ARISTOTELE (384-322 a.c.) il prototipo della forma-trattato po’ essere visto nella Poetica di Aristotele. Egli considera la letteratura come un modo di rappresentazione. Si tratta sempre di imitazione mentre lo storico deve descrivere le cose realmente accadute il poeta deve occuparsi di quelle che possono accadere. Così come il verosimile artistico può convivere con il vero altrettanto al suo interno sono distinguibili diversi generi.
Differenza tra e Platone e Aristotele: Platone  mimesi e diegesi. Aristotele  estensione della mimesi. Aristotele estende la mimesi, come idea generale della rappresentazione a principio complessivo, e articola ulteriormente la riflessione sui generi, prendendo in considerazione oltre i modi i mezzi e soprattutto gli oggetti (se le persone imitate sono nobili o ignobili). Quest’ultima alternativa vale a distinguere la tragedia che tratta di grandi uomini dalla commedia che basandosi su caratteri peggiori tocca argomenti bassi e triviali; così allo schema classificatorio si sovrappone una gerarchia di valori che vede la tragedia alla sommità della scala. Nella Poetica il lavoro di spiegazione tecnica è sempre connesso all’attività giudicante. L’intenzione normativa rivolgerebbe il trattato in avanti verso le opere ancora da fare alle quali è indicato il cammino. Aristotele lega l’ideale della bellezza all’unità dell’opera come coerenza e commisurazione delle parti. La bellezza viene enunciata in termini di organicità: l’opera deve avere la stessa armonia e proporzione di un organismo vivente.
Catarsi sulla questione dell’effetto Aristotele si differenzia da Platone: la teoria della catarsi non coincide con quella della mania. La tragedia mediante casi che suscitano pietà e terrore produce purificazione (katharsis) di questo genere di passioni. Non si ha quindi uno scatenamento dell’emotività ma i sentimenti ambivalenti da un lato di partecipazione (la pietà) dall’altro di rigetto (il terrore) suscitati dalla tragedia sono destinati a venire superati e chiarificati in una sorta di presa di coscienza collettiva degli spettatori.

ORAZIO (65-8 a.c.) l’Arte Poetica di Orazio lascia più margini di libertà. Fornisce dei consigli piuttosto che delle prescrizioni: la convenienza, l’equilibrio, la non-contraddizione. Orazio pone la funzione della poesia tra la piacevolezza e il valore educativo quindi tra l’utile e il piacevole.

I TRATTATISTI  ITALIANI DEL ‘500  furono i principali eredi di Aristotele. La Poetica venne rimessa in circolazione prima in versione latina poi nell’originale greco. Si irrigidirono alcuni aspetti ad esempio il criterio dell’unità fissato nelle tre unità d’azione, di tempo e di luogo. La stessa catarsi venne intesa come piacere mentale consona alla morale cristiana come purgazione dalle passioni perturbatrici quali l’ira, l’avarizia o la lussuria. Il principio dell’arte come imitazione era ripreso anche nel senso della esemplarità della tradizione classica assunta a guida del rinnovamento culturale. La ricerca sui generi si allargò anche a quelli non trattati da Aristotele come la satira o l’elegia.
LODOVICO CASTELVETRO(1505-1571) fu il maggiore degli aristotelici del ‘500. In Castelvetro è assunta a fondamento una logica della verosimiglianza per condurla alle estreme conseguenze senza riguardo per nessun idolo. Il semplice verosimile naturale viene integrato con il ragionevole e gli errori vengono rapportati al giovamento della costituzione della favola.
Differenza con Platone  in polemica con la concezione platonica del furore viene esaltata l’autocoscienza.
GIORDANO BRUNO(1548-1600)  nel versante platonico della trattatistica si accentuava il grado di emanazione fantastica della poesia e il suo valore di chiave esoterica del mondo. Bruno ne De gli eroici furori affermava che le regole derivavano dalla poesia e non si può quindi imporle. Contro la codificazione dei generi letterari ribatteva che ci sono tanti generi quanti poeti.

I TRATTATISTI DEL ‘600  si concentreranno sulla nozione di argutezza.
In BALTASAR GRACIAN(1601-1658) autore del trattato L’acutezza e l’arte dell’ingegno e in EMANUELE TESAURO (1592-1675) Il Cannocchiale Aristotelico c’è riferimento più all’Aristotele della Retorica che a quello della Poetica. Il problema non è più la verosimiglianza  quanto l’abilità nell’insaporire con trovate e soluzioni sempre più audaci, una verità di per sé cruda. I barocchi valutano al massimo l’invenzione e la novità. Come scrive Gracian l’esito dell’ingegno è un miracolo frutto del sottile ragionare. Il testo rappresenta una sorta di banco di prova in cui l’autore è chiamato a distinguersi per finezza  e sottigliezza. L’equilibrio è messo  a dura prova e si può arrivare anche ad ammettere la contraddizione come punto limite dell’ardimento. Il fine che si propongono i barocchi è di sollecitare il destinatario con una continua stimolazione tenendolo in sospeso per poi sorprenderlo con esiti inaspettati, da cui la meraviglia.
NICOLAS BOILEAU (1636-1711)  nell’Arte poetica riafferma il modello graziano. L’equilibrio, il giusto mezzo, la naturalezza e l’armonia vengono posti come valori alla luce del buon senso. Predica la chiarezza chiedendo al testo letterario di comunicare senza costringere il lettore ad alcuna fatica secondo il valore della scorrevolezza. La razionalità propugnata da Boileau non si dimostra attraverso la costruzione di un dover essere in sé coerente ma avallata dal rimando al pubblico. Porsi il problema del pubblico, di come tenerne desta l’attenzione indica che il consenso sui valori artistici va conquistato sul campo.

I TRATTATISTI DEL ‘700
GIANVINCENZO GRAVINA (1664-1718)  un valido esempio della forma-trattato è la sua Ragion Poetica. Poiché i modelli vanno desunti dagli antichi ma riadattati ai costumi attuali, diventa necessario l’excursus storico sull’evoluzione dei generi. Poiché la verosimiglianza è dovuta all’incanto che fa prendere per vera la finzione poetica ecco allora chiamata in ballo l’interpretazione che individua sotto al falso il senso vero. Un’interpretazione che restava ancorata all’interno moraleggiante di una utilità educativa.
GOTTHOLD EPHRAIM LESSING  nel Laocoonte il lavoro critico va al di la delle regole e dei precetti. Il criterio classico dell’unità e della convenienza veniva chiamato a confrontarsi con i problemi dell’espressione di sentimenti forti come il dolore là dove il canone della bellezza è messo a repentaglio sui confini del brutto o del disgustoso. Non è più questione d imitazione piuttosto emergono problemi di datazione perché i rapporti tra gli oggetti critici prescelti non sono di dipendenza passiva, ma di filiazione somigliante ma differente. Il Laocoonte   è più un saggio che un trattato. Contempla divagazioni e digressioni. Quando all’inizio Lessing afferma di voler procedere liberamente a fissare sulla carta i suoi pensieri proprio nell’ordine in cui si sono sviluppati siamo già entrati nella nuova costellazione della critica moderna.

1.3  - Alla ricerca del senso (la forma-commento)
L’altro grande modo in cui fin dall’antichità si è esplicata l’attività critica è stato il commento. Mentre la forma-trattato vuole avere funzione di guida, la forma-commento si mette al servizio del testo. Lavorando ai suoi margini e rendendolo più comprensibile, per avvicinarlo al lettore e favorire, quindi, il trasferimento della tradizione. Annotazioni di fonte diversa possono convivere e svariare in molteplici direzioni. Ai giorni nostri nella cosiddetta edizione critica assume particolare importanza il commento filologico puntato a stabilire la correttezza del testo e la successione dei suoi stati. La prima grande impresa filologica fu compiuta dagli alessandrini con la costituzione definitiva dei poemi omerici. Il compito del commento è che il gesto con cui l’opera viene offerta al lettore comporta l’appianamento delle difficoltà, la risoluzione dei passi oscuri. Là dove il testo non comunica immediatamente diventa necessaria l’interpretazione. Il nome classico dell’arte dell’interpretazione è ermeneutica. Gli antichi lessero Omero mediante l’allegoria termine che indica il dire altro. Le assurdità del mito potevano essere intese come un meraviglioso rivestimento di concetti morali. Nel medioevo l’interpretazione assumerà un prioritario ruolo culturale: nel cristianesimo la religione si fonda su un libro, la Sacra Scrittura, che parla per enigmi e parabole. Più che alla razionalizzazione del mito l’esegesi biblica tende ad accedere al senso mistico, al mistero velato nella Parola. Occorre anche riconoscere all’esegesi una produttività inventiva che arrivò ad articolarsi nella dottrina dei 4 sensi: letterale, allegorico (un personaggio rappresentava una virtù), morale (indicazione per il comportamento) e anagogico (una proiezione nella prospettiva della storia della salvezza).

DANTE (1265-1321) adottò la dottrina dei 4 sensi soprattutto nelle pagine del Convivio mediante l’autocommento che scrive a ridosso dei propri testi come integrazione e aiuto alla comprensione. Dante evidenzia il di più di ragione che si ottiene spiegando il senso letterale in vista del raggiungimento della verità allegorica nascosta sotto il manto delle favole.

Questo tirar fuori qualcosa di profondo e di non immediatamente visibile non è senza problemi: infatti una volta che si è perduta la certezza nel senso immediatamente comunicato, sembra che nulla possa frenare l’arbitrarietà dell’interpretazione. Si può capire ciò che si vuole? Il sospetto contenuto in questo interrogativo produrrà alle soglie dell’età moderna una divaricazione tra commento filologico e interpretazione critica.

BENEDETTO SPINOZA (1632-1677) nel suo Trattato teologico-politico sostiene che si debba distinguere tra verità e senso letterale: è il secondo che può essere stabilito, mentre riguardo alla prima bisogna lasciare a ognuno il diritto di giudicare liberamente. Spinosa precisa anche alcuni criteri in base ai quali elucidare il senso della Scrittura: l’uso della lingua, il contesto, la storia dei testi. Ciò che abbiano voluto significare i profeti sono geroglifici in senso negativo perché il significato non possiamo dedurlo ma solo cercare di indovinarlo. È evidente che la polemica di Spinosa riguarda il fissarsi autoritario dell’interpretazione. Restituisce all’interpreta la sua libertà.

DENIS DIDEROT (1713-1784)  anche nella sua Lettera sui sordomuti l’illuminista adotta il termine geroglifico, in chiave però positiva. Occorre cogliere quello spirito che anima e vivifica simultaneamente tutte le parti del testo, un tessuto di geroglifici ammucchiati gli uni sugli altri che lo dipingono. Ogni poesia è emblematica. Il fatto che questo livello di comprensione non sia concesso a tutti non toglie che il nodo decisivo risieda nel geroglifico per quanto delicato e sottile esso sia. Diderot ricorda il valore gestuale della comunicazione umana.

ERNST SCHLEIERMACHER (1768-1834)  con la sua ermeneutica romantica, all’interpretazione riservata ai passi oscuri si sostituisce una interpretazione dell’autore, riportando il testo alle caratteristiche psicologiche dello scrittore. Si parla di ermeneutica psicologica.

1.4 – La critica militante e il problema del gusto (le teorie del gusto)
ORAZIO nell’Arte Poetica la figura del critico viene evocata contro l’invadenza e la presunzione dei cattivi poeti. Il poeta deve diventare un Aristarco (archetipo del giudice severo) nel correggere i dettagli. La funzione della critica nell’età classica è eminentemente emendatrice.

BOILEAU nell’Arte Poetica la critica si esprime ancora con consigli e rimproveri, ma amplificando i toni dello scontro in quella che è ormai la battaglia letteraria.

SAVERIO BETTINELLI (1718-1808)  passerà i moderni al vaglio degli antichi, immaginando Virgilio nelle vesti del critico esigente, nelle sue Lettere Virgiliane si fa strada la coscienza che nessun modello vada preso in assoluto. Anzi proprio là dove incontra i grandi uomini la critica deve farsi attenta e non confondere la stima che si può provare.

JOSEPH ADDISON (1672-1719)  il critico opera con nuovi strumenti. La diffusione dei giornali e delle riviste a sfondo culturale e letterario come il suo The Spectator inglese riuscì a raggiungere un’alta tiratura rivolgendosi a una cerchia molto vasta, comprensiva delle famiglie e del pubblico femminile. La letteratura vi veniva trattata all’interno delle questioni del costume e della moda, in un tono accattivante e ricreativo. Il critico del giornale lavora per guidare il lettore a delle giuste scelte. Mentre il commentatore arriva dopo, a cose fatte, e il trattatista si pone prima dando modelli da seguire, emerge nei primi periodici letterari la figura di un critico che interagisce con i testi seguendo il farsi della letteratura in atto. Il modo con cui esso si afferma è ormai quello della critica militante. Addison rappresenta il tipo di critico che pretende autorevolezza proprio perché fuori della mischia, si vuole neutrale spettatore. L’intervento periodico può favorire invece la presa di posizione
Tale sarà il caso di due periodici in Italia tra loro rivali:
GIUSPPE BARETTI (1719-1789)  con la sua Frusta letteraria assume i panni di un nuovo Aristarco (anzi il suo alter ego fittizio è Aristarco Scannabue). Baretti interpreta la funzione del critico, con un impegno non arreso ai gusti prevalenti e pronto a schierarsi controcorrente. Il bersaglio preferito della frusta è l’Arcadia. Contro la maniera stereotipata Baretti si richiama ancora di più al buon gusto e al buon senso. Il suo pregio sta nella straordinaria effervescenza stilistica.
PIETRO VERRI (1728-1797)  all’insegna della combattività si apriva Il Caffè animato da Verri insieme al fratello Alessandro e a Cesare Beccarla. Il Caffè è una rivista di tendenza calata in un progetto di risveglio intellettuale in cui viene contestato con decisione il valore normativo dei precetti formali e dello stesso purismo linguistico. Verri sostiene che il critico non deve restringere la prospettiva appigliandosi a qualche piccolo difetto ma deve intendere l’effetto d’insieme dell’opera.

Parallelamente all’emergere della critica militante si sviluppa il dibattito sul gusto.
DAVID HUME (1711-1776)  il filosofo scozzese con la sua Regola del gusto muove dalla constatazione della grande varietà dei gusti e afferma che la bellezza che noi percepiamo non è una qualità inerente alle cose ma è legata al nostro sguardo soggettivo. Essa esiste soltanto nella mente che contempla le cose ed ogni mente percepisce una bellezza diversa. A partire dal fato empirico che alcune opere ricevono maggiori consensi e sono oggetto di una durevole ammirazione, Hume propende a credere che esista una struttura mentale che induce l’uomo a provare piacere per alcune qualità e dispiacere per altre.
BURKE  anche lui nel premettere alla sua Inchiesta sul bello e il sublime un saggio Sul gusto, perveniva all’affermazione che le differenze dei giudizi sono differenze di grado che dipendono dalle doti naturali e dall’esercizio.
Nella Critica del Giudizio di IMMANUEL KANT (1724-1804) poiché giudicare bello qualcosa significa accorgersi dell’accordo dell’oggetto con le nostre facoltà conoscitive, il giudizio rimanda a un senso comune e ciò rende lecita la speranza del consenso e dell’adesione altrui. Perciò sostiene Kant sul gusto non si può disputare ma si può legittimamente contendere. Il gusto buono è per Kant quello disinteressato. Nel giudizio entrano in gioco l’immaginazione e il concetto. E l’esito è un aumento di carica vitale, di animazione delle facoltà dell’uomo. La poesia è vista come un’esibizione di un concetto, congiunta con la circolazione di una quantità di altri pensieri, avente l’effetto di fortificare l’animo. Inoltre, riflettendo sul sublime, Kant mette in luce l’ambivalenza e l’interconnessione delle reazioni di piacere e dispiacere, strappando così l’arte alla semplice degustazione del piacevole. Il sublime kantiano è stato collegato con la tensione interminabile dell’arte moderna. Kant suggerisce alcune massime sul gusto: pensare da sé (e quindi originalmente), pensare largo (nella prospettiva della comunità umana), pensare in modo da essere sempre in accordo con se stessi (in modo conseguente).

1.5 – La comprensione storica (il processo storico)
La considerazione dell’origine storica dei testi porta a fissare lo sguardo sul processo dell’evoluzione.
GIANBATTISTA VICO (1668-1744)  con la Scienza Nuova è posto in luce il condizionamento della storia. Vico cerca di leggere lo sviluppo secondo le fasi della vita umana La letteratura, o meglio la poesia, si trova collocata in una delle fasi iniziali, nell’epoca cosiddetta eroica quando gli uomini in mancanza di categorie intellettuali utilizzavano le favole, i miti e le metafore. Una tale concezione ha il merito di riconoscere alla poesia il suo valore conoscitivo e la sua funzione sociale.

Nel ‘700 italiano vediamo nelle Lettere inglesi di Bettinelli che il ricorso alla storia serve a giustificare gli addebiti rivolti ai grandi poeti del passato, ad indicarne i limiti storici. (Imitare Dante, stigmatizza Bettinelli, sarebbe come voler tornare a vestirsi col cappuccio!)

JOHANN GOTTFRIED HERDER (1744-1803)  nella sua filosofia la collocazione dei prodotti culturali nella loro propria casella cronologica è l’indizio di un atteggiamento tollerante che tendenzialmente accoglie la validità di tutti i contributi portati al patrimonio dell’umanità, nel corso del tempo. Di fronte a ciascuna epoca occorre porsi non nella posizione del giudice che valuta il vantaggio o lo svantaggio ma nell’immersione della simpatia. La storicità apre la strada alla comprensione giustificativa.
La storia si separa dalla critica? La storia letteraria è una branca della storia o va compresa tra i generi della critica? Nel primo caso i libri andrebbero trattati al pari dei fatti e degli eventi e quindi inventariati senza gerarchie di valore, sulla base della loro datiti cronologica. Il secondo caso invece la storia letteraria verrà vista come il culmine di una stagione culturale in cui la storia letteraria verrà condotta a concentrarsi sui testi rilevati dal giudizio estetico.

BERTOLT BRECHT (1898-1956)  rapportare il testo alle tensioni storiche significa non farsi illusioni circa il suo disinteresse; per quanto l’arte tenga spesso ad apparire superiore alle motivazioni di tipo materiale, è tuttavia lecito interrogarsi sull’interesse dell’arte. Il drammaturgo tedesco suggerirà l’analisi degli scritti come funzionari da un punto di vista sociale per verificare quanto essi possano giocare in difesa di una certa cultura o avere influenza su determinati strati della popolazione e la misura in cui sono in grado di incidere sulla situazione sociale esistente.

CAP.2
2.1 – La svolta romantica: critica come partecipazione
Con il movimento romantico che nasce in Germania tra ‘700 e ‘800 si assiste a una svolta anche nel ruolo assegnato alla critica. In primo luogo è superata la nozione classica di imitazione: l’artista e lo scrittore non dovranno più riprodurre il mondo esterno, ma esprimere un mondo interiore. Rappresentare non la realtà, ma l’idea. Rifiutate le regole, il raggiungimento del risultato artistico resta appannaggio della grande personalità: il genio. Di fronte all’opera del genio, la critica non deve porsi a giudicare da fuori, ma deve entrare nell’opera e contribuire ai suoi effetti. L’immedesimazione e la commozione diventano cardini dell’approccio alla letteratura. Il tentativo di aderire alla costituzione profonda del testo dà inizio ala modernità.

FRIEDRICH SCHILLER (1759-1805)  I punti chiave della posizione romantica sono espressi dal suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale. La questione principale che vi si apre è quella della discontinuità con la tradizione: tra gli antichi e i moderni viene tracciato il solco di una differenza sostanziale nel modo di fare poesia. La causa di questo mutamento è posta da Schiller nella separazione dalla natura. L’uomo moderno non vive in modo naturale e quindi deve cercare la natura fuori di sé. La poesia sentimentale dei moderni è costretta ad andare alla ricerca della naturalezza perduta e a riflettere sulla perdita stessa. Il moderno, poiché per lui il reale e l’ideale non possono coincidere, opera su un doppio livello facendo interagire la sensibilità e l’immaginazione degli oggetti particolari con le idee generali della ragione. Schiller si adopera a suddividere la poesia sentimentale in disposizioni poetiche che discendono dalla scissione tra reale e ideale: satira (quando l’ideale fa contrasto con il reale e lo rende oggetto della sua avversione), elegia (quando c’è oscillazione tra la natura perduta e l’ideale irraggiungibile) e idillio (quando sia conseguito un accordo tale da riconciliare l’ideale e il reale). Schiller mette a confronto lo stato d’animo dei moderni rispetto agli antichi. Non sceglie in favore della dinamicità tuttavia quando discorre dell’effetto poetico esprime le proprie notazioni positive in termini di tensione, potenza, forza, impulso, pathos.

Bisogna distinguere all’interno del romanticismo due diverse linee:
JOHANN WOLFGANG GOETHE (1749-1832)  la prima linea è incarnata insieme allo storicismo tollerante di Herder da Goethe secondo il quale la critica produttiva deve entrare nelle ragioni dell’autore e domandasi che cosa ha voluto fare l’autore. Goethe si pone dalla parte di un giudizio che propende al positivo. Egli arriverà a dire che si impara veramente qualcosa solo dai libri che non siamo capaci di giudicare. Dai suoi saggi si ricava anche un’attenuazione nel contrasto tra classicità e modernità. Egli salva la nozione classica dell’arte come imitazione della natura.
AUGUST WILHELM SCHLEGEL (1767-1845)  la seconda linea che approfondisce la contrapposizione tra classicismo e romanticismo viene da lui sviluppata e l’applica in particolare all’evoluzione del dramma. Il carattere fondante del romantico sta nella eterogeneità e contraddittorietà degli elementi dell’opera artistica; alla perfezione e all’unità degli antichi, i moderni sostituiscono il valore della mescolanza e dell’antitesi. Schlegel definisce la poesia romantica una poesia sempre in divenire, un’attiva tendenza alla sintesi che deve tenere insieme poesia e prosa, genialità e critica. Il romantico qui non è sinonimo di una pura effusione d’affetto ma piuttosto prevede l’intervento decisivo della riflessione. La prospettiva della critica schlegeliana è quella dello scavo in profondità alla ricerca di un senso che non appare immediatamente. Da un lato dovrà procedere con lentezza, nelle minime pieghe del testo, all’analisi costante del particolare; dall’altro lato dovrà essere pronto a cogliere con un rapido colpo d’occhio il nucleo centrale. Per comprendere veramente un’opera è necessario ricostruirla nelle parti che la compongono in modo da scoprire ed evidenziare il suo carattere peculiare. Il giudizio comporta il fatto che il critico capisca l’autore meglio di quanto l’autore non abbia capito se stesso, ma per poterlo fare è necessario essere riusciti a capire il modo in cui l’autore capiva se stesso. La critica sarebbe lo sviluppo dell’autocomprensione dell’autore.
Vicino a queste ipotesi è NOVALIS (1772-1801) la critica è per lui il prolungamento produttivo dell’opera: il vero lettore deve essere l’autore ampliato. Novalis ragiona in termini di strategia e di fisiologia. Non deve stupire il paragone che lui fa tra l’attività del critico e quella del medico: il critico tradizionale, che segnala i difetti e le manchevolezze dell’opera, è come un medico che si limitasse a scoprire la malattia e a divulgarla con gioia maligna invece di cercare di migliorare la disposizione malferma. Notevole anche l’allusione a un senso fisiognomico del testo: come i tratti di un viso ne esprimono il carattere, così il linguaggio è espressione delle idee. Ma la ricerca del senso, l’interpretazione, è qui qualcosa che ha a che fare con l’eccitazione e la stimolazione delle energie.

