Letteratura della Resistenza

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Letteratura della Resistenza

Con questa espressione, in area italiana, s’intende ormai comunemente non solo la letteratura di protesta e di opposizione al nazifascismo sviluppatasi nel pieno della seconda guerra mondiale e durante l’occupazione tedesca della penisola, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, ovvero ispirata a situazioni ed eventi di quel periodo, ma anche tutta la letteratura variamente antifascista del periodo anteriore, a partire dallo stesso sorgere ed affermarsi del fascismo in Italia. Si comprende inoltre tanto la letteratura di battaglia, di propaganda, di riflessione ed elaborazione etico-politica, d’immediata e scoperta testimonianza civile e umana, quanto la letteratura d’invenzione operante in senso antifascista negli anni del fascismo […] e, dopo la caduta del fascismo, mirante a rivivere quei tempi di oppressione e violenza, di attività clandestina e infine di lotta armata e insurrezione con gli occhi della memoria, in una rilettura poetica dei fatti, in una ricreazione fantastica che associa il verosimile col vero. E sarà letteratura, quest’ultima, non puramente celebrativa né astrattamente contemplativa, ma a sua volta vivamente documentaria, nella costante adesione ai contenuti e ai valori «resistenziali», e al tempo stesso per sua interna vitalità destinata in parte notevole a superare il contingente. Diviene così sempre più labile, e finisce in molti casi per scomparire, anche la distinzione fra letteratura della Resistenza e letteratura sulla Resistenza, riservandosi l’ultima dizione con sempre maggior frequenza, e con maggiore chiarezza, alle analisi strettamente «scientifiche», ai lavori critici e storiografici degli studiosi di generazioni postresistenziali, e svincolati da precisi significati o intenti letterari. L’ampliamento semantico dell’espressione «letteratura della Resistenza» comporta l’accettazione di una sua straordinaria molteplicità: raccolti intorno a certi denominatori comuni, diversissimi, e in diversissime situazioni, sono gli autori, scrittori di professione e uomini politici, intellettuali e operai, clandestini e fuorusciti, combattenti e prigionieri; e diversissimi gli atteggiamenti, gli itinerari mentali, i linguaggi, i «generi» (dalla lirica alla canzone in vernacolo; dall’articolo, dal diario, dalla lettera, in cui si prende coscienza della realtà storica, si dibattono e chiariscono i problemi, si versa il dramma di un’intera generazione, alla prosa del racconto distesa entro l’arco di una fantasia che ha pur sempre le sue radici nella vita vissuta, nella realtà storica).
La prima citazione spetta ai politici, ai pensatori e agli studiosi i quali, nella crisi e nel disorientamento che seguirono alla prima guerra mondiale e che videro l’insediarsi del fascismo al potere, subito denunciarono la natura reazionaria e liberticida del fascismo stesso e lo combatterono a viso aperto, con assoluta dedizione e con tutti i mezzi possibili. […] Accanto a grandi oppositori parlamentari come Giacomo Matteotti (1885-1924), il socialista turatiano del Polesine che lottò senza tregua contro il fascismo documentandone con vigorosa semplicità, con la parola e con gli scritti, soprusi e crimini […], e Giovanni Amendola (1882-1926), l’uomo politico e scrittore napoletano di idee democratico-liberali che guidò risolutamente l’opposizione costituzionale