Letteratura nel Tardo 500 e 600

Letteratura nel Tardo 500 e 600

 

 

 

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Letteratura nel Tardo 500 e 600

LA LETTERATURA NEL TARDO 500 E NEL 600
Tra la metà del 500 e la fine del 600 la società europea è lacerata da drammatici contrasti: feroci guerre di religioni tra mondo cattolico e protestante, contrasti sociali, rottura di equilibri politici. Nell’arco di un secolo la Spagna passa dall’egemonia economica e militare a una decadenza sempre più rovinosa, mentre l’Olanda e l’Inghilterra conquistano il primato nel campo del commercio internazionale e dall’espansione coloniale.
L’Italia resta al margine di questi grandi processi perché è schiacciata dalla dominazione della Spagna e oppressa dalla politica repressiva della chiesa, e quindi è tagliata fuori dal commercio, per cui c’è una crisi economica e politica che fa perdere all’Italia il ruolo di paese-guida in campo culturale e letterario. Nei centri più avanzati ci sono nuovi orientamenti scientifici e filosofici: nasce la scienza moderna e si diffonde la visione eliocentrica e la riflessione politica. La crisi del campo artistico e letterario dà vita a una varietà di ricerche e di forme nuove in cui si esprimono ansie mistiche, conflitti interiori,inquietudine.
Nel tardo Cinquecento e Seicento c’è stata un’epoca lacerata da numerosi conflitti e da violente contraddizioni nelle quali si sono inclinate le certezze scientifiche e filosofiche che nei secoli precedenti erano state alla base della vita sociale e culturale. Uno dei motivi che causarono questi conflitti fu la definitiva rottura dell’unità religiosa del mondo cristiano. Infatti sia la chiesa Cattolica che quella Protestante perseguitavano i fedeli e li accusavano di eresia e stregoneria, però, mentre nelle nazioni protestanti l’individualismo religioso era fondato sulla Riforma e favorì un’apertura ai nuovi sviluppi della scienza e della filosofia, nei paesi cattolici, invece, dopo la chiusura del Concilio di Trento, la chiesa portò avanti una battaglia implacabile contro ogni forma di pensiero che metteva in discussione la dottrina cattolica e i suoi fondamenti teorici. A questo scopo le gerarchie ecclesiastiche non si limitarono a rispondere alla propaganda protestante, ma si sforzarono di bloccare la circolazione di ogni nuova idea in campo scientifico e filosofico.
Uno strumento fondamentale di questa politica fu il Tribunale del Santo Uffizio, il quale aveva il compito di scoprire e condannare eretici, streghe, omosessuali, intellettuali dissenzienti o presunti tali. Le confessioni spesso si ottenevano con la tortura e i colpevoli venivano affidati al potere politico che li condannava. Un altro importante strumento di controllo fu l’indice dei libri proibiti sempre aggiornato che andava dal “De Monarchia” di Dante al “Decameron” di Boccaccio, i libri pericolosi venivano sequestrati e bruciati. Per la chiesa romana la lotta contro la riforma protestante fu un’occasione per farsi un esame di coscienza sui propri comportamenti e per dare più valore ai valori del Cristianesimo.
In questo periodo si delinearono modi diversi di vivere la religione, si passò dalla religiosità ritualistica dominata dalla paura, all’esperienza di alcuni Santi che contrapposero le ebbrezze del dialogo interiore con Dio, alla speculazione razionale. I temi ricorrenti furono la miseria del corpo, del senso del peccato, fu insomma un periodo di una religiosità inquieta e sensitiva.
Per alcuni filosofi il rapporto con la chiesa generò un conflitto drammatico tra fede religiosa e difesa della libertà di pensiero, fu il caso di Galileo Galilei che cercò di unire il Cattolicesimo con la nuova scienza, ma venne processato e costretto al silenzio.