In Europa dopo la Restaurazione i valori che prevarranno sono quelli della spontaneità, dello stato emotivo diretto soprattutto al cuore, del sublime tradotto in facile empito e rivolto a un pubblico popolare. Dove prevale il patetico la riflessione critica non ha granchè luogo a procedere.

Al passo con la concezione produttiva dei primi romantici ci sarà:
SAMUEL COLERIDGE (1772-1834)  secondo lui il genio non è una forza spontanea della natura né un automa passivamente in preda a raptus che vede in esso invece l’unione del poeta e del filosofo. Il poeta è colui che mette in attività tutta l’anima dell’uomo.

Più vicino alla linea irrazionalistica platonica appare:
PERCY BYSSHE SHELLEY (1792-1822)  con la sua Difesa della poesia anche se vede la poesia come ampliamento spirituale verso una serie di combinazioni insospettate di pensiero preferisce lo strumento principe per il carattere istintivo della facoltà poetica inconsapevole e trasfigurante.
MADAME DE STAEL (1766-1817)  appiattì le indicazioni dei tedeschi privilegiando l’aspetto affettivo. Comprendere gli autori equivale a entrare in comunione con il loro stato psicologico e con il loro senso religioso. Ma per esprimere il mistero della bellezza non ci sono parole.

Il romanticismo in Italia la naturale esigenza di una letteratura adatta ai nuovi tempi trovava risposta nelle nozioni assai adattabili ancora una volta al patetico.

Più interessante risulta essere il confronto tra ALESSANDRO MANZONI  (1785-1873) e GIACOMO LEOPARDI (1798-1837). Sia Manzoni che Leopardi ritengono decisivo giudicare l’effetto della poesia. Manzoni al fine di giustificare l’impiego della verità storica nella tragedia sostiene che i fatti reali suscitano in noi un più forte interesse, un’attrazione più viva, infine una maggiore simpatia per i personaggi del dramma. La discussione sulle unità aristoteliche viene risolta dal Manzoni  con il rifiuto delle regole e la rivendicazione della libertà dell’artista, che deve attenersi soltanto al soggetto che si è scelto, trattandolo in modo da incidere con la massima potenza al punto da gettare gli uomini fuori di se stessi. Leopardi valuta la poesia secondo la capacità di suscitare l’interesse.
DIFFERENZE TRA MANZONI E LEOPARDI: In Manzoni c’è una sorta di svuotamento (il destinatario è trasportato fuori di sé) in Leopardi un riempimento delle facoltà umane. Manzoni modella la sua teoria su una catarsi rivolta verso uno scopo morale; per Leopardi l’effetto riguarda la sensibilità e la vitalità in modo quasi fisico. Mentre in Manzoni le passioni vengono sollevate per mostrare come la forza morale possa riuscire a dominarle. In Leopardi il valore classico dell’unità dell’opera è superato dal valore del movimento e del contrasto. Manzoni dà ai problemi sollevati dal romanticismo la soluzione più tradizionale mentre Leopardi risulta il più affine alla concezione dinamica propria della linea Schiller-Schlegel-Novalis.

2.2 – letteratura e storia
La nozione della critica come partecipazione spingeva a prendere in esame anche il momento temporale in cui ciascuna opera era stata pensata e prodotta. Prima le indicazioni sul clima e sull’ambiente geografico poi troverà sempre più spazio il disegno della natura dei tempi con riguardo alla vita sociale. Ripercorrere le tappe della storia letteraria nazionale era evidentemente un modo per risvegliare la coscienza unitaria della nazione. Non bisogna dimenticare l’interesse del romanticismo per le origini.

UGO FOSCOLO (1778-1827)  in questa prospettiva cade ad esempio il vi esorto alle storie di Foscolo del quale è utile tener presente l’esigenza di un libro che da un lato spieghi le cause della decadenza dell’utile letteratura e dall’altro non si astenga dal giudizio sugli autori intervenendo più nel merito che nel numero degli scrittori. Perché qui tocchiamo alcuni problemi di rilievo: l’esigenza di una linea storica che metta ordine nei fatti e il superamento di una storiografia meramente compilativi. Ci sono 2 rischi: il rischio di imporre alla storia un modello di evoluzione ideale aprioristico e il rischio di ridursi a un pellegrinaggio tra i capolavori.

Anche per HEGEL l’arte nel suo complesso rappresenta una fase nella vita dello spirito umano destinata ad essere superata nel progresso verso il compimento dello Spirito assoluto. Nei gradi di questo progresso l’arte deve cedere il passo alla religione e alla filosofia. È la morte dell’arte. L’arte ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. La storicità ha il cammino segnato: le fasi devono esattamente derivare dal dispiegamento delle potenzialità insite nell’idea. Le fasi sono 3: la fase iniziale (l’arte simbolica dell’Oriente e dell’antico Egitto) sarebbe caratterizzata dal prevalere della forma; la fase centrale (l’arte classica greco-romana) dall’armonia e dalla mediazione tra i due termini; la terza e ultima fase (l’arte romantica, che in Hegel viene generalizzata a coprire tutta la produzione artistica dopo l’avvento del cristianesimo) dal prevalere del contenuto.

FRANCESCO DE SANCTIS (1817-1883)  riflettendo sulla storiografia precedente non troverà accettabili né le idee preconcette di chi ha giudicato tutto già in partenza né l’aggregazione estemporanea di un informe compilazione piena di lacune e di prestiti e giudizi superficiali e frettolosi e partigiani. De Sanctis riuscì a rendere ricco di contrasti e denso di spessore teorico il tracciato delle grandi linee della stria e nello stesso tempo a mantenerlo aperto ai risultati dell’indagine empirica. Nella parte conclusiva della sua Storia propone di unire le due tendenze, quella ideal e quella storica , speculazione e investigazione, costruzione mentale e ricerca concreta. De Sanctis subisce l’influsso hegeliano ma ne ribalta il modo di procedere:<non è la storia ad adattarsi allo svolgersi dell’idea, ma l’idea a estrinsecarsi secondo le condizioni poste dalla situazione storica. Il suo disegno storico mette al centro soprattutto il problema del cambiamento culturale, della elaborazione di una nuova cultura. Finchè questa nuova cultura non appare, la letteratura non riesce a compiere nessuna svolta decisiva. Perché l’arte è un fatto sociale, un risultato della cultura della vita nazionale. Perciò, alle spalle dello storico che colloca gli autori secondo la posizione che hanno avuto nello sviluppo evolutivo, deve sempre agire il critico con il suo giudizio di valore. La genesi dell’opera è lo sviluppo organico, naturale, vivo, di un certo contenuto in una certa forma. Mentre lo storico ha modo di apprezzare molti autori il critico è quasi sempre insoddisfatto per via degli ostacoli di natura storica che hanno impedito la riuscita perfetta. Lo sviluppo culturale e quello delle tecniche letterarie trovano il loro punto di confluenza nella personalità dell’autore. Essa diventa centrale nella Storia desanctiana e lo stesso giudizio critico il più delle volte consiste nel vedere quale ruolo vi prevale: se l’uomo (quando il nuovo contenuto viene colto ma rimane grezzo e non realizzato), l’artista (quando lo scrittore raggiunge l’armonia ma la applica dall’esterno) o il poeta (è lo scrittore capace di trovare l’unità e la compenetrazione tra forma e contenuto). Permane l’idea dell’organicità formale ma ciò che fa vivere e sviluppare il contenuto non è soltanto la carica emotiva, il sentimento. Quando il sentimentale prende tutto il campo e detta legge addirittura ad un genere in tale ripiegamento interiore diventa impossibile raggiungere la cosa. Se la base del poeta è l’uomo nel contenuto devono intervenire con forza tutti gli aspetti della personalità, non solo della vita intellettuale ma anche della vita attiva. La base del contenuto è morale e politica. L’entusiasmo che il critico apprezza negli autori si trasmette alla sua stessa scrittura. Il suo interesse per la personalità dell’autore arriva a personificare l’autore stesso e a chiamarlo in causa direttamente facendolo dialogare con l’epoca attuale. L’uso del tu tende a coinvolgere il lettore nell’attraversamento delle opere. I giudizi emessi da De Sanctis sono legati a un certo gusto e i suoi criteri non mancano di legami con le concezioni romantiche e idealistiche. Ma ci sono alcuni aspetti che rendono questo tentativo di storia letteraria tuttora molto interessante: come mette in luce le linee dell’evoluzione nella loro parabola ma anche nel loro intreccio sottolineando attraverso una serie di confronti le diverse vie praticabili e i loro contrapposti risvolti culturali. Ma soprattutto per la capacità di richiamare la storia sociale non giustapponendola meccanicamente alle opere, ma amalgamandola strettamente alla valutazione dei testi entrando e uscendo dalla sfera letteraria secondo le necessità del proprio discorso.

Critica russa:
VISSARION BELINSKIJ (1810-1848)  andò legando sempre più la propria lettura dei testi con il livello generale della situazione sociale e storica. Considera i testi letterari sempre immersi nella vita pubblica. In questa ottica quelli che esteticamente sarebbero difetti potranno apparire addirittura pregi. L’arte esprime la società e ne tratteggia il quadro fedele. Lo sguardo critico di Belinskij anticipa il realismo.

NIKOLAJ DOBROLJUBOV (1836-1861)  con lui la letteratura continuerà ad essere collegata alla vita reale. Egli comincia a porsi il problema della politicità del testo. Sostiene che non è necessariamente compito dell’autore dare oltre al problema anche la soluzione. Il critico in questa prospettiva non è tanto il giudice dell’opera quanto l’avvocato che ne perora la causa. Il miglior metodo critico è quello che lascia al lettore la possibilità di pervenire alla sua conclusione da solo.

2.3 – Sull’esempio della scienza
A ‘800 inoltrato una sorta di sindrome scientifica si propaga per tutti i rami del sapere letterario. A un ideale di scientificità si ispira tutta una serie di ricerche: edizioni critiche, studi sulla fortuna e diffusione degli autori. Senza nulla togliere al sorriso della bellezza l’esame minuto dei dati e la soluzione su base empirica dei singoli problemi producevano opere di gran mole.

ALESSANDRO D’ANCONA (1835-1914)  sostiene che la “tela” deve essere tessuta mettendo in ordine i fatti senza voli ambiziosi.

HIPPOLYTE TAINE (1828-1893)  con la sua Filosofia dell’arte si pone davanti alle opere come a dei fatti dei quali è necessario indagare le cause. La prima mossa è quella della contestualizzazione storica a partire dal presupposto che l’opera non è isolata ma sta in relazione alle altre opere dell’autore, a quelle della sua scuola, alla cultura e al gusto di un’epoca e può essere spiegata solo rifacendosi all’insieme da cui dipende. Per comprenderla esattamente dobbiamo avere un’idea dello stato generale dello spirito e dei costumi del suo tempo che ne sono la causa principale. La scienza non condanna né perdona: constata e spiega. Le creazioni dell’immaginazione umana devono trovare tutta la loro giustificazione e il loro posto e Taine dice che la prima operazione dello storico nel  mettersi nei panni delle epoche passate non può non essere un moto di simpatia. Il giudizio di valore è recuperato da Taine affermando che gli stessi caratteri naturali possono essere ordinati gerarchicamente; alcuni sono più notevoli e più dominanti di altri. Le opere vanno valutate secondo i caratteri che esse principalmente adottano. Taine offre 3 scale di riferimento: l’importanza (la priorità al carattere che ha la maggiore invariabilità nel tempo), l’utilità morale dei caratteri distinguendo tra salutari e nocivi e la combinazione degli elementi nell’opera e gli effetti dello stile. Il criterio detto della convergenza degli effetti  tiene parecchio del vecchio ideale classico dell’unità dell’opera e della simmetria delle sue parti.

FERDINAND BRUNETIERE (1849-1906)  un altro tentativo di avvicinare scientificamente i fenomeni letterari è quello compiuto da lui. Il modello scientifico è ripreso dalla teoria dell’evoluzione della specie di Darwin. Si tratta di una prospettiva storica ma essa pare piuttosto svolgersi all’interno dell’orizzonte letterario. Rispetto a Taine qui diventa più importante trovare il posto adeguato per l’opera nella catena evolutiva che non trovare il modello umano cui è riferibile. Le cause cui maggiormente si attiene sono di natura endogena, risiedono nella vita dei generi. Il critico francese vede nella fissazione un fatto positivo. Il momento migliore nell’evoluzione sarà infatti quello in cui il genere realizza se stesso fino alla pienezza e perfezione dei propri mezzi. L’imperativo “a classificare” non impedisce di giudicare. Come già in Taine le premesse scientifiche si piegano a ospitare il giudizio, che anzi Brunetiere ritiene fondamentale e vorrebbe fondato oggettivamente.

PAUL BOURGET (1852-1935)  nei suoi saggi seppur in modo generico si evidenzia un atteggiamento osservatore. L’analisi mette a fuoco i contemporanei e vi legge lo stigma negativo dei comportamenti moderni. Valutando gli intrecci delle singolarità psicologiche con l’atmosfera morale dell’epoca. Queste ricerche preparano il terreno in cui si svilupperà il successivo filone della critica psicoanalitica.

ALEKSANDR VESELOVSKIJ (1838-1906)  è sua una delle posizioni più interessanti generate dallo scientismo ottocentesco. In polemica con i francesi lamenta che il metodo delle ricerche storiche spesso prende un po’ come capita gli elementi sociali o psicologici che si trova sottomano, risolvendo poi i problemi dello sviluppo storico con l’apparizione del grande uomo cui l’ambiente finisce per fare da sfondo o da piedistallo. Invece il metodo comparativo che propone procede mediante il confronto di molte serie di fenomeni. Emergono delle sorprendenti somiglianze tra opere distanti nello spazio o nel tempo. Come nel linguaggio noi adattiamo alle nostre esigenze una lingua che troviamo già fatta, così gli scrittori utilizzano forme preesistenti depositate nella tradizione. Alla sua teoria dà il nome di Poetica storica. Poetica perché al modo di quella aristotelica riscontra alla base della letteratura dei modelli costanti. Storica perché vede nella storia extraletteraria la molla della trasformazione e della reinvenzione delle forme. Le forme costituiscono un serbatoio stabile al quale i contenuti che emergono storicamente possono attingere. Ciò che accomuna opere di generi, di culture e di epoche diverse è la somiglianza di certi schemi d’azione che Veselovskij chiama intrecci. Egli propone di distinguere motivi e intrecci. Per motivi si intendono le formule che l’immaginario degli uomini elabora in risposta ai problemi della vita. Di fronte al sorgere di nuove esigenze le formule diventano più complesse e si combinano negli intrecci. Sono le forze storiche che decretano la ripresa e il rinnovamento dei vecchi intrecci facendo irrompere in essi dei nuovi motivi.

2.4 – Impressionismo ed eclettismo
L’esercizio del mestiere del critico accademico conservava il potere di colui che dispensa posti agli autori facendoli entrare nella storia. Dall’altro lato il critico giornalista fungeva invece da consigliere pubblico a indirizzare i lettori. In entrambi i casi diventa decisiva l’autorità di colui che assurge ad arbitro del gusto. La critica impressionistica che si diffonde nell’800 consiste nel rendere normativo il risultato dell’incontro con il testo. Il critico dà conto degli effetti che il testo provoca su di lui e da conto che il piacere o il dispiacere che egli ha avvertito debba essere provato anche dagli altri. Nel comunicare le proprie impressioni il critico ricorre ad una scrittura che a sua volta deve imprimersi e imporsi all’attenzione del destinatario. Le principali mosse retoriche sono l’evocazione con cui viene resa presente in modo vivace la scena o l’ambiente dell’opera. Il paragone con cui il comportamento dell’autore è colto attraverso un’immagine e l’intervento personale in cui l’io del critico si fa avanti a raccontare le circostanze che hanno accompagnato la sua lettura.

CHARLES BAUDELAIRE (1821-1867)  considera il poeta il migliore di tutti i critici. Al critico viene richiesta una capacità creativa analoga a quella dello scrittore.

OSCAR WILDE (1854-1900)  nel suo Il critico come artista la critica è riscattata dalla concezione comune che la vuole subalterna all’opera e riceve essa stessa il rango di creazione. Per lui si tratta di una creazione  entro una creazione. La critica può considerarsi indipendente dall’opera. Un critico artista di questo genere non si applica alla spiegazione quanto piuttosto a fare più intenso il mistero. Sua dote non sarà affatto il rigore ma il temperamento. La critica con la c maiuscola prende il ruolo di guida e coincide infine con lo Spirito del mondo.

CHARLES-AUGUSTINE SAINTE-BEUVE (1804-1869)  è il più importante rappresentante della critica giornalistica, soprattutto per rubrica settimanale. Egli eccelle nella conversazione critica, cioè un discorso libero di toccare vari livelli e di servirsi di disparati apporti metodologici. Il suo approccio procede all’insegna dell’eclettismo. Muove alla ricostruzione dell’epoca, dell’ambiente, della cerchia in cui è nato ogni autore focalizzando il suo interesse sulla persona dello scrittore. L’atteggiamento scientifico e non giudicante deve portare a conoscere un uomo. Per questo versante la critica va a coniugarsi strettamente con la biografia. In quella che egli chiama la critica fisiologica è l’individuo-talento a finire al centro del quadro. La forma prediletta da lui è il ritratto letterario. Il critico biografo deve raffigurare il genio nella sua posa dei giorni migliori. Significa dare le sembianze fisiche dell’autore. Il critico deve trasferirsi nel suo autore come una sorta di metamorfosi arrivando quasi a identificarsi e a convivere con lui. Sainte-Beuve contempera e usa con moderazione criteri diversi. Passa dall’erudizione all’impressione, dalla storia alla psicologia, dalla classificazione alla valutazione. In lui, versatile poligrafo, la critica giornalistica finisce per accordarsi con la critica accademica. L’interesse per la nascita di nuovi talenti non configge con la funzione professorale di vegliare sul mantenimento della tradizione.

GIOSUE’ CARDUCCI (1835-1907)  in Italia sarà lui ad assommare in sé le figure del poeta-critico e del critico-professore. Carducci non si sottrarrà al dettaglio delle ricerche erudite e la raccolta dei materiali. Il valore poesia rimane al di là dell’erudizione.

A cavallo tra biografia, storia e partecipazione si muove il danese:
GEORG BRANDES (1842-1927)  delle sue opere si ricorda l’allargamento fuori  dei confini nazionali, verso la letteratura europea, e il ragionare per linee di tendenza raggruppando gli autori nelle correnti principali.

Vicino a Sainte-Beuve è l’americano:
HENRY JAMES (1843-1916)  noto come narratore ma attivo anche come critico sul suo terreno preferito, cioè l’arte del romanzo, intende la funzione del critico come aiuto ravvicinato al lavoro dell’autore: la critica va esercitata con rispetto e addirittura con tenerezza. Occorre proiettarsi ed immergersi nel testo. L’autore va assimilato intimamente e compreso nella sua concezione di fondo, nel suo progetto. A ciò concorrono sia le indicazioni biografiche che le immagini. Particolari i paragoni zoomorfi utilizzati da James. L’aspetto interessante della sua critica è la distinzione tra soggetto ed esecuzione per cui invece di giudicare della moralità o meno del soggetto si tratta di rendersi conto delle difficoltà superate per realizzarlo.

2.5 – L’apprezzamento estetico
L’età moderna è caratterizzata anche dall’affermarsi dell’estetica. Sul lato dell’estetismo non mancano posizioni ricche di risvolti problematici.

EDGAR ALLAN POE (1809-1849)  nei suoi scritti circola un’idea di bellezza con la maiuscola come avvicinamento a un’essenza metafisica che  non si può cogliere in poesia che per brevi indistinti barlumi. Getta le basi del simbolismo. Ma poiché la bellezza tende a coniugarsi con l’originalità bisogna considerare la tecnica che ha analizzato nel commento nella sua Filosofia della composizione.

BAUDELAIRE  afferma che il bello è sempre bizzarro. Non più un ideale eterno ma mosso dalla contraddizione, in quanto aperto al relativo, al transeunte, alla rapida trasformazione della modernità: una bellezza che fa i conti con la contingenza e la storicità.

WALTER PATER (1839-1894)  per lui essenziale non è solo avvertire la bellezza ma anche spiegare e analizzare l’impressione ricevuta. L’apprezzamento dei punti elevati, dei vertici, dei momenti eletti, conduce al collegamento extrastorico tra gli artisti di genio, tutti ugualmente ospiti nella casa della bellezza e tuttavia ciascuno secondo il proprio modo. La bellezza è relativa e non se ne può dare una definizione astratta. Il fascino è qualcosa di peculiare, l’incanto è unico, la bellezza singolare. Pater ricorre alla biografia.

Il principale problema è come rapportare la sfera estetica agli altri settori dell’analisi filosofica. Sul posizionamento dell’estetica all’interno dell’elevazione dello Spirito i filosofi dell’idealismo divergono: SCHELLING  le dà il rango principale. Le attribuisce il potere di risolvere con l’intuizione ogni contraddizione, nell’identità di una infinita armonia.
mentre HEGEL ne fa un grado inferiore. La perfetta trasparenza dell’interno nell’esterno si riscontra soltanto nell’arte classica. Il dinamismo del libero gioco delle facoltà, che c’era nell’estetica kantiana non si ritrova nell’estetica schellinghiana. Neppure nell’estetica hegeliana da cui, invece, si sviluppa un tipo di critica tesa a fissarsi sull’idea contenuta nell’opera, accreditando il contenutismo

ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860)  considera l’arte come un’intuizione contemplativa che astrae l’uomo dalla sua vita abitudinaria dove egli è trascinato dalla cieca volontà di vivere. Dunque l’arte poiché riesce a liberarci dalla schiavitù del volere è un conforto che fa dimenticare anche se solo momentaneamente i travagli della vita.

FRIEDRICH NIETZSCHE (1844-1900)  la bellezza estetica serve a rendere tollerabile il peso dell’esistenza. La bellezza è un trucco della forza primordiale per consentire alla vita di continuare. Egli propose di abbandonare la figura del critico erudito per passare alla figura dell’ascoltatore estetico.

BENEDETTO CROCE (1866-1952)  a partire dalla Estetica egli lavora a suddividere l’attività dello Spirito in diversi ambiti: l’estetica risulta così separata dal pensiero concettuale, come la sfera economico-pratica da quella della morale. Secondo la dialettica dei distinti l’arte viene distinta dalla logica: essa è conoscenza, ma conoscenza pre-logica, intuitiva, che non adopera concetti bensì immagini. L’arte è intuizione. Croce terrà costantemente a escludere dal bello i livelli di riflessione più elaborata e paradossalmente un sistema di pensiero verrà messo in opera per recuperare la posizione del lettore ingenuo. Croce vede nell’intuizione qualcosa di già pacificato. Il sentimento contemplato è destinato a essere risolto e sperato per virtù dell’arte. L’intuizione artistica  è un momento superiore alla semplice percezione e sensazione. L’intuizione valida è quella già corredata della sua espressione quindi già in qualche modo formata. Per Croce non è un processo che porti dal contenuto alla forma ma i due aspetti debbono emergere insieme. L’estetica crociata perviene al privilegiamento della forma ma lo scrittore non deve andare per nulla alla ricerca della forma migliore. L’espressione non può essere trovata già pronta in regole prefissate. Dal punto di vista crociano l’estetica non può giovarsi di alcun metodo comparativo: i paragoni tra due artisti diversi danneggiano l’uno e l’altro. Croce ad escludere molti dei modi di approccio al testo che si erano imposti nell’800. non ammette la spiegazione attraverso le cause esterne. L’opera letteraria non può essere riassorbita nella storia perché le intenzioni dichiarate dell’autore non sono ritenute sufficienti in quanto l’intuizione è al di là della consapevolezza. Anche i ponti tra critica e biografia risultano tagliati. Croce riduce l’importanza dell’erudizione. Nell’estetica l’unica soluzione possibile sembra quella della compartecipazione. Non resta che ricreare l’opera in noi. Il metodo critico proposto da Croce coinciderebbe con l’immedesimazione fino alla stretta identità. Eppure nemmeno in questa forma il movimento della comprensione perde di mira il giudizio. La critica che Croce deriva dalle proprie convinzioni estetiche è sempre volta all’apprezzamento. Per contrassegnare il valore artistico Croce sceglierà il termine poesia divenendo sinonimo di bello. Con la Poesia Croce riesce ad articolare maggiormente l’operazione critica. Accanto al bello è possibile rintracciare il caratteristico cioè quel motivo generatore che permette di definire lo stato d’animo fondamentale di ciascun autore. Nella Poesia viene puntualizzata la connessione tra estetica e storia. Ciò non comporta però né la spiegazione dell’arte attraverso i mutamenti sociali né la sua connessione con la sfera pratica. L’unico orizzonte storico concepibile è quello di una comunione eterna delle opere belle. La posizione di Croce fu a lungo egemone in Italia e non senza influssi sul resto d’Europa. Certo, i seguaci di Croce resero più elastico il suo metodo o ritornando all’arte come sentimento o puntando sulla degustazione di singoli frammenti avulsi dall’insieme.

