Parafrasi Odi e sonetti

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Parafrasi Odi e sonetti

PARAFRASI

di Antonino Fedele

UGO FOSCOLO, Le Odi e i Sonetti

Premessa

Inizialmente si sarebbe dovuto trattare soltanto di otto sonetti che erano apparsi per la prima volta nel 1802 a Pisa nel «Nuovo Giornale dei Letterati», ma successivamente essi vennero ripubblicati nell’aprile 1803 a Milano, per i tipi dello stampatore Nobile, nel volumetto titolato Poesie insieme alle due odi A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata (la marchesa Antonietta Fagnani Arese), come voluto dallo stesso Foscolo (1778-1827) che le aveva composto a Genova dove già avevano visto la luce nel 1800 presso la stamperia Frugoni. Nell’ottobre dello stesso 1803 gli stessi testi furono ripresi e, con l’aggiunta di altri quattro sonetti (il I, il IX, il X e l’XI), furono rieditati, nella nuova e definitiva sequenza,  dallo stampatore milanese De Stefanis.
Ciò premesso, è appena il caso precisare che l’ordine della loro collocazione seguìto nella parafrasi di cui appresso, è, appunto, quello stesso occupato in tale edizione e qui indicato con la numerazione romana.
In verità alcune di tali composizioni liriche basterebbero da sole a tramandarci la fama del loro Autore. Infatti, nella prima ode, l’elogio galante, tipico di certa poetica settecentesca, nei riguardi della bella donna incorsa in un infortunio viene ripreso con riguardosa sensibilità e ne viene fatto un vero e proprio inno alla Bellezza; nella seconda Foscolo dà prova delle proprie spiccate capacità vocazionali di cantore neoclassico della Bellezza idealizzata dalla Poesia, la sola capace di far vivere l’uomo in un gioioso stato di perenne giovinezza.
In particolare, poi, nei dodici sonetti considerati nel loro complesso, è possibile rilevare in nuce tutti quelli che saranno i motivi ispiratori dell’intera produzione foscoliana: l’iniziale esibizione ostinata della propria soggettività da parte del Poeta, ancora in giovanissima età; la struggente incapacità di vivere e di morire impersonata dal giovane Ortis e la lotta che l’Autore, a seguito delle varie disavventure, è costretto a condurre strenuamente con se stesso, mentre è già in grado di intravedere nell’otium letterario una possibilità di salvezza, arra di sicura gloria postuma; la coniugazione del motivo classico della supremazia dell’arte sublimatrice con il personale sacrificio dell’amore e della patria; la difesa a spada tratta della lingua latina e il contestuale fermo disappunto per l’imbarbarimento del nobile parlare toscano che fu dei padri della lingua italiana; i crudeli morsi dell’esilio più o meno volontario, gli struggenti affetti familiari  privi


di speranza, il grido di esultanza in presenza della Bellezza composta e, ad un tempo, esaltante, tipica delle espressioni neoclassiche delle Grazie, o il vivificante canto preromantico del carme Dei Sepolcri e la funzione eternatrice qui espressamente affidata alla Poesia, e di quant’altro in questa sede non mette conto richiamare.

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Le ODI

– Ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo.

 

Le Grazie preparino per te i medicamenti per lenire il dolore e le bende profumate che porgevano alla citerea (Venere, dell’isola di Citera) quando un’empia spina le punse il piede divino, il giorno in cui, fuori di sé per il dolore, riempiva di gemiti il sacro monte Ida e bagnava di lacrime il petto sanguinante del giovane cipriota (Adone) che asciugava con i capelli.
Ora gli Amori piangono te, che sei regina e dea tra le ninfe liguri; essi in voto portano fiori all’altare dal quale risuona l’eccezionale arco del figlio (Apollo) di Latona. La danza ti reclama là dove le brezze facevano  giungere fragranze inconsuete, mentre la tua chioma, sfuggita ai nodi, scendendo sul tuo roseo braccio, fu di delicato intralcio; analogamente Pallade (Minerva), immersa nelle acque che, cadendo dal colle Inaco, le versano addosso dei fiori, con la mano bagnata tiene fuori dall’acqua i capelli disciolti dall’elmo. Dalle tue labbra uscivano espressioni armoniose e dagli occhi ridenti di Venere trasparivano i litigi e le riappacificazioni, le attese fiduciose, le lacrime ed i baci.
Deh! Perché hai rivolto le tue belle forme e la docilità del tuo ingegno ad occupazioni virili? Perché, sconsiderata, non hai seguito l’arte delle Aonie (le Muse, abitatrici dell’Elicona, nell’Aonia), ma ti sei avventurata tra gli sgraziati giochi di Marte?
Inutilmente i venti presaghi raffreddano il petto polveroso ed i fianchi focosi del veloce cavallo mentre il morso irritante ne accresce l’impeto della corsa: gli occhi sprizzano scintille, le narici fumano, la testa eretta si agita, dalla bocca vola la schiuma che imbratta le vesti svolazzanti, le mani incerte ed il candido seno; il sudore gronda, l’irsuta criniera svolazza sul collo, gli antri del litorale risuonano sotto lo scalpitare accelerato degli zoccoli che al loro passaggio sollevano polvere e sassi.
[Il cavallo], indifferente allo scalpore e all’improvvisa agitazione interiore, già si slancia dal lido, immerso nell’acqua fino alla pancia … già nuota e le acque insaziabili, dimentiche che da loro nacque una Dea (Venere), si gonfiano; ma il dio del mare (Nettuno), ancora addolorato   per