“Che la terra non sia al centro del mondo né imobile, ma che si muova etiando di moto diurno, è parimenti una preposizione assurda e falsa nella filosofia”. Con queste parole nel 1633 il tribunale del santo Uffizio imponeva l’abiura a Galileo Galilei, reo di avere sostenuto e diffuso le teorie copernicane. L’idea di un universo  chiuso e geocentrico – teorizzata da Aristotele, conciliata con la teologia cristiana da San Tommaso- era durata circa venti secoli: ne emergeva un’immagine in cui ogni essere compreso Dio, aveva una ben precisa collocazione. Metterla in dubbio significava ridiscutere del senso della presenza dell’uomo nell’universo e dei suoi rapporti con Dio. Ancor prima di Galileo si era fatto sentire nell’ambito della riflessione sul rapporto tra uomo e natura un intellettuale Giordano Bruno. Nato a Nola e entrato nell’ordine domenicano, per sfuggire all’accusa di eresia si diede a una serie di peregrinazioni che lo condussero in giro per l’Europa. Tra scandali e violente polemiche; si accostò prima al calvinismo e poi al luteranesimo ma li abbandonò entrambi dopo averne sperimentato l’intolleranza. Nel 1591, si trasferì a Venezia dove fu arrestato dall’Inquisizione: processato per eresia, non accettò di ritrattare le sue idee e, dopo una prigionia di 7 anni nel palazzo del Santo Uffizio a Roma, fu arso vivo sulla piazza di Campo dei Fiori. Nel dialogo De l’infinito universo e mondi espone la visione dell’universo senza un centro. All’uomo invaso dall’eroico furore della conoscenza spetta il compito di ricercare la verità. Tra gli ostacoli a questa ricerca Bruno annovera anche le varie confessioni cristiane, strumenti politici utili per tenere a bada i “rozzi popoli ”, incapaci di cogliere quel Dio che coincide con la forza vitale che è l’anima dell’universo. Altro filosofo importante fu Tommaso Campanella (1568-1639). Nato a Stilo, presso Reggio Calabria, domenicano, dopo aver subito vari processi per eresia propugnò una riforma politica e religiosa i cui principi   sono esposti nella Città del Sole, dove si descrive una società governata da sapienti in cui tutti i beni sono in comune. Fallita una congiura con la quale sperava di tradurre in pratica i suoi ideali politico-religiosi, fu arrestato: fingendosi pazzo ebbe salva la vita, ma dovette scontare una pena di trent’anni di prigionia a Napoli e a Roma, dove compose la maggior parte delle sue poesie. Liberato si rifugiò in Francia, dove morì. Alla Città del Sole si può accostare un'altra opera, La nuova Atlantide del filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626). Come Bruno e Campanella, Bacone pose al centro della sua riflessione lo studio della natura.
LA DECADENZA DELLA CULTURA ITALIANA
Negli ultimi decenni del 500 e nei primi del 600 l’espansione della cultura italiana raggiunge il culmine: in Francia, in Inghilterra, in Spagna si continuano ad imitare modelli artistici e letterari italiani. Nel corso del ‘600 la cultura italiana subisce i contraccolpi di una crisi economica e sociale che era maturata nei decenni precedenti: il declino dei commerci nel Mediterraneo porta i ceti più ricchi ad abbandonare gli affari marittimi per comprare terre; le classi medie si impoveriscono e tutto il popolo raggiunge una comune condizione di miseria. In questa situazione di crisi sociale gli intellettuali italiani tendono a trattare le tematiche più diffuse del pensiero europeo. La letteratura italiana perde la sua posizione di supremazia e il centro della cultura europea si sposta verso altri paesi.
Il centro culturale più importante d’Italia è Roma, capitale del cattolicesimo e dello Stato della chiesa. Dopo il concilio di Trento la corte papale aveva perso quelle caratteristiche di laicità e corruzione  che avevano provocato la riforma protestante, e pose al centro della sua attività culturale la difesa dell’ortodossia, la celebrazione dei valori morali e spirituali di un cattolicesimo da rilanciare. Pittori, scultori, architetti, da Michelangelo a Bernini, ricevono dalla Curia papale il compito di costruire un’immagine importante del potere ecclesiastico attraverso piazze, fontane, chiese e palazzi.
