Riflessioni sui bambini e sugli adulti di oggi

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Riflessioni sui bambini e sugli adulti di oggi

Dall’autonomia all'educazione emotiva
Riflessioni sui bambini e sugli adulti di oggi

- Luca Bosco -

 

Quando un bambino incomincia a muovere i primi passi, cosa fa la mamma? Retrocede e gli tende le mani a breve distanza. Così facendo lo incoraggia a muoversi indipendentemente dal suo sostegno. Questo processo dovrebbe essere ripetuto nelle successive fasi dello sviluppo ed esteso a tutti gli aspetti della vita del bambino.
Fin dalla prima infanzia i bambini ci dimostrano di voler fare da soli: ad esempio, il bambino piccolo allunga la mano per prenderci il cucchiaio, mentre lo stiamo imboccando, perché vuole compiere lui stesso quell’azione. Questo, però, spesso non gli viene concesso, per evitare di sporcare o di perdere tempo, e in questo modo si scoraggia il bambino dal voler riprovare. Eppure è più facile pulire, piuttosto che ristabilire il coraggio perduto!
Infatti, il bambino scopre presto il significato “positivo” della propria debolezza: dato che il messaggio implicito che ha ricevuto è che egli non è capace a fare le cose senza aiuto, sarà per lui rassicurante fare in modo di trovare sempre qualcuno che le faccia per lui. La scarsa opinione delle proprie abilità comprometterà la fiducia in se stesso. Il bambino sperimenterà un certo senso di potere nell’esigere che le cose vengano fatte dagli altri; ci dirà: “Non sono capace, fallo tu!”, oppure si metterà a piangere, rifiutandosi di fare quanto gli è stato richiesto. Imparerà presto che il permanere in uno stato di incapacità e impotenza gli procura l’attenzione e l’assistenza materna.
Per uscire dall’impasse, il bambino ha bisogno di molto incoraggiamento; dovremo, inoltre, aiutarlo a ricollocarsi all’interno delle dinamiche che si sono costituite, rompendo il circolo vizioso e favorendo nel bambino il formarsi di una nuova opinione di se stesso.
Dunque, la regola è: “Non fate mai per un bambino quel che può fare da sé” (Dreikurs).

Sempre più spesso, invece, l'adulto è di fretta, “non ha tempo”, o c’è un susseguirsi di attività troppo ravvicinate che non permettono al bambino di lasciar decantare quanto ha vissuto, perché già impegnato da un'altra parte. Non c’è dunque tempo per consentirgli di provare a fare, per concedergli di sbagliare e riprovare, per permettergli di comunicarci ciò che sente o vorrebbe.
Oltre al tempo, ci vuole la pazienza di lasciare che il bambino provi a superare da solo una difficoltà (es. mangiare da solo, mettersi le scarpe, salire gli scalini di uno scivolo o, qualche anno dopo, eseguire un compito scolastico ecc.), a risolvere un problema, a concretizzare un progetto, a esprimere un desiderio.
Forse qualcuno non avrà riflettuto abbastanza su quanto, ad esempio, sia più comodo, che utile da un punto di vista evolutivo, vestire da capo a piedi un bambino di 4 o 5 anni, spesso trattandolo come un burattino inerme o sgridandolo perché non sta sufficientemente fermo, piuttosto che insegnargli come si fa, attendere che provi a farlo da solo, aspettandoci che sbagli, ma incoraggiandolo a proseguire, nel rispetto dei suoi tempi e del suo “stile”.
Abbiamo notato come la tendenza di molti genitori sia quella di sovrapporsi al bambino, soddisfacendo preventivamente (ancor prima che venga manifestato) o immediatamente (così almeno non scoccia) ogni desiderio, facendo al suo posto le cose che richiedono particolari sforzi o implicano particolari abilità (che si pensa che il bambino non possieda), pur di non vederlo in difficoltà, e doversi perciò misurare con la propria fragilità, con il sentirsi essi stessi in qualche modo inadeguati o in difetto di fronte al mondo e al giudizio degli altri. Sembra quasi impossibile tollerare la frustrazione del bambino, la sua sofferenza e le sue emozioni, ingredienti fisiologici di un sano sviluppo, perché è come se attestassero un loro insuccesso come genitori.