culminata nell’Aventino […], ricordiamo tre eccezionali personalità d’intellettuali: sono Piero Gobetti, torinese, fervido organizzatore del lavoro culturale, che per lui veniva a identificarsi con l’impegno politico, nemico implacabile della retorica, del compromesso, del trasformismo, in definitiva del fascismo […], teorico di un’ardita sintesi tra il liberalismo e l’energia rivoluzionaria sprigionata dal movimento operaio, sintesi tale appunto da rompere il circolo chiuso in cui si trovava l’Italia, liberando e innalzando a dignità civili, a ruoli attivi le masse popolari; e Antonio Gramsci, sardo di nascita e torinese di adozione, la cui esistenza è divisa tra una febbrile attività di capo rivoluzionario fino all’avvento della dittatura mussoliniana e una non meno febbrile, non meno tenace meditazione e ricerca intellettuale nell’isolamento e nell’angusta oppressiva delle carceri fasciste per tutto il decennio dal novembre 1926 alla morte: quella lucidissima meditazione e ricerca che, depositata a frammenti nei Quaderni e nelle Lettere dal carcere […] ci restituisce l’immagine di un altro maestro di concretezza e antiretorica. E altro maestro fu Carlo Rosselli (1899-1937), romano-toscano, il quale rinnovò la tradizione mazziniana della sua famiglia dando vita a quel movimento di «Giustizia e Libertà» che doveva alla lunga confluire nel partito d’azione, e attuando una serie d’imprese (nel 1925 pubblicazione a Firenze, col fratello Nello, Ernesto Rossi, Bauer, Calamandrei, del foglio clandestino «Non mollare»; nel 1926 pubblicazione a Milano, con Nenni, della rivista «Quarto Stato» e organizzazione, con Parri e Pertini, dell’espatrio clandestino di Filippo Turati […], tanto audaci e avventurose quanto sorrette da altissima moralità e da intelligenza acuta del presente e del futuro prossimo, e propriamente dalla consapevolezza dell’espansione europea del fascismo, dell’imminente ritorno della guerra in Europa, della necessità d’immediata azione rivoluzionaria antifascista su scala internazionale, con traguardi nella Repubblica d’Italia e negli Stati Uniti d’Europa. […]
Matteotti e Amendola, Gobetti e Gramsci, Carlo e Nello Rosselli furono soppressi dai fascisti, a pugnalate o per consunzione in carcere o con violenze che presto dovevano rivelare effetti mortali. Scompaginati i partiti democratici e le associazioni operaie, distrutti i circoli della cultura e le sedi della stampa libera dagli assalti delle squadre nere e dalle leggi eccezionali del governo di Mussolini, gli uomini politici e gli intellettuali antifascisti non ancora imprigionati, per sottrarsi alla persecuzione e continuare la loro battaglia, dovevano uno dopo l’altro rifugiarsi all’estero: in Francia, Svizzera, Belgio, Inghilterra, America. […]
Se dura era l’esistenza degli esuli, diventava tragica quella degli oppositori rimasti in patria, la cui sorte era destinata a chiamarsi sorveglianza, perquisizione, arresto, tortura, tribunale speciale, carcere o confino, cioè deportazione negli angoli più sperduti della penisola e nelle isole, spesso per molti anni. La copiosa letteratura che riflette esperienze di carcere e di confino, e che naturalmente si prolunga dal tempo delle prime cospirazioni a quello della lotta armata, non manca di opere considerevoli: soprattutto Le nostre prigioni e la nostra evasione […] di Emilio Lussu (1890-1975), cui va avvicinato l’altro libro di Lussu, Marcia su Roma e dintorni, a più largo