Bambini e emozioni

Bambini e emozioni

 

 

 

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Bambini e emozioni

UTILIZZO DI STORIE DI NARRATIVA PSICOLOGICAMENTE ORIENTATA COME STRUMENTI DI INTERVENTO DI PREVENZIONE PRIMARIA E PROMOZIONE DELLA SALUTE CON IL GRUPPO CLASSE

A.Pellai – Dipartimento di Sanità Pubblica Università degli Studi di Milano

INTRODUZIONE

Il cuore non è piatto, né lo è la realtà. La realtà è una successione multipla, istantanea, complessa, ricca e parzialmente invisibile. Solo l’immaginazione la può scandagliare e rivelarne la profondità. (J. Winterson,  1995)

I bambini hanno più emozioni che parole per poterle raccontare. Questo trova molte volte impreparati gli adulti, che di fronte a manifestazioni emotive dei bambini, spesso, in modo alquanto maldestro, interpretano ciò che vedono e sostituiscono le parole che il minore non riesce a dire con altre, senza riuscire in nessun modo a toccarne i bisogni profondi. Può succedere, così, che le manifestazioni di rabbia del bambino vengano etichettate come “capricci” e sancite dal punto di vista disciplinare oppure che un educatore valuti come un “alunno modello”  un bambino particolarmente silenzioso ed evitante (che fatica, cioè, ad entrare in contatto con le proprie emozioni) semplicemente perché non costituisce elemento di disturbo all’interno di un gruppo classe.
Le situazioni in cui gli adulti sostituiscono il proprio “sentire” e le proprie parole al sentire e alle parole dei bambini sono innumerevoli. Ci sono genitori che “affaticano” l’esperienza di inserimento dei propri bambini alla scuola dell’infanzia e primaria, semplicemente perché non riescono a separarsi dai figli. E in molti casi, la fatica dell’adulto diventa automaticamente incapacità del bambino a “stare bene e a sentirsi bene” nel suo nuovo ambito di socializzazione. Ancora, sono sempre più frequenti i bambini che portano a scuola un disagio emotivo coltivato e cresciuto in mezzo a mille conflitti di coppia e famigliari, di cui il minore è spettatore silente, molto più consapevole di quanto gli adulti pensino. Ci sono bambini che comprendono alla perfezione quanto grave sia la crisi coniugale di mamme e papà, di fronte ai quali, però, i genitori continuano a recitare il copione della “coppia perfetta” con l’obiettivo di non spaventarlo e di “proteggerlo”. O al contrario, ci sono genitori che litigano in continuazione di fronte ai propri figli, incuranti delle ripercussioni che tali situazioni possono avere sul loro assetto emotivo. E di fronte a situazioni di questa natura, i bambini rimangono incapaci di dare voce e parole alla propria “fatica di crescere” obbligandosi spesso a raccontarla attraverso “acting out”, comportamenti oppositivi o provocatori, disturbi psicosomatici. Per un bambino vivere emozioni complesse e non trovare adulti significativi in grado di “sintonizzarsi” con esse - riconoscendole, rispecchiandole e soprattutto contenendole e “significandole” - significa rimanere abitante di “un territorio sospeso” dove la regola è quella del non detto e dove le emozioni possono trovare vie “disfunzionali” per diventare visibili oppure rimanere per sempre sotterrate in una sorta di “coscienza implicita” che solo con grande fatica ne permetterà l’emersione e la condivisione.
Non sintonizzarsi in modo adeguato con le espressioni emotive del bambino significa, però, crescerlo in uno stato di analfabetismo emotivo, non fornendogli quegli strumenti di auto-conoscenza ed auto-analisi che risultano di cruciale importanza per sviluppare una sana relazione con se stesso e con gli altri.

L’INTELLIGENZA EMOTIVA
H.Gardner (1995, 2001, 2005), sviluppando il modello delle intelligenze multiple, aveva proposto un’idea di mente “complessa” che, ben lontana dal modello monodimensionale alla base della cosiddetta intelligenza accademica, introduceva un modo totalmente nuovo di intendere il concetto di educazione e le correlate strategie. La rivoluzione di Gardner avvicinava gli educatori – e non solo – ad una nuova concezione di mente, definita da sette diverse intelligenze, due delle quali strettamente connesse con l’intelligenza emotiva di un soggetto e alla base della cosiddetta intelligenza personale:
a) l’intelligenza interpersonale, (frammentabile nelle abilità distinte di predisposizione alla leadership, capacità di alimentare relazioni e conservare amicizie, abilità di risolvere i conflitti e capacità di analisi sociale), consistente nella capacità di comprendere gli altri e di costruire un modello di relazione interpersonale orientato alla cooperatività
b) l’intelligenza intrapersonale, intesa come una capacità correlativa rivolta verso l’interno basata sulla possibilità di formarsi un modello accurato e veritiero di se stessi.
E’ chiaro che l’educazione alle emozioni ha molto a che fare con questi due “modelli di intelligenza”, considerato che il nucleo dell’intelligenza interpersonale include la capacità di distinguere e di rispondere appropriatamente agli stati d’animo, al temperamento, alle motivazioni e ai desideri altrui, mentre nell’intelligenza intrapersonale si trovano le abilità più utili ad accedere alla conoscenza di sé e dei propri sentimenti e stati d’animo che vengono perciò utilizzati come guida del proprio comportamento.
Sfruttando i principi dell’intelligenza multipla di H.Gardner, Daniel Goleman (1996) ha “spinto” un passo più avanti le sue considerazioni ed ha fondato un intero modello di mente e di relativo intervento educativo sul cosiddetto concetto di “intelligenza emotiva”.  Goleman, con la propria opera ha criticato i limiti principali intrinseci in una strategia educativa fortemente centrata sulla sviluppo dell’intelligenza accademica, che non offre pressoché alcuna preparazione per superare i travagli e cogliere le opportunità che la vita porta con sé, denunciando perciò i limiti impliciti nelle strategie e nei metodi didattici ed educativi di molti sistemi formativi della scuola primaria e secondaria che si fissano sulle capacità accademiche, ignorando l’intelligenza emotiva, un insieme di tratti da cui dipende il destino personale di ogni essere umano.
Il modello proposto da Goleman è di fondamentale importanza, perché per la prima volta introduce l’idea che anche per l’educazione alle emozioni, al pari di quella relativa alle competenze di letto-scrittura, possa essere previsto un percorso strutturato finalizzato ad aiutare il singolo soggetto a “coltivare la crescita” del sapere, saper fare e saper essere ad essa associata così da riuscire a gestire questa dimensione della propria vita intrapsichica con maggiore abilità. In base a tale affermazione, gli adulti significativi devono preoccuparsi di sostenere lo sviluppo di competenze emotive nel bambino con cui vivono o lavorano non solo attraverso le normali esperienze della vita di relazione, ma anche con attività opportunamente create e strutturate a tale scopo.