Dopo Roma il centro culturale più attivo è la Repubblica di Venezia, che per molti aspetti si può considerare l’anti-Roma: la sua indipendenza politica dalla Spagna e dal papato le consente di difendere al suo interno un certo spazio per la libertà di pensiero accogliendo intellettuali anticonformisti in cerca di riparo dalla persecuzione per censura o eresia. La situazione cambia nel corso del Seicento, quando una grave crisi economica obbliga la città a rinchiudersi in se stessa.  . Altri centri culturali mostrano differenti situazioni, ma sempre di declino: fra gli stati governati direttamente dalla Spagna c’è il ducato di Milano, caratterizzato da un’incisiva presenza del cattolicesimo dei cardinali Carlo e Federico Borromeo, impegnati nell’azione sociale. Il Regno di Napoli è quello in cui l’influsso della lingua e della cultura spagnola si fa sentire in modo più forte. Altri centri sono il ducato di Ferrara, dove si sviluppò la tormentata vicenda di Torquato Tasso. Emerge poi la Torino dei Savoia, capitale di una monarchia in crescita e che accoglie intellettuali di un certo peso come Marino, Chiabrera, Tassoni. Firenze perde definitivamente la sua centralità culturale e tende a difendere la sua tradizione linguistica e letteraria. Dopo la messa all’indice dell’Adone di Marino e la condanna di Galileo Galilei, la letteratura italiana perde la sua posizione di supremazia, e il centro della cultura europea si sposta verso altri paesi.
A partire dalla seconda metà del 500 è sempre più rara la figura del letterato e gli scrittori devono mettersi al servizio del potere civile o ecclesiastico. Cosi a partire dagli ultimi decenni del 500 il numero dei letterati si riduce, al loro interno cresce la presenza di nobili e tra i nobili sono in aumento gli  appartenenti al clero.
L’ordine religioso che meglio rappresenta questa subordinazione del lavoro intellettuale alle finalità della chiesa è la compagnia di Gesù fondata dal nobile Ignazio di Loyola nel 1540. I collegi dei gesuiti, diffusi in tutto il mondo cattolico,diventano ben presto la scuola prediletta dall’aristocrazia e dai borghesi in cerca di promozione sociale. I gesuiti sono gli intellettuali più preparati di cui dispone la chiesa della Controriforma, attivi in ogni campo della cultura, della letteratura,della politica.
Un ruolo molto importate in questo periodo è quello delle corti che, tra il 500 e il 600, si trasformano da  luoghi di promozione della cultura a centri di vita politica e amministrativa. Le corti, per chi non ne fa parte, sembrano un luogo irraggiungibile, mentre, per chi ne fa parte, sono un luogo di frustrazioni, dominato dal clima di servilismo e di intrighi.
Una risposta al senso di disagio degli intellettuali a corte è offerto dalle accademie, che aumentano sempre di più diffondendosi in tutta la penisola, sotto il controllo delle autorità politiche e religiose. Le accademie scientifiche si propongono di tener vivi lo studio e le ricerche al di fuori delle università: l’accademia dei Licei a Roma sostiene le ricerche di Galilei, l’accademia del Cimento a Firenze raccoglie i più noti ed importanti allievi di Galilei, ma è costretta a chiudere 10 anni dopo la fondazione.
LINGUA E QUESTIONE DELLA LINGUA
Anche in campo linguistico la Chiesa  contribuì  molto, infatti, con il diffondersi di traduzioni della Bibbia nacquero diverse lingue e letterature nazionali.
Ma in Italia la chiesa preoccupata per la divulgazione della Sacre Scritture ne ostacolò la traduzione e così si accentuò la distanza tra le classi colte e le masse analfabete. Questi ostacoli non bloccarono l’affermazione dell’italiano nel campo della lingua scritta, grazie alle teorie di Bembo, il toscano si ritenne alla pari con il latino, e grazie all’affermazione del volgare ci fu una maggiore diffusione della cultura. Bembo propose dunque l'adozione della lingua fiorentina del Trecento, in particolare quella di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa; Dante non venne considerato sufficientemente esemplare, perché aveva accolto nella Divina Commedia voci provenienti da dialetti o lingue diverse.
Gli scrittori italiani, però,  non trovarono un modello in Petrarca e Boccaccio, indicati da Bembo ma seguirono le teorie di Leonardo Salviati che fu il massimo esponente dell’accademia della Crusca. Il nome fa riferimento alla necessità di separare la crusca dalla farina, ovvero la buona lingua dalla cattiva: l'insegna è infatti quella del cassone di legno entro il quale il mugnaio separava la crusca, ed è accompagnata dal motto "il più bel fior ne coglie", tratto da un verso di Francesco Petrarca.
Salviati si differenziò da Bembo perché non prendeva come modello Petrarca e Boccaccio ma tutti gli scrittori anche quelli minori.