raggio di elementi e memorie del periodo fascista, ma con quello stesso asciutto e mordente vigore di stile, con lo stesso solido e nitido amalgama di tragico e comico, d’ironia e sdegno morale, che caratterizzarono Lussu come uno dei più vivi e compiuti fra gli scrittori «politici» […] Né dimenticheremo, accanto alle Lettere dal carcere gramsciane, le Lettere dalla prigione (Milano 1955) di Alcide De Gasperi (1881-1954), esprimenti l’animo, e l’umanità, dell’uomo politico cattolico provato dai giorni di detenzione, col placarsi dello sconforto e della sofferenza nella fede e nella speranza. E purissimo, solenne testamento steso in un carcere è la lettera alla moglie (24 dicembre 1930) di Umberto Ceva (1900-1930), giovane ingegnere appartenente al gruppo clandestino milanese di «Giustizia e Libertà», arrestato e imprigionato con molti altri cospiratori in seguito a una delazione, e in carcere, con lunga e straziante agonia, suicidatosi, per il pensiero angoscioso del tradimento patito, di false accuse e della sorte e dei compagni. Pari dignità morale, unita a straordinaria energia intellettuale, sulla linea di Gobetti e Rosselli, noi conosciamo in ogni scritto e atto della breve vita di Leone Ginzburg (1909-1944), ebreo di nascita russa che, giunto giovanissimo in Italia e fattosi cittadino italiano, a Torino svolse la sua attività di docente, interprete e traduttore di letteratura russa, fu tra i fondatori della casa editrice Einaudi e divenne il vero capo di «Giustizia e Libertà» in Italia, andando incontro a una serie di persecuzioni e arresti che si conclusero, dopo l’8 dicembre 1943, con la segregazione nel carcere romano di Regina Coeli e con la morte provocatavi da rotture. […]
Le voci di tutti i protagonisti della Resistenza, d’ogni ceto e grado, d’ogni regione e fede politica, […] si ritrovano nelle Lettere di condannati a morte. Lettere le chiamiamo, anche se si tratta di messaggi di poche righe o parole, frettolosamente segnati, magari con la punta di un chiodo sul muro di una cella, o con uno spillo sulla copertina di una Bibbia. Ma in tanta varietà di autori, casi e scritture, son comuni, con turbamento per il dolore che la propria morte recherà ai familiari, la coscienza di essere dalla parte giusta e di aver fatto il proprio dovere, la tranquilla fierezza di non aver tradito, sotto le torture e nella sofferenza, la patria e i compagni, la profonda convinzione dell’utilità del proprio sacrificio, del vicino avvento di un mondo nuovo, libero e giusto. […]
Fittamente intrecciata con la memorialistica della Resistenza è la memorialistica della guerra combattuta dai nostri soldati fra il 1940 e il 1943, poiché fu la guerra, dichiarata dal nazifascismo al mondo civile, a scoprire del tutto il volto del nazifascismo, e quindi a determinare o ad affrettare il rivolgimento delle idee, il formarsi delle coscienze di chi era cresciuto in quel sistema: e moltissimi giovani italiani, lanciati a combattere in condizioni disperate in Africa, nei Balcani e in Russia, al fianco di una alleato che insidiava, tradiva e opprimeva, e contro un nemico che difendeva la propria terra e la propria libertà, si ritrovarono partigiani sulle Alpi o sugli Appennini o ancora nei Balcani, e questa volta al fianco dell’ex-nemico, quando non prigionieri dell’ex-alleato nei campi di concentramento di Prussia e Polonia. Ecco così i libri che, con linguaggio generalmente netto e sostanzioso, in qualche caso