2.6 – La transizione del primo novecento
GUSTAVE LANSON (1857-1934)  l’erudizione, le cognizioni esatte  e positive sono fondamentali ma il fine ultimo è aiutare la comprensione e il godimento dei testi.

KARL VOSSLER (1872-1949)  nei suoi scritti ecco che si affaccia la nozione di stile.

RENATO SERRA (1884-1915) e GIOVANNI BOINE (1887-1917)  portarono l’impressionismo critico alle estreme conseguenze ma con soluzioni per molti versi opposte.
SERRA arrivò a seguire le impressioni fino al vero e proprio racconto della lettura. Egli porta attenzione a tutta una serie di dati sull’autore e sui suoi luoghi prediletti. Come avveniva nel precedente caso dell’eclettismo di Sainte-Beuve, Serra non avverte contrasto: infatti per lui le impressioni stesse sono fatti né più né meno che i dati biografici. Ad essere esclusa è semmai l’emissione del giudizio, e questa è una distinzione con Croce. Proprio per non prevaricare l’opera, Serra le offre molto spazio attraverso l’abbondanza di citazioni dirette. E non volendo apparire un giudizio esterno, si attesta spesso sul rilevamento degli effetti prodotti dal testo. Il metro del valore non è il bello definito filosoficamente come per Croce ma l’incanto che l’opera ha saputo creare catturando il lettore. Un altro termine che Serra usa come contrassegno positivo è la felicità. Felice è sia il risultato conseguito dall’opera sia lo stato che essa procura. La differenza da Croce su questo punto si riduce di molto: l’ideale di Serra è una letteratura improntata alla sobrietà felice dei classici e alla civiltà.
BOINE  risulta per molti aspetti il contrario di Serra. Per Boine il giudizio è essenziale a costo di esercitarlo in maniera drastica. Quella di Boine vuole essere una nuova frusta letteraria ed infatti l’Aristarco Scannabue di Baretti viene rievocato espressamente. Una frusta che si esercita soprattutto sulla narrativa commerciale ma anche sulla poesia di maniera. Il rifiuto viene formulato portando all’eccesso la personalizzazione del discorso propria della critica impressionistica. Con Croce Boine intrattenne una dura polemica sulle pagine della rivista fiorentina “La Voce”. Contro Croce Boine propone di sostituire come termine della valutazione positiva al bello il grande. Boine va alla ricerca dell’uomo e non del poeta. Ma il riferimento all’uomo non finisce in un sereno biografismo, piuttosto a Boine interessano il travaglio interno della personalità e il dissidio che rompe la sublimazione e vitalizia i morti schemi letterari. L’ipotesi di scrittura che Boine come critico rintraccia riceve il nome di lirica. Ma in un senso molto diverso dall’uso fattone da Croce. In Serra la presa del testo è considerata alla stregua di un magico incantesimo al quale ci si deve abbandonare. In Boine invece il rapporto è visto come una scossa, un urto.

ALBERT THIBAUDET (1874-1936)  ribalta la critica fisiologica di Sainte-Beuve proponendo la sua Filosofia della critica, articolata nei tre rami della critica professionelle, parlée e d’artiste. Sia la critica universitaria che quella svolta sulla stampa hanno per compito l’inventario; solo che l’una lo espleta sul passato l’altra sul presente. La critica giornalistica a sua volta è il punto alto di quella critica parlée. I diversi tipi di critica inquadrano competenze diversificate ma secondo lui non mancano di relazioni ed è anzi utile la loro correzione reciproca.

PAUL VALERY (1871-1945)  è un lettore molto attento a ricostruire l’interiorità dell’autore. Ma ciò lo porta a contestare la validità della critica biografica poiché i fatti esterni non hanno nessun necessario riferimento al lavorio mentale che produce l’opera. Con la sua concezione della poesia come arte del linguaggio, pendolarmente oscillante tra suono e senso, Valere consegna al futuro strutturalismo il problema del rapporto tra significante e significato. È posto così il problema della libertà dell’interpretazione. Il poeta francese si esprime contro la passività nella lettura.

THOMAS STEARNS ELIOT (1888-1965)  secondo lui la poesia contiene già al suo interno il germe del lavoro critico e nondimeno il critico deve avere un senso fattuale estremamente sviluppato. Gli strumenti principali sono soprattutto l’analisi e il confronto. L’importanza della prospettiva storica è che il presente può essere compreso solo rispetto al passato.

VIRGINIA WOOLF (1882-1941)  la polemica riguarda il fatto che le donne vengono scarsamente considerate nel mondo letterario e in partenza hanno molte meno possibilità di accedere alla scrittura. Quando la Woolf si occupa delle scrittici può prevalere l’interesse biografico e campeggiare la ricostruzione della figura autoriale. Oppure l’uso dell’immaginazione per entrare nelle vicende come se si partecipasse ad esse. O ancora l’impiego di metafore vivide. La Woolf vorrebbe calarsi nel lettore comune e tuttavia continua ad affidare al critico di professione un compito di supporto e di stimolo, non di autorità, ma di aiuto a specificare meglio le impressioni confuse della lettura. Di fatto l’atteggiamento di simpatia e di adesione non è sufficiente: la lotta contro i pregiudizi e le emarginazioni ha bisogno anche di un momento giudicante. La Woolf consiglia di non esitare al giudizio più severo.

CAP.3
3.1 – L’apporto della linguistica
FERDINAND DE SAUSSURE (1857-1913)  ha chiarito 3 distinzioni:

  1. i termini significante e significato  si individuano i due livelli su cui si impegneranno le discipline della fonologia (che studia i tratti distintivi e l’articolazione dei significanti) e della semantica (rivolta all’analisi dei significati)
  2. i termini langue e parole  langue sta a indicare il codice cioè il sistema della lingua mentre la parole è chiamata a designare il messaggio
  3. la coppia sincronia/diacronia  la sincronia si riferisce allo stato della lingua in un determinato momento mentre la diacronia è rivolta a comprendere i processi di cambiamento e di mutazione.

LOUIS HJELMSLEV (1899-1965)  ha distinto espressione e contenuto i due livelli del significante e del significato. Con la linguistica si è diffusa anche una mentalità scientifica. È nata una critica che non esita a servirsi di schemi, anche grafici, per classificare i propri dati e definirne i legami di affinità, di differenza o di opposizione.

3.2 - Le spie dello stile
Nell’esercizio concreto della critica è stato possibile utilizzare gli spunti dell’analisi linguistica. Oggetto di studio è quel tratto linguistico che più contraddistingue l’autore e fa del suo stile qualcosa di riconoscibile. La nozione di stile è passata a designare l’aspetto individuale della lingua. E critica stilistica sarà allora quella che tende alla determinazione delle peculiarità che rendono significativa la figura di un singolo autore o addirittura di un singolo testo.

LEO SPITZER (1887-1960)  egli mise a punto il metodo della stilistica. Parte dal presupposto che esiste sempre un rapporto reciproco tra stato interiore e fatti di linguaggi. Il critico partendo da qualche tratto che si trova sulla superficie verbale deve arrivare ai centri emotivi. Si tratta di cogliere l’emersione espressiva che Spitzer denomina spia stilistica e di ricondurla alla radice psicologica d’origine. Il critico parte armato delle proprie impressioni che gli segnalano un particolare come decisivo ai fini dell’interpretazione. Il cosiddetto clic che fa accendere la spia e mette in azione l’analisi, può non essere evidente ed immediato. Spitzer raccomanda di leggere e rileggere con pazienza. Inoltre questo elemento linguistico va sempre sottoposto a una verifica: deve dimostrare di non essere un fatto contingente e isolato ma un denominatore comune. Parola e opera dovrebbero ritrovarsi legate in una armonia prestabilita. Spitzer ha teorizzato un movimento pendolare dal particolare al generale, dalla circonferenza al centro del cerchio e viceversa denominandolo circolo filologico. I problemi inerenti alla stilistica sono soprattutto le remore a risolvere l’atto critico nell’analisi linguistica. Una volta avuto accesso attraverso le spie al centro dell’opera le carte possono tornare in mano all’impressione estetica. L’uso normale della lingua, chiamato anche standard o grado zero, è difficilmente accertabile in modo definitivo. Si tratta di stabilire quali scelte lo scrittore ha compiuto in quei punti della lingua che essendo più elastici offrono la possibilità di diverse sfumature. Ma nessuno può trasferirsi nella mente dell’autore per sapere esattamente quali scelte abbia compiuto e su quali alternative.

L’unico modo oggettivo è quello su cui ha puntato
GIANFRANCO CONTINI (1912-1990)  le uniche scelte reali operate dall’autore sono quelle documentate sotto forma di correzioni.
ERICH AUERBACH (1892-1957)  successore di Spitzer dispiega tutta la versatilità del proprio metodo che è quello della campionatura. Mentre Spitzer coglie come significativo un piccolo elemento all’interno del testo, Auerbach preferisce lavorare su un campione abbastanza esteso contenente tutte le caratteristiche fondamentali dello stile. Mimesis è un grande excursus storico che mette a confronto diverse soluzioni stilistiche. Secondo Auerbach ogni testo prende posizione rispetto ai livelli stilistici e alla loro gerarchia: o promuovendo la separazione (distanziando lo stile sublime dallo stile basso) o come nel medioevo e nell’età moderna favorendo la mescolanza. Il testo è comprensibile e giudicabile solo secondo i parametri del suo proprio tempo. Quella auerbachiana è una stilistica storicizzante. La situazione sociale spiega lo stile.

WILLIAM EMPSON (1906-1984)  ha analizzato nei testi poetici le ambiguità in tutti i loro tipi, ne distingue 7, riuscendo a cogliere in parafrasi l’oscurità e la ricchezza di passi particolarmente ardui, senza escludere il momento apprezzativi. Empson considera sia la creatività individuale che la convenzione collettiva.

ALLEN TATE (1899-1979) e CLEANT BROOKS (1906-1994)  esponenti del New Criticism. Più che un compatto indirizzo metodologico abbiamo a che fare con un’area di prospettive critiche associabili in base al comune interesse per la lettura ravvicinata con la molteplicità dei significati del linguaggio poetico, affrontando la complessità del paradosso e dell’ironia e tenendo presente l’uso figurativo della parola in poesia.

3.3 – Il metodo formale
ROMAN JAKOBSON (1896-1982) VICTOR SKLOVSKIJ (1893-1984) JURIJ TYNJANOV (1894-1943)  diedero vita alla teoria del metodo formale. Secondo Sklovskij il nostro modo di vedere le cose è reso ottuso dall’abitudine. Per risvegliare la capacità di visione è necessario che l’osservatore si metta in una prospettiva inedita e sorprendente.
Anche i formalisti assumono la nozione di scarto, di deviazione della norma. I formalisti affrontarono la questione mediante la contrapposizione tra linguaggio letterario e linguaggio pratico: il linguaggio pratico adopera le parole come mezzi per realizzare i vari scopi della vita. Invece nel linguaggio letterario la parola non è più mezzo ma fine in se stessa. Gli scarti indagati furono principalmente il ritmo e la rima in poesia e l’intreccio in narrativa.

OSIP BRIK (1888-1945)  ha distinto l’impulso ritmico dalle leggi della metrica in modo da poter avviare l’analisi del verso libero.

Allo stesso modo nell’ambito dell’intreccio SKLOVSKIJ individua diversi schemi di costruzione a gradini (quando la storia procede per aggiunte successive), ad anello (quando ad una azione fa seguito una contrazione), con intrecci paralleli, l’inserimento di novelle in una cornice e così via. Viene privilegiato l’aspetto tecnico. I formalisti si adoperano a portare alla luce i segreti di fabbricazione, cercando di vedere con quali procedimenti l’opera organizzi i propri materiali.  Sklovskij porterà all’estremo questa impostazione fino a considerare ininfluenti i materiali e a ritenere che le motivazioni tecniche siano le uniche decisive. In questa ottica, in cui il contenuto dell’opera è la sua forma, si comprende l’interesse di Sklovskij per la messa a nudo del procedimento e in generale per la parodia.

Il compito che si sono posti i formalisti non è valutare ma spiegare com’è fatto un testo. Il critico come esperto inteso a dar conto del funzionamento dei meccanismi letterari. Un tentativo di osservare più da vicino le funzioni dei singoli elementi testuali venne compiuto da PROPP sul corpus delle fiabe russe di magia. Scoprì che vi era un unico schema attuato in modo diverso in ogni fiaba. C’è una costante che Propp individua come una funzione del racconto a cui dà il nome di proibizione. L’analisi morfologica mostra che le fiabe di magia si basano su  un numero limitato di funzioni da cui ogni fiaba attinge per comporre la propria sequenza.

Per Sklovskij la letteratura non avanza in linea retta ma per scarti e salti continui.

Tynjanov diede alla sistematicità l’estensione più ampia. Per lui l’opera letteraria è un sistema e un sistema è la letteratura. L’evoluzione letteraria dovrà essere considerata come un avvicendamento di sistemi. La letteratura è vista come costruzione verbale dinamica. Accanto al termine chiave di sistema assume grande importanza la funzione. Tynjanov tiene a distinguere autofunzione  un elemento assume passando da un’opera all’altra nel percorso della tradizione letteraria e co-funzione  è data dai rapporti con gli altri elementi dell’opera-sistema. Una funzione è soggetta a mutamento: ad esempio un arcaismo che in una certa epoca viene usato seriamente per nobilitare l’espressione può ricevere successivamente una funzione contraria ed essere usato in senso parodistico e dissacrante. Tynjanov riconosce l’importanza della diacronia e non manca di additare il problema con le funzioni linguistiche. La letteratura trae materiali dal costume per rompere gli automatismi della tradizione. Inversamente i fenomeni letterari una volta esaurita la loro funzione nel campo dell’arte possono rientrare nel costume.

3.4 – Sistema e funzione: verso lo strutturalismo
Le nozioni di sistema e funzione saranno ulteriormente arricchite al Circolo linguistico di Praga cui collaborò anche Jakobson. Nei praghesi compare il termine struttura che verrà poi ripreso da MUKAROVSKY (1891-1975). Mukarovsky  considera la funzione in quanto relazione dell’arte con il mondo sociale e storico. La sfera dell’estetica e quindi anche la letteratura hanno una funzione che varia nel tempo. L’opera non comunica singole realtà ma si rivolge alla coscienza del fruitore come un tutto solidale. E solo in quanto tale essa ha un significato riferibile al contesto complessivo dei fenomeni sociali. Tutte le componenti dell’opera vanno considerate come portatrici di significato in quello che Mukarovsky   chiama il processo semantico e devono diventare oggetto di considerazione per chi voglia rintracciare il senso complessivo.

CLAUDE LEVI-STRAUSS (1908-vivente) è il fautore del vero e proprio strutturalismo affermatosi in Francia. Il metodo viene applicato a tutti gli ambiti dell’attività umana, non solo a quelli propriamente connessi al linguaggio, come i miti, ma anche ai rapporti di parentela, alle usanze, all’alimentazione. Si tratta di individuare gli elementi costitutivi di ogni fenomeno e di specificarne le relazioni, disponendoli in uno schema di classi che si oppongono e si combinano fra loro. Applicando una logica binaria Lévi-Strauss riconduce fenomeni appartenenti a culture anche molto distanti a strutture elementari ossia a un codice di base che darebbe nei diversi luoghi soluzioni e combinazioni diverse, seguendo una struttura profonda comune a tutti: la struttura dello spirito umano. Lo strutturalismo trova che tutto è segno, non solo i linguaggi veri e propri ma anche le espressioni non verbali, l’abbigliamento, l’immagine pubblicitaria, le buone maniere. Vedere come funziona un testo significa valutarlo positivamente, perché funziona bene.

TZVETAN TODOROV (1939-vivente)  parlando della poetica strutturale ha scritto che in essa l’opera è vista solo come manifestazione di una struttura astratta della quale essa è solamente una delle possibili realizzazioni. È possibile che il testo venga considerato meno importante delle regole che esso implica. Qualsiasi realizzazione sarebbe già contenuta nel sistema generatore che lascerebbe l’unica libertà di variare le combinazioni. Qui verrebbe a costituirsi il dominio a parte di una scienza della letteratura nettamente separata dall’interpretazione critica. Ma ci sono state anche ricerche più limitate, su generi ristretti: così accade a Todorov sul fantastico posto sul filo dell’esitazione tra strano e meraviglioso e confinato a rigore nel solo periodo dell’800. pure piuttosto controversa era la differenza tra semiologia e semiotica (la prima dovrebbe studiare i segni di tipo linguistico, cioè codificati. La seconda ogni tipo di significazione.

ROLAND BARTHES (1915-1980)  è uno dei più rappresentativi esponenti dello strutturalismo francese. Rifiutava la storia letteraria proprio perché ridotta a un seguito cronachistico di autori. La critica per lui consiste nel decifrare la significazione e nell’aprire l’opera non come l’effetto di una causa ma come il significante di un significato. Barthes dava alla struttura soprattutto il valore di strumento metodologico. Egli ha messo gli strumenti analitici al servizio di una lettura rapsodica tendente a costellare il testo nella dispersività di un commento aperto a tutti i sensi possibili.

GERARD GENETTE (1930-vivente)  le sue ricerche insieme a Barthes disegnano un arco evolutivo che cerca di uscire dalle strettoie del metodo strutturale. Genette ha provveduto a contrastare l’illusione che il testo letterario potesse essere considerato come un oggetto chiuso e a sé stante ed ha puntato sul rapporto del testo con altri testi che risulta particolarmente utile nel caso della parodia.

3.5 – Il privilegio del significante
In un celebre intervento del 1958 intitolato Linguistica e poetica JACOBSON si proponeva di rispondere alla domanda fondamentale che cosa è che fa di un messaggio verbale un’opera d’arte. Qualsiasi situazione comunicativa prevede un mittente che invia un messaggio a un destinatario. A questi Jacobson aggiunge come indispensabili: un contesto, un codice e un contratto (un canale). Le rispettive funzioni che lui individua sono:
MITTENTE  funzione EMOTIVA
DESTINATARIO  funzione CONATIVA
CONTESTO funzione REFERENZIALE
MESSAGGIO   funzione POETICA
CONTATTO   funzione FATICA
CODICE  funzione METALINGUISTICA
Jacobson ipotizza un ordine gerarchico delle funzioni che preveda una funzione dominante. Ad esempio nello slogan la funzione dominante è quella conativa. Nella poesia è dominante la funzione poetica. Anche non nella poesia si è rivalutata la funzione poetica dapprima secondaria ma in questo nuovo clima culturale considerata dominante. Jacobson risale agli aspetti fondamentali del comportamento linguistico, individuati ora nella selezione e nella combinazione. Quando parliamo compiamo una selezione tra ttt le parole che potremmo usare in un determinato punto della frase, e poi mettiamo insieme in un certo ordine combinatorio i termini prescelti. La selezione è fondata sull’equivalenza dei termini possibili, mentre la combinazione prevede che , per essere compatibili, i termini debbano svolgere ruoli diversi. Il sistema dei significanti trama la propria rete organizzativa sopra quella della grammatica e della sintassi della lingua. E sebbene Jacobson parli di sovrapposizione del principio di equivalenza sulla successione delle parole tuttavia egli mostra in definitiva il prevalere della scansione specifica dei ritmi e dei suoni sulla forma usuale. Compare l’ipotesi di un legame latente tra suono e significato

JURIJ LOTMAN (1922-1993)  definisce l’arte letteraria un sistema di simulazione secondario. Secondario perché utilizza dei materiali preesistenti nella lingua naturale e di simulazione perché pur realizzandosi nella sequenza lineare della scrittura, si organizza in modo da configurare con i suoi rapporti interni una rappresentazione della realtà, una simulazione del proprio contenuto. Lotman propone, per definire l’opera d’arte letteraria, la nozione di segno integrale. Mentre nella lingua naturale il testo è composto da segni ciascuno dei quali è portatore di significato ed è a sua volta scomponibile in elementi (le lettere delle parole) che di per sé non significano nulla, nell’arte verbale il significato è dato soltanto dal testo preso per intero. Ciò vuol dire che il testo diventa segno e che i segni che lo compongono ne diventano gli elementi. È al livello semantico-lessicale che Lotman attribuisce il valore di strato base non eludibile su cui si innestano tutti gli altri contributi al senso complessivo. L’apporto dei significanti è considerato quindi non tanto in chiave di autonomia totale ma come aumento della ricchezza del gioco semantico, come incremento dell’informazione portata dal testo.

3.6 – La scienza del racconto
Le ricerche compiute da Propp nel campo delle fiabe verrà esteso all’intero universo del romanzo dalla narratologia. L’approfondimento degli spunti di Propp poteva seguire due vie: la prima diretta a determinare gli sviluppi dell’azione, la seconda volta a stabilire i rapporti tra i personaggi posti alla base della vicenda.

CLAUDE BREMOND (1929-vivente)  nella sua Logica del racconto prende le mosse dall’impossibilità di decidere in anticipo la successione delle funzioni. Propp aveva potuto stabilire un ordine di precedenza perché si trovava a lavorare su un materiale fortemente stereotipato e soggetto a regole fisse. Bremond ritiene che l’unità minima della narrazione non sia la funzione isolata ma la sequenza che raggruppa più funzioni. La sequenza elementare sarebbe dunque un processo in 3 tempi composto da virtualità, passaggio all’atto e conclusione. Quanto al montaggio di queste sequenze elementari nella sequenza complessiva Bremond individua 3 modi caratteristici: il testa a coda quando ogni situazione di arrivo offre la possibilità di ripartire con una nuova sequenza), la sacca (quando la sequenza si interrompe per dar luogo a una sottosequenza che si svolge al suo interno), la legatura (quando due sequenze si sviluppano simultaneamente o parallelamente). I ruoli narrativi dei personaggi vengono suddivisi in attivi e passivi. Gli agenti a loro volta si scindono tra volontari e involontari.

ALGIRDAS GREIMAS (1917-1992)  nei suoi personaggi vengono riconosciuti ruoli o funzioni: un soggetto, un oggetto, un destinatore che predispone l’oggetto per un destinatario cui si possono aggiungere un aiutante e un oppositore. Per un totale di 6 attanti a costituire quello che Greimas chiama il modello attanziale.

TODOROV  arriverà addirittura a tradurre l’intreccio in formule algebriche

GENETTE  toccherà a lui con il Discorso del racconto del 1972 a sistematizzare l’analisi degli aspetti e dei modi della narrazione uscendo dalla mera sequenza delle vicende. Vi sono alcuni problemi che lo studio dell’intreccio non riesce a toccare, ad esempio quello dell’enunciazione. Chi racconta la storia? Un narratore intradiegetico o extradiegetico che può avere parte o no nella vicenda e quindi potrà essere omodiegetico o eterodiegetico.