Il vocabolario fu il frutto più importante dell’Accademia della Crusca,esposto nel 1612 che codificò un italiano, modellato sugli esempi trecenteschi. All’uscita del vocabolario il padovano Paolo Beni scrisse l’anti-crusca. L’affermazione del toscano letterario non portò, però, all’uniformità linguistica, infatti, il narratore del Seicento Giambattista Basile scrisse in napoletano e un po’ in tutta la penisola  fiorirono forme di letteratura dialettali.
Un altro ostacolo all’uniformità linguistica fu rappresentato dagli influssi delle lingue straniere. Quella che ebbe maggior influenza fu lo spagnolo (dominazione spagnola), questa situazione linguistica varia e complessa venne utilizzata specialmente in teatro in particolare la commedia dell’arte attribuì a ciascuno dei suoi personaggi una specifica parlata.
Nel Seicento si diffuse la letteratura barocca nata all’insegna della ricerca della novità e dell’originalità, per stupire e suggestionare il lettore. La letteratura barocca ebbe una crescita smisurata di forme, temi e punti di vista. Lo scrittore barocco si pose come specialista della letteratura. La caratteristica principale della letteratura barocca fu l’uso esasperato della metafora (una similitudine abbreviata). Essa  venne condannata da molte persone specialmente dai sacerdoti soprattutto sotto l’influenza spagnola. Con la letteratura barocca nacquero nuovi generi come il melodramma e il romanzo, e anche molti sottogeneri come il poema eroico, il poema eroicomico e la tragicommedia.
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA E GALILEO GALILEI
Nel corso del 600 ci fu la rivoluzione scientifica che ebbe inizio dalla rivoluzione astronomica di Copernico, che poneva il sole e non la Terra al centro dell’universo. Keplero poi individuò il movimento ellittico dei pianeti, mentre Galileo abbandonava la distinzione tra fisica terrestre e fisica celeste.
La rivoluzione scientifica fu preparata nel corso del Rinascimento da una serie di fattori, per esempio la collaborazione tra gli artigiani e gli scienziati che studiavano la natura, poi  si abbandonò la vecchia concezione della scienza come contemplazione pura della verità, di cui si fece interprete Francesco Bacone, che sottolineava l’importanza pratica e operativa del sapere scientifico, egli affermava che la scienza era un sapere che cresce su se stessa nel tempo e si arricchisce sempre più. Nonostante l’ostilità della chiesa cattolica nei confronti del sistema copernicano, la teoria eliocentrica venne sviluppata da Keplero e da Galilei, i quali sostennero che essa non costituiva affatto una semplice ipotesi atta a spiegare i movimenti apparenti dei pianeti ma una descrizione vera della configurazione reale dell’universo.
Con la rivoluzione scientifica si fece strada l’idea che la scienza consisteva in un sapere pubblicamente controllabile. Infatti la scienza sperimentale richiedeva la collaborazione dello scienziato e dell’artigiano nella misura in cui faceva ricorso ad una complessa strumentazione scientifica. Lo strumento, dal semplice cannocchiale di Galilei fino alle sofisticate apparecchiature dei moderni laboratori di fisica, divenne essenziale sia per l’osservazione dei dati sia per il controllo sperimentale dell’ipotesi scientifiche.
Con la rivoluzione scientifica cambiò,infine, l’immagine della conoscenza. In primo luogo essa diventò scienza sperimentale, che si fondava sull’esperienza intesa come esperimento da condurre secondo precise regole metodiche. Decisive furono, le riflessioni di Bacone e Galilei, quest’ultimo contribuì all’elaborazione di un metodo che congiungeva l’osservazione dei fenomeni naturali.
Galileo Galilei, nato a Pisa nel 1564, docente di matematica, dedicò tutta la sua vita alla ricerca scientifica: dalla matematica alla fisica, all’astronomia. A partire dal 1609 attraverso la realizzazione e l’uso scientifico del cannocchiale compì osservazioni astronomiche rivoluzionarie, che smentivano la cosmologia aristotelico - tolemaica. Nel 1610 si trasferì a Firenze, i suoi scritti gli procurarono nel 1616 una condanna dell’Inquisizione che gli intimava di abbandonare la teoria copernicana. Nonostante la proibizione, continuò nei suoi studi nella speranza di poter convincere l’autorità ecclesiastica della liceità delle sue tesi, nel 1632 pubblicò Il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano: nuovamente convocato a Roma, fu costretto, a pronunciare una pubblica abiura. Condannato alla prigione a vita trascorse gli ultimi 10 anni di vita nella meditazione e nello studio; morì nel 1642.
