Post-moderno

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Post-moderno

Post-moderno e altri post

«È un segno di benessere e di potenza, la misura in cui uno può riconoscere nelle cose il loro carattere terribile e problematico, e il fatto di non aver bisogno di... “soluzioni” definitive.»
(F. Nietzsche, Frammenti postumi della “Volontà di potenza”)
«un tale specchio sfacciato e non critico di quel che ci circonda fu come una boccata d’aria pura»
(Lippard Lucy R. Pop art, Rusconi, Milano 1989)
« Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto.» Wittgenstein, Ludwig Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1963)
«L’arte mette in disordine la vita. … I poeti dell’umanità ristabiliscono ogni volta il caos» Karl Kraus Pro domo et mundo.
«L’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società più sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. La definizione è corrente nella letteratura sociologica e critica dei continente americano. Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la crisi delle narrazioni.» Lyotard, Jean-François 1979 La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1991 p.5
« Cosa è il Postmoderno . «Uno spettro si aggira perl’Europa: il Post-Modern». Così un articolista di «Le Monde» ha intitolato un servizio sul fenomeno più appassionante che si sia verificato nel mondo della cultura negli ultimi anni, un fenomeno esploso vistosamente in America alla fine dello scorso decennio ma che ha radici profonde soprattutto in Europa e in Europa sta trovando il terreno più adatto per il dibattito teorico. Ma di che cosa si tratta con esattezza? È possibile dare una definizione univoca del senso di questa parola così paradossale e irritante? È possibile — secondo me — solo se si rinuncia a pensarla come una etichetta che designa cose omogenee e convergenti e si ammette che la sua utilità sta proprio nell’aver consentito di mettere insieme provvisoriamente e paragonare tra loro cose diverse, nate però da un comune stato d’animo di insoddisfazione nei confronti di quell’insieme, altrettanto eterogeneo di cose che va sotto il nome di modernità. In altre parole il postmoderno è rifiuto, rottura, abbandono, assai più di quanto non sia scelta di una direzione di marcia.» Portoghesi Paolo 1982 Postmodern, Electa, Milano p.7

1. la difficoltà di un termine e di un prefisso
1.1. il termine “postmoderno” compare sporadicamente negli anni trenta, è presente nel dibattito culturale negli anni cinquanta, diventa termine comune a partire dagli anni settanta, ricorre oggi tra gli stereotipi oggetto sia di apprezzamento che di forte critica.
1.2. il termine esprime una difficoltà e una debolezza concettuale a descrivere, come intende, contemporaneamente, un passaggio in atto, una situazione presente, un progetto futuro.
« I fenomeni culturali e tecnologici che attraversano la società contemporanea — di cui sono state offerte numerose e divergenti analisi — sono il sintomo di profondi cambiamenti nei confronti dei quali gli schemi interpretativi del passato si rivelano insufficienti. “Postmoderna” è una delle caratterizzazioni possibili per la situazione in cui viviamo. “Postmoderno” è così, negativamente, un modo per sottolineare l’inadeguatezza della concettualità moderna a cogliere appieno la specificità del mondo contemporaneo; ma è anche, positivamente, la proposta di un rapporto con esso e con il suo passato — la modernità, appunto — non regressivo né nostalgico. “Postmoderno” è un pensiero che accetta le sfide della complessità, della pluralità, dell’intersecarsi continuo degli orizzonti prodotto dalle nuove tecnologie della comunicazione, e che in base a ciò riscrive i criteri dell’identificazione e dell’identità, ridisegna gli spazi del sociale e si avventura rischiosamente nei nuovi territori di frontiera tra etica e tecnica, politica e mercato, cultura e produzione industriale.»
Chiurazzi, Gaetano 2002 Il postmoderno, B.Mondadori, Milano
1.3. l’eccesso di esposizione crea disorientamento: tutto è post.
«Il tema di questo libro è il “post”, prefisso non appariscente ma parola chiave del nostro tempo. Tutto è “post”. Ci eravamo ormai abituati al “post-industrialismo”, un termine cui riusciamo ancora ad associare dei contenuti. Con il “post-moderno” le cose cominciano a confondersi. Nell’oscurità concettuale del postilluminismo tutte le vacche si danno la buona notte. “Post” è la parola in codice per un disorientamento che si fa moda. Rinvia ad un “oltre” che non sa nominare, ma resta legato ai contenuti che nomina enega, nell’irrigidimento di ciò che è noto. Passato più ‘post’: è questa la ricetta di fondo con cui noi, in verbosa e ottusa incomprensione, fronteggiamo una realtà che ci appare in disgregazione.
Questo libro è un tentativo di individuare le tracce della parola “post” (o dei sinonimi “dopo”, “tardo”, “al di là”), nello sforzo di comprendere i contenuti che le ha dato lo sviluppo storico della modernità negli ultimi due o tre decenni. Ciò è possibile soltanto dopo una dura lotta contro le vecchie teorie e le abitudini di pensiero che proprio grazie alla parola “post” sopravvivono a se stesse.» Beck, Ulrich 1986 La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000
Un tentativo di mettere in tabella le numerose identificazioni del post. « James Beniger (1986: 4-5) ha provato a mettere in una tabella le principali trasformazioni della società dal 1950 al 1984, associandole con l’autore che le ha identificate e descritte. In quella tabella si trovano: l’uomo post-storico di Seidenberg (1950),la società post-capitalista di Dahrendorf (1959), l’economia post-matura di Rostow (1960), la società post-borghese di Lichtheim (1963), l’era post-civilizzata di Boulding (1964), la società post-moderna di Etzioni (1968) e Breed (1971), la società post-collettivista di Beer (1969), la società post-ideologica di Feuer (1969), la società post-economica di Kahn (1970), l’età post-liberale di Vickers (1970), la società posi-industriale di Touraine (1971) e Bell (1973), la società post-tradizionale di Eisenstadt (1972).»
Nacci Michela 1995 Postmoderno, in Rossi Paolo (a cura di) Filosofia, vol. IV, Utet, Torino.

1.4. un tentativo di individuare il concetto nascosto nel prefisso “post” in vista del suo uso per delineare un orientamento nella contemporaneità.
1.4.1. Per la sua ricorrenza (post-moderno, post-illuminismo, post-industriale, post-fordismo, post-liberale, post-marxista, post-analitico, post-metafisico … post-storia, post-umano [R.Marchesini, Post-human, Bollati Boringhieri, Torino 2003: «Per il postumanesimo l’uomo è semplicemente un essere transizionale eteroriferito»]) è evidente che in quei termini, come nel termine “postmoderno”, «l’accento cade più sul prefisso “post” che non sull’aggettivo “moderno” ecc.» (Chiurazzi); si rende necessario coglierne il senso generale: segnala la consapevolezza della impossibilità ad indicare e assumere sia una continuità storica che una discontinuità. La continuità presuppone una dichiarazione di fedeltà ai valori, alle forme e ai contenuti delle tradizioni richiamate, la discontinuità presuppone una critica e una volontà di abbandono di lasciti precedenti in quanto si dispone di un’altra direzione e di altri modelli da contrapporre e realizzare; condizioni che non si danno. 
1.4.1.1. rinvia ad un oltre che non si sa denominare, e segnala più un disorientamento che una conoscenza;
1.4.1.2. segnala in prima istanza una realtà che viene colta/giudicata come in disgregazione o, perlomeno, in forte evoluzione;
1.4.1.3. vuole sostituire e opporsi ad altre formule e prefissi altrettanto ricorrenti come “neo”, “secondo”, “nuovo”, “ri-”, “re-”…questi tendono a riconfermare le vecchie teorie e le vecchie abitudini di pensiero, sulla convinzione che sia sufficiente un loro ammodernamento e restauro (neo, ri-) per rilanciarne l’efficacia.

2. orientamento e definizione per confronto: moderno e postmoderno
Per tratti essenziali e sintetici in forma di prima presentazione, con avvertenze preliminari da molti espresse in forma critica.
2.1. quale moderno per il postmoderno. 
«Una mossa molto tipica è quella di definire il postmoderno definendo il moderno. Si può anzi affermare che questa sia la mossa più caratteristica del postmoderno, che si definisce quasi sempre e contrario,o comunque prendendo come riferimento tratti del moderno decaduti, non più validi, che è impossibile seguire ancora… 
Sono stati in molti, in effetti, a notare che il moderno non è altro che un bersaglio polemico: anche quando si riconosca tutta la difficoltà di darne una definizione soddisfacente, resta che definizioni vaghe come quelle che comprendono tutto — Bacone e l’Illuminismo, Rousseau e Nietzsche, Kant e Le Corbusier — finiscono per non indicare niente di preciso. Scrive ad esempio Harvey: «il postmodernismo vede se stesso in modo piuttosto semplice: in gran parte come movimento deliberato piuttosto caotico per superare tutti i supposti mali del modernismo. Ma a questo proposito ritengo che i postmodernisti esagerino quando descrivono il moderno nei loro termini grossolani, facendo una caricatura dell’intero movimento modernista fino al punto in cui, come ammette lo stesso Jencks, «attaccare l’architettura moderna è diventato una forma di sadismo troppo facile»» (Harvey, 1993: 143). Riferendosi all’immagine del moderno costruita dai postmoderni (autolegittimazione del sapere scientifico, coincidenza tra verità ed emancipazione, tempo lineare, ragione forte) Rossi ha scritto: “Pensando queste cose hanno pensato male. Hanno affermato cose banali che, avendo l’aria di essere epocali, appaiono profonde ai poveri di spirito. Non hanno letto i moderni, ma i manuali che parlano di essi. Sulla base di questa lettura hanno trasferito all’indietro e proiettato in avanti (fino a farla coincidere con l’intera modernità) quella ottocentesca ideologia “comtiana” del progresso che solo per un breve periodo diventò ‘la fede media della intellettualità europea e delle classi dirigenti’” (Rossi, 1994: 357).  … il risultato è che la modernità della quale si parla è tutto e niente allo stesso tempo, è positivista e razionalista, scientista e ingenuamente progressista, è empirista e umanista, come se tutti questi termini fossero sinonimi, Soprattutto, sembra che serva a incarnare i difetti che in quel momento interessa mettete in evidenza.». (in Nacci, o.c.)

2.2. un quadro per il confronto 


Il mito del progresso necessario e infinito: modernità è consapevolezza di sé, del nuovo, dell’oggi (dal latino modo, recente, attuale, ora) come contesto di valore e di progresso, in opposizione agli antichi;o perché “si vede più in là di loro”(grazie a loro, Bernardo di Chartres) o perchè si assume il “coraggio del sapere” (Kant); la storia è linearità progressiva razionale (Hegel).

L’idea di progresso è messa in crisi da esperienze devastanti di segno contrario: guerre mondiali, genocidi e totalitarismi politici e religiosi, disuguaglianze e miserie in crescita, crisi e crolli ciclici del modello dominante di profitto e di sviluppo, alienazioni prodotte e richieste dal “progresso”, difficoltà a leggere il presente per guidare un futuro lineare e progressivo; l’idea della fine della storia.

La libertà come emancipazione. La “libertà dei moderni è individuale” (B. Constant) contro vincoli politici, morali sociali di tipo collettivo o universali (contro la “libertà degli antichi”, il bene individuale era nel bene comune)

La libertà individuale di pochi, in progressiva espansione, richiede l’esclusione di molti (individui e popoli) dallo “sviluppo”, dai diritti dichiarati naturali, dalle opportunità; fa passare in secondo piano il bene comune.

Il progressivo dominio della natura: scienza e tecnologia abbinate garantiscono il potere  dell’uomo sulla natura verso un’utopia tecnologica totale (Bacone). Sapere = potere contro il sapere contemplativo degli antichi (Platone, Aristotele).

Il rapporto tra uomo e natura crea una società e situazione del rischio: l’esigenza di uno sviluppo rapido produce la distruzione di risorse naturali non più riproducibili, non è in  grado di prevedere sui tempi lunghi gli effetti del proprio intervento (ecologismo).

L’oggettivismo: il sapere è la scienza ed è definizione oggettiva, matematica e deterministica della realtà e delle sue leggi, garanzia di dominio.

Il razionalismo attua una razionalità strumentale (Weber) che riduce univocamente ad un solo modello dominante e uniformante le potenzialità culturali e tecniche. 

L’omologazione dell’esperienza: un unico modello (scientifico, matematico; costruito per ipotesi, deduzioni, sperimentazioni) è applicato all’intera realtà, naturale e umana (Newton).

Non determinismo, ma casualità e indeterminismo sono contesto di definizione di nuovi paradigmi scientifici e progetti di ricerca sperimentale congetturale (Popper ecc.).

L’universalismo naturalistico: la ragione è comune a tutti e il modello illuministico si impone come contesto di uguaglianza.

Contro una uguaglianza  in termini di omologazione si insiste sulla diversificazione e differenza, vero principio di uguaglianza

Le identità nazionali come contesto di libertà e di autonomia; i simboli e i poteri dello Stato moderno nazionale.

I tratti globali, postnazionali, della cultura e dell’economia. La forza e sovranità dello Stato si attuano negli organismi internazionali.

Il quadro-confronto è ripreso (liberamente modificato) da Chiurazzi (o.c.) che conclude: «Il dibattito politico postmoderno verte sui fondamenti stessi della società e delle istituzioni della modernità, al fine di evidenziarne i limiti per far emergere emarginazioni, subordinazioni, esclusioni. Sempre in bilico tra utopia e realismo, critica e integrazione, la prospettiva politica postmoderna è quella di un mondo dall’equilibrio difficile e forse non cercato, volutamente infranto, in cui l’uguaglianza non cancelli la differenza, l’identità l’alterità; in cui sia possibile un’eterogeneità senza gerarchia, una società senza comunità e senza comunitarismo: caratteri che pongono in discussione presupposizioni e obiettivi politici tanto di destra quanto di sinistra, e che rendono praticabile una connotazione del postmoderno a un tempo come postliberale e postmarxista.» (Chiurazzi p.13-14). Il postmoderno deve convivere con una percezione bivalente e irrisolta del mondo contemporanea. «La scienza è temuta quanto ammirata: può, lo si sa, provocare catastrofi, così come può scoprire nuove fonti di energia. L’energia atomica, per prima, ha reso evidente questa ambiguità agli occhi della popolazione» (Touraine A. La globalizazione e la fine del sociale, Milano, 2008, p.268).
2.3. il dibattito sulla relazione di continuità –discontinuità moderno / postmoderno.
Non è oggetto di critica solo il modo con cui i sostenitori del postmoderno delineano i tratti della modernità, accusati di delinearne un quadro sommario, impreciso, palesemente funzionale al sostegno del proprio stile “postmoderno”, ma è messa in discussione l’idea di poter proclamare sul finire del ‘900 la fine di un’epoca, quella moderna, e l’inizio di un nuovo periodo. Il problema è se è il caso di scomodare i termini epoca, età, era per annunciare una rottura profonda che ha come riferimento l’intera età moderna (dall’anno 1000 al 2000 circa) per indicare quella produzione che potrebbe più semplicemente essere inserita nel naturale mutamento della sensibilità estetica nel corso del tempo. A risolvere il quesito (accademico) si può valutare quale delle due formule (evoluzione e continuità, rivoluzione e discontinuità) permette di cogliere la dinamica della cultura di ciò che viene prodotto oggi, di comprendere la società contemporanea (a partire dalla fine del ‘900). «Il postmoderno si colloca per Habermas nel processo moderno che si snoda fra continuità e rotture, si configura come una nuova modernità, cioè è parte del movimento della «modernità incompiuta». Habermas peraltro prende molto sul serio la crisi dei fondamenti messa in gioco dai postmoderni. Rintraccia le radici della critica della modernità nei suoi maestri, cioè precisamente nella Dialettica dell’Illuminismo:ma continua a distinguere gli effetti perversi dell’Illuminismo (e in questo senso il fallimento dei Lumi) dal loro progetto secondo il quale la filosofia ha il compito di rischiarare l’umanità e non quello di ripiegarsi su se stessa.». In modo più critico e polemico Fredric Jameson ritiene che il postmoderno, per le scelte culturali che lo caratterizzano, esprima solo l’ideologia del tardo capitalismo, «una radicalizzazione delle caratteristiche della società capitalista borghese emersa a partire dalla Rivoluzione industriale: in primo luogo la riduzione di qualsiasi prodotto a merce, la generalizzazione del valore di scambio fino alla scomparsa della memoria di qualsiasi valore d’uso, e il conseguente affermarsi di una società con uno stile di vita consumistico che domina gusto e moda, una cultura dello spettacolo che giunge a una dissoluzione del senso della realtà riducendo tutto a feticcio, simulacro, immagine.» (Chiurazzi, o.c. p.15) È il pieno assorbimento della cultura nella sfera del capitale e del mercato.