L’educazione emotiva in classe
La Riforma della scuola introdotta dal DL 23 gennaio 2004, ora superata dalle nuove indicazioni per il curriculum per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione – pubblicata dal Ministero della Pubblica istruzione come allegato alla Direttiva Ministeriale del 3 agosto 2007/68, affiancava alle discipline classiche, un insieme di “nuove educazioni” con l’obiettivo di pervenire ad una formazione completa dell’individuo (N.Capaldo e Rondinini, 2004). Per la prima volta, un documento ufficiale prospettava al docente di scuola primaria e secondaria (sia di primo che di secondo grado) la necessità di “presidiare” con opportune azioni educative lo sviluppo e la formazione della sfera emotiva-affettiva dell’individuo in crescita, attraverso un’azione congiunta che preveda contribuiti provenienti dalle singole discipline, ma anche da un modello integrato e da una programmazione congiunta interdisciplinare.
Con il decreto legislativo del 19 febbraio 2004, venivano specificati in modo dettagliato gli obiettivi educativi sottesi a questa dimensione educativa, aiutando a comprendere che tutto ciò che viene previsto ha a che fare con il potenziamento dell’intelligenza emotiva del soggetto in formazione. Nella scuola primaria l’accento, per la prima volta in modo così ufficiale, veniva, infatti, posto sull’importanza di conoscere se stessi, imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi e di attivare relazioni interpersonali positive con i pari e con gli adulti, tenendo conto delle differenze di genere, valorizzando i differenti canali di comunicazione allo scopo di facilitare il contatto e l’autenticità nel rapporto con se stessi e con gli altri. Salendo di grado, la proposta si faceva via via più complessa con l’inclusione di obiettivi legati all’accettazione di sé, al rafforzamento dell’autostima, alle modificazioni fisiche tipiche del percorso di crescita.
In particolare gli obiettivi specifici previsti per la scuola primaria venivano in quel documento così definiti all’interno della voce “Educazione all’affettività”:

  • Il sé, le proprie capacità, i propri interessi, i cambiamenti personali nel tempo: possibilità e limiti dell’autobiografia come strumento di conoscenza di sé
  • Le relazioni tra coetanei e adulti con i loro problemi
  •  Le principali differenze psicologiche, comportamentali e di ruolo tra maschi e femmine
  • Esempi di diverse situazioni dei rapporti tra uomini e donne nella storia
  • Forme di espressione personale, ma anche socialmente accettate e moralmente giustificate di stati d’animo, di sentimenti, di emozioni diverse, per situazioni differenti
  • Attivare atteggiamenti di ascolto/conoscenza di sé e di relazione positiva nei confronti degli altri
  • Avvalersi del diario o della corrispondenza con amici per riflettere su di sé e sulle proprie relazioni
  • Comunicare la percezione di sé e del proprio ruolo nella classe, nella famiglia e nel gruppo dei pari in genere
  • Esercitare modalità socialmente efficaci e moralmente legittime di espressione delle proprie emozioni e della propria affettività
  • In situazioni di gioco, di lavoro, di relax,……, esprimere la propria emotività con adeguate attenzioni agli altri e alla domanda sul bene e sul male

In questo “manifesto” di intenti si intravedeva, rispetto all’ambito dell’educazione alle emozioni, il rinnovamento di una scuola in cui “lo sviluppo dell’affettività si interseca con lo sviluppo cognitivo e sociale di ogni individuo” (Attili G., 2001). Una cosa importante è che gli obiettivi previsti dalla legge di Riforma scolastica del 2004 proponevano un’educazione alle emozioni in una duplice prospettiva, in quanto:

  • L’educazione alle emozioni costituisce un aspetto fondamentale da tenere in considerazione in quanto fattore di protezione orientato allo sviluppo del benessere individuale e di gruppo
  • L’educazione alle emozioni è una risorsa alla quale fare ricorso per intervenire là dove ci sono già delle difficoltà emotive manifestate dal singolo soggetto all’interno del proprio gruppo sociale di appartenenza oppure da un gruppo classe che presenta problemi relazionali al proprio interno

Complessivamente, il documento sosteneva l’azione educativa così da aiutare i docenti a rendersi sempre più conto che una scuola che si apre all’educazione alle emozioni pone al centro del proprio progetto educativo “la crescita della persona”. Per questo “è indispensabile cominciare a pensare di inserirla nel normale processo di apprendimento didattico e curricolare, proposto dalla scuola, in particolare quella dell’obbligo. Sarà importante però essere attenti ad affrontarla secondo una modalità esperienziale, centrandola sui vissuti di ognuno” (C. Solavaggione , 2005) e recuperando la definizione che ne ha dato Peter Lang ovvero “quella parte del processo educativo che si occupa di atteggiamenti, sentimenti, credenze ed emozioni degli studenti e che implica un’attenzione per lo sviluppo personale e sociale degli allievi, per la promozione della loro autostima, del loro sentirsi bene nella propria pelle” (Young P., Katz Y, Menezes I, 1998).
Dispiace constatare che le nuove indicazione per il curriculum del 2007 abbiano completamente trascurato di puntualizzare e presidiare con indicazioni specifiche quali caratteristiche deve avere l’educazione alle emozioni e socio-affettiva e soprattutto quali obiettivi devono essere perseguiti. Ci sono alcuni rimandi all’interno della sezione dedicata all’educazione ad una nuova cittadinanza, dove alcuni aspetti ascrivibili all’educazione alle emozioni vengono, almeno minimamente, accennati. Per esempio, le emozioni vengono citate laddove - in quanto comunità educante, la scuola deve proporsi di generare una diffusa convivialità relazionale, intessuta di linguaggi affettivi ed emotivi, ed essere anche in grado di promuovere la condivisione di quei valori che fanno sentire i membri della società come parte di una comunità vera e propria.  In particolare, nelle indicazioni relative a “corpo - movimento – sport” si definisce che i traguardi di sviluppo della competenza al termine della scuola primaria devono far si che l’alunno utilizza il linguaggio corporeo e motorio per comunicare ed esprimere i propri stati d’animo (…).  Lo studente deve, inoltre, comprendere all’interno delle varie occasioni di gioco e di sport il valore delle regole e l’importanza di rispettarle, nella consapevolezza che la correttezza e il rispetto reciproco sono aspetti irrinunciabili nel vissuto di ogni esperienza ludico-sportiva
Sono aspetti che almeno in parte - anche in assenza di una specifica voce dedicata “all’educazione alle emozioni” - sostengono l’evidenza che ogni docente deve includere una programmazione specifica in questo ambito all’interno del proprio progetto educativo. Molte delle attuali emergenze educative, tra l’altro – si pensi a tutta l’organizzazione data dal Ministero a commissioni e progetti finalizzati alla prevenzione del bullismo nelle scuole di ogni ordine e grado – non possono essere affrontate se non attraverso un capillare lavoro preventivo e di promozione della salute che ha proprio nell’educazione socio-affettiva il proprio strumento elettivo.