Galileo è considerato il fondatore della scienza moderna, per la sua definizione di un metodo basato sulla ragione e sull’esperienza, svincolato dal principio di autorità. Il “grandissimo libro dell’universo”, dice ne “Il saggiatore” “è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche”: il suo funzionamento non può essere inteso se non si impara a decifrare quel linguaggio. Non si può conoscere il mondo senza l’esperimento. Così la matematica viene applicata alle esperienze, come strumento di calcolo, misure di verifica delle ipotesi: con questo nesso tra “sensate esperienze” e “ necessarie dimostrazioni” Galileo pose le basi al metodo scientifico moderno. Altrettanto importante e nuovo è il modo in cui Galileo impostò lo spinoso problema del rapporto tra la scienza e la religione. Tra le due non può esserci contraddizione perché si riferiscono ad ambiti distinti: la scienza si occupa del funzionamento della natura, la fede invece ha per oggetto quelle verità soprannaturali che lo sguardo e l’intelligenza dell’uomo non possono raggiungere e che sono state rilevate da Dio attraverso la Bibbia. Non c’è dunque conflitto tra fede e ragione, ma una coesistenza pacifica basata sulla reciproca autonomia. Questa distinzione inaccettabile per la Chiesa del tempo, mirava a emancipare la scienza dalle intrusioni del pensiero teologico e dal controllo dell’autorità ecclesiastica, ma apriva anche la strada a un modo più autentico e personale di vivere l’esperienza religiosa. Il punto d’arrivo della rivoluzione scientifica iniziata da Copernico e proseguita da Galileo coincise con la pubblicazione dei “principi matematici della filosofia naturale” dell’inglese Isaac Newton che superarono definitivamente la fisica aristotelica. Per timore che questa teoria potesse dare un immagine autosufficiente della nature e rendere superflua l’idea stessa di Dio, Newton sostenne che il perfetto ordine del cosmo rimandava all’esistenza di un Creatore che interveniva continuamente a regolarne il funzionamento. Ma la caduta del sistema aristotelico - tolemaico aveva inesorabilmente affossato la rassicurante immagine di un universo modellato sulla misura dell’uomo.
Il documento in cui Galilei espone la sua concezione di cristiano e scienziato che rivendica l'autonomia della scienza dalla religione è una sua lettera al Padre Benedetto Castelli, nel 1613. Egli vi scrive che scienza e fede non interferiscono affatto, dato che lavorano su piani separati: la fede parla ed opera sul piano metafisico del mondo, mentre la scienza sul piano fisico.
Galilei dovette difendersi poiché le sue scoperte contrastavano, apparentemente, con alcuni passi della Bibbia: nell'Antico Testamento si dice, infatti, che Dio tenne il Sole fermo per tre giorni per permettere a Giosuè e agli Ebrei di vincere sul nemico, mentre invece Galilei sosteneva che fosse la Terra a girare intorno al Sole. Galilei, tuttavia, obiettò alle accuse, affermando che la Bibbia non è un trattato d'astronomia. Nasce così la visione galileana secondo la quale esistono due "libri", che sono in grado di rivelare la stessa verità, anche se attraverso due diversi campi: uno è la Bibbia, che ha essenzialmente valore salvifico e di redenzione dell'anima, scritto in termini scientificamente approssimativi per il volgo, l'altro è l'universo (cioè la natura), che, a differenza del primo, va letto in maniera scientifica e quindi, per essere ben interpretato, deve essere studiato oggettivamente. Secondo Galilei, i due libri, essendo opera di un unico Autore, non potevano contraddirsi. La sua visione della verità non era dunque, come molti credono, antireligiosa ed atea, al contrario, Galilei fu uno dei primi scienziati a voler conciliare le verità scientifiche con le verità di fede, senza intaccare minimamente né le une né le altre.