convulso e delirante, descrivono la continua umiliazione e violazione della natura umana rappresentata dalla guerra, e l’insensatezza e l’ingiustizia di quella guerra; il cinismo e la follia di chi l’aveva promossa e la guidava da lontano, l’umanità dei mille e mille anonimi di prima linea assurdamente sacrificati, l’umanità del «nemico»: Lettere (a cura di F. Semi, Venezia 1945) di Guido Orloch, Diario di un combattente nell’Africa settentrionale (Bari 1946) di Oderisio Piscicelli Taleggi, Mai tardi (Cuneo 1946, nuova ed. riv. Torino 1967) e La guerra dei poveri (introd. Di A. Garosci, Torino 1962) di Nuto Revelli, Harasciò. Russia non inventata (Bari 1951) di Stefano Rudie, Il sergente nella neve (Torino 1953, nuova ed. 1962) e Quota Albania (ibid. 1971) di Mario Rigoni Stern. […]
Com’è naturale, aumentando la distanza di tempo fra i fatti vissuti e la composizione, diversi degli scritti memorialistici di guerra, prigionia e lotta partigiana perdono, nel momento della stesura, l’urgenza del documento, della comunicazione, della confessione rivolta a una collettività d’ignari perché dividano con l’autore il ricordo e la meditazione, e nel nuovo, più distaccato rapporto con la realtà, superando le misure della cronaca e del diario, accolgono fisionomie più decisamente narrative, talora più elaborati modi espressivi, senza con ciò voler abbandonare la «storia» per la «letteratura». Ma oltre ai libri di memorie che si muovono quasi insensibilmente dalla materialità del documento verso una ricreazione fantastica, già nell’immediato dopoguerra fiorisce una vivissima narrativa resistenziale, con i suoi più caratteristici e prestigiosi esempi nell’agro, aspro anche solenne Uomini e no (Milano 1945) di Vittorini, che in uno studiato impasto ed equilibrio stilistico canta l’uomo partigiano e la sua epopea trasfigurando la realtà in mito, e ne La casa in collina (sotto il titolo Prima che il gallo canti, Torino 1949) di Pavese, dramma di un uomo fra l’isolamento e l’impegno, sul fondo amaro e bruciante della guerra civile, dei rastrellamenti tedeschi, dei bombardamenti alleati, in un lirico alone e in una lucida perfezione di disegno (e ricordiamo anche Il compagno del 1947 e La luna e i falò del 1950). Più o meno vicini a Vittorini e Pavese […] si collocano Paura all’alba (Roma 1945) di Arrigo Benedetti (1910-1976), che con essenzialità quasi incolore, in un contemperarsi di cronaca, diario e racconto, rievoca «la macchia» dell’Appennino reggiano, la tragedia della famiglia Cervi, l’eccidio di Cervarolo; Il sentiero dei nidi di ragno (Torino 1947), primo esperimento dell’arte realistico-fiabesca di Italo Calvino, applicata, lungo un filo esile di narrazione ma con bel ritmo di fantasia, all’avventura di Pin, ragazzetto estroso, manesco e innocente, dal carruggio ai campi partigiani in montagna […]; L’Agnese va a morire (Torino 1949) di Renata Vigano (1900-1976), il più felice dei romanzi partigiani, candido e armonioso nella sua casta scrittura, vero e vario di paesaggi e stagioni fra la Bassa ferrarese e le valli di Comacchio: romanzo, domestico ed epico, della ribellione e della lotta, della pietà e dell’umana solidarietà di Agnese contadina e dei partigiani di palude; I ventitré giorni della città di Alba (Torino 1952) e altre opere di Beppe Fenoglio, che narrano con pungente e spietata immediatezza emblematiche esperienze della guerra partigiana nelle Langhe e ad Alba liberata e perduta. […]

