Dispensa di musica

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Dispensa di musica

Due saggi tratti da
Wagner & Cinema
ed. by Jeongwon Joe & Sander L. Gilman,
Bloomington & Indianapolis, Indiana University Press, 2010

  • James Buhler, Wagnerian Motives: Narrative Integration and the Development of Silent Film Accompaniment, 1908-1913 (pp. 27-45)

 

  • L’idea di ricorrere alle tecniche wagneriane per l’accompagnamento dei film diviene preminente intorno al 1910.
  • Non tutti, almeno in un primo momento, ne sono convinti: alcuni, come ad esempio Clarence Sinn sulla rivista «The Moving Picture World», preferiscono far riferimento al melologo (melodram), ossia al genere nel quale un testo in poesia o in prosa è recitato con il sostegno di un accompagnamento strumentale.
  • Tuttavia, i riferimenti a Wagner si fanno sempre più frequenti con il progressivo affermarsi delle tecniche del montaggio continuo, che consentono di unire gli spezzoni delle riprese in modo da creare l’impressione di una sequenza logica di eventi, con l’obiettivo di una vera e propria integrazione narrativa.
  • Tali tecniche trasformano il film da immagine mimetica (ossia «imitazione») d’una realtà riprodotta a immagine diegetica (ossia «narrazione») d’una realtà rappresentata.
  • Se dunque nel precedente sistema la coerenza della storia si ottiene con l’allestimento (si recita un’intera scena di senso compiuto, effettuandone la lunga ripresa integrale), adesso non occorre che la recitazione avvenga secondo la sequenza degli eventi narrati, ed è il montaggio (realizzato in fase di post-produzione) a creare la narrazione, unendo tra loro le brevi riprese dei singoli momenti di quella che solo in seguito diverrà una “scena”.
  • Ciò comporta una perdita di oggettività: la cinepresa non resta più ferma in un punto durante tutta la ripresa di una scena, ma si muove, modificando il punto di vista; e un insieme di inquadrature differenti può risultare funzionale alla narrazione di un evento unitario.
  • In conseguenza di questo nuovo modo di intendere il cinema il regista, da tecnico, diviene un vero e proprio artista, in grado di esprimere la propria soggettività attraverso la costruzione narrativa.
  • Se la precedente concezione si serve soprattutto dei campi lunghi, concentrandosi sulla scena, adesso si prediligono le inquadrature ravvicinate, per richiamare l’attenzione sui personaggi, sottolineando tuttavia inevitabilmente, in tal modo, il fatto che essi non parlano.
  • Per ovviare a tale limite, si avanzano sostanzialmente due proposte:
    • Il ricorso alla voce narrante, ossia a un attore presente in sala che legge un testo esplicativo.
    • Il ricorso alla musica, ossia alla presenza in sala di uno o più musicisti.
  • La musica, e in particolare la musica strumentale, si rivela alla lunga più efficace della voce narrante, in quanto, anziché rivolgersi agli spettatori, si rivolge in un certo senso al film stesso, dissimulando così il proprio ruolo di narratore.
  • Inizialmente però la musica svolge nel cinema muto un ruolo accessorio, costituisce un’attrazione ulteriore non necessariamente legata al contenuto del film: a meno che non si tratti di musica diegetica (ossia appartenente alla narrazione: insomma, una musica che si suppone ascoltata anche dai personaggi del film); oppure a meno che i suonatori non decidano di sottolineare un’immagine attraverso un procedimento di associazione di idee (ad esempio, citando nel commento musicale una canzone nota, il cui titolo richiami un particolare presente sulla scena). In entrambi i casi, i musicisti svolgono un ruolo non dissimile da quello del rumorista.
  • Il dibattito tuttavia si concentra ben presto sulla necessità che la musica cessi di relazionarsi ai dettagli della singola scena, e costruisca piuttosto un legame con la storia.
  • Il citato Clarence Sinn, ad esempio, sottolinea come i musicisti dovrebbero mettere a fuoco il tema fondamentale di una scena per richiamare l’attenzione su quello e non sui dettagli.
  • Inoltre, gli stessi musicisti dovrebbero contribuire al senso di continuità creato dal montaggio, soprattutto là dove intervengono le tecniche del montaggio incrociato (cross-cutting: dissolvenze, etc.), per unire tra di loro scene che si svolgono contemporaneamente, ma in luoghi diversi.
  • In questi casi, la scelta migliore è quella di creare un commento musicale alla psicologia del personaggio principale. Ad esempio, in una sequenza dove le inquadrature di una madre disperata che attende a casa il figlio un tempo ripudiato si alternano costantemente alla descrizione del rientro del figlio medesimo e del suo incontro con il padre (A Dixie Mother, 1910), Sinn suggerisce ai musicisti di concentrarsi sul punto di vista della madre, unificando l’intera sequenza all’insegna del “patetico”, malgrado il fatto che le inquadrature del figlio, e del figlio col padre, abbiano un carattere opposto.
  •  In questa fase però Sinn non fa ancora riferimento alla tecnica del Leitmotiv. Lo farà di lì a poco, nel 1913, a proposito del film La vendetta d’Egitto (1912):