La lettera al Padre Castelli suscitò però polemiche violentissime e sarcastiche da parte del clero fiorentino, totalmente conservatore, tali che Galilei si vide costretto a fare pubbliche manifestazioni di Cattolicesimo e ad accorrere perfino a Roma, per difendere in ambienti curiali la propria opera di scienziato credente. Tuttavia la Chiesa Cattolica, avversa alla visione di Galileo dell'armonia e della complementarietà di scienza e fede, che l'avrebbe costretta a riconoscere un ruolo non primario alla teologia, non accettò mai gli argomenti di Galilei sul rapporto tra scienza e religione.
Galileo Galilei scrisse trattati scientifici in volgare e in essi espose direttamente le sue tesi. Tra questi ricordiamo “Il Saggiatore” e il “Dialogo sopra i due massimi sistemi”. “Il Saggiatore” scritto in polemica contro lo scienziato gesuita Orazio Grassi sulla natura delle comete, ottenne molto successo in ambienti ecclesiastici.
Il “Dialogo sopra i due massimi sistemi” mette a confronto tre personaggi Filippo Salviati, Francesco Sagredo e Simplicio. Galilei afferma di aver preso le parti di Copernico. L’opera suscitò entusiastici consensi e accanite opposizioni specialmente da parte dei gesuiti mentre  venne giudicato pernicioso dal Papa Urbano VIII. I discepoli di Galilei furono fedeli al metodo sperimentale del maestro. Le loro attività non si svolsero nelle università ma si svilupparono nelle accademie la più importante fu quella fiorentina del Cimento.
L’avanzarsi della nuova scienza non si limitò ad approfondire i dogmi sui quali si fondava il sapere ufficiale, ma mise in discussione i dati della percezione del senso comune. Ancora oggi l’idea che la terra sia un minuscolo pianeta sperduto in un Universo infinito e che si muova sotto i nostri piedi,ci dà un senso di smarrimento e di vertigine.
Nella metà del ’500 la crisi generale dei valori e delle conoscenze tradizionali portarono all’introspezione, il gusto per l’analisi delle contraddizioni e delle sfumature psicologiche portarono a prese di posizione anticonformiste e individualistiche. Quindi l’atteggiamento dell’uomo saggio è quello del dubbio e della relativizzazione. L’elogio del dubbio aprì la strada all’esaltazione della libertà di pensiero. Il francese Pierre Charron scrisse che il maestro doveva insegnare all’allievo a non acconsentire a qualcosa solo per l’autorità di chi la dice. Questa importante presa di diritti della ragione del pensiero esercitò un’importante influenza sul pensiero illuministico del Settecento.
La rivoluzione scientifica portò nuove inquietudini tra aristotelismo e cattolicesimo da cui Dio sembrò assente. Uno dei maggiori scienziati dell’epoca, il francese Blaise Pascal, denunciò nei suoi “Pensieri” “la vana curiosità” della ricerca scientifica, incapace di rispondere alle domande sull’esistenza dell’uomo o del soprannaturale. Pascal affermò che noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione ma anche con il cuore, per lui questa è la fede: Dio è sensibile al cuore e non alla ragione. Tra le sfumature di un’epoca divisa tra la scienza e misticismo, acquistò un’importanza fondamentale il tema del conflitto tra razionalità e irrazionalità e del sottile confine che le separa. Per tutta l’epoca, il tema della follia attraversò la letteratura e l’arte come simbolo della difficoltà di dare un nuovo valore all’esperienza umana.         
IL ROMANZO E LA NOVELLA
Tra 500 e 600 in Europa si afferma il romanzo in prosa, un genere capace di rispondere alle esigenze moderne dell’epoca meglio del poema, che stava concludendo la sua storia. Il romanzo si rivolge ad un pubblico ampio e vario meno elevato e attinge al poema epico cavalleresco, alla narrativa greco romana e al teatro contemporaneo, mescolandone le tecniche. Le vicende sono di tipo avventuroso, amoroso e guerresco che si alternano fra loro. Già nel secolo precedente erano stati creati capolavori appartenenti a questo nuovo genere: il “don Chisciotte” e il “Gargantua e Pantagruel”. Grazie ad un vasto pubblico che garantisce guadagni a editori e autori, il nuovo genere diventa internazionale, arrivando anche in Italia, dove iniziano a circolare le traduzioni di opere stranieri, e gli autori italiani sono tradotti in  molte lingue europee. Mentre in Francia e Spagna nascono opere di grande valore, in Italia c’è una produzione  vasta localizzata in particolare nelle città di  Genova e Venezia. I maggiori esponenti sono: Giovanni Ambrogio Marini con il “Colloandro fedele” e Francesco Fulvio Frugoni con il “cane di Diogene”.