BARTHES  accanto alle funzioni egli suggerisce di considerare anche degli indizi che sono quelle notazioni spesso appena accennate a indicare il carattere dei personaggi e l’atmosfera della vicenda, e servono a preparare gli sviluppi della storia. Inoltre Barthes distingue tra le funzioni quelle cardinali o nuclei da quelle di riempimento che offrono all’interprete dettagli non trascurabili. Barthes indica la necessità di un passaggio dalle macrostrutture alle microstrutture verso il modo di organizzare i significati, dove le analisi della poesia e della prosa si congiungono.

3.7 – Semantica - semiotica
Del metodo messo in campo da GREIMAS sono da ricordare soprattutto alcune nozioni basilari: la suddivisione del significato in semi, il formarsi di catene coordinate di semi dette isotopie, la connessione ai semi di marche valutative.

Sulla scia di queste indicazioni greimasiane si sono mossi alcuni studiosi belgi dell’Università di Liegi raccolti sotto la sigla del GRUPPO M i quali hanno riclassificato nei termini della semantica strutturale l’antichissimo bagaglio della retorica. I ricercatori di Liegi passano a individuare 4 possibili forme di deviazione: soppressione (quando viene tolto un elemento), aggiunzione (quando l’elemento viene aggiunto), soppressione-aggiunzione (la sostituzione di un elemento con un altro) e permutazione (invertire l’ordine degli elementi). La metafora è intesa come soppressione-aggiunzione nel significato di una parola, la rima è vista come aggiunzione ripetitiva a livello dei suoni. Il Gruppo M ha precisato la propria ipotesi teorica nella Retorica della poesia. Nel testo poetico le metafore e le altre figure produrrebbero un proliferare di semi secondari che vanno a formare varie catene di isotopie. Mentre il linguaggio normalmente si basa su una sola isotopia, la poesia è dotata di poli-isotopia. Tali reti semantiche possono essere ricondotte a 3 grandi ambiti: un triangolo che ha per vertici l’uomo, il cosmo e il linguaggio stesso (anthropos, cosmos e logos).

Il modello Greimasiano è il quadrato semiotico dove il termine chiave si sviluppa in una dialettica più aperta e complessa combinandosi con i termini contrari e contraddittori.

3.8 – La cultura come universo di segni
MARIA CORTI  (1915-2002)  ha considerato la comunicazione letteraria come scampo di tensioni tra istanze alla codificazione e spinte trasformatrici.

CESARE SEGRE (1928-vivente)  ha riattivato l’interesse verso la storia del confronto tra scrittori col sistema semio-letterario.

Il Gruppo di Mosca e Tartu raccolto attorno a Lotman e a Uspenskij sostengono che se ogni testo non può essere pienamente compreso nel suo valore altro che in rapporto al contesto culturale in cui si inscrive, è allora alla cultura in quanto sistema dei sistemi che l’analisi deve in ultima istanza giungere. La cultura risulterà dal modo di sommarsi e di organizzarsi dei diversi codici e sarà interpretabile come sistema di segni sottoposto a regole strutturali. Sono queste le basi della culturologia. Secondo LOTMANil modello culturale consiste essenzialmente in uno schema spaziale. Lo spazio viene suddiviso a opera di una frontiera che serve a distinguere i valori dai disvalori: il gruppo sociale dai nemici, i vivi dai morti, le divinità buone da quelle cattive. Le vicende dell’eroe sono significative perché e in quanto lo portano ad attraversare alcune importanti barriere del modello culturale. I personaggi possono essere vincolati (che sono legati a una particolare zona e non possono oltrepassarla) oppure mobili (che assurgono al rango di protagonisti e di forze trainanti dell’azione narrativa). Per identificare i tipi culturali Lotman ha avanzato varie proposte utilizzando le categorie tratte dalla linguistica. La classificazione più articolata è quella approntata prendendo in considerazione l’atteggiamento rispetto al segno. Questi versanti in linguistica ricevono il nome di paradigma e sintagma. Si aprono 4 possibilità: privilegiamento del primo aspetto o del secondo o di nessuno dei due o di tutti e due. Lotman legge lo svolgimento della cultura russa prima del sec. XX come successione di 4 tipi:

  • nel medioevo predomina l’aspetto pragmatico  il segno è fortemente valorizzato a scapito di ciò che non è segno
  • con i secoli XVI-XVII si impone la cultura del praticismo  i segni non sono più presi per il rapporto con un livello superiore ma per il posto che occupano in un piano determinato. È questo il tipo sintagmatico dove predomina la capacità di combinare e organizzare i segni
  • l’illuminismo rappresenta il caso del rifiuto di entrambi gli aspetti
  • tra il secolo XVIII e XIX con l’instaurarsi della società borghese prende piede un modello culturale che concilia l’aspetto paradigmatico con quello sintagmatico.

Perché una cultura dopo aver funzionato bene a un certo punto viene sostituita da un’altra la risposta degli studiosi russi è che il dinamismo non sia imposto da cause estranee ma che sia intrinsecamente connesso alla cultura. Senonchè una volta inteso il dinamismo una proprietà ineliminabile della cultura, si finisce per ritenere il cambiamento un fatto naturale, insomma per deresponsabilizzare le forze culturali. Nell’ultima fase della sua attività Lotman ha indicato il punto di passaggio tra i diversi stati con l’immagine dell’esplosione. L’arte è un’esplosione di senso che accade senza preavviso in un dato momento temporale. La semiotica ha consentito a Lotman di toccare il punto di congiunzione tra letteratura e comportamento.

CAP.4
4.1 – La concezione materialistica della storia
La comprensione della letteratura ha ricevuto un potente impulso in seguito alle analisi del materialismo scientifico fondato da KARL MARX (1818-1883) e FRIEDRICH ENGELS (1820-1895)  la loro teoria forniva la precisa indicazione di dove cercare le radici, il motore del processo storico. Tale ruolo era attribuito a una motivazione sociale e a un nucleo profondo di natura economica. Secondo questo punto di vista, l’aspetto propriamente umano non si trova nel linguaggio o nella significazione, ma nel lavoro e nell’organizzazione legata alle necessità dell’attività lavorativa. Le istituzioni e pratiche culturali vanno comprese nel loro intreccio con la base materiale socio-economica di cui sono espressione. La coscienza che si illude della propria indipendenza finisce per rappresentare i rapporti reali in modo distorto e deformato. Questa falsa coscienza viene dai due autori denominata ideologia. Viene messo in campo lo sguardo sospettoso della critica dell’ideologia. Marx avverte che non la critica ma la rivoluzione è la forza motrice della storia. Come mai noi gustiamo con intatto piacere le opere degli antichi, oggi che il quadro della vita sociale è completamente mutato? Per la teoria, che viene risolta da Marx ricorrendo all’idea di un particolare fascino che l’arte greca conserverebbe in quanto legata alla fanciullezza storica dell’umanità.

4.2 – Letteratura e politica
Il collegamento con i gruppi e le classi che compongono la società può essere tracciato riferendosi semplicemente all’estrazione sociale dell’autore o al tipo di pubblico al quale egli dichiara di rivolgersi. Così accade del pari per lo studio dei raggruppamenti intellettuali e dei loro strumenti collettivi (riviste, manifesti). Anche quando ingloba in sé l’analisi dell’opera, in ogni caso la sociologia della letteratura procede a un rilevamento oggettivo della collocazione sociale che può muoversi in parallelo ma non sostituire il giudizio critico vero e proprio. Non si tratta di emettere una valutazione che riguardi la<letteratura presa a sé, ma di includer la sfera letteraria nella questione più generale del senso della storia. Occorre ragionare su una valutazione politica. Alla distinzione tra bello e brutto propria del giudizio estetico, verrà anteposta l’alternativa tra una direzione progressista o rivoluzionaria e l’inversa direzione reazionaria o conservatrice. Di fatto la politicità della letteratura è stata spesso intesa come meccanica sottomissione del valore estetico al valore politico. Ciò ha comportato una forte svalutazione del letterario. In realtà nella politica culturale dei partiti comunisti negli anni centrali del ‘900 il valore estetico non venne annullato o superato, quanto piuttosto ridotto e strumentalizzato. Se il giudizio che si dà di un’opera è “bella ma reazionaria” ciò equivale ad ammettere che il giudizio politico negativo non riesce a escludere il giudizio estetico positivo. L’opera, se pure è reazionaria, nondimeno rimane bella. Il piacere estetico confinato nella sua zona franca sopravvive intatto, con la conseguenza di limitare gravemente la portata della critica dell’ideologia.

ANTONIO GRAMSCI (1891-1937)  il suo tratto peculiare è l’articolazione della critica su 3 livelli tra loro interconnessi ma non sovrapponibili: la politica, la cultura e la letteratura. In carcere Gramsci avviò un’ampia riflessione teorica e storica comprendente anche i problemi degli intellettuali e della letteratura, che rimase consegnata alle pagine dei Quaderni. La sua preoccupazione principale sembra essere quella di evitare sia l’autonomia del giudizio letterario sia l’intromissione del giudizio politico. Gramsci ritiene opportuno distinguere il livello in senso stretto politico da quello letterario e inserirvi in mezzo, come una sorta di spazio mediatore, il livello della cultura. Per capire bene quale sia il ruolo della cultura nella teoria e nel metodo gramsciani è necessario considerarla nelle sue due facce, quella rivolta verso la politica e quella rivolta verso la letteratura. Quella rivolta alla politica egli difende il valore rivoluzionario della cultura e quindi l’importanza della lotta in ambito culturale. La vittoria del fascismo aveva convinto Gramsci che il processo rivoluzionario sarebbe stato lento e complesso. Solo l’intervento nella cultura, cioè l’azione volta a conseguire l’egemonia nell’ambito del senso comune, avrebbe creato un terreno favorevole alla battaglia politica vera e propria. Nei Quaderni del carcere Gramsci riflette su una sconfitta epocale del movimento rivoluzionario: gli è ormai chiaro che non basta la presa di potere se non c’è il consenso e quindi l’egemonia culturale. Egli sviluppa una forte attenzione per l’organizzazione della cultura  e si preoccupa di stabilire la connessione tra i gruppi intellettuali e i più vasti gruppi sociali. Tra politica e cultura deve stabilirsi una dialettica e non per nulla Gramsci rintraccia nella politica culturale un ulteriore livello intermedio. Il raccordo tra l’opera letteraria e l’epoca storica non è sufficiente. L’attribuzione socio-storica rischia di saltare il problema artistico. A parità di condizioni possiamo avere qui un artista e là quello che Gramsci definisce umoristicamente un semplice untorello. Questa disparità tra artista e untorello vale a dire il diverso grado di qualità delle opere, indica che il lavoro istruttorio del giudizio non può dirsi concluso se non perviene a toccare il livello estetico. Non può prescindere dagli altri livelli e soprattutto dal livello culturale che gli è più vicino e gli è direttamente collegato. Gramsci non accetterebbe mai una valutazione estetica puramente svincolata dal terreno della cultura. Il sospetto che il metodo crociano di distinguere drasticamente tra poesia e non poesia conduca in uno sterile rifiuto della gran parte della produzione letteraria spinge Gramsci ad attribuire alla critica la funzione di cogliere gli aspetti propositivi anche nelle opere minori. Una critica delle tendenze deve essere l’obiettivo del discorso sulla letteratura. Ciò che è possibile fare è lottare per la formazione di una nuova cultura per una nuova vita morale così da creare il retroterra da cui nasceranno nuove opere d’arte. Il livello culturale svolge un ruolo trainante nel giudizio. Gramsci interroga l’interconnessione dei valori culturali e dei valori estetici nelle opere. Questo rapporto è espresso da Gramsci anche attraverso la tradizionale relazione tra forma e contenuto. Riflettendo sul fatto che l’opera è un processo e che ogni cambiamento nel contenuto deve determinare un cambiamento nella forma, Gramsci perviene a ipotizzare una priorità relativa del contenuto e dunque in esso dei valori culturali.

In reazione a Croce procedeva in Italia anche il percorso dello storicismo critico portato avanti da LUIGI RUSSO (1892-1961), NATALINO SPEGNO (1901-1990) e WALTER BINNI (1913-1997).

4.3 -Gramsci e i diversi livelli di giudizio critico
L’articolazione della critica su tre livelli, tra loro interconnessi ma non sovrapponibili, è il “ il tratto peculiare della impostazione data da Antonio Gramsci (1891-1937) all’approccio “sociale” al fatto letterario. La preoccupazione principale di Gramsci sembra quella di evitare sia l’autonomia del giudizio letterario, sia l’intromissione del giudizio politico.
Poiché il politico tende a produrre un’azione verso un determinato fine futuro, è inevitabile che veda nel letterato qualcosa di attardato e non risolto, così, per forza di cose “il politico non sarà mai contento dell’artista e non potrà esserlo”.
Per capire quale sia il ruolo della cultura nella teoria e nel metodo gramsciani è necessario considerarla nelle sue due facce:

  • verso la politica  Gramsci difende il valore rivoluzionario della cultura e quindi l’importanza della lotta in ambito culturale. Secondo Gramsci c’è un’eccezione positiva dell’ideologia, che concerne quella “storicamente organica” e necessaria a una determinata struttura economica e sociale; e un’eccezione negativa, nel caso delle “ ideologie arbitrarie” per le quali vale l’analogia col velo di un’apparenza vana e fuorviante. Solo l’intervento nella cultura, avrebbe creato un terreno favorevole alla battaglia politica vera e propria.
  • verso la letteratura  Gramsci sviluppa una forte attenzione per lì”organizzazione della cultura” e si preoccupa di stabilire la connessione tra gruppi intellettuali e più vasti gruppi sociali. Il raccordo tra l’opera letteraria e l’epoca storica non è sufficiente; l’attribuzione socio-storica rischia di saltare il “problema artistico”: a parità di condizioni possiamo avere qui un “artista” e là quello che Gramsci definisce umoristicamente un “semplice ritornello”. Questa disparità tra “artista” e “untorello”, vale a dire il diverso grado di qualità delle opere, indica che il lavoro istruttorio del giudizio non può dirsi concluso se non perviene a toccare il livello estetico.(Gramsci non accetterebbe mai una valutazione estetica puramente svincolata dal terreno della cultura).

Gramsci attribuisce alla critica la funzione di cogliere gli aspetti propositivi anche nelle opere minori; una critica delle “tendenze” dev’essere l’obiettivo del discorso sulla letteratura. Sarebbe infatti non solo vano ma “assurdo” pretendere di far spuntare nuovi geni artistici: ciò che è possibile fare è, lottare per la formazione di una “nuova cultura”, per “una nuova vita morale”, così da creare il retroterra da cui nasceranno, nuove opere d’arte.

Riflettendo sul fatto che l’opera è un “processo” e che ogni cambiamento nel contenuto deve determinare un cambiamento nella forma, Gramsci perviene a ipotizzare una priorità relativa del contenuto, e dunque in esso dei valori culturali.

Attraverso l’interpretazione del canto x dell’inferno di Dante, Gramsci affronta il problema della “struttura” e ne afferma l’essenzialità per la comprensione del testo.
Gramsci oppone che, senza la conoscenza della pena, il dramma di Cavalcante sarebbe incomprensibile e quindi ne subirebbe danno l’intero esito della scena dantesca. La conclusione è, che il “brano strutturale” è necessario e ineliminabile; “non è solo struttura” ma anche “poesia”. E su di esso cada l’accento “estetico”.

4.4 – Rispecchiamento e prospettiva in Lukàcs
GYORGY LUKACS (1885-1971)  la sua è un’estetica sistematica. L’idea che l’arte debba rispecchiare fedelmente la realtà è tributaria della nozione aristotelica di mimesi. Lukacs la adatta e la aggiorna alla luce delle tesi marxiste: non si dovranno più tradurre in immagini plastiche o verbali determinati oggetti o situazioni della vita reale, ma cogliere attraverso l’arte le proprietà del momento storico della società umana, dei conflitti di classe e dei rivolgimenti rivoluzionari che vi si svolgono. La totalità che l’arte è chiamata a rappresentare non è soltanto quella dell’esistente, deve anche porre in evidenza la direzione del futuro. È ciò che Lukacs chiama la prospettiva. Uno scrittore che raggiunge un simile rispecchiamento della realtà può essere definito realista. Alla critica  viene demandato il ruolo valutativo di giudicare la giustezza del contenuto delle opere, ovvero l’adeguatezza del rispecchiamento rispetto alla verità storica. Nelle intenzioni di Lukacs la teoria del rispecchiamento doveva esaltare l’apporto conoscitivo dell’arte. Mentre il sapere scientifico e quello storico partono dal singolo fenomeno per giungere alla legge universale, il rispecchiamento artistico si appoggia su una categoria intermedia tra singolarità e universalità, che non è più il singolo fenomeno e non ancora l’essenza dispiegata nell’universale. È un termine medio tra i punti di partenza e di arrivo del processo conoscitivo. In sede letteraria ala categoria del particolare corrisponde il tipico: esso è l’accadere individuale orientato nel giusto rispecchiamento rispetto alla totalità storico-sociale. Il giusto rispecchiamento deve dar conto della viva dialettica del reale: il tipo viene caratterizzato dal fatto che in esso convergono tutte le contraddizioni più importanti, sociali e morali e psicologiche di un’epoca. Una tale tipicità esige che il personaggio sia dotato di una visione del mondo che sia costruito con una fisionomia intellettuale fortemente caratterizzata. Personaggio, carattere, intreccio: un privilegiamento del genere narrativo. È prevalentemente con il romanzo che il suo metodo può produrre risultati. E in particolare con il romanzo storico. Perché ci sia un autentico realismo i richiede che i fatti raccontati non siano fine a se stessi ma che rinviino alla rappresentazione delle forze sociali portanti dell’epoca. La letteratura realista si distingue non soltanto da quella irrealista ma anche dalla riproduzione fotografica delle cose così come si presentano. La polemica di Lukacs contro il naturalismo e contro le poetiche moderne che procedono per somma di dati sensoriali senza volerli organizzare e interpretare. Egli pone in alternativa narrare e descrivere. Mentre nel narrare ogni aspetto è focalizzato sul nucleo drammatico della vicenda con una forte partecipazione dell’autore che si trasfonde poi in partecipazione del lettore, nel descrivere prevale il distacco dell’osservatore. Bertold Brecht fa un’obiezione alla posizione di Lukacs sostenendo che proprio per rispondere all’esigenza di giungere al fondo della causalità sociale bisogna provare sperimentalmente i nuovi strumenti formali: una forma che andava bene in passato può non andar bene per oggi, non si può usare lo stesso specchio per rispecchiare epoche diverse. Nella concezione di Lukacs il mutamento storico viene considerato come mutamento del contenuto da rispecchiare, ma lo specchio rimane di per sé immutabile. Lo svolgimento letterario per Lukacs prende la fisionomia di una ricorsività ciclica. Questo ciclo corrisponde secondo l’impostazione marxista all’arco dell’evoluzione storico-sociale delle forze propulsive della borghesia che vengono sostituite dalle forze fresche del proletariato. Lukacs risolve anche il problema marxiano del perdurante effetto delle opere del passato: che si tratti di Ulisse o di Don Chisciotte, il nostro interesse di lettori rimane vivo perché le avventure dell’eroe ci hanno rivelato i tratti essenziali della vita umana. Così la teoria lukacsiana che tanto sembrerebbe rivoluzionaria risulta piuttosto conservatrice. Accetta le gerarchie di valore ereditate dalla tradizione e rimane anche ferma alla visione romantica del genio inconsapevole, del grande artista che raggiunge con un balzo intuitivo la vera realtà delle cose.

4.5 – Gli studi sociali di Francoforte
Un’angolatura diversa pervenne dallo studio sociale dell’arte nella Scuola di Francoforte con MAX HORKHEIMER (1895-1973), HERBERT MARCUSE (1898-1979) e THEODOR ADORNO (1903-1969). Anche per i francofortesi l’arte e la letteratura vanno considerate nell’ambito della società che le produce. Mentre nella visuale del marxismo la sovrastruttura veniva guardata con sospetto perché lontana dalla realtà, gli studiosi modificarono questa concezione alla luce della nuova esperienza sociale. Essi ebbero modo di vedere i regimi del fascismo e del nazismo e le prime avvisaglie del consumismo neocapitalista. I nuovi fenomeni della cultura di massa convinsero i francofortesi che l’ideologia non era pericolosa tanto per il suo distacco dalla prassi, quanto esattamente all’opposto per il fatto di essere ormai troppo dipendente dall’ottica utilitaria del mercato. Con l’industria culturale la cultura viene fatta rientrare tra i divertimenti eventualmente allestiti per il tempo libero e in tal modo viene svilita, uniformata e neutralizzata. Se i prodotti culturali vengono proposti a un pubblico indifferenziato viene a cadere anche la distinzione tra cultura borghese e cultura proletaria. I francofortesi colgono la caduta di prestigio dell’arte e della letteratura nelle società industriali avanzate. Altri mezzi di comunicazione. I mass media, salgono in primo piano.

MARCUSE  l’arte raccoglie quella promessa di felicità che viene sempre più disattesa da un sistema sociale alienante e repressivo. Egli considera la società moderna come un apparato dominato dalla logica del guadagno, che non ammette perciò la felicità se non nella forma del dopolavoro, del riposo in vista di un ulteriore sfruttamento. Ma il piacere che la bellezza suscita è negata dal regime utilitaristico: è necessario secondo lui liberare l’esperienza estetica dalle incombenze ideali di cui è stata caricata, e restituirla invece al momento della felicità sensibile. Negli anni ’50 Marcuse si appoggerà alla psicoanalisi per precisare l’arte come ritorno del represso e come serbatoio delle istanze di liberazione. Ma se il condizionamento sociale è essenziale negativo, per assumere la giusta posizione nel suo tempo l’arte dovrà tagliare i ponti proprio con ciò che la determina e la deprime. Le opere d’arte rappresentano quel che esse non sono. Ciò vuol dire che la loro storicità sta nel modo con cui si pongono fuori della situazione storica a loro toccata. L’arte è dunque rivoluzionaria per sua stessa natura. Mentre per Lukacs l’arte è rivoluzionaria perché rispecchia fedelmente le forze della prassi che tendono alla rivoluzione, invece, nel teorico francofortese la testimonianza che l’arte rende riposa nella forza di resistenza alla prassi, a qualunque genere di prassi. Adorno respinge il progetto di demistificazione portato avanti dal marxismo inteso a ricondurre le creazioni spirituali ai moventi materiali. In questo quadro proprio l’arte autonoma verrà apprezzata esattamente nel suo essere priva di scopo. Nell’epoca moderna l’arte percorre le soluzioni estremiste dell’avanguardia e nella dissonanza esprime il conflitto tra la vocazione alla conciliazione e la vocazione alla verità che rende impossibile una sintesi felice. Sulla considerazione del carattere rivoluzionario dell’arte per Marcuse questo carattere risiede nella conservazione positiva delle istanze utopiche che possono così ritornare disponibili all’azione liberatrice. Per Adorno si tratta di capacità negativa. L’arte è pensata per principio come estranea in quanto tale al mondo empirico. Sebbene Adorno si adoperi a mantenere il rapporto tra la criticità dell’arte e la situazione storica. L’efficacia dell’opera sta nella partecipazione allo spirito, il quale contribuisce al cambiamento della società in processi sotterranei e si concentra nelle opere d’arte.