3. postmoderno: modello, paradigma, stile … elementi di composizione. 
3.1. citazionismo. «…la considerazione del passato come un baule pieno di possibilità tutte egualmente valide, e il pescare pezzi, frammenti, spezzoni, di queste varie possibilità senza offrire più un intero, un corpo di convinzioni un’attenzione marcata per tutto ciò che è immagine e cambiamento, dunque per la moda, la pubblicità, il mondo della comunicazione, lo spettacolo, in una parola quello che si chiama l’effimero. … Questo assemblaggio di parti differenti, un tempo valide (cioè appartenenti ai grandi racconti della modernità), è proprio ciò che caratterizza il postmoderno: oggi la fede che si può riporre in quei prodotti culturali non è la medesima, e soprattutto l’unione di tante verità spezzettate, di tante storie parziali, non fa una verità grande, una storia coerente.» (Nacci, o.c.); «ci si muove nella storia in maniera puramente “estetica”, con un atteggiamento eclettico intessuto di citazioni, un collage di stili che li rende tutti “contemporanei”» (Chiurazzi o.c. 16); «Più corretto è, a mio modo di vedere, cercare di cogliere la specificità del fenomeno rilevandone le differenze sostanziali rispetto a ciò da cui vuol distinguersi, la modernità, appunto, in ciò che essa ha di più tipico. E poiché la modernità coincide nella cultura architettonica occidentale con il progressivo rigoroso distacco da tutto ciò che è tradizionale, va rilevato che, in campo architettonico, postmodernità vuol dire esplicita, consapevole abolizione della diga attentamente costruita attorno alla lingua pura elaborata in vitro in base allo statuto razionalista e ripresa di contatto con l’universo di discorso dell’architettura, con l’intera serie storica delle sue esperienze passate, senza più distinzione di prima o dopo rispetto alla linea di demarcazione della prima rivoluzione industriale.» (Portoghesi Paolo 1982 Postmodern. L’architettura nella società post-industriale, Electa, Milano p.10-11) E la citazione in apertura di capitolo: «Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiuolo” Nietzsche (ivi).

3.2. contaminazione, ibridazione, moltiplicazione dei linguaggi … «La letteratura postmoderna, e il prodotto artistico in generale, sono non solo una serie di citazioni, ma anche contaminazione, e questo vale in vari campi: è la compresenza di generi, materiali, oggetti e stili eterogenei. L’opera d’arte asettica, costruita sulla base di materiali coerenti, non ha più legittimità. Più adeguato èporre gli uni accanto agli altri i brandelli di vita vissuta come sono resi immediatamente dall’intervista o dalla confessione, gli spezzoni narrativi «classici» (ma incompiuti) e i brani di mondo reale, di vita ufficiale: notiziari televisivi, giornali, riviste, documentari. Ma si tratta anche di una contaminazione di teneri: tipico il caso del film (Barton Fink dei fratelli Coen èun ottimo esempio) che mischia continuamente la commedia leggera e la tragedia. In letteratura, sarà la commistione fra giornalismo, autobiografia e narrativa intesa alla vecchia maniera. Ognuno di questi spezzoni èperfetto, dotato di senso: èl’insieme che ha un senso diverso dal passato, ovvero è l’insieme che èimproponibile.» (Nacci, o.c.) 

3.3. emporio. «Esempi tangibili, vicini alla nostra esperienza quotidiana, della realtà postmoderna sono per qualche autore i fenomeni di internazionalizzazione dei costumi più tipicamente locali, come i prodotti e gli stili culinari: formaggi francesi ovunque, decine di tipi di birra in ogni città, ristoranti «esotici» un po’ dappertutto, un vero emporio di tutto quello che è possibile provare» (Nacci, o.c.); anche il passato “nobile”, come quello artistico, è richiamato in forma di emporio: ritorna il gotico, il manierismo, il barocco già di per sé contesto di emporio. Differenziazione e pluralità di stili caratterizzano il postmoderno. «Anzitutto il Post-Modern è evoluzionistico più che rivoluzionario; non nega la tradizione moderna, ma la interpreta, liberamente, la integra, ne ripercorre criticamente le glorie e gli errori. Contro i dogmi della univalenza, della coerenza stilistica personale, dell’equilibrio statico o dinamico, contro la purezza e l’assenza di ogni elemento « volgare », l’architettura post-moderna rivaluta l’ambiguità e l’ironia, la pluralità degli stili, il doppio codice che le permette di rivolgersi da una parte al gusto popolare, attraverso la citazione storica o vernacolare, e dall’altra agli addetti ai lavori, attraverso l’esplicitazione del metodo compositivo e quello che viene definito «il giuoco degli scacchi» applicato alla composizione e scomposizione dell’oggetto architettonico. Contro il dogmatico inibito distacco dalle forme della storia che hanno precluso all’architettura moderna il principale strumento di comprensione popolare, il riferimento cioè alla memoria collettiva, le nuove tendenze sostengono la necessità della contaminazione tra memorie storiche e tradizione del nuovo e soprattutto la «ricontestualizzazione» dell’architettura, l’istituzione cioè di un rapporto preciso, di natura dialogica, tra i nuovi edifici e l’ambiente in cui sorgono, sia esso l’ambiente della periferia o quello dei centri storici. Portoghesi Paolo 1980 Dopo l’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari, 1987 p. 59-60.
«Questa architettura si colloca quindi nella prospettiva di un reinventato «senso comune», nella volontà di fare un’arte «meno nobile», volta a soddisfare anche le esigenze dell’uomo della strada. Il farsi carico di una coscienza collettiva esprime la consapevolezza che il pluralismo a cui ci costringe la contemporaneità impone l’accettazione dell’eterogeneità e della differenza come mediatrici per resistere all’imposizione di semplici e indiscutibili verità, per una architettura volta a riscoprire le sue innumerevoli tradizioni, regionali e storiche, locali nello spazio e nel tempo. Il progetto è teso quindi alla riscoperta dell’esistente, servendosi di un materiale che è già a disposizione.» (Vaccaro C. o.c. p.12)
Lo sguardo rivolto al gusto popolare, un guardare divertito, irriverente e ad un tempo analitico, si traduce in scoperta di un ipotetico inconscio collettivo locale (in forme di miti affidati a immagini in stereotipi ricorrenti), in annotazione partecipata degli atteggiamenti percettivi estetici contemporanei socialmente diffusi. Abbandonando aristocratici distacchi dal “gusto popolare” si avvia un rinnovamento delle forme espressive nei tratti postmoderni del “pastiche”. Eloquente lo studio di Pantaleo Raul 2006Un Pisolo in giardino. Segni, sogni, simboli alla periferia dell'abitare, Elèuthera, Milano sulle figure che svariate e prevedibili che si ripetono nei giardini privati (Veneri e Madonne, Bronzi di Riace e Garibaldi, leoni e leprotti, aquile e oche, fontane e rocce artificiali) riflettono gli autori con le competenze congiunte dello psicanalista, di formazione junghiana, e dell’ingegnere.

3.4. pastiche. « Il postmoderno è mercificazione dell’oggetto», è «sostituzione del soggetto alienato con il soggetto frammentato» (Jameson, 1989), è decentramento del soggetto, è caduta dell’idea di stile unico e personale, è dominio di categorie spaziali e non temporali, è inattingibilità della storia passata e del mondo reale, è muoversi fra immagini, è impossibilità di organizzare passato e futuro in un’esperienza coerente, è testualità, scrittura schizofrenica, è pastiche, poichè — con la caduta dello stile — «i produttori di cultura non possono rivolgersi che al passato: all’imitazione di stili morti, a un eloquio costituito da tutte le maschere e le voci immagazzinate nel museo immaginario di una cultura divenuta globale» (ibidem).» (Nacci, o.c.). Il citazionismo eclettico e la forma del pastiche sono considerati il modo per riprendere l’antico e collocarlo nel presente (o è la consapevolezza ermeneutica che questo è sempre stato il modo con cui ci si è rapportati all’antico, se ciò che resta è risultato di selezione di ciò che, spesso casualmente, resta).
Può valere come riferimento: Jasper Fforde, Il pozzo delle trame perdute, Marcos y marcos, Milano 2007   

3.5. eclettismo. «Eclettismo diventa una delle parole d’ordine degli architetti postmoderni, che pensano a edifici non disadorni, preparati per un destinatario particolare, e mutevoli (ovvero effimeri). In questa prospettiva, la città diventa (come per l’architetto inglese Leon Krier) una serie di micro-città funzionali, di comunità nelle quali la vita è vivibile, e non un insieme gigantesco di macroentità (centri, grattacieli, zone residenziali) fra le quali è impossibile spostarsi agilmente.» (Nacci o.c.) .
3.5.1 le forme architettoniche dell’eclettismo: le forme di relazione. Un esempio. 1984 La Grande Mela, Times Square Plaza, New York. (Pur nella consapevolezza della più volte dichiarata non appartenenza e non attribuibilità al post-moderno dell’opera del gruppo che fa riferimento a Robert Venturi, in particolare Denise Scott Brown, Steven Izenour, David M. Vaughan) 
Progetto. Venturi, Rauch e Scott Brown.  Incaricato del piano generale per Times Square, Philip Johnson propone quattro edifici per uffici di diversa altezza. Allo studio VRSB viene richiesto in seguito il progetto di un monumento al centro della nuova piazza, un simbolo del tradizionale carattere popolare e commerciale di questo luogo.
Gli architetti propongono una Grande Mela: una scultura rappresentativa, audace e chiara nella forma, carica di simbolismo e di realismo. Popolare ed esoterica, la Grande Mela è simbolo della città di New York e insieme un oggetto surrealistico che evoca René Magritte o un monumento della Pop Art alla maniera di Claes Oldenhurg. La forma rotonda agisce da contrappunto alle enormi volumetrie e alla angolarità degli edifici proposti da Johnson. Malgrado la scala monumentale (33 m. di diametro) la scultura genera nello spazio un senso di apertura e di leggerezza, grazie alla sua qualità di oggetto sferico e fluttuante. La Grande Mela vuole rappresentare l’equivalente moderno dell’obelisco barocco che identifica il centro di una piazza. Segue un principio architettonico generale: «Per Venturi non si tratta di trovare nuove forme, quanto di lavorare con quelle già esistenti, in “combinazioni nuove e inattese”. In questa ottica ve letto il libero e costante uso che gli architetti fanno degli elementi convenzionali. … L’isolamento di certi elementi convenzionali, come sottolinea von Moos, costringono l’osservatore a percepirli esteticamente, come forme pure» (Carolina Vaccaro, introduzione, in Vaccaro Carolina, Schwartz Frederic (a cura) 1995 Venturi Scott Brown e associati, Zanichelli, Milano, p. 9)
3.5.2. le forme architettoniche dell’eclettismo: l’autonomia dell’involucro esterno (vedi sopra) e la sua inflessione. «Al pari dell’autonomo involucro esterno, l’inflessione ha il ruolo di stabilire un dialogo con il contesto oltre a conciliare funzioni molteplici in un insieme unitario…. La contraddizione tra interno ed esterno più di ogni altra evidenzia le questioni progettuali più importanti. Venturi sostiene che il contrasto tra interno ed esterno può essere la principale manifestazione della contraddizione in architettura. Con ciò si contrappone ancora al dogma del Movimento moderno per cui l’interno doveva essere espresso all’esterno. …L’esterno si configura quindi come involucro autosufficiente che contiene “contraddittorie” articolazioni spaziali» (Vaccaro, o.c. p.9,10)

3.6. contemporaneità. Essere ad ogni costo contemporanei o post. «Una caratteristica assai evidente della letteratura postmoderna è una specie di rincorsa alla contemporaneità, una sorta di gara (se post ha anche il senso di ulteriore, successivo) per essere davvero gli ultimi, per racchiudere nel proprio personale post tutta la riflessione sulla storia, la filosofia, la letteratura precedente il post: è lo sforzo non solo di dire l’ultima parola su fenomeni di lunga durata, ma di prendere posizione su coloro che hanno preso posizione su quei fenomeni di lunga durata, in una circolarità che va all’infinito.» (Nacci, o.c.)

3.7. moda. « Quello che meglio di ogni altra cosa può dare un’idea del postmoderno è, appunto, il fenomeno delle mode. Da un po’ di tempo a questa parte, quasi ogni anno c’è nel settore dell’abbigliamento, degli accessori, dell’arredamento, dell’acconciatura, la riproposizione calligrafica di mode passate: non di elementi che ormai si potrebbero definire «perenni» nella moda come il corto o il lungo, bensì di stili che solo pochi anni fa erano di moda.» (Nacci, o.c.)

3.8. lo spirito dei luoghi. Stare nel contesto (contextualism), leggere i paesi, uscire dal giardino dell’arte, imparare dall’ambiente (vedi dopo), «ripercorrere il tragitto creativo che prende le mosse dalla natura e dalla tradizione dei luoghi» (Portoghesi). « Bisognava che attraverso il lavoro di tutta una generazione di architetti e di storici si imparasse a “leggere i paesi”, a leggere e interpretare le quinte stradali urbane, i plessi spaziali creati per sovrapposizione di successivi interventi, i paesaggi agrari creati dal lavoro dell’uomo, perché emergesse tutto il valore di una produzione della città e del paesaggio in cui, in contrapposizione alle virtuosistiche concentrazioni simboliche dell’arte collegata direttamente al potere, emergesse la presenza e la continuità di un sentimento collettivo della forma che agisce in modo creativo attraverso procedimenti e tempi diversi. Una quinta stradale, fatta di case affiancate, appartenenti a una medesima tipologia e sorte in tempi diversi, trae il suo valore e il suo significato da un dialogo a distanza avvenuto tra realizzatori diversi di un unico «progetto»,radicato profondamente nella coscienza collettiva perché collegato in modo risolutivo a bisogni e desideri reali. Questo dialogo a distanza ha caratteri simili al processo creativo, come esso si svolge all’interno della fantasia e della cultura di un solo individuo; è il frutto di una attività critica collettiva simile all’autocritica che conduce l’artista a collegare le parti di un’opera o le diverse soluzioni pensate per uno stesso tema. […] Per quanto riguarda il contextualism, opere come la Borsa Merci di Michelucci, nella sua prima edizione, la casa veneziana alle Zattere, di Gardella, il progetto per la stazione di Roma di Ridolfi e Quaroni, sono testi sintomatici, in cui il rispecchiamento di alcuni dati ambientali si traduce in una consapevole contaminazione tra elementi del lessico tradizionale e metodi ed elementi tipici del linguaggio moderno. L’obiettivo non è il pastiche o il revival ma la consonanza velata: l’ambientamento. Portoghesi Paolo 1980 Dopo l’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1987 p.29-30, 75-76
3.8.1. Contestualizzazione e recupero della presenza storica. La contestualizzazione, e quindi la ricerca di un dialogo tra diversi e di una consonanza-dissonanza con l’ambiente, tende subito a dilatarsi in un recupero della presenza «storica», aldilà dell’occasione di un avvicinamento materiale tra architettura nuova e ambiente antico. (ivi, 76)
3.8.2. Contestualizzazione tra esterno e ambiente. «L’esterno si configura come un involucro autosufficiente che contiene “contraddittorie” articolazioni spaziali; il suo ruolo principale è quello di instaurare un dialogo più libero con il luogo… facciate monumentali accanto e dietro le quali sono “arrangiati” spazi funzionali e convenzionali… Al pari dell’autonomo involucro esterno, l’inflessione ha il ruolo di stabilire un dialogo con il contesto oltre a conciliare funzioni molteplici in un insieme unitario.» (Vaccaro Carolina, o.c. p.10, 11)

3.9. ironia. L’ironia diviene lo strumento indispensabile per confrontare e combinare valori divergenti in una cultura ideata per una società pluralistica (Vaccaro o.c., liberamente). Ironia è dunque un concetto centrale che va chiarito per esplicitarne la funzione.
3.9.1. è bene richiamare il concetto e l’atteggiamento di ironia attribuito a Socrate. Si tratta di un movimento a due tempi. È sminuire se stessi, quasi ad acquisire l’arte dell’autovalutazione; e ha l’effetto, contemporaneo, di smascherare, denunciare la presunzione diffusa (presunzione di competenza, petulanza del vero che si esibisce come assoluto ecc.); è l’arte compositiva dei dialoghi “socratici” (e non solo) di Platone.  
3.9.2. passa attraverso i tratti del comporre (postmoderno ?) che Italo Calvino illustra nelle Lezioni americane: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. (Calvino Italo 1993 Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2005
3.9.3. questa “delicata” ironia attraversa, sorregge e rende funzionali, anzi è l’arte di gestire i comportamenti del postmoderno riportati in ipotetica definizione: citazionismo, contaminazione, emporio, pastiche … si manifesta ad esempio, nella libertà e leggerezza del citazionismo, degli accostamenti eclettici; abbandona la “serietà” delle grandi narrazioni per ospitare la curiosità e l’attesa consegnata all’imprevedibilità dei legami e delle osservazioni…

Conclude Nacci: «Allora, postmoderno è tutto ciò che ha a che fare con l’eterogeneità, la differenza, la frammentazione, l’indeterminatezza, la sfiducia nei linguaggi universali. In questo senso, ne fanno parte fenomeni culturali diversi come il pensiero della differenza sessuale che rifiuta l’universalità e l’astrattezza del discorso filosofico neutro e rivendica il ruolo della parzialità, della specificità del genere, che invece in quel discorso è stato rimosso; la tendenza neocomunitaria nell’ambito della filosofia politica, che rivendica allo stesso modo la validità delle ragioni locali (le comunità) contro le astrazioni universalizzanti tipiche del liberalismo (la società); in generale, un’attenzione in filosofia, etica, politica, per le ragioni degli altri e dunque per la pluralità di tali ragioni; la riscoperta operata dal filosofo forse più famoso del momento —- Richard Rorty — del pragmatismo; i mutamenti introdotti da autori come Thomas Kuhn e Paul Feyerabend nella storia e filosofia della scienza, e soprattutto l’abbandono dell’idea secondo la quale la scienza è un accumulo progressivo di conoscenze, la caduta dei confini fra scienza e credenze di tipo irrazionale, fideistico, non-scientifico; le teorie di Michel Foucault sulla disseminazione del potere, sull’azione nella storia (e la storia delle idee) non di una causalità semplice, ma di correlazioni molteplici e varie, l’accento sulla discontinuità presente nella storia; una forte presenza dell’indeterminatezza nei nuovi sviluppi della matematica (teoria delle catastrofi e del caos, geometria frattale). Nacci R. o.c.)