l’ingiusta morte di Ippolito, si alzò dal suo letto nel Tirreno, percorse le profonde vie del mare e, con un gesto onnipotente, respinse il furioso cavallo. L’animale, impuntandosi, indietreggiò dalle onde, orribile a vedersi, si alzò sulle zampe e, scuotendo l’arcione, ti trascinò malconcia sulla spiaggia pietrosa.
Perisca quel villano che per primo osò mettere l’agile corpo di una donna in balia di un infido cavallo da corsa e, con il suo consiglio, colpevolmente aprì la strada ad un nuovo pericolo per la Bellezza! Se tutto ciò non si fosse verificato ora non vedrei scolorito il tuo volto roseo, non vedrei i tuoi occhi amorevoli spiare gli sguardi dei medici per cercare di carpire la speranza di ritornare alla bellezza di prima.
Un giorno le cerve trainavano il cocchio dorato di Cinzia (Diana) ma, nell’udire l’urlo delle fiere, per il forte spavento impazzirono e fecero precipitare la dea dalla rupe Tarpea. Le altre dee dell’Olimpo, mal celando un invidioso risolino, gioivano perché l’eterno viso, silenzioso e pallido, ai conviti degli dei appariva cinto da un velo, ma piansero non poco il giorno in cui dalle danze di Efeso tornava Diana, sorella di Febo (Apollo), lieta tra le vergini (le ninfe oceanine) a lei consacrate e, ancor più bella, saliva al cielo.

 

  1. – Ode All’amica risanata

 

Come l’astro più caro a Venere (il Sole) dai capelli ancora permeati di rugiada mattutina, provenendo dalle profondità marine appare all’orizzonte tra le tenebre che si dileguano, e con i suoi raggi perpetui illumina la propria traiettoria, così dal letto dove giacevi inferma, sorge il tuo corpo divino, e in te rivive la bellezza, la dorata bellezza, unico ristoro rimasto ai mali delle menti dei mortali nati per perdersi dietro la vanità.
Vedo la rosa che fiorisce sul caro viso, i tuoi occhi che insidiosi tornano a sorridere e, a causa tua, madri trepidanti e amanti sospettose che tornano ai loro crucci e a vigilare attentamente; le ore che prima scorrevano tristi nella somministrazione di farmaci, oggi, invece, ti apprestano la veste color indaco, i monili, raffinati capolavori di famosi artigiani achei (greci), che adornano le divinità che vi figurano effigiate, nonché le candide calzature antiche e gli amuleti, per cui i giovani, fissando l’attenzione su di te, o Dea, origine di sofferenze e di fiduciose attese, dimenticano le danze.
Sia quando fai da ornamento all’arpa e con la morbidezza delle tue belle forme ricoperte, senza alcuna forzatura, da una finissima tela di lino,  mentre il tuo canto più malizioso si scioglie tra sommessi desideri ardenti, oppure quando, ballando, esegui puntualmente delle precise coreografie e, mentre  il  tuo  agile  corpo  volteggia  nell’aria,  dal  mantello  e  dal    velo