La vita in questo secolo viene rappresentata come un’immensa mascherata, dove il mondo si maschera. A differenza del  poema, la novella regge alla concorrenza del romanzo mantenendo un posto nella produzione letteraria, adeguandosi ai nuovi gusti del pubblico. Il modello strutturale e linguistico del Decameron perde di autorevolezza e viene abbandonato, mentre lo stile si fa sempre più prezioso e sovrabbondante. Su questo sfondo, che non offre motivi di particolare interesse, un posto a parte spetta a “Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenimento de li piccerille ”, una raccolta di fiabe in dialetto napoletano di GiovamBattista Basile, cortigiano e letterato, autore di opere in prosa. La struttura è simile al Decameron, ma invece di novelle ci sono fiabe inventate, dove i personaggi sono di tipo fiabesco (orchi, fate, streghe), le narratrici non sono più belle ragazze ma delle vecchie comare napoletane.
LA LIRICA
La figura centrale della lirica del secondo Cinquecento è sicuramente Torquato Tasso, che esprime le inquietudini e le contraddizioni dell’epoca. Per i poeti degli ultimi decenni del secolo il punto di riferimento fondamentale resta Petrarca, con una frequenza e un gusto sperimentale che ne snaturano la misura e l’armonia originaria. Il gusto per la sperimentazione raggiunge il culmine nella lirica barocca del Seicento: il pubblico di corte concepisce la poesia come un prodotto di consumo, per cui il poeta è costretto a escogitare trovate sempre nuove per avere successo. Le competizioni della vita cortigiana inducono i poeti a gesti spregiudicati per reclamizzare se stessi ed attaccare i rivali. Un tipico esponente di questo clima pirotecnico e rissoso è Giambattista  Marino, estroso avventuriero della penna e indiscusso caposcuola  della poesia barocca in Italia.  Nato a Napoli da una famiglia borghese, contro la volontà del padre si dà con spregiudicato arrivismo alla carriera letteraria, nel 1600 dopo essere stato due volte in prigione fugge da Napoli e vagabonda da Roma a Ravenna dove trova una sistemazione presso la corte sabauda. Nel 1615, grazie alle sue capacità autopromozionali ottiene ospitalità e onore alla corte di Francia, nel 1623 ritorna a Napoli dove trascorre gli ultimi anni della sua vita. Marino rompe decisamente con il patriarchismo accostandosi alle più diverse voci della tradizione poetica come a un repertorio di materiale che il poeta moderno può citare, deformare, riutilizzare con disinvoltura. Il principio classicistico dell’imitazione si trasforma in una specie di sfida, in cui Marino si propone di dimostrare la sua superiorità rispetto agli autori da cui prende spunto. Al di là dell’impressionante varietà di contenuti, ciò che accomuna la sua produzione poetica è la ricerca di una musicalità e la passione per la sontuosità degli oggetti e delle immagini.
L’influenza di Marino si fa sentire su quasi tutti i poeti italiani  del 600 nel campo della poesia amorosa dove, alla figura femminile sempre bionda e incorporea cantata dai petrarchisti, subentra una vasta gamma di donne bionde, brune, rosse, giovani e vecchie, colte nelle più diverse situazioni con una spiccata preferenza per i casi anomali e le intonazioni macabre e sacre. La forma metrica è quella agile del sonetto, che consente al poeta di prendere spunto da un aspetto del mondo reale per farne scaturire paradossi e metafore che culminano con un gioco di parole o una sorpresa finale che conferma l’effetto di stupore.
In contrapposizione alla fastosità del marinismo alcuni poeti rivendicano la necessità del ritorno a una poesia più semplice e lineare. Il principale esponente di questa tendenza è Gabriello Chiabrera.
COMMEDIA DELL’ARTE, DRAMMA PASTORALE, MELODRAMMA E TRAGEDIA
Nel Seicento si crearono nuovi generi non più corrispondenti alle forme classiche (dalla tragicommedia, al melodramma, alla Commedia dell'Arte) e nuove professioni legate al teatro, come quella dell'attore, e venne fissata la forma della sala teatrale, con la separazione degli spazi destinati alla scena e agli spettatori.