LA NARRATIVA PSICOLOGICAMENTE ORIENTATA COME STRUMENTO DI EDUCAZIONE ALLE EMOZIONI
In questo senso, risulta particolarmente utile parlare della narrativa psicologicamente orientata (NPO) come strumento che permette lo sviluppo e il perfezionamento di competenze nell’area dell’intelligenza emotiva. Come ha scritto M. Sunderland (2004): “Il linguaggio di tutti i giorni per i bambini non corrisponde al linguaggio naturale con cui esprimere le emozioni. Il loro linguaggio naturale delle emozioni è fatto di immagini e di metafore, come quello delle storie e dei sogni.”  E’ per questo motivo che non tutte le storie vanno bene per “toccare il mondo delle emozioni dei bambini” e che, se l’adulto competente cerca di aiutare il bambino ad esprimere le sue difficoltà emotive attraverso il “linguaggio comune”, è spesso destinato a fallire. Questo errore è molto frequente tra gli adulti e gli educatori: più volte si sentono adulti che chiedono ai bambini di “spiegare” loro perché sono tristi o di “raccontare” le emozioni senza offrire alcuna “alternativa” alle parole astratte e alla razionalizzazione di aspetti che per i bambini risultano, invece, difficilmente pensabili. Non è un caso che la maggior parte dei terapeuti dell’età evolutiva lavorino sul e col mondo delle emozioni dei bambini attraverso strumenti diversi dal colloquio terapeutico che connota l’interazione tipica con il paziente adulto: gioco, disegno, storie e favole sono in tale caso la prima risorsa.
Le storie di NPO aiutano i bambini nel processo di riconoscimento e validazione delle proprie emozioni utilizzando “l’artificio” di un racconto in cui succedono cose, si svolgono azioni e si sperimentano stati d’animo che permettono al bambino che ascolta di vedere egli stesso con chiarezza emozioni che gli sono proprie e che spesso né lui, né altre persone vicine a lui, hanno visto prima.
Insomma, attraverso una storia di NPO un bambino può rendersi conto per la prima volta di emozioni che egli stesso ha sperimentato senza averne alcuna consapevolezza.
Le storie di NPO sanno raccontare eventi “emotivamente” pregnanti in modo semplice ed ordinato, quasi semplificato. Non utilizzano la libera associazione di idee o fantasie, come succede nella classica struttura della fiaba ad impianto psicodinamico. In qualche modo le storie di NPO non vogliono e non si possono nemmeno permettere di lasciare libero il bambino di addentrarsi nel bosco delle proprie emozioni, sperando che riesca a ripescarle grazie allo stimolo della storia.
La storia di NPO ha la priorità assoluta di dire a quel bambino che, per esempio, vive un’emozione molto forte come la paura: “La tua emozione si chiama paura e se nessuno l’ha riconosciuta prima, è ora che le persone intorno a te si diano una mossa.” La storia di NPO racconta ad un bambino la sua storia personale usando come “pre-testo” le vicende di un altro bambino molto simile a lui, che ha vissuto pezzi di vita probabilmente sovrapponibili. Questi pezzi di vita, questi episodi dall’intenso significato e pregnanza emotiva solitamente compaiono presto nella narrazione della storia e servono a favorire il processo di identificazione. “Anch’io sono come il bambino che viene raccontato da questa storia” dovrebbe poter dire il giovane lettore o l’ascoltatore che ha la fortuna di sentirsi narrato da un adulto un racconto che vuole funzionare da balsamo per le sue fatiche emotive.

LA STRUTTURA DI UNA STORIA DI NPO: l’artificio della doppia videocamera

Solitamente, nella prima parte di una storia di NPO succedono cose molto normali: si vedono bambini che vivono vicende del tutto simili a quelle di tutti gli altri bambini del mondo. In poche parole si vedono fatti. Ma poi succede qualcos’altro: la storia continua e ci offre la possibilità di vedere l’evolversi della vicenda come se avessimo a disposizione una doppia video-camera. Una videocamera rimane posizionata all’esterno del bambino protagonista e ci consente di osservare tutto ciò che succede nel mondo “che sta fuori”, continuando a registrare in modo puntuale i gesti, le azioni, gli accadimenti.
La seconda videocamera invece è quella più importante. Perché si sintonizza secondo una scansione temporale con gli accadimenti esterni, ma li elabora in una prospettiva emotiva. E fa un lavoro straordinario: rende possibile “vedere” con la lente del suo zoom il mondo delle emozioni e dei pensieri che derivano dall’averle sperimentate. E’ una sorta di scanner emotivo-cognitivo che permette di osservare come ogni emozione venga trasformata in un pensiero più consapevole in grado di darle un senso. E qui la storia di NPO rende possibile mostrare diversi passaggi: ci sono pensieri che “contengono” le emozioni in modo disfunzionale e poi ci sono pensieri funzionali, elaborazioni efficaci che permettono a chi le sta vivendo di compiere un sensibile passo avanti all’interno della propria storia di vita, dando senso a ciò che sta provando in modo tale da non rimanere ingabbiato in qualche meccanismo distorto che lo obbliga a fare certe cose per incapacità di metabolizzare in modo sano “le emozioni difficili”.
Si legga per esempio questo breve estratto contenuto all’interno di una storia di NPO che racconta il primo episodio di una vicenda di bullismo che ha per protagonista un bambino della scuola primaria (Pellai A., 2007).