distrattamente scomposto sul tuo seno si manifestano fascinose movenze mai conosciute prima; mentre ti muovi, lentamente vengono giù le splendide trecce trapunte di recente ambrosia non adeguatamente trattenute dal fermaglio d’oro e dalla corona di rose di cui ora, riacquistata la salute,  la primavera ti fa dono.
Così come le ore a venire, quasi fossero le ancelle di Amore, invidiate volano intorno a te, le Grazie osservino spiacenti chi ti rammenta la bellezza che fugge via e l’ora della morte. Mentre la casta Diana,  cacciatrice mortale alla guida di un gruppo di vergini ninfe oceanine, si spostava lungo le pendici del Parnaso, il sonoro scoccare dell’arco cidonio (costruito a Cidonia, nell’isola di Creta) da lontano terrorizzava i cervi. I figli di Olimpia ne cantarono e ne diffusero la fama; i suoi devoti la chiamarono Dea e le dedicarono un trono nel cielo Elisio, per sede le assegnarono i monti, e le riconobbero la capacità di maneggiare le frecce infallibili e il carro della luna (di Selene) in cielo. Sul canoro Elicona si trovano altari sui quali venivano offerti sacrifici a Bellona, un tempo invincibile amazzone; ora la stessa Bellona prepara l’elmo, lo scudo, le cavalle (le armate militari) e l’irrefrenabile entusiasmo contro l’ingorda Inghilterra.
E colei, di cui ti vedo cingere devotamente con il sacro mirto la statua di marmo, che per i tuoi intimi Lari fece da guida, mentre la sola sacerdotessa a me sembri tu, fu regina e regnò felicemente su Creta, su Cipro, dove la primavera fa continuo sfoggio di profumi, e su quelle isole che, con i loro crinali ricoperti di selve, rallentano il soffiare dei venti di scirocco e delimitano la superficie del mare Jonio.
Io nacqui in quel mare (isola di Zante, 1778); da quelle parti erra nudo lo spirito della fanciulla (Saffo, innamorata suicida perché non corrisposta) di Faone e quando, di notte, sulle onde del mare, mite e leggero spira lo  zefiro, i litorali riecheggiano il lamento di una lira, per cui io, tutto compreso dalla sacralità dello scenario natio, trasporto per te sulla cetra italica la gradevole solennità delle note eolie e tra le mie composizioni  avrai gli auspici delle nipoti lombarde.

 

I SONETTI

 

– Forse perché della fatal quiete …

Forse perché sei l’immagine dell’eterno riposo (della morte) mi torni gradita, o Sera! Sia d’estate, quando le nuvole primaverili e il vento mite e leggero sembrano danzare davanti a te facendoti la corte, e sia d’inverno, quando,  venendo  giù  dal  cielo,  avvolgi  la  terra  con  un’interminabile e


preoccupante oscurità, tu giungi ardentemente desiderata e con gradevole dolcezza accarezzi le riposte vie del mio cuore. Tu mi fai vagare con i miei pensieri lungo i sentieri che conducono alla morte (al «nulla eterno»), e intanto questi anni infelici volano via portandosi dietro la gran quantità di preoccupazioni a causa delle quali essi lentamente si consumano insieme alla mia persona: e mentre io mi beo nella tua pace, la vivacità del mio spirito combattivo si acquieta.

 

– Non son chi  fui; perì di noi gran parte …

Non sono più quello d’un tempo, perché su gran parte di me non posso più contare, ma ciò che mi è rimasto è soltanto struggimento profondo e lacrime. Il mirto, simbolo della poesia amorosa, si è inaridito e l’alloro, simbolo della gloria poetica, cui da giovane avevo rivolto le mie aspirazioni, ha le fronde in pauroso disordine: da quando il colpevole abuso della libertà e la vita militare mi hanno rivestito del loro manto di sangue,  la mia mente è diventata inetta e il cuore in subbuglio, mentre le mie abilità e ciò che costituisce motivo di lode si sono mutati in ingordigia di denaro. Seppure dovessi decidere di darmi la morte, un ardente e intenso desiderio di gloria nonché il profondo affetto di figlio si frappongono alla fierezza della mia ragione. Sono talmente schiavo di me stesso, d’altri e del mio destino che, pur essendo consapevole di ciò che è il bene, rivolgo tutto il mio interesse a ciò che c’è di negativo, per cui, anziché suicidarmi, preferisco limitarmi ad invocare la morte.