 

Potrai poi approfondire la conoscenze su uno dei protagonisti di questa letteratura, Elio Vittorini. Nelle pagine che ti proponiamo, sempre tratte dal Dizionario critico della letteratura italiana, UTET, fai particolare attenzione ai capoversi dedicati al romanzo Uomini e no.

Elio Vittorini
La figura letteraria e intellettuale di Elio Vittorini, la sua stessa vicenda biografica hanno assunto soprattutto negli anni dopo la guerra un ruolo esemplare e paradigmatico, che la sua opera, o meglio una certa immagine di essa, svolge ancora, dopo la sua morte. È accaduto così che vita e opere siano presenti assai più nell’immagine mitica e favolosa che di esse si è ormai largamente diffusa, che concretamente attraverso la circolazione dei testi. […]
Vittorini cominciò operando su due piani paralleli: come letterato fu «calligrafo» e «rondista», come interprete del mondo contemporaneo malapartiano e fascista «rivoluzionario», e si trovò subito impegnato nel cercare di mediare questi due livelli del suo discorso culturale, convinto che si trattasse di due esperienze complementari, entrambe necessarie per ritrovare una funzione positiva e costruttiva dal lavoro intellettuale. A Vittorini basta qualche contatto meno occasionale con la giovane cultura fiorentina per scoprire la povertà letteraria delle sue prime prove, la grossolanità di quei tentativi di mediare ideologia e letteratura, per rendersi conto insomma che «la tendenza letteraria cosiddetta barbara o strapaesana» gli «riusciva angusta». […]
Nel febbraio 1933 Vittorini comincia a pubblicare a puntate su «Solaria» il suo primo romanzo, Il garofano rosso. […]
Il garofano rosso si presenta come un’opera discontinua, nella quale sono presenti ambizioni contraddittorie, motivi giustapposti che la vicenda non riesce a unificare. La struttura apparentemente tradizionale del racconto, che Vittorini sentiva come il limite più grave di questa sua opera, viene continuamente violata e compromessa dall’insorgere della cosiddetta «vocazione lirica» dello scrittore, dalla volontà, cioè, «di esprimere un sentimento complessivo o un’idea complessiva, un’idea riassuntiva di speranze o insofferenze degli uomini in genere, tanto più se segrete» (Diario in pubblico), dal desiderio insomma di sfuggire alla logica del realismo psicologico o sociologico. Ricompaiono infatti gli scherni caratteristici della mitologia vittoriniana, il viaggio e l’infanzia, la natura e la felicità sognata o conquistata, ma accanto ad essi acquistano importanza i motivi dell’ideologia populistica, che del fascismo rivoluzionario giovanile era l’esito maturo e conseguente.
L’esito finale di questa «maturazione» ideologica è la costruzione di una «mítologia» popolare e operaia, volta a ridare consistenza e vigore all’interpretazione ideologica della natura e dei suoi valori come alternativa, 1’unica possibile, alle miserie e alle ingiustizie di questo mondo «civile» e inumano. […]
Erica e i suoi fratelli rappresenta la tappa successiva di questa maturazione. Qui, pur conservando alcuni schemi narrativi tradizionali, Vittorini si prova a superarli per due vie solo apparentemente contraddittorie, da un lato sottolineando un’atmosfera di favola. e accentuando i significati allusivi e
i metaforici, dall’altro approfondendo l’analisi sociologica e politica e portando alle estreme conseguenze la sua polemica antiborghese e anticapitalista. La storia di Erica infatti si svolge sullo sfondo della crisi economica del ’29 e della prospettiva coloniale aperta dalla guerra d’Etiopia del ’36: così la miseria perde i suoi contorni astratti e imprecisi e diventa l’effetto della diminuzione dei salari e dell’aumento della disoccupazione, che Vittorini descrive con precisione e dovizia di dati, e l’operaio smette la sua veste idilliaca per essere reimmesso nella logica dello sfruttamento che coinvolge anche gli sfruttati e annienta la loro originaria naturale bontà. […]
L’itinerario ideale di Vittorini si è letteralmente capovolto: il bene non è più soltanto perduto del passato, ma un progetto, del quale l’intellettuale diventa il profeta, perché attraverso la conoscenza del mondo, di cui l’arte è strumento, conquista la forza della speranza: non cambiano i valori positivi, ma la loro funzione nel mondo e il modo in cui l’uomo si sforza di riconquistarli. […]
Erica e i suoi fratelli, interrotto allo scoppio della guerra civile di Spagna nel luglio del ’36», che rese Vittorini «d’un tratto indifferente agli sviluppi della storia cui aveva lavorato per sei mesi di fila» (p. 284), rappresenta il primo momento di consapevolezza della sconfitta subita dal suo disegno ideologico-rivoluzionaria. Nello stesso anno Conversazione in Sicilia si apre con la constatazione della sconfitta: «Io ero in quell’anno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dire ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto».