«Si può scegliere un qualche tema musicale per rappresentare l’anello della mummia e il suo malefico potere (come Wagner usa motivi per lo scudo, il fuoco, la spada e altri oggetti importanti), e questo tema dovrebbe esser ripetuto… quando capita che l’anello abbia trovato una nuova vittima. Questo tema dovrebbe avere un carattere strano e misterioso».

  •  Nonostante che gli esempi addotti da Sinn siano dei temi sintatticamente compiuti, anziché dei motivi nel senso di Wagner (per la distinzione, si veda la prima parte della presente dispensa), nel 1913 Sinn insiste sul fatto che il tema dovrebbe comunque riferirsi non tanto all’oggetto quanto alle sue implicazioni narrative, e del concetto di “presentimento” tematico dà una definizione molto simile a quella di Wagner.
  • Se dunque in un primo momento ci si limita a raccomandare ai musicisti che individuino lo stato emotivo fondamentale di ciascuna scena, ben presto ci si rende conto che per unificare la narrazione dell’intero film ciò non è sufficiente: è necessario ricorrere al Leitmotiv.
  • Poco importa, in tal senso, che il ricorso al tema conduttore nel cinema muto produca una rete realmente paragonabile a quella dell’orchestra wagneriana: tale ricorso non è inteso a emulare Wagner, ma ha lo scopo di sincronizzare (termine fondamentale per la futura storia del cinema) la musica con il mondo interiore dei personaggi e non più semplicemente con la realtà visibile sullo schermo.
  • Tutto ciò richiede ai musicisti che accompagnano dal vivo il film muto una marcata capacità di analisi, nonché una grande sensibilità nell’anticipare, sia pur di poco, il decorso della narrazione.
  • Di conseguenza, la musica per film, proprio come l’orchestra di Wagner, assume il ruolo del narratore o, più precisamente, lo status di narrazione.
  • [L’autore conclude il saggio sostenendo che l’assenza della voce nel film muto conferirebbe alla musica una capacità di “umanizzazione” dei personaggi ignota allo stesso Wagner, che in tal senso si mostrerebbe “reazionario”: conclusione che al docente appare del tutto arbitraria e non necessitata dalla trattazione fin lì condotta].

 


  • Peter Franklin, Underscoring DramaPicturing Music (pp. 46-64)
  • Il saggio prende le mosse da due affermazioni, tra loro nettamente contrastanti, riguardanti i rapporti tra la musica di Wagner e il cinema:
    • «In definitiva, il ruolo di Wagner nel dibattito su musica e cinema è simile a quello dell’elmo magico nelle opere del suo Ring: avvolta retoricamente attorno ai prodotti cinematografici, la figura di Wagner consente di trasformare illusoriamente il film in un’opera d’arte che è riuscita a realizzare il suo desiderio, quello di raggiungere i traguardi dell’unità e della totalità» (Scott D. Paulin, Richard Wagner and the Fantasy of Cinematic Unity, in Music and Cinema, ed. by J. Buhler a. o.,  Middletown 2000, p. 79).
    • «Come Bayreuth, Hollywood promuove la totale immedesimazione dell’uditorio e un’esperienza soggettiva priva di pudore. Il teatro oscurato [voluto da] Wagner si è dimostrato del tutto profetico, mentre la buca dell’orchestra invisibile ha trovato un successore negli altoparlanti surround. Che così tanta musica per film conservi il linguaggio, il timbro e l’organizzazione basata sul Leitmotiv propri del dramma musicale rende esplicita la connessione» (Christopher Morris, Reading Opera between the Lines, Cambridge 2002, p. 205).
  • Pur ammettendo che nei riferimenti a Wagner, e in particolare alla tecnica del Leitmotiv, i primi commentatori di musica per film hanno ecceduto e non di rado equivocato, Franklin sta dalla parte di Morris. Le critiche alla cultura di massa hollywoodiana paiono non tener conto del fatto che lo stesso Theodor Wiesegrund Adorno, tra i più decisi avversari di quel modello, mantenne un atteggiamento analogamente critico nei confronti di Wagner, almeno per quanto attiene alla tecnica del Leitmotiv, arrivando ad “accusarlo” di aver composto musica per film, in tutto tranne che nel nome, ancor prima che il cinema fosse inventato.
  • In realtà, Wagner non fu tanto un modello per le tecniche narrative cinematografiche adottate all’inizio del XX secolo, quanto piuttosto un loro precursore.
  • Quanto alla contrapposizione tra il livello “alto”, “colto” dell’opera e il presunto livello “basso”, “popolare” del cinema, si deve rilevare che con il successo dell’opera italiana tra Otto Novecento (verismo, Puccini) essa risulta sensibilmente stemperata. Tale successo, disprezzato da molti ambienti musicali “colti”, fu infatti uno stimolo per i giovani operisti anti-modernisti austriaci e tedeschi, per i quali era indispensabile dialogare con quel vasto pubblico al quale, a loro giudizio, i compositori modernisti (Arnold Schoenberg, Alban Berg) e, con modalità differenti, i musicisti che collaborarono con Bertolt Brecht negli anni della Repubblica di Weimar avevano voltato le spalle. Tra questi giovani anti-modernisti spicca, ovviamente, il nome di Erich Wolfgang Korngold, notoriamente, in seguito, esponente di primo piano della musica cinematografica hollywoodiana.
  • Ciò premesso, e sottolineato che il concetto di “opera d’arte” è storicamente tutt’altro che stabile, si deve ripensare la questione dei rapporti tra Wagner e il cinema spostando l’accento dalla questione del Leitmotiv a quella più generale del dramma musicale wagneriano, che in quanto contrapposto all’estetica dell’opera tradizionale, implica la teorizzazione di una tecnica di sottolineatura orchestrale della rappresentazione teatrale.
  • Tale riflessione coinvolge tre ordini di problemi:
  • la teoria wagneriana del dramma musicale;
  • il discorso dell’Ottocento romantico sulla musica, e in particolare l’apparente dicotomia tra musica assoluta e musica a programma;
  • le tecniche compositive e le scenotecniche wagneriane.
      • Nella terza parte di Opera e Dramma (1850-51), Wagner scrive quanto segue:

«Laddove il gesto è del tutto assente e il discorso melodico dell’attore tace interamente, insomma, laddove il dramma prende a svolgersi a partire da stati d’animo ancora inespressi, questi stessi stati d’animo inespressi possono essere espressi dall’orchestra, in un modo tale che la loro manifestazione assuma il carattere di un presentimento necessitato dall’intenzione del poeta».
In tal modo, l’orchestra diviene a tutti gli effetti una voce extradiegetica capace di influenzare, incoraggiare e perfino manipolare l’uditorio affinché esperisca il dramma esattamente come l’autore l’ha concepito. Grazie all’orchestra, noi spettatori siamo indotti dal poeta ad essere necessariamente compartecipi, attraverso l’aspettativa generata dal presentimento, nella creazione della sua opera d’arte (l’espressione è ancora tratta dalla terza parte di Opera e Dramma). Ciò costituisce una sublimazione di quell’arte tipicamente borghese che consiste nel costruire ed esperire in pubblico l’interiorità. Ciò che si realizza in tal modo è una narrazione trasparente, nella quale, cioè, il meccanismo della narrazione viene abilmente nascosto (Wagner, ricordiamolo, è il primo a chiedere che l’orchestra sia resa invisibile allo spettatore) per produrre l’illusione della realtà, esattamente come avviene al cinema grazie al montaggio continuo (si riveda anche il saggio di Buhler riassunto nel precedente capitolo di questa dispensa).