4. impulsi e filoni culturali per il postmoderno
4.1 all’inizio l’architettura: arte pubblica per eccellenza, nonché strettamente legata al mondo economico e tecnico.  «Cerchiamo di fare un’estetica che si confronti con i cambiamenti rapidi e il pluralismo; con il fatto che non abbiamo un’unica cultura del gusto, ma tante». (Robert Venturi)
4.1.01 un confronto storico e un esplicito richiamo: moderno -  postmoderno.
1. All’inizio dell’età moderna, dell’Umanesimo e del Rinascimento si colloca l’architettura. L’opera che suggerisce e sostiene quel rinnovamento culturale è il De re edificatoria di Leon Battista Alberti. Si tratta di un’architettura che lavora per la nuova civitas, è inseparabilmente urbanistica, ingegneria, matematica-geometria, pittura, letteratura, filosofia e … magia; la “decompartimentazione” del sapere è il tratto culturale che sorregge il Rinascimento.
2. All’inizio del postmoderno l’architettura. Restaurata dal movimento del Bauhaus (con cui il postmoderno contrasta) nelle sue relazioni con gli altri ambiti culturali e negli obiettivi lanciati a sostenere il rinnovamento futuro dell’intera società. «Vogliamo, concepiamo, creiamo insieme il nuovo edificio del futuro che raccoglierà tutto in una sola forma, architettura, plastica, pittura, e che un giorno si leverà verso il cielo dalle mani di milioni di artefici, quale simbolo cristallino di una nuova fede» (Walter Gropius); il piglio profetico e utopistico dei fondatori del Bauhaus cade, ma le interconnessioni culturali e l’attenzione al presente dell’umanità in cammino restano.
4.1.1. L’arte, contesto in senso ampio: «L’arte costituisce un terreno particolarmente significativo per seguire la parabola che dal moderno porta al postmoderno, perché proprio dalla profonda trasformazione che l’arte ha subito nella modernità, fino alla sua “morte” o alla sua identificazione con la produzione di massa o con forme del tutto nuove ed estranianti, si è sviluppata la riflessione sul postmoderno.» Chiurazzi o.c. 21  L’evoluzione messa in moto (nella direzione del postmoderno): la “scomparsa” dell’oggetto (la derealizzazione) per la preponderanza dell’immagine, sotto l’influsso della idolatria del nuovo, fino a proclamare l’inesorabile carattere effimero, transitorio, del nuovo presentato o di ogni innovazione. 
4.1.2. Perché l’architettura (come nel Rinascimento, o all’inizio del “moderno”).
«Amo la complessità e la contraddizione in architettura. Non amo l’incoerenza e l’arbitrarietà dell’architettura incompetente, i complicati preziosismi del pittoresco o dell’espressionismo. Mi riferisco invece a una architettura complessa e contraddittoria basata sulla ricchezza e sull’ambiguità dell’esperienza moderna, compresa quella esperienza inerente all’arte [...]. Essa [l’architettura] deve perseguire la difficile unità dell’inclusione piuttosto che la facile unità del l’esclusione. Il più non vale di meno” (more is no less).» (Venturi Robert Complessità e contraddizioni nell’architettura). È esplicita in quest’ultimo slogan la polemica con l’ortodossia del Movimento moderno. (Vaccaro Carolina, Schwartz Frederic (a cura) 1995 Venturi Scott Brown e associati, o.c. p.7). Come è accaduto nel 1923 con l’opera Verso una architettura di Le Corbusier, nel 1966 il testo Complessità e contraddizioni nell’architettura provoca «uno stato di disorientamento nei rispettivi panorami architettonici».
«La sfida della complessità sembra essere, secondo Venturi il motivo dominante dell’architettura postmoderna: un’architettura non di apollinea perfezione, di simmetrie armoniche e perfetta compenetrazione, fino all’essenzialità, di funzione e forma, ma un’architettura di tensione, ambigua, nel senso che manifesta le contraddizioni e le opposizioni di forze senza annullarle. Questa sfida della complessità porta così a rivalutare anche ciò che l’architettura moderna, con il suo culto della semplicità, aveva considerato come un “delitto”, ovvero l’ornamento (si pensi al motto di Mies van der Rohe, less is more, che Venturi ripete parodisticamente in less is a bore, “meno è una noia”). Si tratta di ciò che potremmo definire una rivincita del retorico sul puramente segnico e funzionale: di qui la vicinanza, da più parti sottolineata, tra postmoderno e barocco o rococò. Come sarà più evidente in Imparando da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica [che ha come autori: Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour], di sei anni posteriore (1972) Venturi si oppone qui a ogni forma di architettura che intenda pianificare astrattamente, sulla base di mere considerazioni funzionali, l’abitare trascurando arbitrariamente quella “complessità esuberante” che caratterizza il vissuto quotidiano.» Complessità e contraddizioni nell’architettura, trad. it. di R. Gorjux e M. Rossi Paulis, Dedalo, Bari 1980, pp. 18-23.   
4.1.3. Quali fonti storiche: stratificazione e trasparenza.
Venturi illustra nel libro quasi tutte le importanti fonti storiche del suo lavoro; da queste emerge la predilezione per certi periodi storici e per alcuni personaggi. Primo fra tutti il manierismo, che, per il suo ruolo dissacratorio, ha certamente sviluppato negli autori quella volontà di esaminare apertamente ciò che gli architetti considererebbero «brutto» o «deviante»; il barocco, dove il fattore rigorosamente geometrico costituisce un mezzo della composizione ma non il fine; il rococò, come manifestazione esasperata del frantumarsi di uno stile; e ancora Michelangelo e Palladio (quest’ultimo forse la più importante influenza in senso storico, parzialmente, come sostiene Denise Scott Brown, perché Palladio gioca un ruolo importante nell’architettura americana); ovviamente Borromini e infine Hawksmoom, Vanbrugh. Soane e Lutyens, generazione di architetti inglesi nella cui opera prevalgono le qualità del paradosso, dell’ambiguità e della protesta vernacolare al formalismo di quell’epoca. Tra i moderni, Sullivan e Furness e soprattutto Le Corbusier e Alvar Aalto, questi ultimi perché hanno dimostrato che anche con l’ideologia del funzionalismo è possibile concepire un uso eloquente delle forme astratte.
La presenza di articolazioni intricate in un contenitore rigido decreta l’indipendenza tra la forma e la funzione. Tale indipendenza nella prospettiva di un più effettivo funzionalismo, distingue questa architettura da quella del Movimento moderno, ed è la dimostrazione che la forma può affrontare una vita autonoma.
Accostare facciate monumentali, accanto e dietro le quali sono «arrangiati» spazi funzionali e convenzionali, conduce all’idea che l’architettura si può ottenere per piani sovrapposti o più genericamente all’idea di stratificazione e trasparenza. Nell’architettura dei Venturi il muro copre sempre il telaio strutturale e viene mostrato come qualcosa di sottile, sul quale si imprimono varianti e gerarchie di uso dello spazio. La trasparenza, intesa come qualità di organizzazione delle forme e come contrasto tra spazi espliciti e spazi impliciti, fa sì che avvenga una percezione simultanea di localizzazioni spaziali differenti. Progettare per trasparenze, per superimposizioni spesso suggerisce la trasparenza del contesto.
4.1.4.  Imparare dall’ambiente. Nel 1972 Venturi, con i collaboratori del suo studio, Denis Scott Brown e Steven Izenow, scrive Imparando da Las Vegas, un testo che è divenuto quasi una Bibbia dell’architettura postmoderna, e non solo. Come suggerisce il titolo, e viene chiarito già nelle prime righe del testo, si tratta della proposta di un atteggiamento che Venturi non esita a definire «rivoluzionario», ma che non ha più nulla della carica radicale e di rottura delle avanguardie: : la vera rivoluzione è «imparare dall’ambiente esistente», con un atteggiamento tollerante e non autoritario …  è la proposta di un’«architettura di comunicazione» invece che di un’«architettura di spazi». Di qui il suo interesse, non tanto per i contenuti e per la distribuzione e strutturazione estetico-funzionale degli spazi quanto piuttosto per i mezzi e i metodi media che realizzano una tale comunicazione, e quindi per gli stilemi e gli strumenti retorici volti ad attirare l’attenzione e alla persuasione (le grandi insegne, i colori, le luci, di cui la Strip di Las Vegas è un concentrato pressoché unico, non abbordabile da «un’analisi fino ad allora considerata “inclassificabile” dalle discipline urbanistiche e dispregiativamente etichettata come volgare predominio dell’immagine kitsch-commerciale» Vaccaro o.c. p.15). Una simile mediatizzazione dell’architettura è certo debitrice della pop art, ma soprattutto, nell’intenzione di Venturi, tenta di liberare l’architettura dal “purismo” modernista riportandolo a una dimensione che le era propria già in epoche precedenti: quella di essere un punto di convergenza e di intersezione di varie arti (pittura e scultura, soprattutto), che le conferivano una connotazione fortemente simbolica, comunicativa, e perciò sociale. (Chiurazzi, o.c. p.87, 92)
«In tal senso l’analisi su Las Vegas fa parte dell’intenzione di imparare dal paesaggio americano per definire quelle forme artistiche che si sono originate in America. …imparare linguaggi meno restrittivi, che rispondano ai bisogni sociali ed estetici dell’epoca contemporanea, secondo l’idea che compito dell’artista è quello di «seguire» oltre che «guidare»; lavorando quindi sull’effetto determinato dai bisogni e sulle aspettative convenzionali della gente.» (Vaccaro C. o.c. p.14)
La “difficile unità dell’inclusione” evoca una architettura dell’adattamento continuo, l’idea di una architettura appropriata. il concetto di architettura appropriata, più volte ribadito da Venturi, esprime le molteplici qualità attraverso le quali questa stabilisce delle connessioni con il contesto, con la storia, con la tradizione disciplinare e le circostanze. Nient’altro che quel principio di compromesso continuo, frutto della consapevolezza che nella scelta dell’inclusività c’è spazio per il frammento, la contraddizione, l’improvvisazione e per le tensioni che tutto ciò produce. Un simile principio si estende inevitabilmente alla scala della città, e chiarisce l’importante ispirazione che Venturi trae dalle facciate delle città italiane, con i loro infiniti adattamenti alle contrastanti esigenze dell’interno e dell’esterno. (Vaccaro C., Schwartz F., o.c.)
4.1.5. La ripresa dell’“anima dei luoghi” e la nuova architettura
4.1.5.1. perché per prima l’architettura: «L’architettura è stata tra le prime discipline a entrare in crisi di fronte ai nuovi bisogni e ai nuovi desideri della società postmoderna e la ragione di questa precocità è molto semplice. Data la sua incidenza diretta sulla vita quotidiana, l’architettura non ha potuto sottrarsi alla verifica pratica dei suoi utenti e l’architettura moderna è stata giudicata attraverso il suo prodotto naturale: la città moderna, la periferia senza qualità, l’ambiente urbano impoverito di valori collettivi divenuto giungla di asfalto e dormitorio; la perdita dei caratteri locali, del legame con il luogo: la terribile omologazione, che ha reso le periferie di tutto il mondo simili le une alle altre senza più nulla che permetta agli abitanti di riconoscere la propria identità nella identità inconfondibile di un luogo.» Portoghesi Paolo 1982 Postmodern, Electa, Milano p.7
A proposito di Roberto Gambetti e Aimaro Isola: «Erano già postmoderni perché avevano abbandonato spontaneamente e senza drammi l’ortodossia modernista delle scatole bianche sovrapposte e, con uno spirito intriso di curiosità e di ironia, rivisitavano il premodern, infanzia felice e adolescenza ribelle del movimento moderno, approdato poi nelle secche burocratiche
dell’International Style. Rivisitavano il premodern, lo stile dei pionieri e degli sperimentatori, perché probabilmente li attraeva di questa prima fase della modernità la capacità, non ancora perduta, di dialogare con i luoghi e con le tradizioni dei luoghi, loro che Torino e il Piemonte lo avevano nel sangue almeno quanto Pavese, e si rendevano conto come essere locali è uno dei modi migliori per aspirare ad essere internazionali, perché in architettura le cose più universali, da Brunelleschi a Wright, sono quelle che hanno radici più salde nel luogo in cui sorgono.» (Portoghesi, o.c. p.118)
4.1.5.2. una nuova rinnovata sensibilità: l’anima dei luoghi (e i luoghi dell’anima) «…l’architettura, che è spesso considerata costruzione, disegno, concetto, engineering— progettazione —, ma è anche, e soprattutto, immaginazione. … Per esempio, non soltanto la progettazione del Pantheon, ma l’immagine del Pantheon.  …è il necessario recupero del luogo dallo spazio, perché l’epoca moderna ha perso, già da Cartesio, cioè a cominciare dalle astrazioni del razionalismo, il senso dell’individualità del luogo, delle sue specificità. Questo punto è assolutamente cruciale. Quando immaginiamo lo spazio, lo immaginiamo vuoto. È misurabile, uniforme, isotropo. È lo stesso ovunque, ed è per causa sua che abbiamo sviluppato un’architettura chiamata International Style, che può essere usata dappertutto.» Hillman James 2004 L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano, p.89
4.1.5.2. i luoghi l’immaginazione e l’anima: «L’idea che l’immaginazione deve rispondere a un luogo è evidente nel modo in cui i Greci sceglievano la localizzazione dei loro templi, dove le particolari qualità del paesaggio suggerivano all’immaginazione questo o quel dio - l’acqua per Afrodite, per esempio -, così che l’architetto, il costruttore, veniva «invocato» dal luogo. L’interiorità del luogo «parlava» alla sua immaginazione, rendendo possibile sognare in un luogo. Ciò poteva comportare consumare lì i pasti, bere il vino, abitare; avere l’intera psiche immersa nel luogo tanto da poter capire cosa il luogo voleva, «come» cercava di esprimere se stesso. … Ripensiamo a ciò che la psicologia ci ripete da tanti anni: la memoria è all’interno della testa. Il mondo dei ricordi sarebbe interamente nelle nostre teste. È un’idea incredibilmente strampalata che ci impedisce di accorgerci che la memoria è inscritta nel mondo. Così, per esempio, il restauro di Ortigia è un recupero della memoria, la cura di un’amnesia.(p. 94)  Lo si può percepire quando si torna nel proprio paese o nella città natale, o nella strada dove si abitava da bambini. Quando si torna dopo molto tempo, si avverte il peso e il riaffiorare dei ricordi e, con essi, una certa gioia che proviene dal luogo. Di solito pensiamo che tutto questo provenga dalla nostra mente, che provenga dal cervello, perché così ci è stato insegnato. Invece è il luogo che parla di sé. (p.95)  Si può mettere l’anima in un luogo? (p.96)»  Hillman James o.c.  
4.1.6.  Priorità alla comunicazione.  «L’insegna per il motel Monticello, una silhouette di un’enorme cassettiera Chippendale, è visibile dalla highway prima del motel stesso. Questa architettura di segni e di stili è antispaziale; è un’architettura di comunicazione invece che di spazio; la comunicazione domina lo spazio come un elemento fondamentale nell’architettura e nel paesaggio. Ma è per una nuova scala di paesaggio. I rimandi filosofici del vecchio eclettismo evocavano sottili e complessi significati, per essere apprezzati all’interno dei docili spazi del paesaggio tradizionale. La persuasione commerciale di un nuovo eclettismo, quello del “bordo stradale”, provoca un netto impatto nel vasto e complesso assetto di un nuovo paesaggio, caratterizzato dai grandi spazi, dalle alte velocità e dai complessi programmi. Stili e segni  stabiliscono connessioni tra molti elementi, lontani tra loro e percepiti velocemente. Il messaggio è bassamente commerciale, il contesto è essenzialmente nuovo.»
Venturi, Robert 1972 Imparando da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica, Cluva, Venezia 1985. (Chiurazzi o.c. p.96-97)
4.1.7. Il farsi carico di una coscienza collettiva. « Questa architettura si colloca quindi nella prospettiva di un reinventato «senso comune», nella volontà di fare un’arte «meno nobile», volta a soddisfare anche le esigenze dell’uomo della strada. Il farsi carico di una coscienza collettiva esprime la consapevolezza che il pluralismo a cui ci costringe la contemporaneità impone l’accettazione dell’eterogeneità e della differenza come mediatrici per resistere all’imposizione di semplici e indiscutibili verità, per una architettura volta a riscoprire le sue innumerevoli tradizioni, regionali e storiche, locali nello spazio e nei tempo. (Vaccaro C., Schwartz F., o.c.)