Ogni volta che facciamo una cosa che il bambino può fare da solo, dichiariamo implicitamente la nostra superiorità (siamo più abili, più esperti, più importanti) e la sua inferiorità, lo priviamo dell’occasione di mettere alla prova la propria forza e quindi del senso di sicurezza, che è basato sulla consapevolezza di poter affrontare e risolvere dei problemi. Per mantenere la nostra immagine di adulti indispensabili, gli neghiamo il diritto di acquisire l’autosufficienza!
Sempre più con difficoltà il genitore tollera di vedere il proprio bambino spaventato, arrabbiato o triste, ma anche, paradossalmente, entusiasta e pieno di desideri. Meglio allora evitargli alcune situazioni che potrebbero farlo incappare in queste emozioni “indicibili”, “inammissibili”. Ma un’emozione che non viene “detta” e non viene “ammessa” non sparisce nel nulla, come una bolla di sapone. Essa rimane dentro il bambino, che non saprà che farsene, dato che può venir da questi com-presa solo quando prima un adulto l’ha presa dentro di sé, l’ha elaborata (se necessario, bonificata), per restituirgliela in forma a lui comprensibile. Avete notato che cosa fa un bambino quando cade e si fa male? Direte: piange! Spesso la prima cosa che fa è cercare il viso della mamma, del papà, della maestra ecc., e molte volte è in base alla nostra reazione di adulti (paura, apprensione, fragilità, rabbia, indifferenza oppure amore, calore, sostegno, sicurezza, fermezza) che il bambino si scioglierà in lacrime inconsolabili e non proverà più a cimentarsi in quella attività oppure si sentirà sufficientemente consolato dal nostro sguardo e dal nostro abbraccio e proseguirà in ciò che stava facendo.

Nelle Scuole dell’Infanzia giungono sempre più spesso bambini di 3 anni che non si sono mai “confrontati col mondo”, perciò tutto spaventa, tutto richiede uno sforzo eccessivo e ciò può portare allo scoraggiamento e alla rinuncia. Qui i bambini possono trovare un adulto che si sostituisca al genitore e riproponga il medesimo modello che il bambino conosce a casa: ad esempio, un bambino che piangendo in modo disperato afferma di non essere assolutamente in grado di abbassarsi da solo i pantaloni per fare pipì o di infilarsi le calze, perché a casa non lo ha mai fatto. Oppure si possono incontrare adulti che, accettando la sua frustrazione e la sua rabbia per il fatto di sentirsi inadeguato, sostengono e incoraggiano per settimane il bambino, e adottano strategie diverse da quelle in uso in famiglia, finché il bambino si sentirà sicuro e competente, perché gli sarà stato consentito di provare e sbagliare, lo si sarà fatto sentire amato e accettato anche se avrà sbagliato, lo si sarà aiutato facendo eventualmente una parte del “lavoro” insieme, si sarà accettato il risultato con gioia e condivisione (ad esempio, nel caso in oggetto, si accetterà per qualche tempo che nel rivestirsi il bambino non riesca a infilarsi tutta la maglietta nei pantaloni in modo ordinato e preciso o che si infili il calzino sottosopra; solo in una seconda fase ci aspetteremo qualcosa in più). Al suo pianto e alla sua disperata richiesta di fare al suo posto, verrà risposto con un sereno e garbato rifiuto e con un caloroso e fermo incoraggiamento, che trasmetta la fiducia che riponiamo in lui e nelle sue capacità.
Alcuni bambini, nei primi anni di vita, non hanno mai avuto la possibilità di sperimentarsi a livello motorio o di confrontarsi con bambini della loro età e dunque a scuola risultano impacciati, inibiti, fragili o al contrario preda di un movimento portato all'eccesso, che non tiene conto degli altri e dello spazio. Alcuni bambini hanno vissuto in una “campana di vetro”, per l’ansia eccessiva di genitori iperprotettivi; altri, a causa dell’incoerenza, dell’incostanza o della distanza della guida educativa, sembrano privi di regole, incapaci di riconoscere l’altro da sé, perché gli si è sempre stato concesso tutto e rimosso ogni frustrazione.
La realtà delle strade e dei cortili in cui i bambini possano giocare e sperimentarsi in autonomia e sicurezza, viene sempre meno nelle città, e i bambini sono poco allenati alla vita attraverso il gioco libero: alcuni sono inibiti e impacciati o eccessivamente dipendenti, altri invece carichi di energie inesplose e di tensioni che non sanno dove indirizzare.