      • Il discorso ottocentesco sulla musica in generale, e sulla musica sinfonica in particolare, è caratterizzato da una dicotomia tra musica assoluta, ossia dotata di senso a prescindere da qualsiasi referente extra-musicale (testo, immagine, azione drammatica) e musica a programma, ossia legata a dei significati che possono essere espressi con mezzi extra-musicali. In realtà, la dicotomia è meno marcata di quanto appaia, poiché nell’Ottocento, stando al complesso delle testimonianze, la musica sinfonica è vissuta privatamente come musica a programma anche quando è esaltata pubblicamente come musica assoluta. In tal senso, le metafore visive utilizzate dallo scrittore e critico musicale E. T. A. Hoffmann (spesso considerato come uno dei primi teorici della musica assoluta) per descrivere le sinfonie di Beethoven non sono poi così distanti dallo scenario interiorizzato evocato da Wagner nella sua lettura della Terza Sinfonia di Beethoven (1852). Nello Scherzo della sinfonia, ad esempio, Wagner individua «un uomo amabile e gaio che passeggia arzillo e vigoroso attraverso i campi»: “rileggendo” la tipica forma ABA di questo Scherzo beethoveniano come un racconto riguardante il personaggio in questione, l’ascoltatore diviene compartecipe della creazione dell’opera d’arte, e la musica di Beethoven acquista conseguentemente, ancora una volta, il ruolo di una voce extradiegetica.
      • A dispetto di quanto asserito da Paulin, anche in Wagner la musica ha spesso la funzione di mascherare i tagli che separano tra di loro scene eterogenee. Ne è un chiaro esempio la pagina strumentale del Rheingold che accompagna il passaggio dalla prima scena (sul fondo del Reno, dove Alberich ha sottratto l’oro alle ondine) alla seconda (sull’altipiano da cui si vede il Walhalla). Seguendo la musica parallelamente alle didascalie descrittive poste tra le note nella partitura di Wagner, si constata un vero e proprio processo di sincronizzazione, in senso cinematografico. Senza contare che in una pagina come la scena iniziale della Walküre (per l’argomento, si riveda la prima parte della presente dispensa) la musica aderisce alla didascalia con modalità che richiamano da vicino quelle dei titoli di testa di un film; la musica del temporale che apre la scena, inoltre, riecheggia, attraverso il Leitmotiv del dio Donner, l’invocazione di quest’ultimo nel Rheingold, al momento di gettare il ponte arcobaleno, e funziona dunque a tutti gli effetti come un flashback. E se è vero che, come nota Paulin, la libertà discorsiva della tecnica wagneriana è altra cosa rispetto al puntuale accompagnamento dell’azione che vollero vedervi i primi teorici della musica per film (ad esempio Erno Rapée), è vero altresì che non mancano neppure in Wagner esempi di Mickey-Mousing (effetto “Topolino”), la minuziosissima sincronizzazione tra musica e movimento tipica del cinema d’animazione, che nell’ambito del cinema attoriale è generalmente considerata un difetto (oppure un effetto intenzionalmente comico).
  • Per concludere, Franklin richiama le ben note critiche di Friedrich Nietzsche a Wagner, il quale, secondo il filosofo, non sarebbe riuscito in alcun modo a riscattare il teatro [moderno] dal suo essersi posto «al di sotto dell’arte… reso tendenzioso e menzognero a vantaggio delle masse». È facile constatare l’affinità di tali critiche con quelle rivolte al cinema da molti intellettuali del Novecento e riprese nell’affermazione di Paulin. Non resta, per Franklin, che storicizzare la figura di Wagner, pur senza eccedere nella ricerca di analogie tra le sue tecniche e quelle della musica per film; e ammettere che la distinzione tra arte e intrattenimento si rivela, in definitiva, estremamente problematica.

La città bavarese dove sorge il teatro fatto costruire da Wagner per rappresentarvi esclusivamente le proprie opere.

Prima di Wagner non era abitudine tenere al buio i teatri durante le rappresentazioni operistiche, e l’orchestra occupava generalmente una parte della platea, risultando quindi visibile agli spettatori.

Franklin parla qui di «metadiegetic voice», ma nella teoria del racconto di Gérard Genette il termine “metadiegetico” si riferisce al personaggio di un racconto di primo livello che diviene il narratore di un racconto di secondo livello, come ad esempio Sheherazade in Le mille e una notte o i giovani protagonisti del Decamerone di Boccaccio. Nel caso dell’orchestra wagneriana abbiamo invece a che fare con un narratore del tutto esterno anche al racconto di primo livello (l’orchestra non è un personaggio del dramma), che tuttavia si pone alla stregua di chi ha materialmente scritto il dramma (autore “empirico”), manifestandone le intenzioni: esattamente ciò che Genette definisce «voce extradiegetica».

Franklin ricorda come Thomas Mann abbia individuato il rischio che la consapevolezza di tale ruolo compartecipe possa condurre lo spettatore a parodiare il meccanismo dell’orchestra wagneriana (a scherzare, insomma, sul modo in cui l’orchestra sottolinea i momenti del dramma); rileva però anche come tale considerazione sia del tutto estranea alla concezione elaborata da Wagner, per il quale la consapevolezza dello spettatore non costituisce un problema.

 «ci dischiudono il regno del mostruoso… abbaglianti raggi di luce attraversano la notte fonda di questo regno, rivelandoci gigantesche ombre», etc.

Si tratta, fra l’altro, della pagina nel corso della quale il Leitmotiv dell’anello si modifica progressivamente fino a divenire il Leitmotiv del Walhalla (si riveda la prima parte della presente dispensa).

 

Fonte: http://www.unife.it/letterefilosofia/comunicazione/insegnamenti/fondamenti_comunicazione_musicale/materiale_didattico/comunicazione-musicale-2014-2015-_-dispensa-e-materiali-per-la-seconda-parte-del-corso/dispensa-seconda-parte

Sito web da visitare: http://www.unife.it

Autore del testo: Marco Mangani

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