WALTER BENJAMIN (1892-1940)  presenta una soluzione alquanto difforme polemicamente distante da quella di Lukacs. L’autore è egli stesso un produttore e non può quindi essere collocato all’esterno del mondo produttivo, né il compito di rispecchiare il mondo (Lukacs) né con quello di rifiutarlo (Adorno). In fondo in Lukacs e in Adorno pur nella diversità c’è un modello comune che consiste nel porre il nesso tra società e arte privilegiando uno dei due termini sull’altro. Benjamin invece si sforza di considerarli su un piano paritario. L’importante è stabilire come si situa nei rapporti di produzione. Benjamin conferisce un ruolo fondamentale alle innovazioni tecniche. Assume un atteggiamento meno pessimistico di quello di Adorno riguardo agli esiti del mondo moderno. La comparsa nell’epoca moderna  di nuovi mezzi come la fotografia e il cinema non solo ha aggiunto ulteriori campi di attività, ma soprattutto ha cambiato il modo di porsi dell’arte rispetto al pubblico. La riproducibilità tecnica moderna porta le opere verso il pubblico con molto maggiore disponibilità di quanto non accada al pezzo unico. Nelle moderne arti riproducibili Benjamin vede invece avanzare quello che egli chiama il valore espositivo ossia la possibilità di un’esperienza più diffusa, libera e disinibita dei prodotti artistici. Così viene superato l’atteggiamento individuale verso l’arte e la visione comunemente accettata per cui l’ispirazione arriva solo nello stato di raccoglimento. L’opposto è il lato collettivo della creatività, che Benjamin va a rintracciare nei modi organizzativi degli scrittori, nel loro riunirsi in gruppi e in tendenze, come nelle avanguardie. La scelta della giusta tendenza politica non garantisce il valore letterario. La tendenza deve essere accoppiata alla qualità dell’opera di volta in volta verificata e dimostrata sul testo in questione. Questa ottica impedisce la meccanica sovrapposizione della politica alla letteratura. Il contenuto esplicito su cui insisteva la teoria lukacsiana del rispecchiamento, non pare a Benjamin l’ultimo livello del senso di un testo. Benjamin riprende dall’antica esegesi la nozione di allegoria e ne fa il principio della costruzione complessiva dell’opera che agisce attraverso la frammentarietà e la tensione contraddittoria delle sue parti. Al contrario del simbolo l’allegoria teorizzata da Benjamin elabora il suo discorso trasformando i personaggi e gli oggetti in segni di una scrittura e il tal modo li estrania dal mondo naturale. Benjamin sostiene l’idea che l’opera d’arte serve a risvegliare le forze assopite e a renderle disponibili per l’azione collettiva e ciò caratterizza anche l’atteggiamento del critico verso le opere del passato. La distanza temporale è vista da Benjamin all’insegna della discontinuità, in polemica con lo storicismo che considerava la storia uno sviluppo lineare e continuo. Il critico non deve limitarsi a ricostruire, incasellando le opere nella sequenza del loro tempo di origine per sprigionare da esse ciò che ancora interessa il presente.

ERNST BLOCH (1885-1977)  ritiene che l’attimo vissuto sfugga alla conoscenza e che perciò qualcosa di non ancora conscio permanga sotterraneamente come spinta al rinnovamento nel presente. Ciò è collegato da Bloch alla speranza utopica rivolta al futuro. Le aspirazioni umane alla felicità, rifiutate e sconfitte nel passato, continuano a rivolgere il loro appello nell’ora attuale. Così, quella che era per Marx una difficoltà appare nella teoria benjaminiana affatto naturale. Ma più che del fascino del passato in blocco, Benjamin s’interessa di quei particolari quasi cancellati e resi muti dalla storia, da cui si manifesta l’utopia soffocata dalle classi dominanti. Tra il passato e il presente è messa in atto una convergenza di tensioni: da un lato il passato vale se ha la forza d’urto per mettere in crisi il presente, dall’altro lato l’interprete situato nel presente deve essere pronto a mettere in discussione la gerarchia dei valori consolidati nella tradizione. Il critico deve passare a contropelo la storia. Benjamin ha dedicato a Baudelaire una larga parte del proprio lavoro nella fase cruciale degli anni ’30. egli si muove sulle connessioni di forma e contenuto. Scende nella minuzia all’interno del testo andando a scoprire in un singolo verso la parola su cui si concentra il significato della frase. Ma è pronto a uscire all’esterno per collegare le figure letterarie ai fenomeni della società e dell’ambiente. La connessione del particolare alla totalità non può essere preordinata in anticipo ma deve per Benjamin venir fuori ricavando dai testi al maggior grado possibile tutta l’energia che essi potenzialmente contengono.

4.6 - Benjamin: l’autore come produttore
Negli anni Trenta, assume particolare rilievo la posizione so­stenuta da Walter Benjamin, teorico e saggista nato a Berlino nel 1892, morto suicida nel 1940 in circostan­ze drammatiche, nel tentativo di espatriare clandestinamente per sfuggire ai nazisti.
Benjamin tenne una conferenza a Parigi nel 1934: L'autore come produttore. L'autore è egli stesso un produttore e non può quin­di essere collocato all'esterno del mondo produttivo, né con il compi­to di  rispecchiare il  mondo  (Lukàcs),  né con quello  di rifiutarlo (Adorno).
L'importante non è stabilire qual è la posizione dì un'opera “rispetto ai rapporti di produzione dell'epoca”, ma piuttosto chiedersi come si situa nei rapporti di produzione.
Benjamin conferisce un ruolo fondamentale alle innovazioni tecni­che, . Mentre per Adorno le trasformazioni della tecnica servono a un dominio sempre più capillare, per Benjamin esse pongono di fronte a un bivio: posso­no essere sfruttate o in senso produttivo o in senso distruttivo. Ciascun momento storico si trova di fronte alla biforcazione di una alter­nativa in cui diventa determinante la scelta politica.
Mentre le forme classiche si basano sull’unicità dell’opera, nella fotografia o nel cinema l’opera può riprodursi in un infinito numero di copie tutte perfettamente equivalenti all’originale, che di per sé non esiste più. ". Nelle moderne arti riproducibili Ben­jamin vede invece avanzare quello che egli chiama il «valore espositi­vo», ossia la possibilità di un'esperienza più diffusa, libera e disinibita dei prodotti artistici.
L'opposto è un atteggiamento collettivo, che si estrinseca in Benjamin nell'interesse per i modi organizzativi degli scrittori, per il loro riunirsi in gruppi e in tendenze.
La scelta della giusta tendenza po­litica non garantisce il valore letterario; la tendenza deve essere ac­coppiata alla qualità dell'opera e questa somma di tendenza + quali­tà non può essere data per scontata ma di volta in volta verificata e "dimostrata" sul testo in questione.
La tendenziosità politica, si realizza in un'esposizio­ne pedagogica; il contenuto esplicito, non pare a Benjamin l'ultimo livello del senso di un testo. Non solo egli considera nella tecnica il punto di interpenetrazione tra forma e contenuto.
Benjamin riprende dall'antica esegesi la nozione di allegoria, riscattandola dal discredito in cui era caduta per opera dell'estetica romantica e idealistica, che l'aveva considerata un semplice gioco enigmistico. Anzi, rispetto al passato Benjamin amplia la nozione stessa di allegoria, e ne fa il principio della costruzione complessiva dell'opera.
Al contrario del simbolo l'allegoria teorizzata da Benjarnin elabora il suo discorso trasformando i personaggi e gli oggetti in segni di una scrittura e il tal modo li estrania dal mondo naturale.
Il critico non deve limitarsi a ricostruire deve strappare le opere dal loro tempo di origine per sprigionare da esse ciò che ancora interessa il presente; c’è un «nocciolo co­noscitivo» che dal passato si proietta verso il presente.
Ernst Bloch (1885-1977), ritiene che l'«attimo vissuto» sfugga alla conoscenza e che perciò qualcosa di «non-ancora-conscio» permanga sotterraneamente come spinta al rin­novamento nel presente. Ciò è collegato da Bloch alla speranza utopica verso il futuro. Tra il passato e il presente è messa in atto una convergenza di tensioni: da un lato il passato vale se ha la forza d'urto per mettere in crisi il presente; dall'altro lato l'interprete situato nel presente deve essere pronto a mettere in discussione la gerarchia dei valori consolidati nel­la tradizione. critico deve passare "a contrappelo" la storia.
«Leggere tra le righe» è in questo caso la parola d'ordine adottata da Benjamin. il Benjamin criti­co lavora ad individuare il nucleo principale di un testo in qualcosa che si fa scorgere solo marginalmente, ma che funge da motore na­scosto della composizione, innervandola nel suo complesso. Gli «og­getti essenziali non appaiono mai, o quasi, in forma di descrizioni».
Benjamin ha dedicato a Baudelaire una larga parte del proprio lavoro nella fase cruciale degli anni Trenta. Scende nella «minuzia», all'interno del testo, andando a scoprire in un singolo verso la parola su cui si concentra il significato della frase; ma è pronto ad uscire all'esterno, per collegare le figure letterarie ai fenomeni della società e del suo ambiente. In questo movimento pendolare c'è un atteggiamento costante, che è quello di collegare i «motivi» in una «costellazione» facendo emergere al centro di essa il principio unificatore, il nocciolo sostanziale e profondo.
che la connessione del particolare alla totalità non può essere preordinata in anticipo ma deve, venir fuori ricavando dalle opere al maggior grado possibile tutta l'energia che esse potenzialmente contengono.

 

4.7 – Marxismo e strutturalismo
JEAN-PAUL SARTRE (1905-1980)  nel suo pensiero il legame con l’esistenzialismo conduceva a una concezione rilevante la specificità dell’avvenimento storico che non si esaurisce nella situazione ma tende a superarla. Di qui il valore della libertà, il progetto rivolto al futuro. È un’analisi che convince quando ragiona in termini di gruppi  sociali e di collettivi.

GOLDMANN  propone una sociologia della letteratura. Egli vuole rintracciare il legame tra letteratura e società. Riferire i contenuti a una visione del mondo, o alla coscienza collettiva di un determinato gruppo sociale (come farebbe Lukacs), risulta insufficiente se non addirittura fuorviante perchè la coscienza può essere alienata e distorta. Con un uso del termine struttura molto più vicino a quello strutturalista che non a quello marxista, Goldmann ipotizza che esista sempre una omologia tra  la struttura mentale e culturale indotta dalle forme della vita collettiva e la struttura del testo letterario. Queste strutture sono nello stesso tempo formali e inconsce, è compito del critico e dell’interprete riscontrarle. Tra ‘800 e ‘900 Goldmann rintraccia il passaggio a nuove fasi dello sviluppo sociale che si riverberano sulle strutture narrative. Goldmann definisce il suo metodo strutturalismo genetico. Esso si basa sui due movimenti congiunti della comprensione e della spiegazione. Mentre la comprensione rimane ancora al giudizio di fatto, spiegare l’opera negli orizzonti della storia significa darne un giudizio di valore. Goldmann ritiene indispensabili entrambi i livelli, e in ciò risiede il suo tentativo di sintesi tra marxismo e strutturalismo. Il primo livello, la comprensione, è quello comunemente praticato dall’indagine strutturalista, il secondo, la spiegazione, è quello più proprio delle correnti ispirate dal marxismo. Senonchè, la proposta goldmanniana da un lato non scende nei particolari del testo rimanendo al rilevamento di strutture molto generali e generiche. Dall’altro lato finisce per legare troppo strettamente le opere alla loro epoca facendo passare in secondo piano, nella omologia obbligata tra società e letteratura, i caratteri discordanti e conflittuali.

Per ALTHUSSER la struttura è una rete di rapporti che attraversa tutti gli ambiti della realtà, che egli definisce totalità complessa. Il suo sforzo è teso a liberare l’azione rivoluzionaria da tutti i valori rassicuranti, in particolare egli attacca lo stalinismo per il suo generico umanesimo, che impediscono di fare i conti con la realtà della lotta di classe. La teoria, in quanto attività di conoscenza scientifica, viene nettamente opposta all’ideologia come soluzione immaginaria e illusoria. Althusser è convinto che anche il testo letterario-artistico possa mantenere una propria carica critica che si situa al livello della strutturazione del testo. Più che ordinare gli elementi in classi diventa importante vedere i rapporti e i non rapporti interni di forza tra gli elementi della struttura dell’opera.

4.8 – Il problema dello specifico letterario in della Volpe
La più convincente teoria dello specifico artistico e letterario è venuta da GALVANO DELLA VOLPE (1895-1968)  in particolare dalla Critica del gusto della Volpe sostiene che la conoscenza non può essere suddivisa in un livello intuitivo e in un livello razionale, ma è un intreccio di sentimento e di logica. Perciò viene a cadere la possibilità di assegnare alla letteratura il livello relativo all’intuizione, all’emozione immediata. La specificità letteraria risiede nell’aspetto tecnico, nel modo con cui è organizzato il linguaggio poetico. Della Volpe rovescia completamente l’impostazione dei formalisti: mentre quelli vedevano nel linguaggio un mezzo unico adibito a fini diversi qui al contrario c’è l’identità del fine raggiunto con mezzi diversi. Della Volpe elabora uno schema complesso: una tripartizione dove il linguaggio comune è confrontato con quello della filosofia e della scienza. Della Volpe propone di distinguere, in base alla tecnica semantica, 3 tipi di linguaggio che egli individua nei termini: equivoco, univoco e plurivoco.  Il linguaggio comune è equivoco. Il linguaggio scientifico e filosofico è univoco. Il linguaggio poetico è plurivoco o anche detto polisenso cioè il testo poetico o letterario significa nel suo insieme. Non c’è contrapposizione  per della Volpe tra discorso e poesia. Sono due modi paralleli e paritari. Della Volpe ribalta la tradizionale ripartizione di forma e contenuto attribuendo alle idee il livello formale e al materiale linguistico e immaginativo quello del contenuto. Della Volpe è tra i teorici di ispirazione marxista, quello che ha maggiormente rivendicato il carattere anche intellettuale dell’arte. Della Volpe ribatte che le figure retoriche e in particolare la metafora non possono mai essere comprese correttamente se si fa a meno del nesso intellettuale su cui si fondano. La chiave semantica della poesia che egli mette in opera prevede che gli effetti di suono, di musicalità e di ritmo non venga conferito un senso indipendente ma soltanto un apporto ausiliario. Poiché della Volpe assegna alle idee la responsabilità formale dell’opera, al critico toccherà di dare parere sulla validità delle idee e delle loro forme; il che comporta la valutazione del grado di complessità e di organicità che le idee hanno raggiunto. Ma nello stesso tempo del grado di incidenza storica attuale delle idee e della loro necessità storica.

4.9 – Il lavoro dei segni
L’origine della semiotica moderna risale all’800 con CHARLES SANDERS PEIRCE (1839-1914)  al posto del significante e significato propone segno, oggetto e interpretante.

Il nesso tra semiotica e marxismo verrà stretto più a fondo negli anni ‘60/’70, in Italia a opera di FERRUCIO ROSSI-LANDI (1921-1985)  cose e parole sono prodotte insieme in quella realtà complessiva che egli denomina riproduzione sociale che è l’insieme dei processi per mezzo dei quali una comunità o società sopravvive, accrescendosi o almeno continuando ad esistere. Una volta articolato il ciclo produttivo nelle tre fasi produzione-scambio-consumo l’intervento dei segni verbali si concentrerà nella fase di mezzo, nello scambio. Affinché due oggetti materiali vengano scambiati è necessario che i due uomini che se li scambiano si servano di sistemi segnici. Produzione e comunicazione, dunque, sono intrecciate e incastrate l’una nell’altra. La comunicazione è vista dentro e addirittura al centro del meccanismo produttivo-riproduttivo. Certo il lavoro linguistico non manca di provocare problemi. Se c’è una alienazione linguistica come uscirne? Rossi-Landi risponde che nell’ideologia si aprono due strade alternativa: da un lato le ideologie conservatrici che fanno perno su un valore ritenuto ancora da costruire. Egli sostiene che il realismo corrisponde ai codici dominanti, è quel messaggio che il pubblico capisce ed accetta subito e facilmente come proprio. Mentre per contro l’avanguardia indica quei messaggi dotati di un’esigenza di aumento della quantità d’informazione e di rinnovamento comunicativo, implicando un rinnovamento sociale. Le azioni compiute dai personaggi possono essere utilmente comparate con quei sistemi di segni non verbali che sono i comportamenti. I comportamenti non sono retti da codici definiti ma da programmi. La letteratura spesso ha il merito di portare a galla e rendere visibile la programmazione della comunicazione non verbale. La valutazione dell’autore deve riguardare il suo grado di eccedenza. L’autore è  produttore ma solo come ingranaggio di una macchina più grande di lui anche nel senso (come in Benjamin) che produce novità e consapevolezza. Il lavoro dei segni può anzi deve essere anche lavoro sui segni.

CAP.5
5.1 – L’analisi del profondo
L’indirizzo critico assume una nuova impostazione  dopo l’avvento della psicoanalisi. I termini e i concetti della psicoanalisi provengono dalle innovazioni introdotte da SIGMUND FREUD (1856-1939) nel trattamento delle malattie mentali alle soglie del ‘900. Freud affrontava i casi clinici non attribuendone le cause a disfunzioni cerebrali, ma cercandone il motivo in accadimenti traumatici dell’esistenza trascorsa. Il medico doveva vestire i panni dell’analista attraverso un minuzioso lavoro di interpretazione e di scavo delle espressioni meno controllate, soprattutto i sogni e le libere associazioni.Freud portò avanti le ipotesi che andarono a costituire l’apparato scientifico della psicoanalisi innanzitutto con la nozione di inconscio. La psicoanalisi afferma che le ragioni del comportamento umano risiedono in piccola parte nella coscienza, mentre sono molto più forti i moventi inconsci. Freud descrive l’inconscio come il luogo delle pulsioni. Nell’inconscio agiscono le forze aggressive e le energie vitali primarie.. la psicoanalisi è dunque un metodo interpretativo che non accetta le apparenze immediate e non si stupisce di dover mettere in mora ciò che il parlante dice e asserisce di voler dire. Alla triade coscienza-preconscio-inconscio si aggiunse una nuova terna formata da Io (il serbatoio primario dell’energia psichica contenente le pulsioni ereditarie, innate e quelle rimosse), Es (è la parte della psiche in contatto con l’esterno attraverso la percezione) e SuperIo (è solo in parte cosciente ed è costituito da quei divieti che l’Io è stato costretto ad accettare e ad introiettare). Così dall’osservazione delle devianze e delle anomalie la psicoanalisi giungeva a costruire una teoria dei processi costitutivi della psiche. E poteva andare anche oltre applicando le proprie scoperte alle aree delle scienze umane, ivi compresa la letteratura. La sorte della società moderna dipende per Freud dall’esito di grandi conflitti tra le istanze profonde dell’uomo: da un lato tra principio del piacere e principio di realtà, dall’altro tra eros e pulsioni di morte. Una certa attenzione alla letteratura è presente nella psicoanalisi fin dalle origini. Il punto di partenza della ricerca freudiana era stato l’interpretazione dei sogni. Di fronte al racconto del sogno l’analista si comporta come un critico letterario che cechi di ritrovare il senso al di là della lettera del testo.

5.2 – La concezione dell’arte in Freud
Freud ha scritto che per la psicoanalisi i poeti sono alleati preziosi in quanto essi sanno in genere una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta. Non c’è da stupirsi che egli utilizzi accanto ai casi clinici anche le finzioni della letteratura o che si abbandoni a disgressioni nel campo dell’arte. Per lui l’arte e la scrittura creativa si trovano in una posizione privilegiata quasi a metà strada tra la coscienza e l’inconscio. Freud sottolinea che la tragedia greca su Edipo si incentra sul complesso psichico dell’attrazione per la madre e dell’odio verso il padre,ma lo mostra secondo la cultura del tempo come conseguenza ineluttabile della volontà esterna del destino. I sogni a cocchi aperti ci ricompensano dei desideri che la realtà non è stata in grado di soddisfare. L’arte sarebbe un tipo speciale di fantasticheria che si distingue per essere un atto di comunicazione, mentre la fantasticheria vera e propria è un’attività privata che difficilmente si confessa. Allo scrittore dunque è concesso il privilegio di esporre pubblicamente senza vergogna le proprie fantasticherie. Freud ha proceduto con grande cautela nel trasferire le scoperte della psicologia del profondo al campo della letteratura e dell’arte. In particolare egli ritiene che su un punto la psicoanalisi non possa dir nulla, cioè sul problema dell’origine dell’arte. Il dono meraviglioso che contraddistingue l’artista rimane un enigma e la psicoanalisi non si intromette nella questione della valutazione estetica. Lo spettatore condannato a un’esistenza piena di rinunce e di frustrazioni è portato a identificarsi con l’eroe che vede sulla scena. La convinzione che il comportamento di un personaggio di finzione possa essere analizzato alo stesso modo di quello di una persona e l’idea che il personaggio protagonista risulti il portavoce diretto dell’autore, assegnatario dei problemi interiori di quello. Sebbene Freud non abbia sottovalutato l’importanza dei materiali anonimi nella sua opera, è stato prevalente l’interesse per la figura dell’autore, da raggiungere al di là dell’opera. Freud pur incoraggiando l’uso della psicoanalisi al servizio della biografia era consapevole delle difficoltà di un’indagine condotta in assenza del soggetto in esame e operante con documento non sicuri, parziali e lacunosi. L’analisi di Freud ci insegna a indovinare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati e inavvertiti dell’osservazione.

5.3 – Psicoanalisi dell’autore, psicoanalisi del personaggio o psicoanalisi degli effetti
I continuatori di Freud guardarono molto di più ai materiali che non all’effetto. Sarà quindi il nesso personaggio-autore o, semmai, il rapporto tra i motivi letterari e le strutture psichiche, a predominare nei primi tentativi di critica letteraria ispirati alla psicoanalisi. Molti di questi tentativi furono affidati alle pagine della rivista Imago nata nel 1912.

OTTO RANK (1884-1939)  ha dedicato al tema del doppio un saggio  in cui si propone di spiegare le ripetute apparizioni di un personaggio in tutto identico al protagonista, che lo sostituisce, lo perseguita e lo conduce alla morte. Tutti i casi del doppio entrano a far parte secondo lui di una costellazione psichica dominata dalla scissione dell’Io. Il tema del doppio è stato trattato da quasi tutti i romantici. Il saggio dà il primo posto a Hoffmann (definito per eccellenza il poeta del doppio) e a Poe  oltre che a Maupassant, Dostoevskij e Oscar Wilde, prevalentemente autori della letteratura fantastica. Ma mentre Freud si adopera a spiegare l’effetto sinistro di inquietudine o di terrore indotto da questi e altri simili racconti, Rank procede invece a ritroso, dall’opera all’autore. La frequentazione del tema del doppio viene ricondotta alla psiche degli autori. Ma questa propensione verso la psicoanalisi dell’autore non esaurisce il lavoro del critico, che passa in un capitolo successivo ad analizzare le analogie del tema letterario con le produzioni del folklore. Così arricchito di spessore, il tema letterario può essere messo in rapporto con un meccanismo psichico di portata generale che travalica le epoche e i generi.

GEORG GRODDECK (1866-1934)  sviluppa il tentativo di interpretare la produzione anonima e popolare sulla base di un rinvenimento quasi ossessivo della simbologia sessuale.

MARIE BONAPARTE (1822-1962)  si distingue l suo lavoro sulla linea della psicoanalisi applicata alla biografia su Edgard Allan Poe. La critica psicoanalitica si trova ad utilizzare l’opera in funzione della biografia e a dare per scontata l’identificazione dell’eroe con l’autore.

ERNEST JONES (1879-1958)  ha puntato sulla psicoanalisi il suo saggio su Amleto. Jones svolse le sue riflessioni seguendo l’indicazione freudiana dei rapporti sotterranei tra Amleto ed Edipo. Da un lato non manca la biografia di Shakespeare. Jones applica il metodo comparativo mettendo in relazione la trama di Amleto con i temi primordiali dei miti e delle leggende.  

Nel secondo dopoguerra i critici mostrano una maggiore libertà d’azione rispetto ai canonici schemi freudiani, ma in definitiva l’impostazione di fondo e i problemi affrontati restano gli stessi.