4.2 la tesi classica di Lyotard: la fine delle metanarrazioni
«A entrare in crisi ed essere confutato da questi eventi del XX secolo [le tragedie delle guerre, dei genocidi e delle ricorrenti crisi economiche] è l’ideale universalistico di quelli che Lyotard chiama i «grandi racconti» (grands récits) della modernità: metaracconti, ovvero filosofie della storia come progetti totali, storie di emancipazione dell’umanità, di cui esempi classici sono il cristianesimo, la filosofia hegeliana, il marxismo, il liberalismo economico e politico. Tutti questi metaracconti hanno una pretesa legittimante in virtù della loro pretesa universalità: in ciò si distinguono sicuramente dalle forme di legittimazione mitica che sono intrinsecamente dispotiche, ma non sfuggono all’ambiguità di fondo per cui l’istanza legittimante o è a sua volta particolare o è vuota (è l’Idea astratta, la volontà generale, la Storia, il mercato), delegittimando così ogni altra istanza particolare fino a degradare in una politica del terrore. La fine dei grandi racconti, «l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni», è così la specificità del postmoderno: essa significa la fine dell’universalismo, la crisi del cosmopolitismo illuministico, il ritorno del nome proprio» (cioè della particolarità non universalizzabile) e delle nazionalità …» (Chiurazzi o.c. 38-39)
Quindi “metanarrazioni” intese sia come visioni generali della storia, sia come forme narrative a disegno continuo, lineare, unitario, organico e globale.
« Il testo è un tessuto di rinvii e ripetizioni, senza che sia mai possibile pervenire a un «significato trascendentale». Anzi, l’eliminazione del significato trascendentale (ripercussione dell’annuncio nietzscheano della «morte di Dio» nell’ambito linguistico), l’assenza cioè di un «fuori testo», è il momento istitutivo della testualità generale, nella quale non è mai possibile pervenire a un’origine o a un referente che arrestino la catena dei rinvii, ma in cui si ha a che fare sempre e soltanto con una sorta di meccanismi differenziali, non necessariamente linguistici (per questo Derrida preferisce parlare piuttosto di scrittura),di dispositivi che funzionano in maniera automatica … Questo concetto di testualità generale, che inscrive al proprio interno la soggettività o la coscienza come un effetto del proprio gioco, e non come un fondamento, si estende fino a coprire la concezione stessa della storia: anche la storia non è che una rete di rinvii (si nota in questo una risonanza della concezione heideggeriana della storia come tramandamento), ma non è possibile rintracciare alcuna unità né linearità.» Chiurazzi o.c. p. 47
In altri termini: «… l’ “incredulità nei confronti delle metanarrazioni”, come Lyotard definisce in modo minimalista il postmoderno: in un universo plurale, infatti, non èpiù possibile pensare a un linguaggio o una teoria totale, capace di mettere insieme universi che non sono riunibili. Sono possibili solo teorie valide localmente, giochi linguistici, formazioni discorsive (secondo la terminologia di Michel Foucault).» (Nacci, o.c.)
Se ricorrono ancora metanarrazioni, restano saghe, miti, non più storie: Harry Potter, Il Signore degli anelli, War Star, o la perenne ripetizione dell’identico nei serial televisivi. 
«Originariamente la scienza è in conflitto con le narrazioni. Misurate col suo metro, la maggior parte di queste si rivelano favole. Tuttavia, dato che non si limita ad enunciare regolarità utili ma ricerca il vero, la scienza si trova nella necessità di legittimare le sue regole di gioco. È a tal fine che costruisce un discorso di legittimazione del proprio statuto, che si è chiamato filosofia. Si tratta di un metadiscorso che, quando ricorre esplicitamente a qualche grande referente narrativo, come la dialettica dello Spirito, l’ermeneutica del senso, l’emancipazione del soggetto razionale o lavoratore, lo sviluppo della ricchezza, conferisce l’appellativo di “moderna” alla scienza che ad esso si richiama per legittimarsi. […] Da questo caso risulta evidente come legittimando il sapere attraverso una metanarrazione, che implica una filosofia della storia, si èportati ad interrogarsi sulla validità delle istituzioni che governano il legame sociale: anch’esse richiedono una legittimazione. La giustizia diviene in tal modo il referente di una grande narrazione, allo stesso titolo della verità.
Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. Si tratta indubbiamente di un effetto del progresso scientifico; il quale tuttavia presuppone a suavolta l’incredulità. Al disuso del dispositivo metanarrativo di legittimazione corrisponde in particolare la crisi della filosofia metafisica, e quella dell’istituzione universitaria che da essa dipende. La funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli ed i grandi fini. Essa si disperde in una nebulosa di elementi linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc., ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis.Ognuno di noi vive ai crocevia di molti di tali elementi. Noi non formiamo delle combinazioni linguistiche necessariamente stabili, né le loro proprietà sono necessariamente comunicabili.
Pertanto la società che ne deriva dipende meno da una antropologia newtoniana (come lo strutturalismo e la teoria dei sistemi) e più da una pragmatica delle particelle linguistiche. Esistono molti giochi linguistici differenti, che costituiscono l’eterogeneità degli elementi, ed i giochi possono generare istituzioni solo attraverso un reticolo di piastrine, che costituisce il determinismo locale. […]La condizione postmoderna è tuttavia estranea al disincanto, così come alla cieca positività della delegittimazione. Dove può risiedere la legittimità, dopo la fine delle metanarrazioni? Il criterio di operatività è tecnologico, non è pertinente per giudicare del vero e del giusto. Forse nel consenso ottenuto attraverso la discussione, come ritiene Habermas? una soluzione che violenta l’eterogeneità dei giochi linguistici. E l’invenzione si produce sempre attraverso il dissenso. Il sapere postmoderno non è esclusivamente uno strumento di potere. Raffina la nostra sensibilità per le differenze e rafforza la nostra capacità di tollerare l’incommensurabile. La sua stessa ragione d’essere non risiede nell’omologia degli esperti, ma nella paralogia degli inventori.»
Lyotard, Jean-François 1979 La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1991

 

4.3 radici filosofiche (inconsapevoli) del postmoderno
4.3.1. Nietzsche: gli spunti tratti dalle opere di Nietzsche per definire l’urgenza e l’avvio del postmoderno sono più d’uno.
4.3.1.1. la scelta dello stile aforistico, a contrastare la pretesa filosofica delle “grandi narrazioni”, dei sistemi, delle filosofie della storia. Nella Genealogia della morale (1887) lo stesso Nietzsche ci istruisce sul modo in cui si dovrebbe leggere un aforisma: “Un aforisma, modellato e fuso con vigore, per il fatto che viene letto non è ancora ‘decifrato’; deve invece prendere inizio, a questo punto, la sua interpretazione, per cui occorre un’arte dell’interpretazione”. Il complesso gioco di significati sottintesi e di allusioni, di illuminazioni folgoranti e di ardite metafore, nonché una certa dose di freddo argomentare, rendono l’aforisma di ardua lettura; è richiesto il coraggio dell’interpretazione, il frammento propone quindi direzioni di pensiero più che pensieri compiuti e definiti. Nietzsche inaugura una direzione che verrà raccolta e applicata con coraggio e innovazione da Heidegger, altro autore cui il postmoderno dichiara di ispirarsi; i sui scritti si presentano non come opere (Werke) ma come cammini (Wege).
4.3.1.2. la scelta e l’attuazione del metodo filosofico ermeneutico nella forma della decostruzione genealogica; descrivere la geneaologia di un sistema (religione, morale, scienza, filosofie della storia …) è smantellarne l’efficacia e il valore;   
4.3.1.3. la scoperta e l’annuncio della “morte di Dio” e del conseguente crollo di una filosofia alla ricerca dei fondamenti, di una cultura del giudizio sull’uomo e sulla vita. La scoperta della morte di Dio si traduce in una implacabile ricerca e denuncia dei molti tentativi di sostituire il vuoto del cielo con altri idoli solo apparentemente terreni (Crepuscolo degli idoli), frutto del ricorrente ma vano tentativo di sostituire Dio con idoli ad attenuare il senso di smarrimento e vuoto conseguente la sua morte: «Dio si rivela la nostra più lunga menzogna» (Gaia scienza);
4.3.1.4. il recupero del passato non come vincolo o zavorra, ma nell’ottica di quella pietas nei confronti di ciò che è passato, che ha segnato la nostra esistenza, quindi ci appartiene ma che viene accolto e accettato come passato. Si tratta di un amor fati nei confronti di ciò che è accaduto la cui accettazione è un atto di liberazione dal peso che il passato tende ad esercitare sul presente, sull’attimo, sull’atto di volontà.  
4.3.1.5. la presentazione del nichilismo non come fallimento dell’uomo e della sua azione ma come prassi di annullamento di tutto ciò che distoglie l’uomo dalla fedeltà alla terra; è dunque un nichilismo, come afferma Nietzsche nella Gaia scienza, colto nella sua valenza affermativa, come un breve dire di sì alla vita, alla sua immediatezza, senza nostalgie metafisiche; è solo dal nulla che si può creare; si inaugura una “filosofia del mattino”..
4.3.1.6. la tesi dell’uomo come transizione e ponte, lanciato verso il proprio superamento e il proprio oltre(“l’oltreuomo”): «La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione” (Così parlò Zarathustra)
4.3.1.7. il motivo ricorrente del danzare, ridere, creare…come un fanciullo. «— Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente —: e balzò in piedi. — Non più pastore, non più uomo, — un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!
Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa.
La nostalgia di questo riso mi consuma: come sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! — Così parlò Zarathustra.» (Così parlò Zarathustra)
« Strutturalmente polimorfo, il postmoderno rimanda invece a temi come l’anarchia, l’ibridazione la dispersione o disseminazione la decostruzione la traccia, l’indeterminazione e la differenza. Se c’è una nozione cardine del postmoderno, questa sembra essere allora quella di «gioco», con tutti i nessi che essa ha con il desiderio, l’operazione priva di utilità estrinseca ma fine a se stessa, il piacere e le forme di socializzazione che attraverso il gioco stesso si realizzano. Gioco che fa della coscienza un campo di pulsioni informazioni desideri e memorie privo di centro ordinatore e dominante, e porta a una visione della storia come “happening”.»
Carravetta P.,Spedicato P. (a cura) 1984  Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano (Chiurazzi, o.c.p. 161)

4.3.2. Wittgenstein: «Da un lato è chiaro che ogni proposizione del nostro linguaggio “è in ordine così com’è”». «L’ordine perfetto…anche nella proposizione più vaga» «Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto.»
4.3.2.1. Analitica del linguaggio (quotidiano).
« Quanto più rigorosamente consideriamo il linguaggio effettivo, tanto più forte diventa il conflitto tra esso e le nostre esigenze. (La purezza cristallina della logica non mi si era affatto data come un risultato; era un’esigenza.) Il conflitto diventa intollerabile; l’esigenza minaccia a questo punto di trasformarsi in qualcosa di vacuo. — Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito.Torniamo sul terreno scabro!
Riconosciamo che ciò che chiamiamo «proposizione», «linguaggio», non è quell’unità formale che immaginavo, ma una famiglia di costrutti più o meno imparentati l’uno con l’altro. — Che ne è allora della logica? Qui il suo rigore sembra dissolversi. — Ma in questo caso essa non svanisce del tutto? — Come può infatti la logica perdere il suo rigore? Non di certo mercanteggiando perché ceda una parte del suo rigore. — Il pregiudizio della purezza cristallina può essere eliminato soltanto facendo rotare tutte quante le nostre considerazioni. (Si potrebbe dire: La considerazione dev’essere rotata, ma attorno al perno del nostro reale bisogno.) La filosofia della logica parla di proposizioni e di parole in un senso per nulla diverso da quello in cui ne parliamo nella vita quotidiana, quando, per esempio, diciamo: «Qui sta scritta una proposizione cinese», oppure «No, sembrano segni grafici, ma si tratta di un ornamento» ecc.
Parliamo del fenomeno spazio-temporale del linguaggio; non di una non-cosa fuori dello spazio e del tempo. [Scolio: Soltanto che di un fenomeno ci si può interessare in modi differenti]. Ma ne parliamo come parliamo dei pezzi degli scacchi quando enunciamo le regole del giuoco, e non come quando descriviamo le loro proprietà fisiche. La domanda «Che cos’è, propriamente, una parola?» è analoga alla domanda: «Che cos’è un pezzo degli scacchi?»
Era giusto dire che le nostre considerazioni non potevano essereconsiderazioni scientifiche. A noi non poteva interessare l’esperienza «che è possibile pensare una determinata cosa, contrariamente al nostro pregiudizio» — qualunque cosa ciò possa voler dire. (La concezione pneumatica del pensiero.) E a noi non è dato costruire alcun tipo di teoria. Nelle nostre considerazioni non può esserci nulla di ipotetico. Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto. E questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio.»
Wittgenstein, Ludwig 1953 Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, pp.65-66.
4.3.2.2. Il gioco linguistico. Definire e descrivere il linguaggio con l’intento di rispettarne la  complessa funzione (espressiva di atteggiamenti);  servirsi, allo scopo, della nozione di gioco linguistico.
4.3.2.2.1. il gioco: ogni gioco è definito da una doppia imprescindibile componente: - rigidità e chiarezza delle regole, - assoluta libertà e imprevedibilità delle combinazioni. Si tratta di una doppia apertura: nelle regole  (quante regole…tanti giochi, il gioco è gratuito, è un “che è”, ineffabile…), nelle combinazioni possibili all’interno delle regole (valga il motto: “regole, ma senza confini” / del resto, questi… non sono visibili)
4.3.2.2.2. il gioco e il gioco linguistico: tre componenti perché si dia un gioco (linguistico): 1. le regole non contengono la loro legittimazione (gratuità); 2. non esiste gioco senza regole (modificare le regole è cambiare gioco); 3. ogni enunciato è una mossa all’interno di un gioco: ha senso all’interno delle regole, non ha senso assoluto, non è mai privo/a di senso.
Le conseguenze: 1. il gioco linguistico non va inteso come arbitrarietà espressiva (il gioco è gratuito ma senza regole non c’è gioco); 2. è respinta la riduzione del linguaggio al modello logico formale (esempio del selvaggio); affermata la posizione dell’antiessenzialismo e anticoncettualismo linguistico: il linguaggio non rimanda ad essenze o a concetti (considerati come autonomi); parlare di essenze è non osservare i fatti; se vi è un’essenza del linguaggio questa è l’atteggiamento, 3.  all’interno del gioco e della sua funzione ogni espressione è dotata di un suo proprio senso  / certezza /  esattezza / pertinenza / efficacia … es. all’interno del gioco: esclamare, invocare, denominare, ammiccare, alludere, annunciare, sottolineare, far capire, segnalare, ribadire, ricordare… Per comprendere un enunciato (una mossa ): “trova le regole del gioco”.