La vitalità del teatro nel Seicento va ben oltre quella dei testi drammatici, che sono modesti in Italia rispetto all'Europa: in Francia (Molière), in Spagna, in Inghilterra (Shakespeare ) abbondano grandi testi, a fronte dei quali l'Italia può vantare poco. Ma l'Italia tra Cinque e Seicento vide nascere, svilupparsi e passare poi in Europa forme teatrali fortemente spettacolari. Un caso è quello della Commedia dell'Arte, teatro profano del corpo e della maschera. È un teatro di professionisti che, organizzati in compagnie girovaghe, comunicano con la bravura tecnica e l'espressività del corpo, improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. Gli attori indossano la maschera per tipizzare qualità psicologiche o regionali del personaggio.
La definizione Commedia dell'Arte (il termine arte qui ha il significato medievale di mestiere) venne appositamente creata per distinguere il teatro rappresentato da attori di professione da quello praticato nelle corti da letterati e cortigiani e sui sagrati delle chiese da chierici e diaconi.  Le compagnie professioniste non mettevano in scena veri e propri testi di autore ma, basandosi su un canovaccio, rappresentavano vicende ispirate alla realtà quotidiana, arricchite con numeri acrobatici, danze e canti.
Per gli spettacoli gli attori utilizzavano semplici palchi all'aperto o luoghi più convenzionali per spettacoli. Le commedie si basavano su personaggi dai caratteri stereotipati, un'esagerata gestualità, dialoghi basati sull'improvvisazione, interludi musicali e buffonerie, elementi, questi, in grado di soddisfare un vasto pubblico di diversa estrazione sociale e culturale. A differenza di quanto accadeva per le compagnie di teatro tradizionale, quelle della Commedia dell'Arte assoldavano attrici professioniste invece di far recitare agli uomini le parti femminili.
Le maschere maggiormente comiche della Commedia dell'Arte sono quelle del servo sempliciotto e pasticcione (ad esempio Brighella) e  del servitore abile e scaltro. Il più noto tra questi ultimi è sicuramente Arlecchino, servo ladro e bugiardo, sempre affamato e perennemente bastonato dal padrone, che indossava un abito a losanghe multicolori e una maschera nera col naso camuso. Pigro, ladruncolo, chiacchierone e vorace è invece Pulcinella, il quale portava una maschera nera con naso a becco, camicione bianco e, come Arlecchino, la spatola. Ricordiamo ancora Pantalone, mercante ricco e intraprendente, acceso da velleità amorose malgrado l'età avanzata, caratterizzato da zimarra nera e barbetta a punta; il Dottor Balanzone, pedante accademico che in un latino maccheronico pronunciava in tono saccente frasi prive di senso; Colombina, la servetta linguacciuta e civettuola.
Accanto alla commedia si sviluppò il dramma pastorale. Le vicende rappresentate, intricati amori a lieto fine tra pastori e pastorelle ambientati in un Grecia favolosa e fuori del tempo, rispondono alle esigenze del pubblico delle corti. La struttura ricalca quella della tragedia regolare, un prologo, seguito da cinque atti in versi endecasillabi e settenari, conclusi  da un coro; negli intervalli  tra un atto e l’altro  gli intermezzi musicali con coreografie e danze accentuano  il carattere festoso e mondano della rappresentazione. Il centro del dramma pastorale cinquecentesco è la Ferrara degli Estensi
Un altro caso è quello del dramma per musica (per il quale in seguito si sarebbe utilizzato il termine "melodramma"). La produzione più ricca si ebbe a Venezia con la costruzione di teatri pubblici a pagamento e a Roma, dove gli ambienti ecclesiastici diedero vita a un teatro morale o basato sulla storia sacra. In mancanza di norme definite, il genere assunse forme varie, e nel processo evolutivo il testo drammatico assunse forme sempre più schematiche fino alla sua subordinazione alla musica.
Alla fine del Cinquecento, si sviluppò anche la tragedia che, con attenzione alla politica e alle riflessioni sulla ragion di stato, indulgeva a un gusto truce e violento secondo il modello del latino Seneca.

 

Fonte: http://classe4ba.altervista.org/1_LA_LETTERATURA_ALLA_FINE_DEL_500_E_NEL_600.doc

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