JEAN PAUL SARTRE  propone una psicoanalisi esistenziale, un’indagine sull’individuo autore che non sia solo rivolta alle cause riposte nel passato, ma si interroghi sulla scelta della posizione nel mondo che il soggetto in questione ha compiuto, nella situazione in cui si è trovato, tra le tecniche e i ruoli, facendo i conti con l’ideologia della sua classe. Sartre ricade nel modello della ricerca biografica: le opere sono funzionalizzate alla ricostruzione della totalità dell’autore.

In Italia GIACOMO DEBENEDETTI (1901-1967)  anche se mantiene l’idea del personaggio come emissario dell’autore, l’attenzione a certe configurazioni di immagini conduce in prossimità della critica tematica.

KATE MILLET (1934-vivente)  critica femminista, devia dall’ortodossia psicoanalitica propendendo non verso l’indagine eziologia ma verso la denuncia radicale dell’ideologia maschile.

BRUNO BETTELHAIM (1903-1989)  rappresenta il terzo ramo della critica ispirata alla psicoanalisi che considera la questione degli effetti manifestato nello studio delle fiabe. Il testo della fiaba è quello più adatto ai bisogni del piccolo lettore per esteriorizzare in modo controllabile i propri conflitti interiori e così lo aiuta a strutturare la personalità. L’ipotesi di Bettelhaim che la rielaborazione immaginaria sia utile a ridurre la dannosità del materiale inconscio e a fare in modo che parte delle sue energie servano a scopi positivi potrebbe applicarsi in generale a tutta la finzione letteraria.

5.4 – Nella rete delle immagini
Già nell’Interpretazione dei sogni Freud aveva notato la presenza di simboli cioè rappresentazioni inconsce.
Questo aspetto verrà approfondito da CARL GUSTAV JUNG (1857-1961)  egli collaborò con Freud per poi staccarsene e fondare quella linea della ricerca che prenderà da lui il nome di junghiana. La deviazione di Jung consiste proprio nella considerazione dell’inconscio collettivo, uno strato dell’inconscio più profondo di quello individuale, un repertorio di immagini ancestrali presenti da sempre nell’uomo. Queste immagini arcaiche e originarie sono denominate da Jung archetipi. Quanto ai problemi letterari,che Jung affronta nel saggio Psicologia e poesia, la creazione artistica è considerata una delle migliori vie di accesso alla realtà psichica soprattutto quando si tratti di creazione visionaria. Nell’ottica junghiana il grande poeta è colui che riesce a superare la coscienza singola per far parlare gli archetipi, secondo l’esigenza psichica della collettività. Da ciò discende un atteggiamento di disponibilità nei confronti dell’opera: lasciamo che l’opera d’arte agisca su di noi come ha agito sul poeta. Per comprenderne il significato, bisogna lasciarsi plasmare da lei come essa ha plasmato il poeta. Riemerge qui il modello platonico: l’effetto non va spiegato, ma ci si deve abbandonare ad esso. La versione della psicoanalisi offerta da Jung ha molto stimolato lo studio dell’immaginario collettivo.

GASTON BACHELARD (1884-1962)   secondo lui il regno della fantasia è diviso in 4 grandi ambiti che corrispondono ai 4 elementi primordiali: fuoco, aria, acqua, terra. Ogni scrittore è portato a propendere nella scelta dei propri temi e delle proprie metafore più verso l’uno o verso l’altro elemento. La ricerca bachelardiana ha affrontato le fantasie sul rapporto tra l’uomo e la dimensione spaziale. Bachelard propone di chiamare topo-analisi tale indagine sulle forme spaziali. Bachelard appare del tutto disposto a farsi assorbire nel potere dell’immagine. A suo modo di vedere non bisogna ricondurre le immagini al passato ma lasciarsi prendere dal loro scaturire e cioè dalla novità che esse mostrano al momento della lettura. Si può capire, allora, il progressivo distacco di Bachelard dalla psicoanalisi. Ma non è solo contro la psicoanalisi che va a parare il discorso bachelardiano. Esso sembra escludere in generale qualunque atteggiamento critico esplicativo. Al critico letterario si sostituisce la figura del lettore appassionato che può cogliere l’espansione immaginativa del testo grazie allo slancio della simpatia e dell’ammirazione.

JEAN-PIERRE RICHARD (1922-vivente)  affronta particolarmente l’universo immaginario di ciascuno scrittore di cui tratta, traendo dall’opera gli elementi base, il modo con cui vengono rese le reazioni, le forme o i colori preferiti dalla fantasia dell’autore. Siamo però fuori della critica psicoanalitica propriamente detta perché questi aspetti vanno a costituire l’insieme esistenziale dell’essere di uno scrittore e non l’inconscio.

Il problema dell’immagine non era sfuggito alla critica psicoanalitica più ortodossa. Il miglior esempio di psicocritica è di CHARLES MAURON (1899-1966)  in polemica con la critica tematica sostiene che non ci si può limitare a inventariare le immagini ricorrenti di uno scrittore, ma bisogna ricondurle ai processi inconsci corrispondenti. Non tutte le immagini usate da un autore abbiano uguale importanza: ve ne sono alcune che tornano con tale insistenza da poter essere definite metafore ossessive. Per scoprire quali siano è necessaria l’analisi del testo. Le parole e le immagini vengono raggruppate secondo le sfumature affettive. Se si sovrappongono altri testi a quello di partenza si scopre che questa rete di associazioni è costante. Le reti da lui individuate sono un’altra cosa rispetto alla tecnica letteraria di cui chi scrive può avere coscienza: sono in comunicazione diretta con la realtà psichica inconscia. Con ulteriori passaggi, dalla rete delle immagini vengono estratte le figure mitiche sulla quale le varie opere ritornano ossessivamente. È raggiunto così il mito personale ovvero il fantasma più frequente in uno scrittore. Certo non prende per buoni i personaggi immediatamente riconoscibili, ma li ricava dall’analisi delle immagini. Tuttavia alla fine i risultati dell’analisi sono rapportati non alle istituzioni letterarie ma alle vicende biografiche dell’autore. 

5.5 – Psicoanalisi e struttura del linguaggio
Con le reti individuate da Mauron, la psicoanalisi si avvicina alle strutture linguistiche. E non poteva mancare interscambio tra l’analisi del profondo e quella del linguaggio.

Il punto di massimo contatto tra psicoanalisi e strutturalismo viene raggiunto in Francia dalla teoria di
JACQUES LACAN (1901-1981)  egli identifica l’inconscio con il linguaggio. Ogni soggetto umano viene a costituirsi con l’accesso al linguaggio. Il linguaggio non ci appartiene, lo troviamo già tutto costituito. Nella teoria di Lacan l’inconscio è visto come linguaggio. Nelle manifestazioni dell’inconscio, quando ciò che diciamo o facciamo appare come qualcosa di estraneo alla nostra coscienza, noi non lo riconosciamo per nostro. Allora viene in evidenza questa voce impersonale, che Lacan definisce il discorso dell’Altro. Il desiderio è visto come una catena di significanti in cerca di significato. Va notato però che l’importanza attribuita al linguaggio non rafforza la certezza dell’analisi, anzi turba la posizione stessa dell’analista. La teoria lacaniana è radicalmente pessimista: il soggetto nel suo accedere al linguaggio, si scinde irreparabilmente e non può mai raggiungere un senso integro e definitivo. L’essere umano è sospinto dal vuoto, dalla mancanza a essere. All’immaginario e al simbolico è associato un terzo termine: il reale. Ma il reale non è la realtà, è qualcosa di irraggiungibile che può solo fare irruzione come perdita di senso. Le ipotesi lacaniane possono essere applicate alle situazioni letterarie. In più hanno suscitato interpretazioni riguardo ai giochi verbali sulle lettere o alle particolari dislocazioni dei significanti nel testo. Ma non solo:  l’idea del significante dominante o del grande Altro ha condotto anche verso la psicoanalisi della politica e la reinterpretazione delle formazioni ideologiche dell’immaginario collettivo.

È soprattutto negli anni ’70 che si è svolto il tentativo di applicare la psicoanalisi ai livelli linguistici dell’opera letteraria. Un ruolo importante è stato tenuto dal Gruppo attorno alla rivista TEL QUEL, ruolo connesso anche alle realizzazioni testuali della scrittura.

JULIA KRISTEVA (1941-vivente)  nelle sue proposte risulta chiaro il punto di distacco dallo strutturalismo. L’individuazione del codice non è più sufficiente ma bisogna riuscire a vedere l’intero processo di costituzione di ciò che ella chiama la significanza. Qui la psicoanalisi è d’aiuto. Si tratta infatti di guardare al di sotto delle strutture per percepire gli spostamenti di energie pulsionali che attraversano la pratica del linguaggio e possono arrivare a deformare e a sconvolgere la superficie dell’espressione rompendo la catena significante e la struttura  della significazione. La Kristeva distingue in un primo tempo tra feno-testo (indica la superficie del livello codificato del linguaggio comunicativo) e geno-testo (indica la profondità delle fasi dinamiche della produzione del testo). Adotterà in un secondo momento un’analoga opposizione tra simbolico e semiotico dove il primo termine ricopre l’area del linguaggio organizzato e il secondo gli aspetti in cui emerge la violenza delle cariche pulsionali. Gli aspetti linguistici che rendono leggibile l’istanza delle pulsioni è il dispositivo fonematica e melodico del linguaggio poetico. Va precisato che la Kristeva allude a fenomeni fonici e ritmici diversi da quelli della retorica e della metrica classica. Ella mette in relazione il livello fonico-pulsionale con quello semantico-cosciente.

In questi esiti degli anni ’70 le scoperte della psicoanalisi sono utilizzate in senso rivoluzionario nella contrapposizione diretta tra le pulsioni e la repressione sociale. Altrettanto il linguaggio poetico viene anteposto al linguaggio comunicativo. Nella situazione culturale francese elementi di psicoanalisi entreranno a far parte anche del bagaglio teorico del poststrutturalismo.

JEAN-FRANCOIS LYOTARD (1924-1998) e GILLES DELEUZE (1925-1995)  reinterpretano l’inconscio in termini di zone di tensioni, di campi di forze, insomma nel quadro di una meccanica delle pulsioni e degli investimenti affettivi connessa alle grandi macchine sociali (le istituzioni, il potere,…). Lyotard di recente ha contribuito alla diffusione della nozione di postmoderno. Deleuze ha trovato nei meccanismi testuali il riscontro dell’inconscio concepito come macchina desiderate. Anch’egli con il rischio di un’estetizzazione del marginale.

5.6 – Il ritorno del represso in letteratura
FRANCESCO ORLANDO (1934-vivente)  con la teoria freudiana della letteratura scarta gli scritti freudiani più famosi. Il miglior ausilio per il critico è trovato nella ricerca sul motto di spirito: la parola arguta, la barzelletta sono viste come esempio di comunicazione letteraria. Mentre il sogno o il lapsus  sono manifestazioni dell’inconscio che sfuggono alla nostra volontà, nella battuta spiritosa l’inconscio si manifesta in una comunicazione linguistica intenzionalmente rivolta a qualcuno, analogamente a quanto  accade per le più reputate produzioni letterarie. Orlando sottolinea che Freud da un lato vede nel ricorso al motto di spirito un modo per aggirare la censura ma dall’altro ritiene che la tecnica della battuta sia inscindibile dai contenuti e comporti essa stessa un profitto di piacere. Queste indicazioni freudiane possono essere estese a tutto il campo della letteratura. Mentre Freud parla di ritorno del rimosso, le pulsioni censurate, Orlando preferisce parlare di ritorno del represso, allargando a comprendere le censure imposte da forze sociali e storiche. Questo attacco alla repressione può avvenire in forme non solo inconsce ma anche di consapevole e progettata rivendicazione. Orlando istituisce tutta una gradazione del ritorno del represso i letteratura. Si va dall’assenza di consapevolezza, in cui il ritorno del represso è inconscio e quindi oscuro all’autore stesso; al ritorno del represso conscio ma non accettato, quando l’autore lotta all’interno del proprio testo contro i contenuti che vi emergono; al ritorno del represso accettato ma non propugnato, che prevede il riconoscimento da parte della coscienza dell’autore fino ai casi di maggiore consapevolezza, che sono quelli della cosiddetta letteratura impegnata: il ritorno del represso propugnato ma non autorizzato e infine il ritorno del represso autorizzato proprio della contesa tra diverse posizioni culturali. Questa suddivisione è per Orlando uno strumento operativo e non una griglia di classificazione delle opere. A differenza della gran parte della critica psicoanalitica, Orlando lega strettamente l’emersione dei contenuti alla considerazione della specifica tecnica della letteratura. La società consente allo scrittore la finzione e il gioco con il linguaggio: è quindi possibile, secondo Orlando, applicare la formula del ritorno del represso alla stessa forma del testo letterario definendolo il ritorno del represso formale. I vari giochi del testo sono riconducibili nel loro insieme agli spostamenti del legame tra significante e significato sotto il termine usato in retorica antica di figura.  Se gli spostamenti e le deviazioni tra significanti e significati sono in eccesso, il testo diventa completamente oscuro. È quello che accade in certe manifestazioni dell’inconscio come il sogno. Orlando ritiene che ogni figura debba essere ricondotta a un principio di organizzazione generale come strumento appropriato a esprimere determinati contenuti. Orlando ritiene che i significanti vadano sempre visti quali portatori di significati. Il livello del contenuto e quello della forma ricevono pari attenzione e risultano collegati fra loro. L’idea freudiana che il piacere prodotto dalla tecnica linguistica renda accettabili certi contenuti non consentiti, viene così rielaborata e sviluppata. In Orlando la letteratura come formazione di compromesso fa i conti soprattutto con i divieti formulati dalla società. La critica, allora, recupera la prospettiva storica che andrebbe altrimenti perduta. La manifestazione linguistica di tipo letterario è, secondo Orlando, l’esito di uno scontro di forze psichiche, che sono leggibili nel testo come significati in contrasto.

CAP.6
6.1 – La lettura come esperienza
La critica, in quanto offre le coordinate per avvicinarsi a un testo e capirlo, ha sempre di mira la lettura.
La lettura sta sempre a valle (come finalità della critica) ma anche a monte: il critico non è altro che un lettore come tutti gli altri, ma in più propone la sua interpretazione ed esperienza. E’un rapporto “a due” nel quale il testo non ha la possibilità di controbattere, per cui il critico-lettore ha tutta la responsabilità di quanto accade.
Il critico è al servizio dell’autore, ma più che altro è un servo-padrone.
I nodi legati alla lettura di un testo sono tuttora dibattiti aperti e lo scetticismo accompagna ogni critica che è dichiaratamente soggettiva. Ma come difendere i diritti di un testo dalla libertà del suo interprete? In cosa il critico si differenzia da un lettore comune? Cosa lo autorizza a rendere pubblica la sua esperienza? Dal punto di vista storico, come si ricostruisce il mutare dell’orizzonte nella ricezione del testo? All’interno del testo poi, com’è l’atteggiamento del lettore? Si impadronisce del testo per intenderlo a suo piacere o si lascia condizionare e quindi percorre il sentiero previsto che è implicito nel testo? Intorno a questi nodi si è svolto dunque il dibattito sulla critica nella seconda metà del Novecento. Gli sviluppi novecenteschi hanno tratto il loro fondamento teorico soprattutto nelle “filosofie della vita”: la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) e l’esistenzialismo di Martin Heidegger (1889-1938).
Da Husserl e dal suo metodo di apertura ai fenomeni e al mondo della vita, la critica di indirizzo fenomenologico ha ripreso l’atteggiamento di continua interrogazione tra il ricercatore e “la cosa”.
Da Heidegger e dalla sua concezione dell’esistenza come “comprensione” dell’essere-nel-mondo è sorto il ritorno all’ermeneutica (è l’arte di intendere e interpretare i testi e i documenti antichi).
L’attenzione sul momento della lettura si è diffusa in varie forme. Secondo il saggista belga GEORGES POULET(1902-1991)   la lettura deve essere l’incontro di due coscienze: se l’essenza dell’opera è la coscienza soggettiva che si manifesta in essa, allora la “coscienza critica” deve prestarsi a ospitare questa coscienza altrui. La lettura consiste per Poulet nel cedere il posto a un altro essere, per poterlo comprendere intuitivamente.
Diversa angolatura per l’italiano LUCIANO ANCESCHI (1911-1996)  la sua critica e la sua ricerca, di ispirazione fenomenologia, puntano a riconoscere le particolarità dei fenomeni, ma anche a individuare le linee portanti di una data situazione (le “direzioni vettoriali” o le “istituzioni”).

6.2 – Il caso Blanchot
Nel clima letterario prodotto dall’esistenzialismo un posto a parte merita il critico francese MAURICE BLANCHOT (1907-2003)  considera la letteratura “assurda” e “paradossale”. Lo “spazio letterario”, appunto per essere tale, dovrebbe portare chi gli si avvicina all’esperienza limite della perdita di se stesso. Flaubert, Mallarmè, Kafka, Rilke, Proust vengono letti in questa chiave come coloro che aprono l’accesso a un’ “alterità negativa” (uso di termini quali “morte”, “notte”, “abisso”, “oscuro”). Partendo dalla constatazione che per scrivere bisogna essere soli, Blanchot sviluppa all’estremo il rapporto della parola letteraria con la solitudine e col silenzio. Ma la solitudine e il silenzio sono in contrasto, appunto, con la parola. Perciò, si interroga Blanchot, “come è possibile la letteratura?”. La letteratura poggia dunque su una paradossale ambiguità che va intesa come compresenza di significato e assenza di significato. L’opera rappresenta dunque un conflitto interno fra il vuoto dell’angoscia e il tentativo di comunicare. Ma, mentre l’autore, spinto dal vuoto, non può che continuare a scrivere, l’opera, una volta compiuta si distacca dal suo autore per finire nelle mani del lettore, che libera definitivamente l’opera dal suo autore. L’ingresso nello “spazio letterario” comporta per il lettore il rischio della perdita delle proprie certezze, l’opera è dunque il luogo della perdita delle sicurezze del suo lettore. Il lettore è chiamato a “partecipare” all’opera ma l’opera, in quanto manifestazione del vuoto, lo tiene a distanza. La lettura si gioca quindi tra fascinazione ed estraneità. Il giusto modo di leggere deve accettare questo gioco: sarà più vicino all’opera colui che “mantiene integra” la distanza e “la riconosce opera senza di lui”. Questo è, per Blanchot, il metodo della “discrezione”. L’opera è quindi, secondo lui, inattaccabile dalle interpretazioni: la critica è un tramite non solo inutile, ma anche dannoso quando si frappone fra l’opera  e il lettore dettandogli le norme dell’approccio al testo. Il giudizio del critico sarebbe anche colpevole di coprire il vuoto costitutivo della letteratura, di spostarne lo spazio paragonando l’opera a qualcosa d’altro, fosse la morale o le regole di estetica, violando quell’”ambiguità essenziale”. Per assurdo l’opera “più è apprezzata, più è in pericolo”. Se invece messa da parte e dimenticata l’opera può preservarsi intatta da strumentalizzazioni. Ma è naturalmente un paradosso perché Blanchot è un critico e lavora per promuovere i suoi autori prediletti, quindi non può non ammettere che esiste un compito positivo della critica, a patto che questa lasci alla profondità dell’opera la possibilità di manifestarsi.

6.3 – Il dibattito sull’ermeneutica
Ripresa nell’Ottocento, è soprattutto nel Novecento che l’ermeneutica (l’arte di intendere e interpretare testi e documenti antichi), con la filosofia esistenzialista di HEIDEGGER, assurge a modello generale.
Heidegger vede un aspetto ermeneutico (interpretativo) nella situazione dell’uomo “gettato” nel mondo: l’agire in una determinata situazione necessita prima di una “comprensione” della situazione stessa; questa comprensione globale viene prima di ogni analisi dei particolari. Il “circolo ermeneutico” (da una visione del tutto si procede verso l’individuazione dei particolari per poi tornare al tutto) è caratteristico di ogni esperienza umana.
Su questa linea tracciata da Heidegger si è mosso un altro pensatore tedesco, HANS GADAMER (1990-2002). Per Gadamer, la comprensione di qualsiasi messaggio parte da un “pregiudizio”: noi ci accostiamo a un testo avendo già idea di quello che troveremo. Per Gadamer il pregiudizio non nasce da un’esperienza soggettiva ma dipende da un sostrato culturale comune a tutti. L’interprete (un esperto) ha il compito di mediare il rapporto tra l’opera del passato e i lettori di oggi. Il lavoro dell’esperto illustra ciò che il testo voleva dire tanto quanto un attore o un musicista “attualizzano” un testo teatrale o uno spartito. Per Gadamer il dovere del critico è dunque quello di consentire alla parola di superare il divario storico e di parlare ancora. Ma la ricostruzione storica (il senso “originario” rispetto ai lettori del suo tempo) è semplicemente impossibile; il critico deve però permettere un adattamento all’orizzonte attuale e contemporaneo, una “fusione d’orizzonti” che vede l’interpretazione come un “dialogo” fra passato e presente. In “Verità e metodo” (1960), la sua opera più importante, se l’interpretazione deve assomigliare all’apertura di un dialogo con il testo, le regole prefissate di un qualsiasi metodo applicato sarebbero disturbanti. L’interpretazione deve assolvere il suo compito di interpretazione nel modo meno appariscente possibile: “paradossalmente un’interpretazione è giusta proprio quando è capace di scomparire”. Per Gadamer il giudizio estetico (l’opera è bella o brutta) è secondario, infatti la coscienza estetica viene chiamata a intervenire solo in un secondo momento.
Il grande successo delle sue tesi, soprattutto negli anni ottanta, si spiega proprio come reazione all’egemonia delle tesi degli anni sessanta/settanta (marxismo e strutturalismo).
Dunque l’ermeneutica, con la sua intima unità di comprendere e interpretare, riduce il peso della critica e ne limita di molto gli strumenti. Ma non è mancato anche un animato dibattito che si è snodato su 3 punti:

  • Un primo problema è quello dell’attualizzazione del testo. Se l’ermeneutica è “l’arte di far parlare di nuovo qualche cosa”, essa adatta e traduce il senso alla situazione attuale dell’interprete. Noi uomini del presente cerchiamo di entrare in dialogo con ciò che è stato scritto nel passato intendendolo non nel suo senso originario ma, mediato dalla tradizione, come se si stesse rivolgendo a noi in questo momento. Questo sradicamento delle intenzioni dell’autore ha suscitato le obiezioni di ERIC HIRSCH (1928-vivente).  Contro la continua variabilità dell’interpretazione, Hirsch pone l’esigenza di riconoscere ogni volta, quale interpretazione sia più valida; l’unico criterio è, a suo parere, il ricorso al significato “originario” che l’autore ha inteso trasmettere nella situazione “originaria”. Gadamer sostiene invece che ormai che questo significato è andato definitivamente perduto; dal canto suo, Hirsch non dice che questo sia possibile ma deve essere almeno l’obiettivo al quale approssimarsi. Hirsch porta poi ad esempio negativo l’interpretazione dell’Amleto da parte di Freud. Freud legge l’Amleto in base al “complesso di Edipo” attribuendo al protagonista un desiderio inconscio nei confronti della madre; ma questo è sicuramente un tipo di significato estraneo alla cultura di Shakespeare e perciò l’interpretazione freudiana deve essere rifiutata. Dunque per Hirsch la sola comprensione non esaurisce l’interpretazione.
  • Sul nodo problematico del rapporto tra comprensione e spiegazione è intervenuto anche il francese PAUL RICOEUR (1913-vivente)  ha tentato di accostare ermeneutica e strutturalismo. Sostiene che la spiegazione del testo non può essere considerato un momento secondario e una semplice esposizione di quanto si è compreso. Il punto di partenza di questo recupero delle procedure esplicative sta nella concezione del simbolo. Il simbolo, in quanto contiene molti sensi nascosti, fa appello all’interpretazione, ma il dischiudersi dell’inesauribile ricchezza di senso propria del simbolo dovrà passare, secondo Ricoeur, attraverso l’identificazione delle forme codificate rispetto alle quali il simbolo stesso esorbita. In questa prospettiva, l’analisi strutturalista non è più una concorrente dell’ermeneutica, ma dovrebbe diventare un’utile tappa nel cammino verso il senso. Tuttavia è l’ermeneutica a prevalere: per Ricoeur come per Gadamer, il linguaggio non è un “oggetto” ma una “mediazione”, il che vuol dire che coglieremo il senso solo dalla visuale “chiusa” dei codici, a quella “aperta” del concreto atto di linguaggio.
  • JURGEN HABERMAS (1929-vivente, Scuola di Francoforte)  intrecciando un confronto con le posizioni ermeneutiche di Gadamer, dissente da esse sull’accettabilità della tradizione: i valori della tradizione non devono essere presi per buoni solo perché hanno avuto la forza di giungere fino a noi. Habermas non dà per scontata la validità dell’autorità sancita dalla tradizione. Il contenzioso riguarda anche la questione del “pregiudizio” che, secondo l’ermeneutica, non può essere eliminato (Gadamer propende per i pregiudizi che ci uniscono perché “del senso comune”). Per Habermas i pregiudizi legittimati dalla tradizione disconoscono la forza della riflessione. Per Habermas la lettura deve essere quindi riflessiva.