4.3.3. Feyerabend “anything is good”: un metodo anarchico. «L’anarchismo è un’eccellente medicina per l’epistemologia»
« Il saggio che segue è scritto nella convinzione che l’anarchismo, pur non essendo forse la filosofia politica più attraente, è senza dubbio una eccellente medicina per l’epistemologia e per la filosofia della scienza. Non è difficile trovarne la ragione. … Il desiderio di accrescere la libertà, di condurre a una vita piena e gratificante, e il corrispondente tentativo di scoprire i segreti della natura e dell’uomo, comportano quindi il rifiuto di ogni norma universale e di ogni tradizione rigida. (Essi comportano, naturalmente, anche i rifiuto di gran parte della scienza contemporanea.)
… È chiaro, quindi, che l’idea di un metodo fisso, o di una teoria fissa della razionalità, poggia su un visione troppo ingenua dell’uomo e del suo ambiente sociale. Per coloro che non vogliono ignorare il ricco materiale fornito dalla storia, e che non si propongono di impoverirlo per compiacere ai loro istinti più bassi, alla loro brama di sicurezza intellettuale nella forma della chiarezza, della precisione, dell’«obiettività», della «verità», diventerà chiaro che c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene
Feyerabend Paul K. 1970 Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979. pp 15-25

4.3.4. Morin  Le generazioni del disordine e il metodo: le quattro generazioni.
4.3.4.1. Il disordine in campo fisico. «… nel corso del diciannovesimo secolo, si crea una piccola sacca di disordine nel cuore stesso dell’ordine fisico. Il secondo principio (della termodinamica), accennato da Carnot, e formulato da Clausius (1850), introduce l’idea non di perdita — il che contraddirebbe il primo principio — ma di degradazione dell’energia. Mentre tutte le altre forme di energia si possono trasformare l’una nell’altra integralmente, l’energia che prende forma di calore non può riconvertirsi completamente, e perde dunque una parte dalla sua capacità di svolgere un lavoro. … A partire dal momento incui è stabilito che gli stati di ordine e di organizzazione sono non soltanto degradabili, ma improbabili, l’evidenza ontologica dell’ordine e dell’organizzazione si trova capovolta. Il problema non è più: perché c’è del disordine nell’universo benché viregni l’ordine universale? Il problema è: perché c’è dell’ordine e dell’organizzazione nell’universo? L’ordine e l’organizzazione, cessando di costituire delle evidenze ontologiche, diventano allora problema e mistero: devono essere spiegati, giustificati, legittimati.»
4.3.4.2. La disfunzione microfisica«Nel 1900, improvvisamente, si aprì una formidabile breccia nei fondamenti microfisici dell’ordine. Eppure l’atomo non aveva per niente tradito l’ordine fisico quando cessò di essere l’oggetto primo, irriducibile, indivisibile, sostanziale: Rutherford l’aveva trasformato in un piccolo sistema solare formato da particelle gravitanti attorno ad un nucleo, ordinato nella stessa maniera meravigliosa del grande sistema astrale. L’ordine microfisico sembrava dunque dover essere simmetrico all’ordine macroscopico, allorché si produsse l’accidente. Il virus del disordine, alimentato da Boltzmann e Gibbs, produsse d’improvviso una prole microfisica con la nozione discontinua di quanto d’energia (Max Planck), ed irruppe nel sottosuolo della materia. Le particelle che si rivelano non possono più venir considerate come oggetti elementari chiaramente definibili, identificabili, misurabili. La particella perde gli attributi più sicuri dell’ordine delle cose e delle cose dell’ordine. Essa si offusca, si dissocia, si indetermina, si polidetermina sotto lo sguardo dell’osservatore. La sua identità si sconnette, divisa fra lo status di corpuscolo e lo status di onda. La sua sostanza si dissolve e l’elemento stabile diviene evento aleatorio. Essa non ha più una localizzazione fissa e non equivoca nel tempo e nello spazio. … Con ciò, esso è completamente differente dal disordine connessa al secondo principio della termodinamica. Non è un disordine di degradazione e di disorganizzazione. É un disordine costitutivo, che fa parte necessariamente della physis, di ogni essere fisico. Fa parte — ma in che modo? — dell’ordine e dell’organizzazione, sebbene non sia né ordine né organizzazione.
4.3.4.3. Il disordine cosmologico. « Un’alzata di sipario, nel 1923, scopre l’esistenza di altre galassie, che presto si conteranno a milioni, ciascuna brulicante da uno a cento miliardi di stelle. Senza posa, in seguito, l’infinito indietreggia infinitamente e il visibile cede il posto all’inaudito (scoperta nel 1963 dei quasar, nel 1968 delle pulsar, e poi dei «buchi neri»). Ma la grande rivoluzione non è scoprire che l’universo si estende a distanze incredibili e che contiene i corpi stellari più strani: il fatto è che la sua estensione corrisponde a una espansione, che questa espansione è una dispersione, che questa dispersione forse ha origine da un’esplosione. … Conseguentemente, le scoperte astronomiche dal 1923 a oggi si articolano per presentarci un universo la cui espansione è il frutto di una catastrofe primigenia e che tende ad una dispersione infinita. … Il cosmo brucia, si rivolge, si decompone. Nascono galassie, altre galassie muoiono. Non possediamo più un Universo ragionevole, ordinato, adulto, ma qualcosa che sembra essere ancora negli spasmi della Genesi e già nelle convulsioni dell’agonia.»
4.3.4.4. Un disordine organizzatore? « Come accade che abbiamo potuto scoprire delle Leggi che reggono gli astri, gli atomi, e tutte le cose esistenti? Come accade che nel cosmo si sia avuto uno sviluppo dell’organizzazione, dagli atomi alle molecole, alle macromolecole, alle cellule viventi, agli esseri multicellulari, alle società, fino alla mente umana che pone questi problemi? … questo disordine, pur portando con sé il disordine dell’agitazione termica e il disordine della microstruttura della physis, è anche un disordine di genesi e di creazione. … non vi ènecessariamente esclusione …èpossibile che vi sia complementarità, fra fenomeni disordinati e fenomeni organizzatori.
… la devianza, la perturbazione e la dissipazione possono generare una “struttura”, vale a dire organizzazione e ordine nello stesso tempo. È dunque possibile esplorare l’idea di un universo che costituisce il suo ordine e la sua organizzazione nella turbolenza, nell’instabilità, nella devianza, nell’improbabilità, nella dissipazione energetica.Vi è molto di più: cercando di comprendere l’organizzazione vivente dal punto di vista del suo meccanismo interno, von Neumann scopre, nei corso degli anni Cinquanta, nella sua riflessione sui self-reproducing automata (von Neumann, 1966) che la grande originalità dell’automa ‘naturale” (da intendersi come vivente) è il suo funzionamento con il disordine. Nel 1959, von Foerster avanza l’ipotesi che l’ordine caratteristico dell’autorganizzazione (da intendersi come organizzazione vivente) si costruisce con il disordine: èil principio di order from noise (von Foerster, 1959). Atlan, infine e soprattutto, porta alla luce l’idea di caso organizzatore (Atlan, 1970a e 1972b).
Dunque la prima apparizione (termodinamica) del disordine ci ha apportato la morte. La seconda (microfisica) ci ha apportato l’essere. La terza (genesica) ci apporta la creazione. La quarta (teorica) connette morte, essere, creazione, organizzazione.»
Morin Edgar 1977 Il metodo. Ordine disordine organizzazione, Feltrinelli, Milano 1992 (pp.43,47-53)

4.3.5. Baudrillard: «il sistema degli oggetti, naturalità e funzionalità»
«Alla fine di questa analisi dei valori di assestamento e di ambiente, osserveremo che l’intero sistema si basa sul concetto di funzionalità. Colori, forme, materiali, assestamento, spazio: tutto è funzionale. Tutti gli oggetti devono essere funzionali come tutti iregimi devono essere democratici. Ma questa parola funzionalità, che racchiude tutto il prestigio della modernità, è assolutamente ambigua. Derivata da “funzione”, sostiene la realizzazione dell’oggetto in rapporto esatto al mondo reale e ai bisogni dell’uomo. Di fatto, dalle analisi precedenti deriva il fatto che “funzionale” non qualifica ciò che è con formato a un fine, ma ciò che si è adattato a un ordine o a un sistema:la funzionalità è la facoltà di integrarsi in un insieme. Per l’oggetto, è la possibilità di superare la sua “funzione” a vantaggio di una seconda funzione, di diventare elemento di gioco, di combinazione, di calcolo in un sistema universale di segni.
Il sistema funzionale è caratterizzato dunque sempre contemporaneamente e in piena ambiguità come: 1° Un superamento del sistema tradizionale sotto tre aspetti: funzione primaria dell’oggetto — pulsioni e bisogni primari — relazione simbolica reciproca. 2° Un disconoscimento simultaneo dei tre aspetti solidali del sistema tradizionale.
Con altre parole, si può a questo punto affermare: 1° La coerenza del sistema funzionale degli oggetti deriva dal fatto che questi (e i loro vari aspetti, colori, forme ecc.) non hanno più un valore proprio, ma una funzione universale di segni. L’ordine di Natura (funzione primaria, pulsione, relazione simbolica) è sempre presente, ma solo in quanto segno. La materialità degli oggetti non si confronta più direttamente con la materialità dei bisogni: si verifica un’elisione di questi due sistemi incoerenti, primari e antagonisti che deriva dall’inserzione, tra i due, di un sistema astratto di segni manipolabili: la funzionalità. La relazione simbolica sparisce contemporaneamente: attraverso il segno si rende leggibile una natura domata, elaborata, astratta, una natura salvata dal tempo e dall’angoscia, che si identifica continuamente con la cultura grazie al segno, una natura sistematizzata: una naturalità (o, se si preferisce, una culturalità).La naturalità diventa il corollario di ogni funzionalità. È la connotazione moderna del sistema d’“ambiente”.
2° La presenza continuamente sorpassata della Natura (in un mondo molto più coerente ed esaustivo che in culture precedenti) attribuisce al sistema il valore di modello culturale e il suo dinamismo oggettivo.
La presenza sempre smentita della Natura costruisce un sistema di disconoscimento, di deficienze, di alibi (quest’ultimo senz’altro più coerente di tutti quelli che l’hanno preceduto).
Da una parte organizzazione e calcolo, dall’altra connotazione e disconoscimento: sono la stessa e unica funzione del segno, la stessa e unica realtà del mondo funzionale.»
Baudrillard Jean 1968 Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2003
Note a commento in forma di schema.
4.3.5.1. quando l’oggetto nasconde la propria materialità, attraverso la funzionalità realizzata (si è adattato a un ordine o a un sistema), diventa segno-simulacro di quella cultura, si connota come elemento di una naturalità ordinata o di una “culturalità”;
4.3.5.2. le vere merci, quelle che vengono offerte, messe in vendita (segno di inserimento, coerenza, adattamento, aggiornamento) sono segni (non il capo di abbigliamento ma quello griffato … così per ogni oggetto d’uso nel sistema), diventati naturali, per una naturalità che è l’ordine o “il sistema universale dei segni”;
4.3.5.3. la radice della libera e disinvolta gestione degli oggetti come merci-segno è l’incontro, la coincidenza tra naturalità e funzionalità;
4.3.5.4. il postmoderno mette in luce di ogni oggetto la possibile natura di segno, in un citazionismo assolutamente libero e svincolato (assoluto) sulla base della funzionalità intesa come radici di nuove culturalità («attraverso il segno si rende leggibile una natura domata, elaborata, astratta, una natura salvata dal tempo e dall’angoscia, che si identifica continuamente con la cultura grazie al segno, una natura sistematizzata: una naturalità (o, se si preferisce, una culturalità).La naturalità diventa il corollario di ogni funzionalità»).

4.3.6. radici filosofiche: conclusione
4.3.6.1. Una comune base logica. Una stessa logica sembra caratterizzare: la libera creatività del nichilismo di Nietzsche, la natura del gioco linguistico di Wittgenstein, il metodo anarchico per la scoperta scientifica di Feyerabend, le generazioni del disordine come contesto di ordine di Morin, la coincidenza di naturalità e funzionalità di Baudrillard.
4.3.6.2. Una comune base tecnica. Il riferimento va all’estetica come logica dei processi percettivi, come produzione e critica d’arte, come esercizio della funzione estetica anche negli atti ordinari di produzione, d’uso e di comunicazione.
Una riflessione di bilancio (su 4.4.5.). «Lo stesso concetto di estetica muta radicalmente nel pas­saggio dall'era atomica a quella digitale e, più specificatamente, dal regime del reale alla dimensione del virtuale. La dimen­sione virtuale apre, dunque, la necessità di una rifondazione teoretica di interi sistemi descrittivi, analitici e filosofici, a partire dal riconoscimento della modificazione semantica dei concetti di verità rappresentativa, di realtà oggettiva, nonché della stessa predicazione spaziale e temporale.
Di fatto il termine «immagine», se riferito alla dimensione digitale, non dovrebbe essere più utilizzato, dal momento che questa non rimanda più ad un precedente reale, ad un modello preesistente, ad una datità di carattere fisico, ma è slegata da qualsiasi riferimento fisico possibile: è autonoma informazione di sé. […]  L'estetica delle tecnologie comunicazionali, in sintesi l'e­stetica della comunicazione, ha spostato l'attenzione analitica dal campo delle arti a quello della produzione industriale, in particolare a quella mediologica. Si è realizzatacosì una crisi irreversibile dei principi di creatività, di soggettività e di espressività a causa del passaggio avvenuto nella nostra epoca tra la tecnica, la tecnologia e le neo-tecnologie, passaggio che ha spostato il significato dell'estetica decisamente sulle procedure esui significanti dei media. […]
Per comprendere a pieno il carattere inedito, di tipo «dif­fusivo», assunto dall'estetica nel tempo attuale, non possiamo non fare ricorso ad una serie di analisi particolarmente pun­tuali, a partire da quelle di Fredric Jameson e di David Harvey …..
Fredric Jameson, sviluppando un originario e profetico pensiero marxista, ha contribuito forse più di ogni altro stu­dioso a rendere popolare il termine «postmodernismo», un fenomeno che può essere inteso come risultato della logica del tardo capitalismo o capitalismo multinazionale del consumo: un eccesso produttivo di beni soprattutto superflui, caratte­rizzati da qualità formale e capacità di attrazione. Le analisi di Jameson sull'ipersaturazione della cultura estetica delle merci odierne sono molto vicine a quelle elaborate dal filoso­fo francese Jean Baudrillard, il quale ha molto insistito sul­l'eccesso pornografico di merci illusorie e simulative, immagini e segni senza sostanza, che, cancellando ogni distinzione tra reale, apparenza e immaginario, popolano il nostro ambiente di vita, corrotto da ciò che potremmo chiamare una vera e propria psicopatologia dell'opulenza.
Per l'esattezza, Jameson parla esplicitamente della fine di una cultura «alta» e dell'ascesa di un «populismo estetico», caratterizzato dall'emergere di forme, categorie e contenuti dell'industria culturale di massa (o commerciale) e dal fascino conseguente di tutto ciò che vi è di degradato (kitsch e scarto) e che tuttavia appare dominato da uno strano tipo di «tonalità affettiva». Tra gli elementi costitutivi più determinanti del postmodernismo possono essere elencati: la mancanza di pro­fondità, che si estende ad una nuova concezione dell'immagine come simulacro («copia identica di un originale mai esistito», secondo la concezione platonica); l'indebolimento dell'impor­tanza e del significato della Storia; l'evolversi incessante di sempre nuove tecnologie produttive e riproduttive, con cui ogni aspetto della vita deve fare i conti; la stretta dipendenza della tecnica dal nuovo sistema economico mondiale. 
Francalanci, Ernesto L. 2006 Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna

5. le forme in alcuni “classici” del postmoderno
5.1. Pulp fiction: postmoderno e altro
5.1.1. Innanzitutto, la cultura: il suo stile di presenza nel film è denotato fin dal titolo, in quanto il termine pulp fiction designa la “sotto-letteratura” dei romanzi porno, delle riviste dozzinali e dei peggiori fumetti, ma anche i “gialli” di Chandler, Hammett, Spillane, ovvero i capi indiscussi della hard boiled school. Questo spiega il perchè della commistione di cultura alta e bassa nel film (aspetto non a caso saliente del postmoderno a detta di Michela Nacci): per esempio, i personaggi mostrano una grandissima competenza quando si tratta di parlare di hamburger, di droga, di massaggi ai piedi, di piercing, ma sono altrettanto capaci di citare Andy Warhol (a proposito dell’ “episodio pilota” da lei interpretato qualche tempo prima, Mia dice: “I miei 15 minuti di gloria”). Il miglior simbolo ditale atteggiamento ambivalente è la serie di locandine di film di Roger Corman appese alle pareti del Jack Rabbit Slim’s: cinema trash, di serie B, ma anche genialmente kitsch, escluso dai circuiti cinematografici tradizionali perchè troppo alternativo. Del resto, la cultura pop si respira in ogni inquadratura: i colori puri, violenti nelle scene della siringa o di Mia in overdose ricordano le vignette di Lichtenstein, e così le riprese vorticose e tentacolari che accompagnano l’ingresso di Vincent al Jack Rabbit Slim’s, locale coloratissimo e confusionario, a tal punto carico di elementi eterogenei da sembrare progettato da Robert Venturi.
5.1.2. Strettamente legato al tema della cultura è quello del cibo: anch’esso è massificato, industrializzato, è diventato junk food:il formaggio degli hamburger sembra gomma, i frappé costano 5 dollari, addirittura ad alcuni piatti vengono dati nomi umani; è pur sempre vero che l’atto del mangiare ha ancora una valenza “sociale”, poichè è grazie ad esso che i personaggi imparano a conoscersi, discorrono, si confrontano; ma l’atmosfera che si respira non è più quella del “rito” alimentare, bensì quella del semplice nutrirsi, facendo finta che le porcherie ingoiate siano manicaretti. Che il cibo sia per il regista Quentin Tarantino qualcosa di importante è dimostrato sia dal suo film precedente, Le iene, sia dalle sue stesse dichiarazioni: “Mi ha sempre colpito il fatto che in qualsiasi parte del mondo potete comprare una Coca Cola, e che in qualsiasi parte del mondo potete mangiare a un McDonald”. L’affermazione, oltre che segno della totale standardizzazione delle abitudini alimentari nell’epoca postindustriale è un rimando al dialogo tra Vincent e Jules all’inizio del primo episodio: gli hamburger di cui parlano non sono quelli americani, ma quelli olandesi e francesi; poco dopo, il ragazzo che Jules deve uccidere asserisce di stare mangiando un cheeseburger hawaiiano, comprato al Big Kahuna Burger. A prima vista sembrano notazioni gratuite, fatte per infoltire i dialoghi; in realtà richiamano le teorie di David Harvey, secondo cui il postmoderno è “un surrogato di esperienza della geografia mondiale”: nel campo dell’informazione, ad opera della televisione, in campo culinario ad opera dell’internazionalizzazione dei cibi e dei costumi locali.
5.1.3. A questo punto si potrebbe invocare il principio “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” per descrivere un’altra caratteristica, la più evidente ed importante, dei personaggi rappresentati: la loro stupidità. In particolare, sono emblematiche le figure dei due killers Vincent e Jules: la loro professione, vecchio cliché cinematografico, ha sempre portato con sè un’aura di tragedia, di eroismo se non di titanismo negativo; il loro comportamento ha sempre risposto a criteri di immoralità, cioè una sorta di ribaltamento della morale comune. Ebbene, con Pulp Fiction si passa d’improvviso all’amoralità: la totale mancanza di valori, di punti di riferimento, di normalità; ciò fa sì che per i due ogni modello etico sia equivalente (come diceva Wittgenstein: tutte le proposizioni sono di uguale valore), uccidere non è diverso dal parlare di hamburger, drogarsi è come ballare un twist, male e bene non hanno più una frontiera che li demarchi. In effetti, né ai due killers né ad alcun personaggio viene mai in mente di vivere in un mondo violento e paradossale, di stare “sopportando l’incommensurabile”, come direbbe Lyotard: no, loro in quel mondo sguazzano felici, si fanno perfetta immagine del “gaio nichilismo” con cui Vattimo definiva il pensiero debole, si lasciano vivere come degli inetti sveviani senza preoccuparsi dell’intelligenza che hanno perso (sempre che l’abbiano mai avuta, e sempre che si siano accorti di averla persa). Un esempio calzante è l’uso che Jules fa del passo di Ezechiele: come dice chiaramente alla fine del film, non ha mai dato ad esso un significato particolare, è sempre solo stato un modo come un altro per dilazionare la morte delle sue vittime e far crescere così la loro angoscia. A livello di quotidianità, il pugile Butch e la sua ragazza Fabienne, lo spacciatore Lance e sua moglie Jody conducono vite coniugali piatte e comuni, “rischiarate” soltanto rispettivamente dai guai che Butch deve passare col suo capo Marsellus Wallace e coi due sadici che li intrappolano e dall’uso di droghe, piercings e parolacce sempre uguali e sempre nuove.
5.1.4. La piccolezza morale e umana dei personaggi, filmicamente testimoniata dai lunghi piani di sequenza sulle loro nuche (espediente utilizzato già dal pittore romantico Caspar Friedrich per evidenziare la nullità dell’uomo di fronte alla grandezza della natura), ha come corollari la loro insicurezza e la loro inautenticità: riguardo alla prima, è da notare che Pulp Fiction è un film denso di parole, dialogate e non, cioè, ogni personaggio sente il bisogno di continuare a parlare quando si trova con un altro, e quando è da solo dialoga con se stesso (Butch), quasi che il suono della “voce umana” sia l’unico elemento per dire a se stessi che si è ancora vivi; e Vincent, appena arriva a casa di Mia e scopre di essere solo, ha un comportamento stupido e imbranato. Non a caso il solo momento di silenzio, quello fra Mia e Vincent al tavolo del Jack Rabbit Slim’s, è definito “imbarazzante”; l’importanza della parola è perfettamente compresa da Mia (forse la meno ottusa di tutti), la quale si domanda “Perchè ci sentiamo in obbligo di parlare di puttanate pur di non far cadere il silenzio?”, al che l’unica risposta che Vincent sa dare è “Bella domanda”. Ma perchè Vincent non riesce a rispondere? La spiegazione arriva da Jules alla fine del film: “Se le risposte ti spaventano, lascia stare le domande inquietanti”. L’inautenticità è “significata” invece da poche finezze del regista: l’immagine di Fabienne riflessa sullo schermo del suo televisore, la battuta “Entriamo nei personaggi” di Jules a Vincent in procinto di andare ad ammazzare i due pushers che han tradito il loro capo, i capelli corvini di Mia-Urna Thurman, attrice altrimenti biondissima.
Il paradosso di questo film è che, mentre lo spettatore si sente istintivamente risucchiato nell’universo caotico raccontato, ad una seconda visione si accorge che il regista, al contrario, vi si è sempre mantenuto superiore: è la sua consapevolezza del postmoderno che gli permette di utilizzare “spezzoni di chaos” come i personaggi e le situazioni messi in scena e di riuscire a ricomporli nel chosmos complessivo dell’opera, di “sfidare il labirinto”, insomma.
(Brozzoni Vera Pulp fiction: postmoderno e altro)

5.2. Luther Blissett Net.gener@tion, manifesto delle nuove libertà (dal mondo di internet)
«Pensate di arrivare in piena notte in una città sconosciuta, un anno imprecisato del futuro. Piove, tutto è buio. Uscite dall’eliporto, non sapete dove andare. La metropoli è enorme, non possedere nessuna mappa. Del resto non sapreste nemmeno cosa cercare. In giro non si vede anima viva. Solo fumi dai tombini, insegne al neon e musica lontana. Da dove viene questa musica? Vi dirigete verso quel luogo, a tentoni, infilando una dietro L’altra strade ignote, strette e scomode, sempre
più buie. Ecco, vi siete persi. Non sapete nemmeno come tornare sui vostri passi. Siete nella confusione più totale. Ma ecco aprirsi davanti a voi una piccola porta, un pertugio stretto, un fascio di luce uscire da quell’apertura. Vi avvicinate. Dallo stipite esce una mano ungolata: con l’indice reclinato vi invita a entrare. Cosa fareste? Accettereste l’invito o rimarreste immobili su quella soglia, con un mondo inospitale alle spalle, senza sapere dove andare a dormire, senza qualcuno che vi illumini su dove vi trovate? Accettate l’invito ed entrate. Dapprima una massa accecante di luce vi paralizza. Un suono tremendo, assordante vi blocca. Sentite i! contatto con molti corpi, passarvi vicino, sfregarsi al vostro, tastarvi. È un attimo. Ora potete osservare. È la stessa città, quella metropoli sconosciuta e tentacolare di prima. Ma ora siete immersi come in un nuovo mondo. È sempre notte, piove e tuttavia la città è illuminata a giorno dalle insegne di negozi e dalle luci di strani “posti”… le vie sono gremitissime di gente di ogni specie… Un cinese vestito da mandarino vi si avvicina, urlandovi parole incomprensibili; più in là un tedesco altissimo sta portando al guinzaglio un animale di una specie che non conoscete; gente di tutte le razze e di tutti i tempi affolla in maniera impressionante questa capitale del Nuovo Mondo. Lungo la strada, baracchini per mangiare, vestirsi, ascoltare musica araba, vedere esibirsi fachiri, pregare con un piccolo gruppo musulmano, argomentare con sefarditi, campi dove giocano a crawling. Donne splendide, altissime, eseguono contorsioni sensuali, vi invitano a toccarle. Passate oltre. Una conventicola di islandesi è raccolta intorno a un santone vestito di arancione, ricoperto di stemmi e tacche di ogni forma: una croce, un budda, una spada fiammeggiante. Ai suoi adepti sta mostrando un mappamondo sospeso per aria davanti ai suoi occhi, come per magia, luminoso ed etereo… La mano che vi ha invitato in questo Mondo Parallelo vi afferra per l’impermeabile (solo adesso vi accorgete di essere vestiti carne Humphrey Bogart in
Casablanca). La mano vi tira indietro, fino alla porta stretta da cui siete entrati. Vi caccia senza che voi possiate opporvi. Siete nuovamente al buio. Come farete a rientrare?» […]L’avventura che vi è stata raccontata potete viverla subito. Avrete il coraggio di farlo? Io sarò la mano ungolata, maliziosa e sapiente che vi indica la porta stretta da varcare per capire la mappa della città, per mostrarvi i luoghi che potete visitare, per aprire la vostra mente al Grande Cambiamento che impone l’appartenenza alla net.gener@tion. Entrate con me... vi prometto di realizzare i vostri sogni e i vostri incubi, i vostri desideri e le vostre paure...» (Luther Blissett Net.gener@tion, manifesto delle nuove libertà, Mondadori, Milano 1996 p15-18)

5.3. I Simpson. I Simpson, una famiglia molto speciale; l’universo di Matt Groening nella città di Springfield.
«un tale specchio sfacciato e non critico di quel che ci circonda fu come una boccata d’aria pura»
(Lippard Lucy R. Pop art, Rusconi, Milano 1989)
5.3.1. Lo sguardo critico ironico compassionevole sulle imperfezioni e differenze.
Springfield. Città americana tipo, in cui trovano posto individui di ogni sorta, dalle indoli più diverse, frutto di esperienze del passato che spesso ci vengono rivelate. Qualcuno — come Apu, indiano gestore del Kwik-E-Mart — viene anche da paesi lontani, e propone culture e religioni diverse con cui  iSimpson e i loro concittadini si devono confrontare. Di fronte a tante diversità, di fronte e tante stupidità e anche a certe clamorose, congenite cattiverie (come quelle del signor
Burns, proprietario della centrale nucleare di Springfield), Groening e gli altri mantengono un atteggiamento di assoluta imparzialità ed equidistanza, dando a ognuno lo spazio per poter emergere, per potersi raccontare, per essere capito. E forse, per poter comprendere questo grande rispetto verso i suoi personaggi, bisogna andare a cercarne le motivazioni nel passato di Matt Groening. Un passato underground, da hippie, da critico totale della cultura occidentale. La sua forza è stata quella di rimanere coerente con questa sua visione. Diventando adulto, ha solo avuto la capacità di farsene una ragione, accettando il mondo imperfetto che aveva davanti agli occhi e ricreandone uno alternativo: per poterlo criticare, deridere, ma anche osservare con uno sguardo compassionevole e perfino affettuoso. In fondo, se l’imperfezione umana di Springfield è tanto fastidiosa, mai è davvero orribile; e poi è da essa che prende vita la sua irresistibile comicità. (Raffaelli Luca, introduzione a Matt Groening, I Simpson, Roma 1975)
5.3.2. Il contesto post-industriale.  La sigla iniziale dei Simpson si apre all'insegna del nucleare. Dopo che il motivo musicale di Danny Elfman ha preso il via e il logo serie si e levato nell'alto di un cielo blu‑cyan 100 %, le ciminiere della centrale nucleare dove lavora Homer – capo-famiglia e funambolico primo attore della  serie – sormontate  dal simbolo dell'atomo, sono l'elemento con cui la città di Springfield, teatro dello show, si presenta. Grafica sintetica, tutta giocata su morbide linee elementari. Tinte piatte, a delineare con colori smaglianti e innaturali lo scenario di una archetipica small town americana (di cui non viene mai fornita l'u­bicazione) e i personaggi che la animano, coloratissime ombre che si stagliano su un reale in rovina.
Il nucleare ritorna anche nella composizione familiare dei Simpson, che annovera tra le sue fila Homer (il padre), Marge (la madre), Bart, Lisa e Maggie (i tre figli). La famiglia nucleare, per l'appun­to. Escludendo il Nonno che, non a caso, è stato relegato in un ospizio. E nel ricco panorama di prodotti fittizi di cui i Simpson sono circondati, spicca l'Uomo Radioattivo, personaggio che dalle pagine di una collana a fumetti di carattere supereroistico è capace di irradiarsi a tutto l'universo delle merci simpsoniane, cinema compreso.  L’Uomo Radioattivo, che ha tratto i suoi superpoteri dall'esposizione ai raggi della catastrofe nucleare, ben esemplifica la condizione esistenziale simpsoniana, capace di elevare la disso­luzione dell'umano a punto dì forza, innalzando a modello uni­versale l'irreversibile mutazione prodotta dall'esplosione del sape­re informatico, rappresentata in questa serie dal sovraccarico di dati, richiami, segnali, riferimenti, sempre in cortocircuito, spesso inseriti subliminalmente, estrapolati dai grandi magazzini dell'im­maginario collettivo.
5.3.3. Il richiamo del doppio. Con l'Uomo Radioattivo agisce il Ragazzo Fissione, giovane, inse­parabile compagno d'avventura a cui viene demandata la funzione di doppio dell'adolescente fruitore, cui questo genere fumettistico e solitamente destinato. Un personaggio ben apparentabile alla figura di Bart, il figlio maggiore dei Simpson, collezionista degli albi della collana. Anche a lui si adatta perfettamente l'appellativo di "ragazzo fissione", rappresentativo com'è, a sua volta, dei pro­cesso di fissione (consistente nella scissione del nucleo dell'atomo in due o più frammenti) da luì costantemente operato nei con­fronti del nucleo famigliare simpsoniano.
5.3.4. Lo scardinamento delle coordinate temporali. Dal futuro al passato remoto. Fieri portabandiera di una dimen­sione postatomica, i Simpson sono paradossalmente anche degni araldi della barbarie primitiva. Come nella scena (ne L’amico di Bart s'innamora) in cui Lisa dice che in futuro gli uomini avranno cinque dita, riferimento che li colloca, rispetto a noi, nel passato, sottolineando che loro, di dita, ne hanno solo quattro.
5.3.5. Il citazionismo, i luoghi comuni “a corto circuito”, il fantareale.  Un seg­mento da collegare alle moltissime scene incentrate sulle affinità tra Homer e le scimmie, tra le quali ricordiamo l'inizio de Il pony di Lisa (ispirato all'incipit di 2001 ‑ Odissea nello spazio, in cui Homer diventa il primate kubrickiano che scaglia l'osso verso il cielo) e il segmento in cui il capofamiglia dei Simpson si cala nel ruolo di King Kong ne La paura fa novanta III.
La scimmia: uno degli archetipi chiave della cultura di massa, capace di informarne alcuni capisaldi, quali (oltre ai due film citati) il ciclo dedicato a Tarzan, I delitti di Rue Morgue di Edgar Allan Poe, Congo di Michael Crichton, Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner e la convulsa gestualità del comico per eccel­lenza dell'età della plastica, Jerry Lewis. Ritorno al passato anche con i richiami ai Flinstones, la più celebre famiglia preistorica a cartoni animati. A partire dalla scena (in Marge contro la monorotaia) in cui Horner emula Fred Flinstone, canticchiando la celebre canzoncina della sigla. I Simpson, ovvero la wilderness americana, lo spirito di un continente che fonda la sua civiltà sul genocidio e la propria identità sul ricorso sistematico a violenti metodi di sopraffazione. C'è sempre una nuova frontiera da conquistare, negli USA, sia che si tratti del selvaggio West, dello spazio stellare, o dell'iperspazio telematico. Dai domini del quale, l'artificiale, l'assurdo, l'irreale irrompono nella serie facendo deflagrare un quotidiano spesso insostenibile per la degradazione, lo svilimento, l'infelicità a cui sottopone i suoi personaggi.
5.3.6. L’ipertestualità. La logica del quotidiano della chiacchiera. Qualsiasi punto della trama può portare a un improvviso cambio di registro, a un imprevisto scarto dimensionale, a una zona franca dove l'immaginario popolare srotola tutte le sue vie di fuga, da queste parti.
Astronave capace di scivolare con leggerezza sulla superficie dell'inconscio collettivo quanto di navigarne gli abissi siderali, casa Simpson è tempio del tempo libero e luogo dove la cultura del­l'intrattenimento si esprime alla massima potenza. A partire dalle camere dei bambini, trionfo delle merci di fantasia che gli autori dello show hanno ideato a immagine, somiglianza e satira di quel­li reali. La bambola Malibu Stacy, doppio della Barbie, i fumetti dell'Uomo Radioattivo, il merchandising del teledivo Krusty, com­presi gli scadenti prodotti alimentari da lui siglati, che ci condu­cono alla cucina di casa. Qui regnano i corn‑flakes Jackie O's (con tanto di stretckpants in omaggio), la birra Duff e tutto il trash food consumato sul divano del salotto, elemento portante di ogni sit­com televisiva e cardine delle gag di chiusura della sigla.
(da .2 a .6: ripreso, un po’ liberamente da Busatta Franco I Simpson . La guida non ufficiale, Puntozero,   Bologna  1998