Dopo qualche giorno Marco si rende conto che qualcosa è cambiato tra lui e suoi compagni di classe. Nessuno gli parla, all’intervallo gioca da solo con le sue figurine e oggi che è il suo compleanno si accorge anche che qualcuno alle sue spalle sta facendo una brutta imitazione, calcando l’accento un po’ dialettale di cui è intrisa la sua voce. Lì per lì Marco fa finta di non sentirli, ma ha ben chiaro che alle sue spalle un gruppetto di compagni se la sta ridendo sotto i baffi e lo indica con il dito.
Poi succede tutto velocemente. Approfittando di una momentanea assenza della maestra, che è andata dalla sua collega a chiedere un libro, Michele, Paolo e Roberto gli si avvicinano e provando ad imitare il suo accento colorato dal rumore del mare, gli dicono: “Ma tu che ci sei venuto a fare in questa classe? Era meglio se ti mettevano nell’altra sezione”.
Marco pensa di non avere capito bene, poi guardando i tre compagni che si sgomitano soddisfatti e intanto ridono di lui, gli sembra di affogare. E’ come se un gorgo d’acqua lo abbia catturato al centro dei suoi cerchi e lui si sente tirare giù verso il fondo del mare. Vacilla un po’, poi si allontana da loro e sperimenta la stessa sensazione di quando era andato sulla nave con mamma e papà e di notte le onde si erano fatte grandi. Lui cercava di rimanere in piedi ma il mondo sotto di lui lo faceva oscillare di qua e di là. Così si era sdraiato per terra e con calma aveva atteso che quel rullio inquietante avesse fine.
Ora, proprio come quella volta, decide di sedersi al suo banco e di attendere che la campanella annunci la fine dell’intervallo. Sul volto gli è rimasta stampata un’espressione un po’ stupida. La bocca è tutta tirata in un falso sorriso, mentre la fronte è un pò corrucciata. A guardarlo, Marco sembra una maschera di carnevale, le emozioni lo trascinano in due territori così vicini, ma allo stesso tempo così lontani tra loro. Lui ha una gran voglia di piangere, e invece con tutte le sue forze cerca di ridere, perché non vuole che gli altri si accorgano che c’è rimasto male. Ma dentro di lui, il suo cuore piange un po’. Poi in classe entra Maria, la maestra di matematica. Tutti tirano fuori carta e penna. La vita continua. Mancano solo due ore alla fine della scuola.

In questi passaggi si può ben constatare il gioco della “doppia videocamera” in azione: vediamo con molta chiarezza cosa succede a Marco, al contempo abbiamo una “scannerizzazione emotiva” molto precisa, offertaci dalla videocamera che registra quello che avviene “nel mondo interno” del protagonista. Capiamo cosa Marco sta provando dentro di se, quando rimane in silenzio senza chiedere aiuto, attanagliato dall’impotenza e dalla vergogna. In questo passaggio della storia, Marco subisce in silenzio ciò che i bulli decidono di fargli, ma il successivo sviluppo della storia prevede che lui possa trovare aiuto nelle figure adulte di riferimento. Questa evoluzione della vicenda si sviluppa più avanti perché, solo dopo aver mostrato “il dentro e il fuori” del problema di Marco, il lettore può andare alla scoperta di un percorso che aiuti ad uscire da una storia di bullismo, riuscendo così a “rimettere a posto le pedine delle azioni dei pensieri e delle emozioni, che fino a quel momento sono rimaste sparpagliate in modo disordinato sulla scacchiera dove si è giocata la sua storia di vittima di bullismo”.
E’ facile intuire la valenza preventiva associata all’utilizzo di questa storia in classe come racconto di narrativa, intorno al quale strutturare momenti di circle time, esercizi di “comprehension emotiva”, giochi in cui nei diversi passaggi si lavora con una videocamera immaginaria, che permette ai bambini di “scannerizzare” non solo tutto ciò che si vede, ma anche ciò che non si vede (i pensieri e le vere emozioni del protagonista)

UN ESEMPIO DI PROGETTO TERRITORIALE BASATO SULL’USO PREVENTIVO DI UNA STORIA DI NPO

Un esempio di progetto di prevenzione comunitaria basato sull’utilizzo di una storia di NPO è quello realizzato dagli Assessorati alle Politiche Sociali della provincia di Vercelli e della provincia di Varese che hanno “reso disponibile” a migliaia di bambini della scuola dell’infanzia dei loro territori un libro dal titolo “Stella come te” (Pellai A., 2004). La storia raccontata nel libro è molto semplice e segue i principi della NPO: una stella brilla in cielo, ma non si piace e ha problemi nell’accettarsi così com’è. Pensa di non essere importante per nessuno e così, per avere qualcuno che le voglia bene, decide di diventare una stella cadente, così da essere vista e diventare importante almeno per una persona, di cui realizzerà un desiderio.  Comincia così un viaggio che la fa diventare protagonista di una serie di eventi inaspettati che la renderanno una delle stelle più importanti di tutto il firmamento: sarà infatti la stella cometa che indicherà la strada verso la capanna dove è nato Gesù Bambino. Le vicende della storia e il modo in cui si susseguono forniscono all’educatore lo spunto per tematizzare con i bambini che ciascuno è unico e speciale e che ognuno nasconde nel proprio mondo profondo un mistero speciale e dei talenti e sarà la vita, affrontata con volontà e passione, ad aiutarci a scoprire qual è il talento che rende unico e inimitabile ciascuno di noi.
Avere tra le mani un bel libro con una bella storia costruita intorno ai principi della NPO non basta però a rendere tale strumento effettivo ed efficace ai fini preventivi. Nel modello di intervento promosso dalle Province di Varese  e Vercelli, perciò, sono state sviluppate alcune proposte per gli insegnanti al fine di renderli abili e competenti nel diventare “attori” di prevenzione con i loro gruppi classe, consistenti in:

  • un corso di formazione di mezza giornata centralizzato, al quale hanno partecipato circa cento docenti (per sessione) finalizzato a condividere le informazioni necessarie e gli strumenti di lavoro per l’utilizzo didattico ed educativo del libro “Stella come te” insieme al proprio gruppo classe. Gli insegnanti, in tale occasione, hanno ricevuto le basi per comprendere su quali principi psico-pedagogici si basano le storie di NPO e, inoltre, hanno discusso con i formatori i possibili percorsi e le attività di gioco da inserire in un curriculum di educazione alle emozione basato sulla favola della stella
  • una guida didattica contenente un approfondimento sull’importanza dell’autostima in età prescolare e sulle modalità educative che ne consentono il potenziamento in ambito scolastico
  • una guida per i genitori contenente una descrizione del progetto, consigli per la lettura del libro ai bambini e suggerimenti per introdurre nelle loro strategie educative interventi e azioni a sostegno dell’autostima dei propri figli.