Il dibattito non è chiuso: Gadamer ha risposto alle obiezioni di Habermas affermando che il riconoscimento dell’autorità non è necessariamente qualcosa di costrittivo e opprimente. Questa discussione, tuttora aperta, è una delle più interessanti e ha fatto nascere decisive questioni di fondo: accettare la tradizione in blocco anche nelle gerarchie, o tradizioni non conformiste e alternative penalizzate dalla storia dei “vincitori”?

6.4 – Dal poststrutturalismo alla decostruzione
Le nuove strategie di lettura si sono sviluppate in seguito alla crisi dello strutturalismo: la pretesa scientifica di considerare il testo come un oggetto da analizzare ha sviluppato, per reazione, la sfiducia nella possibilità di segnare con certezza i suoi limiti.
Il poststrutturalismo vede nell’idea di un testo “chiuso” e nell’attribuzione di un senso un atteggiamento riprovevole: la prevaricazione della ragione tende  a escludere tutto ciò che cade fuori dai codici razionalizzabili. Il discorso qui eccede dalla critica letteraria. I due massimi esponenti del poststrutturalismo sono infatti un epistemologo, MICHEL FOUCAULT (1926-1984) e un filosofo, JACQUES DERRIDA (1930-2004). Tuttavia per la formulazione delle loro teorie ricorrono alla letteratura intesa come linguaggio non strettamente razionale.
Gli “eventi discorsivi”, secondo Foucault, non vanno ricondotti alle astratte regole da cui discendono in quanto esecuzione di un codice immutabile; agli enunciati va restituita la loro singolarità. Gli enunciati devono essere utilizzati come documenti, reperti archeologici, da cui individuare le pratiche sociali e culturali di una storia.
Dal canto suo Derrida ritiene che lo strutturalismo abbia guardato soltanto la “forma” e non la “forza” presente sotto le strutture. Se la profondità è irraggiungibile bisogna attenersi alle sconnessioni, alle crepe, alle incongruenze. Il punto d’appoggio è l’equivocità del linguaggio: tutto può essere interpretato in modi diverso e persino al contrario. Il senso di un testo non potrà mai essere definito quindi una volta per tutte. Il testo è “aperto”, anche altri testi possono innestarsi in esso.
Il testo viene “decostruito”, ossia viene smembrato, per mostrarne l’intima disfunzione, mettendo alcune parti contro altre e sviluppando le conseguenze di questa “doppiezza”. La brillante intelligenza di Derrida sfocia spesso nel gioco di parole. Particolare attenzione è stata dedicata ai percorsi di “mislettura”, cioè i fraintendimenti a cui il testo va inevitabilmente incontro durante la sua fruizione. Il “derradaismo” arriva fino oltreoceano diffondendo una tendenza “decostruzionista”.
PAUL DE MAN (1919-1983)  belga trasferitosi negli USA, giunge perfino a formulare la “teoria del fraintendimento”. Muovendo dalla considerazione del doppio livello del senso, letterale e figurato, de Man vede questo “doppio senso” non come arricchimento dei significati ma come un conflitto, una reciproca negazione; i livelli del testo non collaborano fra di loro ma si smentiscono reciprocamente ed è “impossibile determinare quale dei due prevalga sull’altro poiché non esiste l’uno senza l’altro”. Questo scetticismo di fondo conduce dubitare che l’interpretazione possa mai chiudersi sul raggiungimento di una verità. Ciò non comporta, tuttavia, l’abbandono dell’attività critica e neppure l’assoluta libertà dell’interprete nei confronti del testo.

6.5 – Il relativismo delle interpretazioni
Anche il critico più convinto della qualità delle proprie ipotesi sa bene che in futuro nuove prospettive metteranno in luce aspetti del testo che oggi non si è in grado di percepire. Un criterio di validità assoluto e permanente non esiste.
Nel dibattito in corso negli Stati Uniti, la teoria per cui ogni lettura è una “mislettura” sembra annullare la differenza fra i fraintendimenti (che comunque si appoggiano al testo) e le invenzioni di pura fantasia. Se alcuni critici pongono quindi come fondamento che l’interprete è obbligato a non falsificare, altri assumono posizioni opposte. STANLEY FISH (1938-vivente)  ritiene che tutto sia “relativo” al punto di vista dell’osservatore. E’ il lettore che, sulla base dei propri modelli acquisiti, scorge in una serie di segni il testo letterario. Fish nel suo relativismo preferisce sostituire al verbo “leggere” il verbo “scrivere”: è il lettore che scrive il testo. “C’è un testo in questa classe?” è il titolo del suo libro più noto e “no”, risponde Fish, “un solo testo non esiste perché  ogni lettore mette in atto modelli interpretativi differenti”. Non si possono quindi redimere controversie sulle interpretazioni in quanto anche le caratteristiche “oggettive” in realtà sono già effetti della particolare angolatura adottata.
La posizione di Fish può essere assegnata al pragmatismo: il significato (o la verità) di un testo esiste solo all’interno della situazione che si viene a creare nella lettura. A differenza del decostruzionismo, che vede nella lettura un messaggio costitutivamente ambiguo, Fish sostiene che il significato è sempre unico, ma è esattamente quel significato che il metodo da noi scelto ci consente di ottenere. Secondo Fish è impossibile redimere le controversie delle interpretazioni anche ricorrendo alla “lettera” del testo: non esiste un significato “letterale”.
Ma allora il numero di interpretazioni è infinito? No, risponde Fish poiché nessuno inventa il proprio metodo interpretativo. Ognuno sceglie e si orienta fra i metodi già inventati da altri, aderendo a una “comunità interpretativa”. Niente però ci garantisce che le interpretazioni che apparirebbero oggi assurde possano domani risultare plausibili: basta che riescano a persuadere e ad avere successo per creare una nuova “comunità interpretativa”.

6.6 – La teoria della ricezione e il lettore nel testo
La scelta metodologica nota come “Teoria della ricezione”, sorta in Germania presso l’università di Costanza (da cui il nome Scuola di Costanza), mette a fuoco il momento della lettura non per “relativizzare” l’interpretazione,  ma per vederne la base nell’attività dei soggetti che leggono. La Scuola di Costanza trova i suoi principali esponenti in HANS JAUSS (1921-1997) e WOLFANG ISER (1926-vivente).
JAUSS   rintracciava la crisi della storia letteraria nella mancata considerazione della prospettiva dei lettori e notava come gi stessi metodi della critica marxista e formalista tardassero a rendersi conto dell’importanza della “ricezione” e dell’ “efficacia” dell’opera. Guardando unicamente alla ricezione ci si limiterebbe alla registrazione della fortuna di un opera o di un autore, secondo i gusti del pubblico. L’efficacia invece vuole evidenziare l’impatto dell’opera sul pubblico anche a dispetto dei gusti vigenti. Per calcolare l’efficacia Jauss inserisce la nozione di “orizzonte d’attesa”. Il rapporto fra opera è lettore è infatti condizionato da ciò che il lettore si aspetta, sulla base delle opere del passato e dei generi letterari. E’ dunque possibile che tra “ricezione” ed “efficacia” ci sia disparità o, che proprio il valore innovativo di un’opera condizioni negativamente la sua accoglienza. Contraddicendo la concezione di Gadamer per cui classica è quell’opera che da sempre è in grado di rendersi comprensibile al lettore, Jauss fa notare che spesso quelli che oggi appaiono come classici indiscutibili hanno avuto difficoltà ad affermarsi, a causa della delusione delle attese dei contemporanei.
Jauss finisce per modificare nel tempo le proprie concezioni, lasciando più spazio all’estetica, cioè alla “godibilità” dell’opera. In polemica con Adorno, l’ “esperienza estetica” viene rilanciata in quanto liberazione dell’uomo dai propri vincoli quotidiani. Recentemente si è rifatto all’ermeneutica, articolando la lettura de testo in tre stadi: il primo livello, di “comprensione estetica”, costituirebbe la percezione del testo; il secondo livello prevede la riflessione in cui si torna all’intero componimento per un’interpretazione globale; il terzo livello corrisponde allo studio della ricezione sopra illustrato. Attraverso questa articolazione in livelli, Jauss ha conferito spessore alla sua teoria.
L’altra importante direzione della Scuola di Costanza è stata seguita da ISER. Più che “ricezione”, Iser preferisce parlare di “risposta”: il testo fornisce gli stimoli a cui il lettore è chiamato a rispondere. Il fatto letterario possiede due polarità: quello “artistico” e quello “estetico”. L’opera occupa lo spazio intermedio e il significato deriva dall’interazione fra testo e lettore. Il testo presenta margini di “indeterminatezza” che vengono colmati dal lettore, il quale partecipa alla formazione del senso portando le proprie esperienze. L’opera suscita nella fantasia del lettore immagini mentali che integrano il testo. Nessuna descrizione è mai talmente dettagliata da non consentire l’intervento della nostra immaginazione.
Iser considera importanti anche le strategie che il testo dispiega lungo l’asse temporale. Ogni frase, a causa della sua indeterminatezza, genera delle aspettative. Una completa saturazione delle aspettative è poco probabile e soprattutto farebbe cadere l’interesse del lettore. Perché ci sia “coinvolgimento”, secondo Iser, è necessario che le nostre aspettative non ottengano piena soddisfazione. I critici, di fatto, “non fanno altro che cercare di tradurre il loro coinvolgimento in un linguaggio referenziale”.
Anche l’italiano Umberto Eco (1932-vivente) ha analizzato la “cooperazione” del lettore. Secondo Eco il lettore è nel testo, nel senso che il testo prevede già in partenza il suo ruolo e il suo apporto partecipativo. Elaborata in contemporanea con quella di Iser, la teoria di Eco sembra lasciare minori spazi alla fantasia del lettore: mentre Iser parla di “lettore implicito”, Eco crea il ruolo del “lettore modello”, quel lettore previsto dal testo per la realizzazione dei suoi effetti. Delle competenze del “lettore modello” si suppone faccia parte anche un bagaglio di “sceneggiature”, ossia quelle sequenze canoniche che possiamo prevedere come sviluppi probabili di determinate situazioni (Es: se in una comica compare una torta per noi è presumibile che verrà tirata in faccia a uno dei personaggi).
Secondo Eco, l’interpretazione di un testo consiste proprio nel mettersi nei panni del “lettore modello”, nell’accettare di giocare il gioco predisposto dal testo.

CAP.7
7.1 – Bachtin e la letteratura pluridiscorsiva
Tra i critici al confine delle grandi correnti del Novecento, una delle figure principali è MICHAIL BACHTIN(1895-1795)  la sua posizione non allineata né al formalismo, né alla critica marxista dominante nella cultura sovietica gli costò una dura emarginazione.
Il punto di partenza di Bachtin è la concezione del linguaggio come “dialogo”. Qualsiasi parola, secondo Bachtin, è dialogica: più che esprimere l’interiorità del parlante, è diretta a raggiungere l’interlocutore e viene quindi impostata per questo scopo. Perciò l’analisi di un testo basata solo su elementi linguistici è considerata da Bachtin come un esame parziale. Bisogna capire rispetto a quali discorsi (letterari e non) il testo intende intervenire ed assumere posizione. Bachtin preferisce parlare di “senso” piuttosto che di “significato”. Qui sta la sua distanza dal formalismo, che ritaglia procedimenti verbali staccati dal senso complessivo e non riflette fino in fondo il loro coordinamento interno all’opera, né la relazione con le lingue “sociali”. Il linguaggio invece deve essere collegato con la società e con la storia (sotto questo aspetto Bachtin si avvicina molto al materialismo storico). Ancora contro il formalismo, la sua opinione è che nessun testo sia mai autonomo e autosufficiente: non solo ogni parola è già stata detta da altri, ma ogni “enunciazione” interviene in discorsi che pre-esistono. Da ciò si deduce che il testo deve essere considerato come l’anello di un a catena e dunque va collocato nell’avvicendarsi della tradizione, variegata e composita. La tradizione non è costituita soltanto da testi: Bachtin sottolinea l’importanza dei “generi”, cioè delle “forme tipiche” che si vengono accumulando nel tempo. Nella sua ottica i “generi” costituiscono una ricca molteplicità di vie possibili . Non parla solo di “generi letterari”, ma di “generi di discorso”: i generi della “grande letteratura” coesistono con la lingua “colloquiale”, “burocratica”, “oratoria”, “giornalistica”, ecc. I confini tra i generi devono consentire scambi e interferenze. Non sono codici fissi ma principi organizzativi elastici e plasmabili. Nei “generi” circolano anche altre caratterizzazioni che determinano l’appartenenza dei parlanti dei parlanti ai ceti professionali e sociali. Nella prospettiva di Bachtin la “pluridiscorsività della lingua” è un valore: il testo può chiudersi nel “monolinguismo” di u unico stile o aprirsi al “plurilinguismo”, alla concretezza della “parola viva”. Questa seconda ipotesi è appannaggio del romanzo, per lui l’unico genere ancora “giovane  e in divenire”. Poiché il romanzo contiene in sé tutte le “voci” (del narratore e di tutti i personaggi diversi), contiene anche tutti i “generi”  di discorso orale (conversazione, oratoria,…) o di scrittura (documenti, lettere, memorie,…). Per Bachtin “il romanzo è l’unione degli stili; la lingua del romanzo è il sistema delle lingue”. Questa sua idea del romanzo trova la massima concretizzazione nel suo studio su Dostoevskij, visto come il culmine del romanzo “polifonico”; egli ha saputo dare la parola, attraverso i suoi personaggi, a una grande quantità di linguaggi e di punti di vista facendoli interagire fra loro.
Nei suoi studi ha posto particolare attenzione nel ricostruire la cultura popolare espressa nel carnevale e nelle manifestazioni folkloristiche, analizzando il “sentimento carnevalesco del mondo” che si sviluppa parallelamente e contro la cultura “ufficiale”. I caratteri della tradizione carnevalesca (ribaltamento comico dei rapporti gerarchico-sociali, la mescolanza e il contatto familiare, il superamento dei contrari) penetrano nella letteratura “dal basso” attraverso i generi minori quali la satira, il comico, il grottesco. Il vero epicentro del “riso generale” è però l’autore francese rinascimentale Rabelais, l’altro autore a cui Bachtin ha dedicato una copiosa ricerca.

7.2 – L’approccio “mitico” di Frye
Lo studio del canadese FRYE (1912-1991) è volto ad attenuare le divisioni metodologiche: il critico non deve restare confinato in un unico metodo. Frye si rivolge all’indietro, alle radici del fenomeno letterario; non si interroga sugli effetti (sulla riuscita) ma piuttosto sulle cause. Frye ricerca la “causa formale”, ossia quelle forme elementari che le opere, di epoca in epoca, continuano a utilizzare e a riadattare. Frye denomina queste forme elementari “archetipi”, derivato dalla psicanalisi di Jung. Questo tipo di critica assume il nome di “critica archetipica”. L’archetipo per Frye è un’immagine tipica o ricorrente che si può riscontrare in diverse opere e che può servire a collegarle fra di loro. Gli archetipi si collegano non solo alle immagini ma anche alle azioni che si ripetono sempre uguali. Il mito per Frye disegna l’archetipo a livello dell’organizzazione del testo. Anche la produzione moderna è legata al mito (Moby Dick di Melville), una storia moderna di caccia alla balena che può essere fatta confluire nella nostra esperienza immaginativa di mostri e draghi. Solo il contenuto delle opere muta, ma la forma (il modello mitico) rimane identica.
La convergenza di Frye con la tendenza metodologica del formalismo e dello strutturalismo non si ritrova solo nella concezione della solidità delle forme ma anche nell’atteggiamento da assumere davanti al testo: anche Frye rifiuta i attenersi alle immediate reazioni del gusto e crede, invece, nella “presa di distanza”. Come per un quadro, anche nella poesia è necessario fare un passo indietro per vedere le forme archetipiche che dischiude. Per dare ordine alla molteplicità delle forme Frye ricorre alle “radici rituali” della letteratura. Come religione e folklore sono caratterizzati da dalle scadenze cicliche delle stagioni, così Frye suddivide i miti in una quadripartizione che corrisponde al ciclo stagionale. Nell’ambito letterario: la rinascita primaverile della natura è la commedia; al rigoglio e alla maturazione dell’estate corrisponde il romance (il romanzo d’avventura); l’autunno coincide con la tragedia; il rigore dell’inverno trova il corrispettivo nelle “forme negative” della satira e dell’ironia, dove il riso demolisce e segna la definitiva scomparsa dell’eroico.
Qui si delineano le differenze fra della teoria dei generi di Frye e quella di Bachtin.
Mentre Bachtin sottolinea la storicità delle forme e la rivalità delle linee fino al rovesciamento della superiorità gerarchica di un genere sull’altro, Frye adotta un modello ciclico in cui la vita dei generi è sostanzialmente extrastorica. Per ciascun genere è prevista un’evoluzione interna, ma secondo un arco “naturale” di crescita destinata alla crisi e al tramonto.
Il modello della teorizzazione di Frye rimane la Poetica di Aristotele, sia pur attualizzata mediante la psicanalisi junghiana. Frye afferma che “l’attenzione della lettura si muove contemporaneamente in due direzioni”: l’una “centrifuga” che va verso le cose esterne, l’altra “centripeta” da cui cerchiamo di sviluppare alle parole il senso. Dalla prima direzione emergono le descrizioni e le informazioni, dalle seconda direzione le parole assumono significato per i rapporti che intrattengono nel contesto.
In merito al problema dell’interpretazione, Frye ritiene che debba seguire un cammino progressivo, passando dal significato “letterale”, all’imagery (il complesso delle immagini di un testo) e da questa all’ “archetipo” presente nella tradizione letteraria per giungere interrogarsi sul “centro ordinatore” degli elementi archetipici. Secondo Frye, la grande letteratura è quella che ripropone di riassumere in sé le diverse facce del mito. Per Frye sono quindi scritture “totalizzanti” la Divina Commedia di Dante o il Paradiso perduto di Milton o la Bibbia, il “mito centrale della cultura occidentale”.

7.3 – La “relazione critica” in Starobinski
Come per Frye, anche STAROBINSKI (1920-vivente)  incentra il discorso su una unità immaginativa (“tema” o “simbolo”) che permette di costeggiare linguistica e psicanalisi. Secondo Starobinski “non basta inventare” i temi che rientrano nell’immaginario di un autore, bisogna interrogarsi su quale “tema” abbia più rilevanza. Questa ricerca del tema più insistente accomuna Starobinski alla critica psicanalitica. Il critico è convinto che soltanto dall’esame dell’opera, e non e non solo dalle esperienze passate dell’autore, possa dispiegarsi “sotto lo sguardo dell’osservatore perspicace” una grande “ricchezza di significati”.
Uno dei temi su cui il critico si è particolarmente impegnato è quello del clown, non un tema singolo ma piuttosto una costellazione tematica: dal saltimbanco alla ballerina, dagli acrobati agli altri personaggi del circo. Da quanto è emerso dai suoi studi il clown non è un semplice argomento da trattare, gli autori vi si identificherebbero al punto da scorgervi il proprio ritratto  e di vedervi rispecchiata la propria condizione in un’epoca in cui la società conferisce loro sempre meno prestigio. Il suo studio perviene alla scoperta di un archetipo più antico: il clown tragico, quello deriso e umiliato, il “doppio emblematico del Cristo”, la “vittima innocente”.
Il clown è assolutizzato da Starobinski come portatore di assurdità pura e della totale assenza di significato che, potendo essere riempita in qualunque modo,  costituisce un modello di completa libertà (o anarchia).
Sul dilemma fra “oggettivismo” e “soggettivismo” Starobinski argomenta che c’è sempre una “interdipendenza tra l’interpretazione dell’oggetto e l’interpretazione di sé”, per cui il critico, parlando di un libro, parla anche inevitabilmente della propria posizione. Perfino colui che assumesse la massima imparzialità “oggettiva” interverrebbe pur sempre in maniera “soggettiva”.

CAP.8
8.1 – La difesa del canone e del valore dei classici
Il critico è un superlettore un uberleser, sostanzialmente diverso da un qualunque lettore per il piccolo particolare di essere provvisto di una sensibilità senza pari che gli consente di entrare nell’autore, di rivivere la sua esistenza e per tal via far partecipare gli altri al mistero glorioso della creazione. Anche grazie a una speciale capacità espositiva: non c’è Grande Critico che non sia anche Grande Scrittore. Poiché uno dei problemi del mondo dominato dal consumo è il suo eterno presente e quindi la perdita della memoria storica, lo studio della letteratura tende al recupero del passato. Paradossalmente, mentre i laudatori dell’attualità, nel cosiddetto postmodernismo, dichiarano l’impossibilità del nuovo e la fine della storia, l’idea del progresso sembra inevitabilmente costretta ad atteggiamenti conservatrici, di difesa e tutela, addirittura di pietas. Ora, il salvataggio dei classici consiste nel dare loro ancora la parola. Si apre qui la direzione di una critica come dialogo che vuole recepire quanto il testo ha ancora da dirci. Il discorso critico deve rispettare il testo, il testo che il tempo ha impregnato di significato, è circondato da un’aura sacrale. Tanto che non lo si chiamerà più testo ma opera. Parlare di opera vuol dire connotarla da subito con un valore d’alto livello.

GEORGE STEINER ( 1929-vivente)  insiste a configurare il rapporto con il testo nei modi della confidenza e dell’accoglienza, come se si trattasse di un interlocutore che viene da lontano cui rispondere con cortesia e tatto. L’umanesimo di Steiner è tinto di istanze religiose. La scrittura è vista come un atto di creazione che fa sorgere dal nulla un mondo. E in questo rivaleggia con il divino. Il critico deve ritenersi sempre inferiore nei confronti della creatività artistica e scontare un ruolo gregario come di chi vive attraverso esperienze altrui, di seconda mano. Eppure il suo intervento è necessario e finisce per ottenere un posto modesto ma vitale. Di fato secondo Steiner l’opera è di grado superiore alle sue interpretazioni. Però nel momento in cui il grande patrimonio letterario rischia di sprofondare nel silenzio il compito del critico sebbene di rango inferiore diventa molto importante.

Nel periodo recente la rivendicazione della rilevanza della letteratura si è andata appuntando soprattutto sulla questione del canone. Canone è una parola che proviene dalla terminologia religiosa. Cos’è un canone letterario? È l’insieme dei libri che sono reputati fondamentali. Stabilire il canone è una scelta difficile a volte dolorosa. Un individuo solo è poco per fare un canone.