I problemi principali che emergono a scuola riguardano proprio l’autonomia e la regolazione emotiva. Il concetto di autonomia è spesso soggetto a fraintendimenti: alcune volte viene confuso con l’isolamento e l’incapacità del bambino di stare con gli altri, oppure paradossalmente con la dipendenza, laddove il bambino riesce in alcune attività solo se c’è un adulto che lo sostiene. Qualche genitore si “ritira” o ha un’educazione lassista e vede nel bambino una buona autonomia. Il bambino autonomo non è quello che fa a meno dell’adulto, quanto piuttosto quel bambino che è in grado di fare un buon “rifornimento” della presenza dell’adulto e che poi è in grado di funzionare da solo e di ritornare dall’adulto solo al bisogno. Dunque, per lavorare sull’autonomia del bambino, non serve allontanarlo, ma dargli un buon “rifornimento”.
Rispetto alla regolazione emotiva, occorre stare vicino al bambino affinché la situazione (di gioco, di lavoro scolastico, di autonomizzazione ecc.) apporti un volume equilibrato di emozioni: né troppo elevato, nel qual caso vi è un’ipereccitazione e una difficoltà a comprendere e sostenere ciò che gli succede; né troppo basso, nel qual caso il bambino può non sentire nulla e perdere di interesse per quella attività o situazione. L’adulto deve avere cura che la situazione sia emotivamente gestibile dal bambino, standogli vicino e garantendogli un equilibrio. Con il tempo, il bambino riuscirà sempre più ad autoregolarsi.

Ma quanto è difficile stare vicino ad un bambino nel momento dell’insuccesso! Alcuni genitori mi chiedono se sia il caso o meno di far cimentare il proprio figlio in questa o quella attività, perché se non dovesse farcela sarebbero incapaci di gestire le emozioni del bambino. Meglio allora non fargli fare niente, così non c’è il rischio di sbagliare!
Per qualche genitore, invece, risulta difficile accettare che il proprio bambino a scuola raggiunga dei risultati, sperimenti dei successi, perché ciò non corrisponde all’immagine di bambino incapace che se ne sono fatti. Ciò pone loro dei dubbi anche sulla propria capacità di genitori, perché vengono messi di fronte alla riuscita del figlio in un ambito in cui sono presenti degli altri adulti, che sono stati in grado di scoprire nel bambino delle potenzialità e farle emergere. La reazione da parte dei genitori a cui alcune volte assistiamo è di “attacco” a queste persone (maestre, psicologi ecc.) o al bambino, che indirettamente hanno fatto emergere in loro un senso di inadeguatezza. Essi possono mostrarsi increduli, anche di fronte al bambino, o sminuire il lavoro fatto, giacché ciò va a intaccare le dinamiche rigide nelle quali è incastrata la comunicazione familiare.
Anche nelle Scuole Primarie incontriamo sempre più spesso bambini molto intelligenti, con un bagaglio di informazioni e competenze impensabili ai bambini di qualche generazione fa, dunque perfettamente equipaggiati sul piano razionale, ma fragilissimi sul piano emotivo, a rischio di “frantumarsi” alla prima difficoltà o di fronte alla possibilità di sbagliare; bloccati e incapaci di muoversi nella realtà oppure preda di esplosioni di rabbia incontrollabili. Bambini poco capaci di stare e giocare con gli altri, di aspettare, di tollerare la frustrazione e i no, di accettare le regole; spesso a proprio agio con richieste cognitive, stimoli e sfide “virtuali” forniti dalla scuola, dai videogames o dai giochi di carte, ma spaventati dalla complessità emotiva che comporta il “diventare grandi”.