Questo modello di intervento ha permesso di coinvolgere migliaia di bambini in molte attività di potenziamento dell’autostima, partendo dalla ricchezza degli spunti e degli stimoli preventivi contenuti in una storia di NPO. Inoltre, ogni bambino, al termine del progetto ha ricevuto in dono dalla propria insegnante il libro (grazie al finanziamento provinciale) che è stato portato a casa ed è divenuto un pretesto per rifare con i genitori molte delle attività che erano state realizzate in classe, prendendo ispirazione dalla storia della stella. Se si considera che il progetto ha coinvolto bambini, docenti e genitori e che, utilizzando una storia ad hoc, ha permesso di promuovere azioni su più livelli (lettura insegnante-bambino; lettura genitori-bambino; giochi di educazione alla salute in classe e a casa; attività espressive e creative, etc) si comprende quale rilevanze possa avere la Narrativa Psicologicamente Orientata nella scuola dell’infanzia e primaria e quali potenzialità preventive possano essere rese accessibili a grandi numeri di bambini e relative famiglie, laddove un ente pubblico o privato oppure un’agenzia territoriale desideri sostenere e supportare azioni di promozione della salute presso le scuole del proprio territorio.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Attili G Le emozioni e lo sviluppo affettivo in (a cura di)  Fonzi A. Manuale di psicologia dello sviluppo, Firenze, Giunti 2001
Capaldo N, Rondinini L La scuola primaria nella riforma. Nuovi scenari per la formazione di base. Trento, Centro Studi Erickson, 2004
Gardner H. L’educazione delle intelligenze multiple. Dalla teoria alla prassi pedagogica. Milano, Anabasi, 1995
Gardner H.  Sapere per comprendere. Discipline di studio e discipline della mente.  Milano, Feltrinelli, 2001
Gardner H. Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento  Trento, Centro Studi Erickson, 2005
Goleman D. Intelligenza emotiva. Che cos'è, perché può renderci felici, Milano, Rizzoli, 1996 
Lang P, Katz Y, Menezes I (1998) Affective Education - a Comparative View, Casell, England 
Pellai A  Stella come te. La vera storia della stella cometa. Saronno, Monti Editore, 2004
Pellai A. Scarpe verdi di invidia. Una storia per dare un calcio al bullismo.  Trento, Centro Studi Erickson, 2007
Solavaggione C. L’educazione socio-affettiva nella scuola in (a cura di) M.Maggi L’affettività e la sessualità nella scuola che cambia” Piacenza, Editrice Berti, 2005
Sunderland M Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l'invenzione, Trento, Centro Studi Erickson, 2004
Winterson J. Art Objects. London: Vintage, 1995
L’ UTILIZZO DI STORIE DI NARRATIVA PSICOLOGICAMENTE ORIENTATA (NPO) NELLA STANZA DELLO PSICOTERAPUETA. PERCHE’ LE STORIE DI NPO FANNO BENE AI BAMBINI.

A.Pellai – Dipartimento di Sanità Pubblica Università degli Studi di Milano
Maria Francesca Napoli Psicologa-Psicoterapeuta

RIASSUNTO
L’articolo presenta le prospettive cliniche associate all’utilizzo di storie di NPO nel lavoro psicoterapeutico con i bambini. Le storie di NPO hanno la possibilità di parlare ai bambini di loro stessi e forniscono immagini, situazioni e parole che aiutano ad acquisire competenze di insight e di problem solving rispetto a situazioni problematiche che impattano la vita emotiva e relazionale di chi sta crescendo. L’uso clinico di storie di NPO viene supportato nell’articolo attraverso la descrizione del caso clinico di Michele, un bambino di otto anni, abbandonato dal padre e con problemi di inserimento scolastico, il cui percorso psicoterapeutico si è avvalso anche dell’utilizzo di storie di NPO.

 

 

Quando si aiuta un bambino a pensare alle proprie emozioni attraverso una storia si riesce a evitare che tali emozioni gonfino dentro di lui fino a trasformarsi in un’assurda e complicata situazione interiore.  Margot Sunderland, 2004

La storia di NPO funziona come “enzima” emotivo
Dopo aver analizzato la funzione preventiva che le storie di NPO possono avere quando vengono utilizzate con un gruppo classe, in questo secondo contributo si vuole  approfondire l’importanza del loro utilizzo nel lavoro clinico con bambini che hanno problemi che richiedono l’intervento dello psicoterapeuta. In questo caso, la storia di NPO va ad aggiungersi a tutti gli strumenti che il clinico può utilizzare per aiutare un bambino a “trovare le parole” che spesso gli sembrano impossibili, non solo da dire, ma anche da pensare.
Di frequente, infatti, lo psicologo si trova di fronte ad un bambino che non sente di avere il diritto di dare parole al proprio disagio. Spesso la fatica di riconoscere e validare le proprie emozioni è per un bambino un dato di fatto, cristallizzata dall’incapacità degli adulti che se ne prendono cura non solo di dare spazio, ma anche di “fare spazio” alle sue emozioni. Individuare una storia che aiuti il bambino a toccare il tema centrale del suo “stallo emotivo” significa identificare l’equivalente di ciò che in una reazione chimica è l’enzima capace di catalizzare la reazione tra due metaboliti. L’esempio dell’enzima è particolarmente calzante, perché tale sostanza ha senso ed è attivo solo se è in presenza dei substrati su cui va ad agire. Nella relazione terapeutica con un bambino potremmo pensare che le emozioni inespresse del bambino sono i metaboliti, la relazione terapeutica tra bambino e psicologo è la reazione chimica, e la storia adatta costituisce l’enzima, in grado di accelerare i tempi con cui la “reazione si verifica”. Se questi tre elementi – storia, relazione terapeutica ed emozioni - si ritrovano all’interno di un processo specifico ed armonico, l’emozione “irrisolta o non riconosciuta” del bambino può essere metabolizzata e diventare parte integrante della sua storia personale, senza produrre “cataboliti” tossici, senza lasciare dietro di sé sequele comportamentali che ne disturbano o disorientano la vita.
La gran parte degli adulti che vivono a fianco dei bambini dovrebbe funzionare da enzima emotivo per tutto ciò che i bambini stessi - da soli - non riescono a metabolizzare. Infatti, quando la relazione tra un adulto e un minore “funziona”, ciò che avviene è un sapiente gioco di sintonizzazione emotiva che continuamente consente al bambino di regolare il tono delle proprie esperienze emotive attraverso il sapiente lavoro di rispecchiamento, riconoscimento e validazione che ne fa l’adulto. Tutto ciò si verifica quasi sempre in modo informale. Un bambino disegna e l’adulto cerca nel disegno, insieme al piccolo artista, di riconoscere ciò che quelle macchie di colore hanno da dire. I colori parlano, insomma, così come parlano i gesti, il tono della voce, la postura. Di fronte ad un bambino con la testa bassa e il corpo raccolto un adulto dovrebbe domandargli “Cosa c’è? Mi sembri un po’ diverso dal solito oggi” e permettergli di vedersi riconosciuto e validato in ciò che sta provando in quel momento. Sarà il bambino stesso poi a decidere se raccontare la sua tristezza o semplicemente se autonarrarsela in un invisibile e tacito auto-dialogo con se stesso. Ciò che conta è che l’emozione che lo faceva essere in quel modo in quel preciso momento sia stata colta in modo sintonico da due persone e non sia rimasta sotterrata nel cuore, coperta dalla paura di essere un’emozione sbagliata oppure indicibile.