Eppure Vittorini non rinuncia neppure per un istante al fondamentale ottimismo del suo umanesimo: certo la scelta dell’antifascismo gli impone una revisione del suo sistema di valori, la quale coinvolge però soprattutto gli strumenti della sua azione conservandone inalterati gli obiettivi. Conversazione, quindi, non sarà affatto il libro della disperazione, anzi il racconto del superamento della terribile «quiete della non speranza» e della scoperta di «altri, nuovi doveri», attraverso il viaggio nei luoghi dell’infanzia e la conclusiva certezza che «non ogni uomo è un uomo; e non tutto il genere umano è genere umano», perché «uno perseguita e uno è perseguitato: e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato». […]
Se Conversazione era il racconto della scoperta di «altri doveri», della rivincita dell’ottimismo sullo scoramento e la disillusione, Uomini e no è il racconto della vittoria, il canto disteso delle nuove certezze. Tutto il libro è sorretto da questa sensazione diffusa di sicurezza, fin dal titolo persino troppo chiaro nel suo semplificato manicheismo, e più ancora nella struttura a due voci, nella contrapposizione insistita e centrale tra l’io narrante e il protagonista, Enne due. La Resistenza diventa la metafora e il simbolo dell’avverarsi della profezia, il tempo ideale in cui per intima forza i nuovi valori si inverano. Tuttavia il discorso vittoriniano, che qui per la prima volta sembra accettare la logica dell’engagement antifascista, resta a mezz’aria, ancora integralmente fondato sull’insuperabile contrapposizione di mito e storia, che si dispongono parallelamente cercando invano un’integrazione possibile nella mediazione, del tutto formale, della nota conclusiva: «Cercare in arte il progresso dell’umanità è tutt’altro che lottare per tale progresso sul terreno politico e sociale».
Così, nell’entusiasmo dell’ora vittoriosa, Vittorini risolve il problema proiettandolo nel futuro, evitando di scegliere, conservando l’equivoco; ed è un modo per riconsegnare all’arte, che pure è stata sconfitta, uno scopo e allo scrittore un «mandato», per riproporre sostanzialmente immutato il progetto del «primato» della poesia: «Io penso che sia molta umiltà essere scrittore» . Ma in quest’opera l’aporia mina direttamente l’unità strutturale e stilistica, lo sdoppiamento si rivela nella stessa disposizione dei due discorsi paralleli, che invano Vittorini cercherà di ridurre a unità con i tagli apportati alle edizioni successive, tanto che, arreso, nel 1965 riproporrà il testo nella sua forma originaria.
Eppure il discorso che il romanzo non riesce ad articolare, ma è costretto a enunciare, Vittorini lo riprende con entusiastica certezza sulle pagine del «Politecnico». Il primo numero del settimanale che esce il 29 settembre 1945, si apre infatti con un editoriale vittoriano dove alla constatazione della sconfitta della cultura che «non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini», si contrappone il progetto di una diversa «cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini», che sia finalmente efficace.
Già in questa ottimistica professione di fede è presente la contraddizione – che è poi la stessa di sempre – all’origine della vita contrastata della rivista. Da un lato infatti la fondazione del «nuovo umanesimo» vittoriano, con la conseguente richiesta di una reale potere per la cultura, è sorretta dal rilancio della sua funzione conoscitiva e del suo ruolo illuministicamente pedagogico, dalla riaffermazione cioè della sua autonomia; dall’altro la certezza dell’efficacia politica e della forza concretamente rivoluzionaria dell’arte e della scienza, sentite come complementari, comporta un continuo sforzo di mediazione tra ideologia e realtà e soprattutto collegamenti stabili e organizzati con le forze sociali.
L’intera fase settimanale del «Politecnico» è caratterizzata dallo sforzo di dare concretezza a quegli impegni organizzativi, con l’obiettivo di stabilire e ordinare regolari contatti tra intellettuali e pubblico. Proprio su questo terreno, inesplorato dagli intellettuali italiani; si manifesta la natura volontaristica dell’iniziativa vittoriniana, si rivela la distanza che separa quel progetto «letterario» dalla complessa realtà della società italiana, l’inadeguatezza degli strumenti ideologici e l’insufficienza di quel neo-urnanesirno.


Dopo aver letto i testi che ti sono stati proposti, scrivi un testo espositivo. Ti suggeriamo questa scaletta.

  1. Introduzione: argomento della relazione e breve presentazione [1 capoverso]
  2. Breve profilo della letteratura delle resistenza e dei suoi principali protagonisti [2, 3 capoversi]
  3. Breve analisi di un protagonista di questa stagione: Vittorini [1, 2 capoversi]
  4. Presentazione delle opere e dell’interpretazione proposta da Vittorini per il tema della Resistenza [1, 2 capoversi]
  5. Conclusione

 

 

Fonte: http://www.antologiaincontri.scuola.com/ricerche/a/a_1_1_fenoglio_resistenza.doc

Sito web da visitare: http://www.antologiaincontri.scuola.com

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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