 

– Te nudrice delle muse, ospite e Dea …

Tutte le popolazioni barbare che ti hanno sottomesso ti chiamavano nutrice delle Muse, ospite sacro tutto da rispettare e ti consideravano una divinità: presso di noi ciò contribuiva a rendere meno pesante l’ignobile oppressione che da tanto tempo grava sulle nostre spalle. Se le tue imperfezioni, i lunghi secoli e un crudele destino ti hanno fatto perdere la capacità di mettere a punto concetti e valutazioni, e a non avere più il senso della grandezza morale e politica dell’antica Roma, in te era ben presente la nobiltà del più importante mezzo espressivo con cui si potevano intrecciare regali corone d’alloro da collocare sul tuo capo, ancorché ormai privo di ogni dignità. Italia, ora sull’altare della tua Divinità tutelare sacrifica pure  le ultime vestigia che son rimaste di un così vasto impero: pare che la  lingua che si parla nella tua Toscana, quel celestiale mezzo di comunicazione,   diluendosi   nelle   varie   espressioni   forestiere,   si vada


svilendo, per cui, più che della maestosità che ti distingue, il vincitore sembra menar vanto del tuo imbarbarimento.

 

– Perché taccia il rumor di mia catena …

Per non sentire l’enorme disagio della mia mancanza di libertà, vivo di lacrime, di speranza, d’amore e di silenzio, giacché se parlo con lei, o su di lei ragiono e scrivo, provo una profonda commiserazione [di me stesso] che mi tiene a freno. Soltanto tu, solitario ruscelletto, sei disposto ad ascoltarmi; ogni notte l’amore mi conduce a te. Qui do sfogo al mio dolore e passo in dettagliata rassegna le mie atroci sofferenze; qui rovescio l’impetuosa copia dei miei tormenti ed espongo come i begli occhioni ridenti, quasi fossero un raggio di fuoco perpetuo, colpirono il mio cuore e come la sua bocca di rosa, i suoi splendidi capelli profumati, il candore della sua pelle e il suo gradevole accento finirono per insegnarmi a  piangere d’amore.

 

– Così gl’interi giorni in lungo incerto …

Trascorro le intere giornate così, in un interminabile dormiveglia, a singhiozzare sommessamente! Poi, quando con l’oscurità della notte appaiono la luna e tutti gli altri corpi celesti e tutt’intorno si copre di un gelido silenzio, allora, andando di qua e di là tra i luoghi più ricchi di  boschi e disabitati, vado accarezzando lentamente le piaghe che l’avversa fortuna, l’amore e l’intera società hanno procurato al mio cuore. Ora, stanco, mi appoggio al tronco di un pino, ora, dove l’acqua produce  maggior rumore, prosternato mi fermo a parlare con le mie speranze e a farneticare. Dimentico, per te, delle gravi sofferenze e della mia sorte, o donna, è te che io desidero ardentemente: luce degli occhi miei, chi mi ti nasconde?

– Meritamente, però ch’io potei …

 

Poiché ho avuto il coraggio di abbandonarti, ora giustamente sbraito contro lo scrosciare delle piogge che dilavano i monti e contro le mie lacrime che, disattese, disperdono i venti sul Tirreno riducendone progressivamente l’energia. Ho sperato, giacché gli uomini e il mio destino mi hanno costretto ad un interminabile esilio, tra gente di cui non ci si può fidare, lontano dal bel Paese dove ora tu trascorri gli anni della tua giovinezza  nell’infelicità  desiderandomi  ardentemente;  ho  sperato  che il


tempo, le vicende dolorose, queste rocce erte e scoscese, che io ho attraversato aspirando [alla libertà], e le tetre boscaglie sempreverdi, dove io dormo come un animale selvaggio, sarebbero stati di sollievo per il mio cuore sanguinante. Ahi, speranza vana! L’amore onnipotente ed immortale mi seguirà tra le ombre dei trapassati.

 

– Solcata ho la fronte, occhi incavati intenti …

Ho la fronte solcata da rughe, gli occhi infossati ma attenti, i capelli giallo-rossicci, le guance smunte, l’aspetto coraggioso, le labbra carnose e infiammate, i denti bianchissimi, il capo reclinato, un bel collo, un petto ampio, delle membra ben proporzionate, un abbigliamento semplice ma elegante, un incedere, una capacità di pensare, di agire e di parlare rapidi; [sono] moderato, pieno di umanità, leale, generoso, sincero, irritato con il mondo di cui subisco le avversità: talora sono molto capace con la parola e spesso anche con le mani; passo la maggior parte dei giorni in solitudine e nella malinconia, sempre assorto nei miei pensieri; [sono] disponibile, pronto all’ira, ansioso, ma fermo nei miei propositi; ho molti vizi ma anche molte virtù; lodo la ragione ma corro dove mi porta il cuore: soltanto nella morte potrò trovare gloria e quiete.