I VANTAGGI ASSOCIATI ALL’UTILIZZO DI STORIE DI NPO IN AMBITO CLINICO

Usare una storia di NPO per entrare nel mondo complesso delle emozioni dei bambini costituisce una modalità molto più efficace e rispettosa del loro mondo interno rispetto all’affrontare immediatamente il loro problema, all’interno della relazione terapeutica. Per esempio, per un bambino ascoltare da un adulto significativo la storia di un suo simile travolto da un problema di timidezza oppure di aggressività è molto più “sicuro” - dal punto di vista emotivo - che “stare con lui” a parlare direttamente di questi due aspetti. Le storie di NPO potrebbero quindi essere identificate come strumento di lavoro “per e sul” mondo interno e profondo del bambino, in grado di garantirgli una modalità “emotivamente sicura” per andare ad esplorare territori intrapsichici che fino a quel momento lo hanno spaventato a tal punto o messo così a disagio da trasformarsi in un sintomo comportamentale, in un agito, in altro “percorso” che non usa il potere balsamico della parola condivisa. In effetti è solo “il potere della parola” che può aiutare un bambino ad esprimere, a connotare quel magma indefinito che gli si muove nel cuore e che lo spaventa per la forza con cui spinge per uscire. Egli non sa spiegarsi cosa sia, perchè ci sia, si domanda se è solo lui a provare tali sensazioni e come fare per fare uscire quello che sente. Ed è importante che per i bambini questo vale non solo nel caso di emozioni cosiddette negative, ma anche al cospetto di emozioni positive come la gioia, che più facilmente viene espressa da gesti (abbracci, salti, cambiamenti di espressione del viso) che da parole.
Le storie di NPO, in ambito terapeutico, permettono al terapeuta insieme al suo piccolo paziente di sviluppare pensieri correttivi rispetto alle pregresse esperienze emotive, offrono un’occasione per poterle “raccontare”, non solo con la parola ma anche, e forse si potrebbe dire soprattutto, a livello corporeo. Nelle storie, infatti, così come nelle favole, molto spesso le difficoltà vengono presentate come sfide con cui cimentarsi, l'ottimismo non è superficiale convinzione che tutto andrà bene, ma consapevolezza di limiti, ostacoli, della "criticità" della situazione, una consapevolezza che non abbatte, ma che apre alla creatività della soluzione, alla scoperta delle proprie risorse. La tecnica della doppia videocamera, puntata sui vari protagonisti, che spesso caratterizza gran parte delle storie di NPO e che si basa sulla contemporanea presentazione di due punti di osservazione - quello esterno che registra e documenta i fatti oggettivi e quello interno che invece rileva le reazioni focalizzate su pensieri ed emozioni dei diversi personaggi - rende espliciti i diversi punti di vista, le diverse idee, i sentimenti rispetto alla medesima situazione. Ciò consente al bambino di spostarsi dal suo punto di osservazione, di allargare la sua visuale del problema, di arricchire di possibilità la sua esperienza. Il tutto in modo virtuale, senza parlare di sé ma di altri, condizione che rende ancora più facile parlare di se stesso mettendo le parole sulla bocca, nei pensieri, nel cuore del protagonista. Il lavorare poi con i bambini sui contenuti della favola permette di immaginare diverse modalità di svolgimento della medesima situazione, di riavvolgere la pellicola se si pensa di aver sbagliato. L'utilizzo dell'immaginazione permette di anticipare le conseguenze pratiche di un evento, di esplorare percorsi sconosciuti senza percorrerli veramente e quindi senza pericoli, permettendo di muoversi nei diversi sviluppi usando la possibilità sempre disponibile nella frase: "No, forse così non va bene così e se invece ..... ?"
Alla luce di queste osservazioni, nel prossimo paragrafo si offre un esempio di storia di NPO utilizzabile in ambito clinico

UN ESEMPIO: LA STORIA DI PALLOTTO
Si ipotizzi di dover lavorare con un bambino che all’ingresso alla scuola elementare ha manifestato disturbi di natura psicosomatica, correlati con lo stato d’ansia suo e della mamma. Si pensi ora di utilizzare un capitolo di una storia di NPO, specificamente pensato per bambini che vivono con una mamma molto ansiosa, una mamma “calamita”, per l’appunto. Questa è la descrizione di come vanno le cose al protagonista della storia nel suo primo giorno di scuola.

A Pallotto batte forte forte il cuore. Sarà la novità, sarà che non sa bene cosa lo aspetta al di là della porta di ingresso, sarà che ancora non conosce la sua maestra, saranno tutte queste cose messe insieme e mille altre ancora…..fatto sta che il cuore di Pallotto batte come un tamburo impazzito.
Tum tum tum tum - ma zitti tutti - adesso sento due cuori impazziti. Forse Pallotto è l’unico orso al mondo nato con un doppio cuore. No, non è così! L’altro rullo impazzito è quello di mamma orsa. Il suo cuore, se possibile, batte ancora più veloce di quello di Pallotto. Tum tum tum tum, a guardarla in volto, la più emozionata si direbbe che è proprio lei…..la mamma.
Pallotto si accorge che Mamma Orsa ha la faccia più rossa di quella di un peperone e sbuffa come se avesse spalato la neve fuori di casa per dieci ore consecutive. “Perché la mamma è così agitata” pensa Pallotto fra sé e sé “In fin dei conti sono io che comincio la scuola, lei l’ha già terminata tanto tempo fa”. Immerso in tutti questi pensieri di nuovo Pallotto prova molta confusione. Finalmente, i due orsi arrivano davanti al cancello. E’ arrivato il grande momento: si entra a scuola. “Ciao mamma, io entro”. Ma la mamma non è mai pronta per lasciarlo andare. Lo stringe, lo bacia, lo abbraccia, con il fazzoletto gli pulisce una briciola di ciambella con il miele che gli è rimasta attaccata ai margini della bocca, poi gli spolvera il pelo del collo, quindi lo stringe di nuovo, lo ribacia, gli controlla lo zaino. Pallotto non capisce più niente. Vorrebbe entrare in classe là dove tutti i suoi compagni lo stanno aspettando, ma la mamma sembra non volerlo lasciare andare. Alla fine con uno strappo si sottrae all’abbraccio della mamma che lo sta stringendo più di una tenaglia. Entra in classe. Ha tanta voglia di cominciare questa nuova avventura, di raccontare alla maestra tutte le cose belle che lui sa fare, comprese le torri con i mattoncini colorati, ma sente che qualcosa giù nel fondo più profondo del suo corpo gli dà fastidio, anzi gli fa proprio male.
“Maestra ho mal di pancia, tanto mal di pancia”. Sono queste le prime e uniche parole che Pallotto riesce a pronunciare nel suo primo giorno di scuola. Poi, dopo aver detto questa frase, succedono un sacco di cose, una dietro l’altra. A Pallotto sembra di stare dentro un film. La maestra si spaventa nel vederlo così pallido, mentre con le zampine si stringe la pancia con forza. Così l’Orso collaboratore scolastico corre al telefono e fa chiamare mamma orsa che tutta trafelata corre a scuola a riprendersi il suo cucciolo d’orso. Dopo aver tanto sognato la scuola degli orsi, Pallotto si rende conto che non c’è stato dentro nemmeno un’ora. Ed ora, eccolo lì, mentre la sua mamma lo tiene stretto stretto sotto la sua zampa destra per accompagnarlo dall’orso Pediatra.