HAROLD BLOOM  ha suscitato scalpore quando ha preteso di fissare nientemeno che il Canone occidentale, riunendo nel suo volume del 1994 gli autori imprescindibili della nostra tradizione. Gesto di presunzione, gesto drastico e senza mezze misure, che restringe l’olimpo dei classici a 26 unità, attorno ai giganti Shakespeare e Dante. Perciò in Bloom, sebbene la letteratura si disponga per grandi ere, la storia non è quella collettiva bensì consiste essenzialmente nel legame autonomo che i capolavori intrecciano tra loro, collegandosi da cima a cima. Questa prospettiva è in aperta polemica contro la diffusione nelle università americane dei seguaci delle poetiche politiche (femminismo, postcolonialismo o neomarxismo), da lui denominate la scuola critica del risentimento. Li definisce dei lemmings accademici che stanno conducendo allegramente alla distruzione del piacere della lettura e al livellamento delle discipline letterarie. Attribuire al critico responsabilità politiche  è come pretenderle da un giocatore di baseball. Riserva una particolare avversione a Gramsci ritenuto colpevole per aver stretto i legami tra testo e gruppo sociale. Ironizza sul marxismo. Il trattamento della grande opera, secondo Bloom, non può consistere in altro che nel criterio dell’eccellenza estetica. Abbiamo allora una critica piuttosto tradizionale che pone in primo piano il giudizio. Una critica che vuole misurare i punti alti, i vertici. Sul piano critico, la concentrazione sui valori massimi conduce verso la venerazione, il culto: pieno di riferimenti religiosi nell’organizzazione stessa dei suoi libri, Bloom perviene a una religione della letteratura dove i grandi autori vanno a costituire una Bibbia laica. A guardar bene, il protagonista non è nemmeno più l’opera, ma l’autore, la grande personalità, il Genio, cui Bloom dedica il suo più recente volume. La ripresa dell’autore, penalizzato nelle metodologie del ‘900, porterebbe verso la critica biografica. Il critico non cerca di capire quanto della vita dell’autore si sia travasato in quello che egli ha scritto, bensì viceversa quanto l’opera abbia influito sul suo autore. L’arte è così importante da prevalere sulla vita: i personaggi hanno più vita degli esseri viventi. Il suo atteggiamento è assai comune nel campo degli studi letterari, anzi, è la naturale reazione di chi difende il proprio campo di attività. Vediamo svilupparsi l’elogio della letteratura come testimonianza che corrobora la coscienza civile, rinsalda la memoria storica e apre al senso di tolleranza. Un nutrimento culturale.

8.2 – Critiche femministe
La polemica del femminismo non risparmia il campo letterario: indiziato è proprio il canone, l’elenco degli autori più validi, che è costruito sul pregiudizio. Il primo compito della critica femminista sarà allora quello di reclamare pari dignità per le scrittrici. Per quanto non sino mancati gli attacchi al fallocentrismo e le immagini combattive verso l’idolo, negli studi di genere è prevalsa nettamente la volta alla riscoperta e alla riproposta delle scrittrici ingiustamente sottovalutate dalla critica ufficiale. Si determina una sorta di circuito chiuso nel privilegiare il discorso di una donna su un’altra donna, rivolto alle donne. Secondo il femminismo più oltranzista il maschio femminista è quello più sospetto. La richiesta d inserimento nel canone delle scrittrici, si fonda sull’argomento che esse ne sono state tenute fuori in quanto donne; l’argomento perciò è più forte quanto più si dimostra che non c’erano altri motivi di esclusione e che i loro testi erano altrettanto validi di quelli maschili. Per paradosso, il risalto polemico è maggiore se si mantengono gli stessi criteri di giudizio canonici e si dà scarso peso all’analisi del testo. D’altra parte, tutte le caratteristiche che possono essere attribuite alla scrittura al femminile rischiano di assomigliare a poetiche già presenti nella tradizione. Il ricorso alla figura dell’autrice, insito nel filone principale del femminismo, produce una stretta equazione tra autrice-narratrice-protagonista, che conduce una volta di più nei paraggi della critica biografica. Il femminismo è tutt’altro che monolitico. Come sul piano delle scelte letterarie si può passare dal racconto minimalista del quotidiano e delle piccole percezioni alle punte del canto e della poesia, dall’autobiografismo alla riscrittura, oppure dal piacere della lettura alle complicazioni dello sperimentalismo, altrettanto nella critica varia l’atteggiamento. Uno dei punti che dominano il dibattito femminista è il pericolo dell’essenzialismo cioè l’attribuzione alla dona di una essenza naturale ben definita e data una volta per tutte. Cosa significa affermare l’essere donna? Il soggetto femminile è diviso, spaccato, ma per ciò stesso più capace di disinvestimento e quindi di autocritica. La Kristeva rilegge il fondamento freudiano del complesso di Edipo, facendo notare che,<mentre il maschio rimane attaccato alla figura materna, il desiderio della bambina passa dalla madre al padre. Questa esplosione dell’identità porta da un lato a letture decostruttive che esplorano le pieghe del testo e il gioco di dentro-fuori del soggetto femminile rispetto ai codici vigenti. Porta anche, su un altro versante, per la china dell’antirazionalismo a un avvicinamento della critica alla scrittura d’invenzione.

HELENE CIXOUS (1937-vivente)  il suo saggio principale Il riso della medusa esalta le qualità sovversive della scrittura al femminile come una forza dirompente. Apparentandosi al misticismo la Cixous mette in atto un linguaggio immaginoso e un tono esortativo che risulta trascinante. L’esaltazione della poesia e dei poeti si riflette in un comportamento di consonanza verso il testo. Anzi nel femminismo si direbbe di sorellanza. La Cixous come larga parte del femminismo, insiste sulla corporeità, le donne sono corpo più dell’uomo, e tuttavia inclina a una euforia ed empatia molto spirituale che si accosta alquanto allo sbocco neoumanistico.

Sul versante anglosassone il femminismo tende ad articolarsi in connessione con l’emergere di altre marche di marginalità, in particolare quelle segnate dalla scelta sessuale e dalla razza (studi sull’omosessualità, travestimento, razzismo verso le minoranze e i migranti postcoloniali).

BELL HOOKS (1952-vivente)  è tra le rappresentanti del femminismo nero. La scrittrice afroamericana percorre entrambe le direzioni: una rivolta al passato, della linea patrilineare che recupera la funzione tradizionale della donna e il focolare come spazio domestico, e quella rivolta al futuro, del soggetto disponibile a forme di legame nuove e molteplici.

GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAC (1942-vivente)  la Spivac si pone al crocevia dei metodi: psicoanalisi e marxismo, decostruzione, femminismo e postcolonialismo. La psicoanalisi e la decostruzione servono a togliere qualsiasi illusione di identità chiuse o fondamentaliste e scoprono l’eccesso della donna. Il marxismo riconduce il discorso alla sua radice sociale, ma fornisce anche l’indicazione del valore come forma senza contenuto. Il femminismo allargato su scala mondiale scopre il radicale dislivello tra le donne occidentali, privilegiate e quelle del Terzo mondo. Il postcolonialismo si appunta sul problema del soggetto subalterno (ripreso da Gramsci) e della difficoltà di rappresentarlo senza incorrere in sovrapposizioni paternalistiche. L’escluso deve restare irraggiungibile (tipo la cosa in sé  di Kant), per poter interrompere il continuo ricaricarsi del meccanismo di sussunzione (ricondurre da un concetto particolare ad uno più generale). Per la Spivac leggere un testo è anche sempre leggere il mondo. Il suo atteggiamento critico va al di là del vissuto autobiografico, assume altri possibili sensi allegorici e soprattutto di allegoria politica. Di recente la Spivac ha scritto che proprio perché si basa su una figurazione irriducibile, non immediatamente permeabile dalla lettura veloce, la letteratura è ciò che sfugge al sistema.

8.3 – Postcolonialismo e cultural studies
Il fenomeno della globalizzazione si è ripercosso nella sfera letteraria producendo un eccezionale allargamento geografico. Non è più possibile ragionare dall’interno di una sola cultura, senza considerare i rapporti con l’esterno e gli apporti delle minoranze interne. In questo contesto assume sempre più importanza l’ottica della letteratura comparata e il dibattito teorico-letterario proveniente dal Terzo mondo si sviluppa nelle correnti riconducibili al postcolonialismo. È evidente che l’uscita di interi mondi dalla servitù coloniale determina la ricerca e il recupero della loro cultura originaria.

Un antesignano della decolonizzazione è FRANTZ FANON (1925-1961)  vedeva nella negritudine e nell’arabismo delle forme di reazione ancora venate di razzismo, sia pur rovesciato.

In quale lingua scrivere? Se si sceglie la lingua nativa si guadagna il contatto con la base primordiale, ma si perde in diffusione internazionale. Molti autori inseriscono nel testo termini locali non tradotti per comunicare al lettore occidentale, che non può comprenderli, l’impressione di una distanza e la portata del genocidio culturale causato dal colonialismo (questo effetto è stato definito un gap metonimico).

Le tendenze postcoloniali recenti si sono orientate su due assi: quello della polemica e quello della ibridazione. Sul primo fronte spicca EDWARD W. SAID (1935-2003)  in cultura e imperialismo c’è una critica postcoloniale pienamente sviluppata in forma di ermeneutica del sospetto. Si può vedere in Said qualche propensione al contenutismo e un indubbio privilegiamento della narrativa. Ma bisogna riconoscere una grande forza argomentativi e il merito di collegare il testo al contesto esterno. La letteratura è fatta da esseri umani e va quindi sempre ricollocata nel mondo, rimessa in situazione. Ciò non elimina il suo valore estetico, ma lo comprende meglio attraverso il contrappunto tra l’opera e le condizioni che ne hanno determinato l’esistenza. L’atto critico consisterà nel vedere il testo come un campo dinamico di parole e non come un blocco statico. Il testo di per sé non è mai un oggetto finito e sta al critico e alla sua posizione politica prolungare certe diramazioni e non altre. In favore dell’interculturalità Said parla anche di traveling theory, una teoria in viaggio, fatta di spostamenti e interscambi. Nell’esilio di Said il continuo confronto culturale mette in crisi le identità l’identità viene a trovarsi nel mezzo. L’adattamento necessario verso la cultura dei dominatori è però attraversato dal rigetto e dalla imitazione deviante: si va dal writing back di talune riscritture che rivoltano dal punto di vista dello schiave i capolavori occidentali.

EDOUARD GLISSANT (1928-vivente)  sostiene che la diversità è soprattutto nella distinzione tra culture ataviche e culture composite: le culture ataviche sono quelle che si arroccano attorno a un mito fondatore e si definiscono in base all’espulsione violenta dell’altro. Le culture composite sono quelle che traggono la loro forza dall’apertura alla relazione di svariate componenti, sviluppando un gusto della caoticità e dl cambiamento. La ricerca delle radici va: alla radice unica o al rizoma, radice senza centro e aggrovigliata. Parola d’ordine è al creolizzazione, non soltanto l’inserimento nel testo del lessico del colore locale ma anche un’ulteriore attività di impasto linguistico. Glissant non è propriamente un critico, ma la sua oetica è piena di indicazioni e di termini che possono essere assai utili ad affrontare le nuove forme letterarie della globalizzazione, nella prospettiva di u cambiamento dell’immaginario. Sul piano letterario il richiamo al barocco contiene sia l’idea di una commistione dei generi tradizionali. Creolizzare vuol dire anche superare le convenzioni e disfare i generi

Sovrapponendosi al postcolonialismo si è affermata di recente negli USA i CULTURAL STUDIES  è necessario tracciare una breve storia: l’attenzione dedicata alla letteratura nell’ambito dello studio della cultura è nata in Inghilterra e poi si è trasferita in USA subendo alcune modifiche. L’inizio può essere imputato al gallese Raymond Williams (1921-1988) che ha allargato la considerazione della cultura nel quadro del marxismo estendendo la nozione di egemonia di Gramsci e individuando i diversi stadi e rapporti interni mediante la distinzione tra forme culturali dominanti, residuali o emergenti. Inoltre Williams vedeva l’apporto della letteratura come contributo al mutamento delle strutture del sentire o del sentimento. Su queste basi si sviluppava soprattutto la ricerca sulla cultura della classe operaia e sulla cultura popolare. Nel successivo sviluppo in USA la voga dei cultural studies ha perduto l’attenzione verso la funzione letteraria di ammortizzatore sociale, di contenimento e di compensazione. Si entra  in una situazione in cui il livello alto e il basso si sono mescolati e il popolare si riferisce all’intera gamma del pubblico ormai reso indifferenziato. Negli USA i cultural studies tendono ad inglobare qualsiasi differenza culturale, le donne, i neri e gli handicappati secondo grandi e piccole ripartizioni tuttavia molto stemperata nella misura dell’esistente. Una volta che il termine cultura sostituisce l’ideologia non si è più in grado di operare una critica: la pluralità delle culture relative alle diverse tribù viene accettata dai cultural studies con l’ottica neutrale dell’antropologo. Si tratta solo di differenti stili di vita. Il problema non è tanto il livellamento quanto il fatto che né il capolavoro né il tascabile usa e getta vengano sottoposti alla demistificazione.

8.4 – L’interpretazione politica e l’inconscio ideologico
Nel mondo odierno continua a essere pressante la questione politica. Per quanto evidenti le enormi disparità e i laceranti conflitti che agitano il mondo la loro analisi è tutt’altro che facile. Nella comunicazione deduttiva la finalità ideologica finisce per scomparire. L’ideologia si configura adesso in molti modi: non è più rappresentata solo dalla menzogna ma passa anche attraverso la verità parziale e soprattutto attraverso il sottointeso che viene trasmesso dalle immagini. Il valore politico delle rassicurazioni dell’io spinge alla connessione tra il marxismo e la psicoanalisi.

FREDRIC JAMESON (1934-vivente)  ha parlato di inconscio politico. La letteratura e l’arte vanno lette come sintomi della storia. Il critico deve ricondurre i problemi che incontra sulla superficie del testo a un sottotesto di tipo socio-economico. Jameson articola l’ideologia nei suoi elementi costitutivi detti ideologemi che sono qualcosa che sta a metà strada tra un concetto e un’immagine. In ogni caso uno schema elementare di distribuzione del materiale immaginario, quale è ad esempio la netta divisione tra bene e male, buoni e cattivi. Per questa via diventa possibile tornare a considerare i generi letterari. Nel romance antico la soluzione dell’intreccio è data dall’intervento della magia, in epoca moderna la funzione magica viene sostituita da altre forze, nel western dall’abilità del pistolero, nella fantascienza dalla tecnologia,…I generi sono archetipi che attraversano le epoche, ma quello che conta in essi è la parte variabile, nella quale possiamo scoprire l’azione della storia. L’ideologia ha nel testo fratture e scompensi. Il marxismo in Jameson è proprio quel metodo che è capace di superare e inglobare in sé gli altri metodi, inserendoli nell’orizzonte della storia della formazione sociale. Nei 4 livelli letterale, allegorico, morale e anagogico sostituisce il morale con la lettura psicologica e l’anagogico con una storia della salvezza puramente terrena, quindi con il livello storico-sociale. Ogni testo letterario è il prodotto di una condizione determinata rispetto alle cui contraddizioni cerca di dare risposta mediante le invenzioni dell’immaginario quindi è il sintomo di un disagio subito e porta dentro di sé i semi del tempo cioè una proiezione verso il futuro. Una volta constatato il passaggio del capitalismo alla sua terza fase detta tardo capitalismo caratterizzata dallo sviluppo informatico e multinazionale, dalla simbiosi tra il mercato e i mass media allora la cultura adeguata a questo nuovo stadio risulterà il postmoderno. Per paradosso il postmoderno nasce con l’affermarsi della modernizzazione su tutti i suoi avversari: è il moderno assoluto. Altro paradosso: proprio nel mentre vede mescolarsi il paradigma della produzione con quello semiotico Jameson ristabilisce il nesso del marxismo classico tra base e sovrastruttura in modo ferreo: data la base del tardo capitalismo non ci può essere che una sovrastruttura, il postmoderno. Proprio la negazione della realtà figura come il realismo dei nostri tempi. La figura intellettuale che prevale è quella dell’osservatore che si dedica alla cartografia cognitiva.

TERRY EAGLETON (1943-vivente)   propone di riordinare i vari lati della questione della nozione di ideologia. Per lui ideologico è un insulto che significa arroccato su idee fisse. Vedere l’ideologia dappertutto è un modo per svuotarla e convivere con essa. Sfaccettata e flessibile l’ideologia si mostra come campo complesso e conflittuale di significato. La critica è ciò che ci permette ancora di riconoscere gli interessi oggettivi che agiscono nei discorsi. Ora la letteratura non può essere definita di per sé ma solo in rapporto al complesso delle pratiche sociali. Ha bisogno di un termine intermedio che è l’estetica dotata di una sua specifica ideologia: l’ideologia dell’estetica. In quanto mediatrice l’estetica ha sempre due facce una rivolta al lato intellettuale della costruzione e dell’analisi, l’altra radicata nella sensibilità materialistica del corpo. Il suo interesse nei confronti di Benjamin deriva soprattutto dalle intuizioni sulla corporeità del linguaggio. Il corpo è ciò che tutti abbiamo in comune. L’estetica può elevarsi nei cieli della sublimazione, della distinzione di classe ma aiutare a costruire il soggetto della sfida e dell’alternativa. L’autonomia trasforma l’arte in una entità separata, costituisce un rifugio e rappresenta l’immagine del soggetto non alienato e dello sviluppo della sensibilità umana. C’è in questo posizionamento centrale dell’estetica molto di Kant riletto attraverso Marx sicchè lo spazio della mediazione diventa anche spazio di conflitto. Il discorso, dice Eagleton, è strategico. Vale a dire che per prima cosa dobbiamo chiederci non quale sia l’oggetto o come dobbiamo analizzarlo ma perché vogliamo indagare su di esso. L’ironia per Eagleton fondamentale e connaturata al rivoluzionario. Egli parla del critico come clown e il suo stile è continuamente percorso dall’humor.

JUAN CARLOS RODRIGUEZ (1944-vivente)   la sua interpretazione della poesia classica è sulla base della matrice ideologica. A differenza di Jameson in Rodriguez l’epoca non genera una sola poetica bensì due: ci sono sempre due letterature e quindi un gioco di alternative. Le diverse poetiche si trovano incluse nella produzione ideologica. Si determina qui un rapporto profondo con la psicoanalisi sulla centralità del problema dell’io o meglio dell’io sono, l’identità. La storicità radicale che Rodriguez assegna alla letteratura sta proprio nella misura della sua partecipazione alla produzione dell’io, all’invenzione del soggetto. Soprattutto la poesia nella sua funzione di rifugio dell’anima contribuisce alla costruzione di un mondo privato ritenuto autentico. Stretto tra i due inconsci e tirato da parti opposte dalle richieste sociali, l’io soffre la crisi e la rottura ma questo vuol dire anche che può staccarsi dall’identità che gli è stata assegnata. Il testo è capace di rifiuto, può pronunciare la sillaba del no e nella modernità letteraria questo atto sovversivo può svolgersi secondo la linea dello svuotamento. Nel secondo ‘900 tutto sembra condurre alla diminuzione del carattere contrastivo e alternativo. Il capitalismo avanzato ha provveduto a privare di sostanza gli ambiti della politica e della filosofia. L’io ormai non solo è funzionale alla produzione ma è diventato esso stesso un mezzo di produzione: si andrebbe verso un nuovo feudalesimo dove è importante l’appropriazione sociale dell’intero uomo.

EDOARDO SANGUINETTI (1930-vivente)  è in Italia il principale rappresentante della resistenza e dell’efficacia del marxismo. Egli ha posto a base del suo discorso critico l’equazione tra ideologia e linguaggio. La storia non è dietro ma dentro il testo. Perciò la decifrazione dei segni non può mai essere esentata da un interrogativo politico. Decifrare vuol dire capire la coerenza di un testo, capire da quale sistema o codice è retto. Il critico deve procedere all’interpretazione in quanto il testo si presenta in modo non trasparente con l’aspetto dell’enigma. Solo che questa ambiguità non è una dote intrinseca ma è il prodotto di una attività sociale. Riprendendo lo storicismo assoluto di Gramsci Sanguinetti afferma che il critico ha da farsi storico, scrittore di cose.

    • - L’oggetto testo

Tenersi all’oggetto-testo significa lo studio empirico della letteratura nei suoi aspetti concreti, nelle sue istituzioni, nella sociologia del pubblico. La considerazione della letteratura come forma di interazione comunicativa può sfatare alcuni miti, compreso quello dell’interpretazione giusta ma rischia di cadere comunque in un  mito quello dell’osservazione scientifica. Certo la statistica può illustrare la reazione dei lettori e la loro risposta a determinati fenomeni e consente di avviare una psicoanalisi sperimentale del lettore. Con il lettore statistico si rimane tuttavia sempre a un livello descrittivo di emozioni e impressioni immediate, non di effetti a lunga scadenza.

Un’altra via oggettiva è quella intrapresa dalla critica genetica che si occupa di studiare i dati di archivio degli stati preparatori dei testi. Mentre l’interesse primario della filologi era di determinare qual è il vero testo, la critica genetica sembra far sparire l’unicità del testo nella miriade dei suoi materiali in progress mettendo in evidenza piuttosto i testi virtuali, quello che il testo avrebbe potuto essere. Già cominciano ad avventurarsi un poco di più nei problemi interpretativi i lavori che riguardano le strutture dei testi, in particolare narrativi. Essendo il mercato interessato soprattutto al romanzo è questo il lato privilegiato anche dalle ricerche teoriche e metodologiche. Gli studi sui modi della trama o sui mondi possibili creati dalle storie, mettono al centro proprio quegli elementi  che costituiscono l’attrazione del romanzo di consumo sul lettore più ingenuo. Si conferma  il ruolo naturale di mediazione e di compensazione del racconto. Nel frattempo anche la semiotica è andata oltre lo smontaggio narratologico delle azioni per affrontare la questione delle passioni. L’analisi basata sulle nozioni di tema o di genere può consentire utili attraversamenti e connessioni tra epoche distanti, diverse aree geografiche e culturali. La critica tematica sembra in grado di raccogliere e rendere più aderenti al testo le istanze della psicoanalisi. Quanto ai generi non sono più considerati come caselle da classificazione ma entrano nel testo come componenti dinamiche. Proprio questa eterogeneità del testo può spingere l’analisi critica ancora più a fondo verso le più minute manifestazioni e i piccoli indizi. Dalla struttura vista come quadro in cui tutti gli elementi dovevano trovare posto si passa alle strutture nel senso che i testi funzionerebbero proprio nella inesatta sovrapposizione di almeno due o più modelli. Dalla funzione al disfunzionamento in quanto si tratta di rinvenire non già l’accordo e il parallelismo ma le smagliature della composizione, le discordanze, i contrasti.
Ecco la grande scommessa della critica oggi: appassionare di nuovo alla lettura, in un momento in cui il testo letterario è trascurato e affrontato solamente per obbligo scolastico. Far questo attraverso l’allenamento del rovello del lavoro critico. Se leggere è leggersi allora è chiaro che la cultura dominante del mercato non ha bisogno di rendere consapevoli i consumatori. Dobbiamo imparare a leggere. La letteratura può funzionare come momento consolatorio o compensativo, come addestramento alla sopportazione dei danni reali, oppure può affrontare il trauma mostrandolo e diffondendolo in forma di urti e spezzature anche formali e linguistiche stimolando la reazione. Imparare a leggere vuol dire investire attenzione e concentrazione per leggere tra le righe la posizione dell’oggetto-messaggio che ci sta di fronte. Forse potremo sentirci coinvolti e trovare dentro di esso qualcosa che riguarda molto da vicino anche noi e gli stringenti appelli della nostra tanto problematica attualità.

 

Fonte: http://www.scicom.altervista.org/critica/Riassunto%20libro%20%20Le%20teorie%20della%20critica%20letteraria.doc

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