5.4. l’ipertesto (presentazione testuale dell’ipertesto)
4.4.01. nel contesto del postmoderno. « La difesa del principio differenza diventa negazione di qualsiasi centralizzazione, unità, composizione: il testo (e quindi la storia) è un «ibrido», una specie di mostro costituito da una serie di innesti, citazioni, trapianti, parti di provenienza diversa e mai riconducibili a un’unica matrice, il cui senso quindi sfugge ad ogni tentativo di dominio, di padronanza, essendo piuttosto disseminato, disperso. Sta qui il carattere perturbante della decostruzione: nella trasformazione del principio “differenza”, da principio organizzatore, tassonomico, classificatore, e quindi razionalizzante, com’era nello strutturalismo, in principio sovversivo, destabilizzante.  […] Questa concezione decostruzionista del testo si applica in maniera particolarmente pregnante alla situazione contemporanea della multimedialità, della comunicazione telematica (di cui il sistema Internet è su scala mondiale l’esempio più significativo) e dell’ipertestualità, dove non è più possibile stabilire un “centro” egemone, una configurazione non-ibrida, ma tutto è il risultato di una serie di innesti, contaminazioni, sovrapposizioni e intrecci multipli. Si tratta di temi, quelli dell’ibridazione e dell’innesto, che interessano anche la discussione bioetica sui trapianti e sul loro impatto nella ridefinizione dell’ “identità” psico-fisica.» Chiurazzi o.c. p. 47-48
L’ipertestualità è riconducibile alla logica dei frattali, espressa nel contesto della matematica e della fisica, ma giustificata sulla base della sua capacità di registrare la dinamica conoscitiva della mente.
(nota in conclusione 6.3)
5.4.1. Una definizione.  L’interruzione della linearità tradizionale (retorico-dimostrati­va) implica come forma testuale corrispondente l'ipertesto. L'ipertesto si compone materialmente di tre elementi e di tre operazioni : raccoglie informazioni, ne isola segmenti semanticamente compiuti, li lega tra loro liberamente.  Alla base dell'ipertesto si pongono sistemi per creare archivi i cui dati risultino condivisi; è necessario cioè possedere informa­zioni; queste devono essere strutturate secondo modelli (costitui­scono un "database") e l'accesso al "database" deve essere noto. L'apertura ipertestuale si colloca, in senso stretto,  all'esterno dei dati e dei testi: si forma quando si compiono legami liberi tra gli elementi di una banca dati strutturata. L'ipertesto dunque risponde a due condizioni: 1. non può esistere se non come forma complementare di una banca dati strutturata,
2. è legato ai modi liberi con i quali il singolo costruisce la propria rete collegando le unità di informazione per ottenere una struttura reticolata ma non rigida. A differenza di un testo strutturato in modo lineare e dimostrati­vo, l'ipertesto non consente dunque di individuare tutti i legami effettivamente percorribili; al fruitore resta solo la ricostru­zione attiva (e in sé ingiustificabile) di sottoinsiemi di iperte­sti. In conclusione, il passaggio dal testo all'ipertesto si può presentare come pas­saggio da una documentazione strutturata a una documentazione esplorata e gestita ("linkata") per legami liberi, cioè secondo connessioni individuali non prevedibili, mai definitive, in sé ingiudicabili.
5.4.2. La logica dell’ipertesto. L'ipertesto pone in evidenza un modello di ragionamento e di comunicazione che si distanzia con evidenza dalle forme di razio­nalità e di comunicazione presentate dalla cultura moderna. Per comprenderne la portata è utile un confronto tra tre modi diversi di organizzazione logica. I termini "linearità", "catalogazione", "ipertestualità" permetto­no di cogliere e indicare tre diversi modi diversi di strutturare l'informazione, tre diverse modalità testuali e tre diversi model­li di ragione e di comunicazione, ad un tempo inconciliabili e complementari.
La linearità indica un modo di argomentare e comunicare che si affida alla sequenzialità lineare secondo premesse-conclusioni, causa-effetto; il testo redatto secondo questo modello assume la forma del saggio, del documentario, del racconto (o della videore­gistrazione). Di fronte ad opere del genere, fortemente struttura­te, il destinatario ha l'obbligo di porsi in sintonia con l'emittente, ha solo una possibilità ermeneutica (vincolata peraltro al senso letterale del testo), non ha alcuna possibilità di interve­nire nella definizione del percorso narrativo e argomentativo.
La catalogazione (il "Database") indica la tendenza alla raccolta di dati finalizzata alla completezza; il testo redatto secondo questo obiettivo assume la forma di dizionario, enciclopedia, catalogo, banca dati. Il destinatario dell'opera viene coinvolto in quanto il testo viene consultato non secondo la sequenza edito­riale, ma a partire dalla libera attenzione dell'utente (es. cerco una parola sul vocabolario, cerco un argomento sull'enciclopedia); è l'emittente tuttavia a porre dei limiti d'uso in quanto la raccolta dei dati èordinata secondo modelli che fornendo una chiave d'accesso ne escludono altre (es. un catalogo libri redatto in ordine alfabetico per titoli, per autore, per argomenti; argo­menti, a loro volta, ordinati secondo un sistema scientifico storicamente determinato).
L 'ipertestualità presuppone una gestione dei dati secondo lineari­tà (in quanto intende muoversi secondo legami), una base di infor­mazioni catalogate (alle quali si rapporta, come dato materiale), ma porta al massimo la possibilità dei legami e la vastità delle informazioni. Da questi obiettivi nascono testi metanarrativi (termine non inteso nell’accezione di Lyotard), sprovvisti di linearità strutturata e di chiavi privilegiate di accesso ai dati. Si tratta di ipertesti virtuali che rendono solo possibile il vero ipertesto (strettamente inteso), in quanto questo consiste nel coinvolgimento libero del destinatario che crea legami non vincolati dall'emittente; il vincolo dell'iperte­sto èdato solo dal legame creato dall'interprete e dalla maggior o minor provvisorietà attribuirà al collegamento.
L'ipertestualità esprime dunque una forma di razionalità e di comunicazione che si rapporta a una situazione di alta complessità di informazione e di gestione multilineare dei dati.

6. post-umano: il postmoderno è contesto di una nuova antropologia filosofica.
« La post-histoire e il “post-moderno” segnalano il profilarsi, come questione che assume centralità sull’orizzonte problematico del dibattito antropologico contemporaneo, di un nuovo concetto di umano: il “post-umano”. » Masullo, Paolo Augusto 2008 L’umano in transito. Saggio di antropologia filosofica, edizioni di pagina, Bari, p.46
6.1. Una diversa domanda di fondo non più in termini di essenza, ma di progetto, trascendenza, superamento, transito. « Non più, dunque, una domanda essenzialistica, «Che cosa è l’uomo?», secondo il consolidato leitmotiv di un’antropologia “classico-umanistica”, ma nemmeno quella di un essenzialismo “corretto”, in una nuova aspirazione metafisica, che chiede «Chi è l’uomo?», bensì una nuova domanda che l’uomo è in grado — attualmente — di porre a se stesso: «Cosa diventa questo uomo?» …Già Blaise Pascal, al sorgere della modernità, aveva definito come mera abitudine la stessa natura umana: «Ma che cos’è la natura? Perché l’abitudine non è natura? Ho una gran paura che questa natura sia anch’essa una prima abitudine, così come l’abitudine è una seconda natura». (ivi,p. 16, 118).
È necessario opporsi ad ogni reificazione dell’umano, che fissa la situazione dell’uomo a un suo particolare momento storico cercando di impedire il mutamento autonomo e la libertà; è necessario perciò cogliere la non sostenibilità (non è definibile) del concetto di una “natura umana” o di una sua essenza; tale crisi non mette a rischio l’etica, ma la rifonda e rafforza. (vedi 6.3)
6.2. Si impone il definitivo superamento di ogni dualismo platonico – cristiano – cartesiano (politicamente funzionale nella storia per alimentare il disprezzo di ciò che è corpo, materia e dei ruoli sociali che hanno a che fare con la “materia”, professioni da considerare servili, “sporche” e rigorosamente subordinate), tra materia e spirito, corpo e anima, sensazione e pensiero, terreno e celeste ecc. Intesi come indicanti realtà separate i termini sono privi di significato, oltre a porre gli annosi e irrisolti problemi della loro congiunzione o comune operazione sinergica (a partire dal concetto di corpo-carcere di Platone, fino alla “glandola pineale” di Descartes e alle teorie occasionalistiche dell’età moderna). Innovative, in questo contesto, sono le riflessioni di Husserl sul tema del “corpo proprio” (in Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica), e le posizioni del vitalismo, dell’esistenzialismo: «cosicché l’uomo gradualmente veniva ritrovando, pur nella ricchezza delle prospettive d’analisi, l’unità fondamentale del “corpo vivente” (Leib) nella vita vivente/vissuta dell’esperienza (Erlebnis), del corpo organico cosciente di sé, sostanziale unità del corpo con la sua ragione che altro non è che, come si è già ricordato, «uno stato di relazione tra diverse passioni», cioè tra le diverse forme del sentire, del corpo stesso.» (Masullo, 72); fino alle recenti impostazioni dei temi gnoseologici nell’ambito della neurofisiologia.
6.3. Collocazione del problema uomo nel contesto della biologia evoluzionistica, della sua dinamica di selezione e variazione e del suo concetto centrale del vivente: dotato di un piano. «Questa volta è proprio l’auto-organizzazione del corpo vivente organico umano che fa “scandalo”, per la prima volta. Si tratta di una auto-organizzazione che, in termini descrittivi, segnala un tratto particolare dell’uomo, di un uomo che, qualunque sia la propria forma, umana o “post-umana”, non può sottrarsi alla “lettura” della propria condizione considerato che l’uomo è un animale autobiografico, cioè, “preso alla lettera: l’uomo è un animale che scrive la propria vita” […]…«dal punto di vista biologico, la vita non consiste nel mantenimento o nel ripristino di un equilibrio, ma essenzialmente nel mantenimento di disequilibri, così come lo rivela la dottrina dell’organismo inteso come sistema aperto. La ricerca dell’equilibrio significa la morte e la decadenza». (L. von Bertalanffy). L’equilibrio stesso è un movimento: cessato il movimento, rovina l’equilibrio, si è fermi: rovina l’uomo.». (Masullo 71,122)
6.4. L’incalzare del progresso tecnologico e della sua dinamica di decisione e creazione, incalzare messo in relazione alle abilità umane, le ricerche scientifiche impostate al di fuori dell’antico dualismo tecnica-natura, le possibili applicazioni dell’ingegneria all’uomo (comprese le tecniche di human engineering ), la conseguente “soggettività tecnologica”,  l’ibridazione dell’umano con l’animale e con la tecnologia e dunque il cammino verso una nuova soggettività post-umana o iper-umana (riemerge il deficit della parola).
Il problema: «…secondo Anders [Anders G. L’uomo è antiquato, 2 volI. (I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, 1956; II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, 1980), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 2003.] , l’uomo si rivela arretrato rispetto al mondo della tecnica: gli apparati accumulano ormai dentro di sé più conoscenze di quante ne possa acquisire l’intelletto umano, e inoltre il corpo è ridotto a essere considerato un “peso morto” nel processo di ascesa del “macchinico”. Con il progressivo consolidarsi della “società tecnologica”, l’uomo si è visto infatti degradato da artefice a operatore e operatore a residuo del processo produttivo. …Secondo questa prospettiva, si realizza uno scarto tra la dotazione biopsicologica dell’uomo come “animale razionale” e il mondo artificiale dei suoi prodotti. Questo scarto è definito come «dislivello prometeico» che, considerato dal punto di vista dei “sincronismi naturali”, non deriva da un originario divario delle facoltà umane che, secondo la tesi di Anders, sarebbero equilibratamente armoniche, ma è il risultato di una rivoluzione storica, di quel salto di qualità nello sviluppo tecnologico che si è tradotto in automazione dei processi produttivi e nello scatenamento delle potenzialità distruttive dei mezzi di dominio e sfruttamento della natura. Dopo appena poco più di un secolo dal decollo della rivoluzione industriale lo
“scarto” ha assunto proporzioni colossali e incontrollabili, divenendo progressivamente percepibile anche nella normalità del vivere quotidiano: e oramai siamo approdati a uno stadio nel quale la tirannia esercitata sull’uomo dai prodotti altera la sua capacità di orientarsi nel mondo. Il «dislivello prometeico» è, dunque, quello che intercorre tra la nostra capacità di produrre (bersiellen) e la nostra capacità di immaginare (corsiellen). Secondo Anders la nostra immaginazione, che molti pensatori ritengono potenzialmente infinita, è invece finita, così come la nostra capacità di previsione. La nostra capacità di produzione è invece potenzialmente illimitata, giacché il meccanismo produttivo si auto-perpetua senza fine. … Siamo utopisti invertiti: mentre gli utopisti non possono produrre ciò che immaginano, noi non possiamo immaginare ciò che produciamo». … Si ridefinisce, in tal modo, la conditio humana che diviene quella condizione in cui è venuta meno ogni proporzione tra le facoltà dell’individuo e i mezzi a disposizione degli aggregati sociali, e in cui il rapporto tra bisogni, mezzi e fini è stato stravolto. Più che “essere mancante” all’origine, l’uomo si è nel suo sviluppo reso mancante, inadeguato…» (Masullo, 74-75)
6.4.1. un io modulare, una singolarità modulare; «una “soggettività nomade” secondo il “modo” della “singolarità”»
«Così come, in ambito psico-cognitivo, è nata l’idea di una “mente modulare”, è possibile pensare, nel descrivere il mutamento antropologico che è l’immagine stessa del soggetto “post-umano”, ad un “io modulare” (modular me)in cui la molteplicità delle identità da virtuale si attualizza a formare il complesso sistema della “singolarità”. Una “singolarità soggettiva”, certo, dato che «la storia e l’insieme di eventi cerebrali di ogni singolo individuo sono unici», per cui anche l’identità molteplice di ogni “singolarità soggettiva” resta unica poiché «la soggettività è irriducibile»; ma una “singolarità multicentrica” connessa costantemente con il mondo della altre “singolarità multicentriche”: ognuna con ognuna e, al tempo stesso, con tutti i molteplici centri di ogni “singolarità”, perché essa è “diffusa” nello spazio/tempo, ed è disponibile “in rete” nella esplosività della struttura globale.» Masullo p.105-106) (Espresso negli antichi termini metafisici è il concetto di sostanza – monade, presentato da Leinbiz, come unità e punto forza/energia in cui sono contenuti gli infiniti mondi possibili.)
6.4.2. la gestione del tecnico 
[Preliminare possibile : distingui tra “tecnico” e “tecnologia”: il primo termine indica il produrre con mezzi tecnici affidato alla propria logica strumentare; il secondo termine indica quel produrre gestito secondo scopi e fini dallo spessore sempre più responsabile ed etico (almeno sotto l’incalzare dei rischi e della paura cfr. A. Sen, U. Beck)]
«Il tema di una “essenza” della natura umana, sia essa considerata tanto nell’orizzonte metafisico quanto in quello “materialistico”, è, come dall’inizio di questo lavoro si è discusso e cercato di argomentare, proposta teorica sempre più esposta a radicale infondatezza e, almeno sul piano della ricerca scientifica, sempre più revocabile in dubbio. Il concetto di “essenza”, nelle molteplici trasformazioni teoriche e argomentative, giunge fino all’antropologia filosofica contemporanea sempre più incerto nella sua definibilità, e diviene, nell’ambito della questione dei mutamenti della rivoluzione bio-tecno-informatica, ancora una volta, coagulo decisivo della sfida tra “tecnofobi” e “tecnofili”. I primi, come visto, se ne fanno scudo per opporsi al mutamento, i secondi per giustificare, attraverso la liberazione dell’uomo dalla sua “essenza naturale”, l’abbandono dei vincoli biologici e corporei.
L’idea intorno alla quale si definisce il concetto di “postumano” … né si oppone né “giustifica” il mutamento, bensì ne coglie il processo dentro il movimento coevolutivo di natura e cultura. Si rileva, insomma, semplicemente, la infondabilità del modello “tecnofobo” e, altrettanto, l’insostenibilità di quello “tecnofilo”. L’idea di “post-umano”, più sobriamente, chiede di governare i processi di trasformazione attraverso la comprensione dell’articolata complessità umana e l’accettazione della dialettica coniugativa con le alterità “naturali” e “culturali”, in una prospettiva di superamento dell’opposizione natura vs cultura.» (Masullo 118-119)
6.5. la gestione storica del post-umano e un altro post: «il postfemminismo». La tesi: «L’influenza delle ideologie maturate alla fine del XX secolo è e resterà ancora a lungo forte, perché viene riproposta da molti insegnanti e conferenzieri a un pubblico che si è rapidamente allargato. Contro questa eredità ideologica vorrei, al contrario, che ognuno capisse che l’analisi della situazione delle donne, l’interpretazione dei loro comportamenti personali e della loro azione collettiva, guida la nostra concezione della società e della cultura. Siamo già entrati in una società di donne. Ecco perché le ricerche sulle donne sono la migliore chiave d’accesso a un nuovo modello di sociologia generale.» Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, il Saggiatore, Milano 2008, p. 270-271