La vera sfida che oggi ci attende come genitori e come educatori è quella di promuovere con forza, oltre ad un’educazione fisica ed intellettuale del bambino, un’educazione emotiva, un’alfabetizzazione rispetto al mondo dei sentimenti, delle emozioni, dei desideri, degli entusiasmi, delle paure.
Su questo aspetto molti adulti sono in difficoltà e la tendenza degli anni dell’opulenza è quella di veicolare l’amore verso i figli riempiendoli di “cose” che vanno ad occupare il vuoto di comunicazione. Quanta difficoltà c’è nel dire “No”! Ma i no sono vitali per crescere, perché permettono pian piano al bambino di uscire da quella condizione fisiologica di onnipotenza che lo caratterizza quando è piccolo, per incontrare l’altro da sé e la realtà con cui fare i conti, per introdurlo al rispetto delle regole e ad un pensiero che tenga conto non solo di se stesso, ma della complessità del mondo.
Se fin da quando il bambino è molto piccolo il genitore è “spaventato” dall’aggressività del figlio (e/o dalla propria), se quest’ultimo viene privato della possibilità di sperimentare quell’aggressività “sana”, che è energia del fare, diventa ardua per il bambino la costruzione di un’identità e la conquista di un’autonomia fondata su un reale sentimento di efficacia. Il bambino deve poter sperimentare una sana opposizione, perché solo così può costruirsi una propria identità, differenziandosi dalla mamma e dal papà. Non ci dobbiamo spaventare, non dobbiamo sentirci feriti o distrutti da quello che viviamo come un attacco, ma che è per l’appunto fisiologico. Per fare degli esempi, banali, ma paradigmatici: a) se un neonato, durante l’allattamento, morde il seno e si volta, non sta dicendo alla mamma che non le vuole più bene, ma probabilmente che è sazio. Spesso però, le neo-mamme vivono con frustrazione questo distacco (che arriva troppo presto, secondo i loro tempi) e il fatto che non si attacchi più al seno; b) quando noi diciamo un no al bambino, quest’ultimo potrà arrabbiarsi e dirci che non ci vuole più bene. Come reagiamo noi? Gli comunichiamo, con le parole o i nostri comportamenti, che anche noi non gli vogliamo più bene, che questa sua affermazione ci ha distrutto, ci ha toccati nell’onore e merita vendetta, e dunque lo puniamo, che non ha il diritto di sentirsi arrabbiato e di esprimerlo? Forse muteremmo il nostro no in un sì? L’adulto deve porsi quale amorevole e solido argine a queste forze ostili, di rabbia e aggressività, non lasciare solo il bambino “nel suo brodo”, ma prendere queste istanze dentro di sé senza farsi distruggere, stare vicino e accompagnare il bambino come guida sicura e coerente, riconoscendogli la fatica di imparare a crescere e stare nel mondo.

I giovani oggi, infatti, mancano di quegli strumenti emotivi che consentano loro di pervenire all’autoconsapevolezza, all’autocontrollo, all’empatia, senza i quali non saranno in grado di ascoltare, di risolvere i conflitti, di cooperare. Dobbiamo, allora, aiutarli a mettere in contatto il cuore con la mente, la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi incidono nel loro cuore (Galimberti).
La carenza di confini interiori, di autoregolazione, di consapevolezza dei propri atti e dei propri bisogni dei bambini di oggi, in un’epoca di figli unici o comunque di bambini con scarse esperienze sociali al di fuori dello spazio familiare e scolastico, richiede sempre di più che l’adulto funga da mediatore, che fornisca loro un quadro chiaro e coerente della realtà esterna, delle possibilità e delle situazioni che stanno per vivere, che descriva e chiarifichi ciò che succede nel loro mondo interno.
Dobbiamo aiutare il bambino a sostenere la fatica di crescere, fornendo calore, sicurezza e coerenza al presente, infondere speranza nel futuro, nel contempo mantenendo viva la fiducia in lui e trasmettendogli il piacere di diventare grande, e un giorno, a sua volta, genitore. Dobbiamo esserci, fornire una guida, preparazione e incoraggiamento, senza sovrapporci a lui.
Dobbiamo essere “adulti capaci” (Cappello), non solo nel senso pratico della capacità di svolgere delle mansioni o di fare qualcosa, quanto di essere qualcosa in grado di contenere nella mente e nel cuore, ovvero “contenitore capace” (ampio, spazioso) di accogliere e raccogliere, integrare, elaborare, progettare, superare le difficoltà nel presente e costruire il futuro.

 

Riferimenti bibliografici

Bastianini A.M. (2007), Bambini e sofferenza psicologica: i percorsi del malessere. Il Sagittario, n. 19, Gennaio 2007.
Cappello G. (2007), Crescere e far crescere: Il mestiere dei padri, delle madri e dei figli di oggi. Effatà Editrice, Cantalupa (TO).
Dreikurs R. (1969), I bambini: una sfida. Ferro Edizioni, Milano.
Formenti L. (2009), Psicomotricità a scuola. Promozione del benessere personale e relazionale. Erickson, Trento.
Galimberti U. (2007), L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Feltrinelli, Milano.

 

Fonte: http://istitutosociale.it/wp-content/uploads/2012/10/Dallautonomia-alleducazione-emotiva.doc

Sito web da visitare: http://istitutosociale.it

Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine

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