E’ possibile intuire che un bambino che ascolta questo “brano” della storia di Pallotto, possa riconoscere al suo interno molte affinità con ciò che egli sperimenta in prima persona. Ciò che succede all’orso è probabilmente vicino alla sua esperienza personale e parlando di Pallotto il bambino in terapia potrà parlare delle molte emozioni, paure, e pensieri di cui egli stesso è o è stato protagonista.
Sarà molto importante, poi, permettere al bambino di muoversi in tutti i territori “della storia” provare ad indagare con le due video camere cosa succede dentro e fuori Pallotto, ma anche “dentro e fuori” la mamma in quel processo di espansione delle possibilità e della comprensione che dovrebbe costituire il valore aggiunto della storia di NPO all’interno di una relazione terapeutica. Tra l’altro, la storia proporrà soluzioni al problema di Pallotto (e quindi del bambino) probabilmente ritenute impensabili dallo stesso e gli offrirà perciò nuovi pensieri e nuove possibilità di “riprogrammazione cognitivo-emotiva” che potrebbero essere sperimentate ed eventualmente “trasferite” anche per rimodulare il proprio assetto “emotivo-cognitivo”.
Per approfondire proprio questo aspetto, e per raccontare come le storie di NPO, possano accelerare tutti i movimenti che si producono all’interno della relazione tra un terapeuta e il proprio paziente, proponiamo ora il racconto di un caso clinico, in cui le storie hanno costituito uno dei principali strumenti di intervento.

 

La storia di Michele: un esempio di uso clinico delle storie di NPO
Quando vedo per la prima volta Michele ha appena compiuto otto anni, è un bel bambino con due occhioni neri e profondi che mi scrutano, intanto mi mostra un bel sorriso nel suo viso rotondo, poi è subito attratto dai giochi presenti nella stanza.
Michele ha un fratello più piccolo, hanno circa un anno di differenza, il padre si è allontanato dal nucleo familiare, quando il bambino aveva meno di due anni, da allora non l’ha più visto.
La madre è preoccupata per il disagio che Michele manifesta sia nel contesto familiare che in quello scolastico. Ciò che la preoccupa maggiormente è la perdita di interesse e piacere per quasi tutte le attività tipiche di un bambino della sua età, le improvvise oscillazioni dell’umore verso il polo depressivo, l’alternarsi di richieste di attenzioni e rassicurazioni affettive e di comportamenti oppositivi, le reazioni di isolamento o di rabbia di fronte a minime frustrazioni. Le stesse modalità di relazione sono presenti anche a scuola, Michele si rifiuta di giocare con i compagni, di partecipare alle attività scolastiche e di svolgere i compiti assegnati, di conseguenza ha pochi contatti sociali e le sue prestazioni scolastiche non sono adeguate. Questi atteggiamenti hanno iniziato a manifestarsi dai primi anni della scuola dell’infanzia e via via sono peggiorati, la madre ha timore che quest’ultimo ulteriore peggioramento sia dovuto al fatto che da poco più di un anno ha un nuovo compagno.
Fin dai primi incontri Michele si mostra desideroso di questo suo spazio personale, da difendere da ogni ingerenza, non appare intimorito dalla situazione, entra in studio sorridente ed inizia a giocare. A volte si mostra a suo agio, collaborante e in relazione, risponde in modo congruente, anche se difficilmente prende l’iniziativa nell’iniziare o nel far procedere la conversazione, nonostante abbia buone doti intellettive ed una particolare sensibilità.
Altre volte appare in difficoltà, rimane passivo e chiuso in sé stesso, oppure partecipa alla conversazione in modo poco congruente o si rifiuta esplicitamente di parteciparvi. In questi momenti Michele sembra chiudersi in un guscio, con ostinazione e senza proferire parola. Capisco che devo avere pazienza, accettare i suoi tempi ed aspettare che mi lasci a poco a poco entrare nel suo “territorio”.

La ricerca di un linguaggio comune, che potesse aiutarci ad avvicinarci al suo mondo interno, mi ha portato ad utilizzare le favole. Le favole parlano quel linguaggio antico che accompagna dalla notte dei tempi l’uomo nel suo cammino, che ritroviamo in ogni luogo e cultura, un linguaggio che i bambini conoscono bene, un linguaggio che adulto e bambino possono condividere.
Abbiamo letto una favola al mese, per lasciare il tempo al tesoro racchiuso in esse, come un fiore in un seme, di poter crescere e sbocciare. Alcune le abbiamo rilette più volte, erano le favole che parlavano di paure e difficoltà di cui Michele non voleva o non riusciva a parlare. Queste favole ci hanno permesso di parlare della fatica che si fa a crescere, ma anche delle conquiste che ha fatto e di immaginare quelle che farà. Ci hanno permesso di parlare di quanto gli pesa sul cuore, del padre non conosciuto e del “papà nuovo” ancora da conoscere, di cercare delle modalità che potessero aiutarlo a superare paure e difficoltà e a “curare” il suo cuore. Sono le favole che hanno suscitato più curiosità ed interesse, il piacere della scoperta di sensazioni ed emozioni, di pensieri e di quelle parole mai dette, che hanno permesso a Michele di riappropriarsi di alcune emozioni, di prendere confidenza con altre, di sperimentare la loro espressione, di farle uscire dal luogo in cui per paura erano relegate (in un disegno si è rappresentato con alcuni cassetti incatenati e chiusi da lucchetti).