Ipotesi di articolazione storica e filosofica della tesi sociologica.
6.5.1. Perché e quando le differenze si trasformano in diseguaglianze e danno vita a gerarchie? Quelle sono naturali, queste sono sociali e si giustificano facendo riferimento al genere o meglio alla sessualità. La differenza è definita, costruita e gestita sempre allo scopo di teorizzare la superiorità maschile. Gestire le differenze, non trasformarle in diseguaglianze e dissolvere la gerarchia, questo l’obiettivo. Occorre riflettere, con il metodo della antropologia, «sul pensiero della differenza, ossia sul modo in cui la differenza fra i sessi, che in assoluto non comporta alcuna gerarchia, è stata pensata nelle diverse società del mondo fin dall’origine dei tempi», occorre andare «alla ricerca delle condizioni necessarie e costanti che hanno portato dovunque gli uomini a concettualizzare e a tradurre questa differenza in gerarchia, sempre orientata nello stesso senso. p.IX
«La diseguaglianza non è un effetto della natura. È stata costruita attraverso la simbolizzazione, fin dall’origine della specie umana, a partire dall’osservazione e dall’interpretazione dei fatti biologici rilevabili. Questa simbolizzazione sta alla base dell’ordine sociale e degli schemi mentali di differenziazione che sono tuttora presenti, anche nelle società occidentali più sviluppate. È una visione molto arcaica, ma che non è inalterabile; è molto arcaica perché dipende da un lavoro del pensiero realizzato dai nostri lontani antenati nel corso del processo di ominizzazione a partire dai dati che fornivano i loro unici mezzi di esperienza: i sensi. Le rappresentazioni infatti hanno una vitalità tenace e inoltre funzionano nei nostri pensieri senza che abbiamo bisogno di richiamarle e di riflettervi. Le riceviamo in eredità fin dalla nostra infanzia e le trasmettiamo allo stesso modo. Sono quindi inestirpabili? No. I dati del reale sono cambiati, perché i mezzi osservazione, anche se piuttosto recentemente, sono evoluti. XII-XIII
Perché la gerarchia, segno dell’ineguaglianza, si è insinuata all’interno di questo semplice equilibrio che oppone a due a due dei termini antitetici che dovrebbero avere lo stesso valore? E perché questa gerarchia s’instaura in maniera tale che, sistematicamente, le categorie marcate dal sigillo del maschile siano superiori alle altre? L’ordine delle categorie può variare secondo le società, come nel caso di attivo/passivo o Sole/Luna, ma la valorizzazione è sempre maschile anche quando si sposta oggettivamente da un termine all’altro della stessa coppia. XIV»
Héritier Françoise 2002 Dissolvere la gerarchia. Maschile/femminile II, Raffello Cortina Editore, Milano 2004
6.5.2. Paradigma della cultura moderna è (per convenzione storiografica) il concetto di dominio, garantito dall’appena avviato incontro tra scienza e tecnica (Bacone, Descartes); il nuovo sapere che ne deriva è garanzia di progressivo dominio dell’uomo sulla natura. Michel Foucault nello studio vasto e incompiuto sulla Storia della sessualità scopre nella logica dei generi maschile e femminile, fissati con riferimento prevalente e quasi esclusivo alla sessualità, la radice del paradigma del dominio; non è a caso che metafore sessuali abbondano nei resoconti epistemologici sulle potenzialità di dominio (e per questo scopo le metafore sono ricavate dal genere maschile) che la scienza può garantire: quest’ultima, nell’età moderna, rappresenta infatti, per Bacone, il “parto maschio del tempo” (Temporis partus masculus, 1602-1603).
6.5.3. I movimenti femministi del ‘900 mettono in progetto la progressiva emancipazione della donna da ruoli sociali complementari, subalterni, sottovalutati fino a configurare l’esclusione da molti ambiti sociali, soprattutto da quelli considerati sede del potere. Diritti politici, diritti sociali, diritti culturali non sono concessi e, quando lo sono formalmente, non sono garantiti. I movimenti femministi che definiscono il ’68 determinano i più avanzati progetti di ripresa della piena soggettività femminile e la demolizione del concetto e del ruolo di genere, basato unicamente sul sesso, per secoli strumento di sfruttamento. Uno degli ambiti che vede come protagoniste «le donne come agenti principali del ritorno del soggetto e dunque del rivolgimento che ha avuto luogo nella nostra cultura, passata dalla conquista del mondo alla ricerca di sé» (Touraine o.c. p.153) è quella della sessualità, della sua rilettura e liberazione; soprattutto liberazione dal concetto di genere. «Che cosa si deve intendere con sessualità? Certamente non solo la libido, il desiderio. In quel caso basterebbe il termine sesso. La sessualità è la formazione della personalità attraverso relazioni affettive sessuate e diverse forme di piacere erotico. Per chiarire questa definizione, distinguiamo innanzitutto sesso e genere (gender), distinzione che ha svolto un ruolo capitale nell’elaborazione del pensiero femminista, soprattutto statunitense. Il genere, affermano i commentatori, è una costruzione sociale della vita sessuale. … L’idea di genere è diventata feconda … ha introdotto la nozione di imposizione di una forma di dominio, la creazione di un essere dominato dal potere maschile. Ecco perché le più celebri femministe, Judith Butler in testa [Butler Judith Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004], hanno denunciato l’idea di gender e hanno, invece, cercato di riabilitare le forme minoritarie (queer) di vita sessuale. Così facendo, sono riuscite a trasformare profondamente il pensiero femminista. La nozione di genere è fatta per essere distrutta, per essere decostruita, affermano, perché le categorie impiegate per descrivere le donne sono altrettanti strumenti di imposizione del monopolio del rapporto eterosessuale, la cui preminenza è legata alla posizione centrale occupata dagli uomini nella funzione sociale di riproduzione e di filiazione.» Touraine o.c. 251
6.5.4. Un soggetto in assenza di genere. È la psicanalisi, nella varietà delle forme teoriche assunte, a relegare il concetto di genere (inteso come sessualità codificata nei ruoli maschile e femminile e secondo costumi) nell’ambito delle relazioni sociali.  Due soli riferimenti. Freud sottolinea la natura indefinita e totale della pulsione libidica nell’età prepuberale; non specializzata sessualmente essa si appoggia e sostiene altre funzioni, prende forma in tempi e soddisfazioni diverse nella storia delle tre fasi della sessualità infantile, forme che fissano in modo costante la pulsione lipidica alle azioni nei più svariati campi della vita personale e sociale del soggetto. Secondo l’analisi di Fornari, la teoria dei codici affettivi, l’inconscio è abitato da diversi personaggi, il padre, la madre, il bambino, i fratelli, il maschio, la femmina, da oggetti parziali e da alcuni eventi affettivi centrali come la nascita e la morte. Questi personaggi, nella scena interna, costituiscono un sistema forte di relazioni affettive, un sistema strutturato che corrisponde alle relazioni tra i diversi ideali dell’Io di cui ogni personaggio è considerato portatore. Dai codici, funzioni affettive vitali, e dalle possibili combinazioni tra loro, proprie della storia individuale, è definito l’inconscio immediatamente orientato al giudizio e alla decisione e la forma personale che assume nell’azione del singolo soggetto. I codici affettivi infatti sono propri e compresenti in ogni individuo; la storia individuale si incarica di saturare le loro possibili combinazioni. La “saturazione dei codici” (il modo in cui essi si compongono in un sistema personale di orientamento, valutazione e decisione) è storico-circostanziale e non può essere previsto teoricamente. Se i codici sono pochi e sono invarianti nei loro elementi costitutivi, sono variabili nelle loro realizzazioni e dipendenti, nella loro saturazione, dall’incontro con il mondo delle relazioni.
6.5.5. il postfemminismo: differenze senza gerarchie. L’emancipazione e l’annullamento della discriminazione sessuale non si raggiungono né con l’enfatizzazione delle differenze, tese a chiudersi in autonomie irrelate, né in minimizzazione delle differenze e del loro ruolo. Occorre uscire dalla logica che lega strettamente differenza e gerarchia; su questo terreno sono sorte le strutture di potere, di dominio e di esclusione della società “moderna” o “occidentale”. Denunciando la ratifica di ruoli di dominio sociale fondato sulle differenze sessuali, il femminismo inaugura la fine di un’epoca culturale ispirata alla logica del potere e apre, grazie alla sua azione,  ad un ambiente culturale, postmoderno, postfemminista, in cui la differenza è contesto di confronto e di opportunità. «Le donne sono i vettori che agevolano il passaggio della nostra società da una visione conquistatrice del mondo [quella moderna] a una visione di sé creatrice di nuovi orientamenti liberi. … È d’altronde a partire da una chiara consapevolezza di cosa sia il postfemminismo e di cosa abbia già realizzato che si possono capire l’intera scena sociale e i suoi nuovi problemi». (Touraine o.c. p. 250, 270) Non si tratta di una emancipazione che riguarda solo un settore specifico; è comportamento culturale già presente che deve essere metodologicamente valorizzato e generalizzato. Chi nega le differenze tra un dipinto di Raffaello e uno di Michelangelo, Picasso e Van Gogh? Chi crea delle gerarchie tra i di loro?  Valutare non significa creare gerarchie; è questo (anche o soprattutto) l’eclettismo del postmoderno. 
Perché la gerarchia si è innestata sulla semplice differenza dei sessi? Si può pensare di dissolverla?  
A questi interrogativi Françoise Héritier, nell’opera citata, risponde in termini antropologici non meno che politici. Critica i luoghi comuni sulla differenza dei sessi, per esempio l’idea che le donne non pensano come gli uomini perché il loro cervello funziona in modo differente, o l’idea che se le donne sono in pericolo è perché le donne sono un pericolo. Ma esamina anche la possibilità di dissolvere la gerarchia tra maschile e femminile instaurata e perpetrata dalle nostre categorie di pensiero. Mostra come, per la prima volta nella storia, grazie agli attuali metodi di contraccezione, le donne si siano assicurate il controllo della fecondità e come debbano riappropriarsi del loro corpo. Questi cambiamenti non sono la promessa di una società in cui la differenza e l’asimmetria possano essere il fondamento non di una gerarchia ma di un’autentica armonia? Héritier Françoise 2002 Dissolvere la gerarchia. Maschile / femminile, Raffaello Cortina editore, Milano 2004 (dalla quarta di copertina)

7. cosa resta del post-moderno (da alcuni considerato come processo ancora in fieri ma, per coerenza con la sua definizione, cioè con la logica del post- dovrebbe essere in inesorabile superamento…)
Il contesto del ruolo della filosofia: «Se il ruolo del filosofo consiste non nel dire «che cos’è» ma «che cosa accade», e se la “crisi della filosofia” non è, né deve essere, la scomparsa dei “filosofi” — Poiché essere filosofi significa «diagnosticare il presente di una cultura: è questa la vera funzione che possono avere oggi gli individui che chiamiamo fi1osofi (Foucault) —, allora è possibile riallacciarsi al discorso di Nietzsche che, riprendendo l’ode di Pindaro, ha detto una volta: «divieni ciò che sei», cioè accetta di essere un diveni—ente.» (Masullo 110)
In coerenza con la propria logica (e con la propria essenza di post), il postmoderno si espone all’autonegazione. Che cosa “resta” del processo “in atto” o “in fieri”?
Alcune consapevolezze paradigmatiche ed alcune aperture o direzioni.

7.1. Una sensazione generale. «Questo “nomadismo teorico”, che porta a viaggiare nella storia come in una banca dati, come si naviga su Internet, è la condizione propria dell’uomo postmoderno, la cui esperienza, come vedremo più estesamente affrontando i temi del postmoderno filosofico, è caratterizzata dalla perdita di un punto di riferimento stabile e stanziale, dal continuo attraversamento — reale e virtuale — di frontiere, da un non sentirsi mai “a casa propria”, il che non è vissuto in termini nostalgici, quanto piuttosto con un senso di euforica libertà. […] Il postmoderno combatte quindi ogni tentativo di totalizzazione, e in questo ha una funzione di resistenza: porta guerra al tutto, è il dissidio contro la conciliazione, l’affermazione della differenza contro l’identità e l’uniformizzazione, è il continuo rilancio della sperimentazione contro il compimento. Il postmoderno, scrive Lyotard, non è il moderno alla fine, ma allo stato nascente, e questo stato è costante.» (Chiurazzi o.c. p. 26, 40). Riferendosi alla società contemporanea, sottolinea Vattimo (La società trasparente, Garzanti, Milano 1989):«… una società più complessa, persino caotica … proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione».

7.2. la concretezza sociologica (in situ) di una ritrovata dimensione utopistica.
« La liberazione e l’emancipazione non si realizzano con l’appello utopico alla ricomposizione armonica di una condizione non alienata, pensata in base a una concettualità umanistica che non prende seriamente in conto le trasformazioni della società contemporanea: piuttosto, proprio l’apparente caos della società postmoderna, che ci mette costantemente in contatto con mondi, esperienze, situazioni sempre diverse, rappresenta una possibilità di emancipazione che fa appello, non alla ricomposizione dell’unità, ma alla moltiplicazione delle differenze, non alla stabilità, ma all’oscillazione e alla fluidificazione. “[...] Nella società dei media, al posto di un ideale emancipativo modellato sull’autocoscienza tutta spiegata, sulla perfetta consapevolezza di chi sa come stanno le cose (sia esso lo Spirito Assoluto di Hegel o l’uomo non più schiavo dell’ideologia come lo pensa Marx), si fa strada l’ideale di emancipazione che ha alla propria base, piuttosto, l’oscillazione, la pluralità, e in definitiva l’erosione dello stesso “principio di realtà” – G. Vattimo, Postmoderno: una società trasparente? In La società trasparente 1989”» Chiurazzi o.c. p. 44

7.3. Una nuova logica e una nuova etica (a partire dai “frattali.)
Con l’espressione “frattale cognitivo”, infatti, ispirata al concetto di “frattale” introdotto dal matematico Benoît Mandelbrot già a partire dal 1969, s’intende che una struttura «resta fine a tutti i livelli di osservazione. Da ogni parola può nascere una pagina e da ogni pagina un libro […] Mentre il processo lineare tradizionale cerca di evitare le ripetizioni [...] una semplice frase può contenere la totalità delle [...] tesi». D’altra parte, che il processo della conoscenza sia frattale e che i frattali siano “cognitivi” viene egregiamente messo in evidenza dalla riflessione che mostra chiaramente che «quando esaminiamo l’universo cognitivo ci troviamo spesso a una pluralità di livelli che [...] assumono una geometria ricorsiva […] che a prima vista può apparire sconcertante. Dalla complessa relazionalità della natura intima del neurone [...] alle reti virtuali […] dai processi di sedimentazione dell’informazione, lungo la filogenesi, al selezionismo ontogenetico, dalla disposizione evolutiva [...] ai processi di sviluppo delle tradizioni culturali, ritroviamo puntualmente una rete di rapporti diretti e retroattivi che non permettono di far decantare dall’intreccio un primo movens». (Marchesini R. 2002 Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino p. 323)
È un complessissimo e inestricabile “gioco” di feedback a più livelli il cui andamento è, appunto, inevitabilmente ricorsivo e variativo.
Se la forma del mondo è avviata verso i radicali mutamenti di cui si è detto, prodotti dall’operare “bio-tecnologico” dell’uomo che, mutando l’oggetto, il mondo appunto, muta se stesso in nuove forme di identità, nel sempre più accelerato processo di ibridazione uomo e natura, uomo e tecnica e uomo e tecnologia, considerati come un tutt’uno, attraverso l’inestricabile “gioco” dei feedhacks positivi e negativi, e se i primi segni della nuova forma identificano nel “post-umano”, inteso nel significato più volte indicato, cioè avvio di una “soggettività nomade” secondo il “modo” della “singolarità”, di fronte a tale nuova “estetica” è necessario elaborare una nuova forma di etica: un’etica che certamente non può che essere radicalmente laica nel senso di essere uno studio problematico che si realizza in condizioni di indipendenza da presupposti. Si tratta di «un’etica della trasformazione e non della conservazione; dell’emancipazione e non della minorità; che accolga le responsabilità e non le respinga; che non rifiuti l’aumento illimitato di potenza, ma ne determini gli obiettivi; che non consideri definitivo nessun assetto biologico o sociale, ma accetti di considerarli tutti come figura del mutamento e della transizione» (Schiavone A. 2007 Storia e destino, Einaudi, Torino p. 89-90). […] Conservare trasformando significa liberarsi dall’idea di una presunta “essenza” dell’umano, ma pure richiedere un costante e interrogativo bilancio del processo di “creazione” del nuovo, insieme all’esercizio di “cura” del nuovo che è la passione che ci fa consapevoli della nostra fragilità e vulnerabilità. Solo così una “soggettività nomade”, poiché effettivamente e affettivamente aperta alla dimensione dell’alterità, può guidarci nell’accoglimento del mutamento ma anche nella radicata consapevolezza, sensibilmente sostenuta, dei rischi e delle possibilità ai quali ci espone l’esplorazione della nostra inattesa e sbalorditiva biotecnopoiesi […]  Se Martin Heidegger ha indicato nella cura (Sorge)dell’Essere il nostro compito più proprio, il “post-umano” prova a indicare nella cura (epimeleia)del Divenire, cioè nella cura della dimensione bio-tecno-evolutiva, l’atteggiamento più proprio di un uomo inteso e ripensato come iato accogliente, sospeso tra natura e cultura, tra tecnica e tecnologia, come agire rivolto a rendere “possibile”, nel mutamento incessante, il continuarsi.» (Masullo 105-106, 124-125).

7.4. uno sguardo e un’attenzione. Piaccia o no, indicatore di un nuovo periodo o no, il prefisso post, nelle sue plurime e crescenti predicazioni e contestualizzazioni è un segnale di attenzione rivolto al presente e alla sua interna dinamica: il presente non è riconducibile a schemi che possano essere a disposizione, richiede la disponibilità, la cura e il rispetto del notare. «La poetica del «brutto» e dell’«ordinario» contro l’«eroico» e l’«originale» si inscrive in questa osservazione a-valutativa dell’ambiente esistente. La rinuncia al «giudizio» diviene parte integrante di questo «passaggio» dall’arte popolare all’arte colta, e la progettazione si delinea come un atto di ricerca su quello che uno vede anziché su quello che si vuole vedere.» (Vaccaro C. o.c. p.15)

 

Fonte: http://www.terzauniversita.it/download/anno08_08_corso13-lez10.doc

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