 

– E tu ne’ carmi avrai perenne vita …

Arno, tu che, dividendo in due parti la città che tuttora conserva il nome da far risalire all’antica lingua latina ormai scomparsa (Florentia =  Firenze), sarai resa immortale dalla poesia. L’impeto delle lotte tra guelfi e ghibellini dai tuoi ponti versavano sangue nelle tue acque agitate per lo spavento proprio nel luogo in cui accennando col dito si può mostrare al forestiero la casa dell’altero poeta-vate (Dante). Ben nota riva, per me tanto cara e felice, lungo la quale spesso leggiadramente passeggiava colei che con il suo divino portamento rivolgeva i suoi occhi beati verso di me, mentre io, inteneriti, li sentivo spargere intorno un gradevolissimo effluvio d’ambrosia fluente dai suoi biondi capelli.

 

– Né mai più toccherò le sacre sponde …

 

Ormai non toccherò più la terra sacra dove, ancora giovanetto, ho abitato (fino all’età di 10 anni), Zacinto (ora Zante) mia, che ti specchi nel mare


della Grecia da cui è nata la casta Venere la quale con la sua primigenia bellezza rendeva fertili quelle isole; per questo i tuoi limpidi cieli e le tue selve lussureggianti sono ricordati nel famoso poema (Odissea) di colui (Omero) che ha cantato il funesto mare e il lungo vagare lontano dalla patria al cui termine Ulisse, ben noto per la fama e le avversità, ha potuto tornare nella sua sassosa Itaca. Mia terra materna, tu altro non avrai che la poesia dal tuo figliolo al quale il destino ha riservato una sepoltura dove nessuno possa recarsi a piangere la sua morte.

 

–  Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo …

Un giorno, se non sarò più costretto a spostarmi da un luogo all’altro, mi vedrai seduto sulla tua tomba, fratello mio, a lamentare la fine dei tuoi anni giovanili. La madre, ora rimasta sola, trascinando la sua età avanzata, di me parla con le tue ceneri che non danno alcuna risposta, mentre io tendo a voi le mie palme e da lontano saluto la mia patria. In me sento i numi avversi e gli indicibili dolori che nella tua vita costituirono motivo di grande turbamento, per cui, ora che sei giunto in porto, anch’io per te imploro il riposo [eterno]. Delle tante speranze oggi soltanto questo mi resta! Popolo forestiero, quando sarà il momento almeno restituisci il mio corpo alla madre desolata.

 

– Pur tu copia versavi alma di canto …

Eppure tu, Musa Aonia (Euterpe), in me ispiravi in abbondanza l’estro poetico quando, mentre scorrevano gli anni più belli, fuggiva la giovinezza e faceva subito seguito questo periodo della vita che ora, percorrendo la via del pianto, scende con me verso la silente sponda del Lete (mitologico fiume dell’oblio). Siccome non ti ho sentita, ora t’invoco. Ahimè! Soltanto una minima parte di te è ancora presente in me, perché anche tu, o Dea, sei fuggita via insieme agli anni miei, anche tu mi hai lasciato in preda ai pensieri sui ricordi ed alle mie preoccupazioni per un futuro ignoto. Però  mi rendo conto, e me lo ripete l’amore, che i rari versi, ancorché impegnati, non sono in grado di manifestare adeguatamente tutto il dolore che sento dentro di me.

 

– Che stai? già il secol l’orma ultima lascia …

Cosa fai? Già il secolo (XIX) sta per lasciare l’ultima traccia di sé e, quando le leggi del tempo vengono infrante, esso precipita portando seco


ben quattro lustri (20 anni) della [tua] vita destinati a [essere cacciati] nella fredda e totale dimenticanza. Ché, se i peccati di gioventù, gli impeti improvvisi dell’animo e l’angoscia sono vivere, tu hai vissuto fin troppo. Ora cerca di vivere meglio e a coloro che ti diranno che sei diventato antiquato lascia come esempio il frutto di particolari e faticosi impegni culturali. Figlio infelice, amante disperato, apolide, irritante con tutti e con te stesso, ancora in giovane età, ma con la fronte piena di profonde rughe, cosa fai? La vita è breve, ed il tempo necessario per apprendere come viverla è molto lungo. Coloro ai quali non è concesso compiere azioni di altissimo livello tentino almeno di scrivere in piena libertà.

 

Fonte: http://www.antoninofedele.it/files/odi_e_sonetti.pdf

Sito web da visitare: http://www.antoninofedele.it

Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine

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