Ultimamente abbiamo letto “Il mio cuore è un purè di fragole”, cui abbiamo dedicato più di un mese. Durante la lettura Michele ha commentato, chiesto chiarimenti, espresso pensieri, dubbi e sentimenti, prendendo spunto da questi interventi ci siamo soffermati a riflettere insieme su quanto letto o da lui evidenziato.
Alla lettura dei primi paragrafi Michele subito commenta: “Io non assomiglio a Luca, a me non piacciono le feste di compleanno!”, ed, in effetti, finora ha declinato gli inviti dei compagni e non ha voluto festeggiare il suo compleanno. Ci soffermiamo a parlarne e constatiamo insieme che comunque alcune preferenze sono simili tra lui e Luca. Coincidenze che a volte prepara il caso, Michele nei giorni tra questo incontro ed il successivo è invitato da una sua compagna alla festa del suo compleanno e decide di parteciparvi.
Quando ci rivediamo mi spiega che solo alcuni compleanni non gli piacciono, in particolare non gli piace il suo, perché non può decidere come deve essere, è la madre che decide e rispetto alle sue richieste disattese gli dice che “non fa niente”, ed aggiunge “Dice sempre di no, non uscire, non fare questo, non fare quello, solo se dico di fare i compiti dice di si!”
L’episodio di Luca con il padre ci dà l’occasione per parlare dei suoi rapporti con il compagno della madre. Michele è consapevole che occorre un cammino per conoscersi, dice “mi devo abituare”, è anche consapevole che questo comporta fatica da entrambe le parti, ma a volte i grandi, proprio come il papà di Luca, non hanno la pazienza di aspettare.
Nell’episodio che vede coinvolti Luca e la sorella Cristina si riconosce nel ruolo di fratello maggiore, le richieste della madre di Luca sono simili a quelle di sua madre, come simili a quelli di Luca sono i suoi sentimenti nei confronti del fratello, a volte così difficili da riconoscere, e le sue paure, altrettanto difficili da affrontare. Ride al racconto della “fuga di Cristina”, ammicca dicendo “La mamma lo aveva capito che era stato Luca!”, sembra assaporare la cioccolata calda e beneficiare del suo calore, anche in questa torrida giornata di precoce estate, come anche del racconto di Luca piccolo.
La visita della casa degli specchi riprende per certi aspetti un gioco a noi familiare, uno specchio magico è stato per un po’ nostro compagno di viaggio e ha stimolato giochi di immaginazione. 
Inizialmente sembra divertito, gli piace la filastrocca dello specchio di Paolo e la ripete: “Nessuno è perfetto!”. Guarda la sua “pancetta e mi dice “Sai che sto cercando di dimagrire?”, poi precisa: “Veramente sto cercando di non ingrassare, basta che mangio un solo piatto di pasta!”.
Le difficoltà iniziano con il passaggio nella stanza dello specchio del papà, alla lettura della filastrocca commenta “Tanto non serve a niente!”, poi esprime il desiderio di conoscere meglio colui che ha iniziato a chiamare papà. Rassicurante sembra invece il passaggio nella stanza dello specchio di Cristina ed il parlare dell’affetto che lega lui e suo fratello nonostante i continui litigi. Ancora più difficoltoso è il passaggio nella stanza dello specchio della mamma, Michele dice che Luca si vede tondo e grasso come nello specchio di Paolo, in particolare non gli piace quando Luca si rende conto che non potrà avere sempre vicino a sé la madre e dovrà imparare a tenere dentro di sé quello sguardo. Michele afferma di volere la madre tutta per sé e sempre vicino.

A volte le favole poggiano i loro passi in territori di sofferenza, svelano ferite non ancora guarite. Le difficoltà di Michele mi indicano che non è ancora il momento di approfondire questi temi, è meglio aspettare ed affrontarli in seguito, come, in effetti, avverrà.

Finiamo di leggere la favola, Michele si mostra divertito, durante la lettura mette in scena un gioco con due navi dei pirati, in seguito ne aggiunge una terza, che si fanno la guerra, ma che continuamente si legano l’una all’altra con delle funi. Giocando si rende conto che così sono sicure di navigare senza perdersi di vista, ma corrono anche il rischio di affondare insieme, slega le navi e commenta “Così vanno meglio”.

I commenti fatti durante la lettura e questi ultimi giochi sembrano preludere alla lettura della storia di Pallotto. Infatti, Gabriele è attratto dal titolo e mi chiede di leggergli “Una calamita di mamma”, favola che abbiamo finito di leggere appena prima dell’interruzione per le vacanze estive, anche in questo caso abbiamo dedicato più di un mese alla lettura e seguito le medesime modalità della favola precedente.

“Ci sono mamme calamita e mamme elastico/ mamme di zucchero e panna/ e mamme molto salate e un po’ pepate./ Ci sono mamme che vivono sulle nuvole/ e mamme con i piedi piantati per terra./ Ci sono mamme fragili come il vetro e mamme solide come la roccia.”. Alla lettura di questa filastrocca iniziale mi ferma perché vuole spiegati i vari tipi di mamma. Immaginiamo insieme cosa potrebbe voler dire essere una mamma di zucchero e panna o molto salata, e così via. Immaginiamo anche cosa succederebbe se una mamma fosse solo dolce o pepata, solo fragile o con i piedi piantati per terra ecc., abbiamo mimato i vari tipi, simulato alcune situazioni ed alla fine siamo arrivati alla conclusione che forse in ogni mamma c’è un pizzico di questi aspetti e che forse è utile che sia così, che ogni aspetto non è completamente “buono” o completamente “cattivo”, in certe situazioni può essere utile, mentre in altre può mettere in difficoltà. Michele commenta “ È meglio elastico, tanto sei unito lo stesso”, riappare il tema già toccato negli incontri precedenti.
Durante la lettura fa alcune precisazioni (È Pallotto che sa se fa caldo o fa freddo, ognuno sa per sé stesso), più volte commenta “ Che stress questa mamma”  e alla lettura dell’episodio del primo giorno di scuola conclude “Con una mamma così è meglio andare a scuola!”. Alcune volte si riconosce in Pallotto “Anche a me la mamma diceva di mangiare, anche se non avevo fame, ora mi dice di non mangiare se no ingrasso!”,  altre volte si differenzia “Io ci sto sul terrazzo a guardare le stelle!”.

Questa favola sembra aver suscitato maggior piacere nel mettersi in gioco, ha permesso di meglio utilizzare le potenzialità offerte dai processi immaginativi, forse questa favola e le riflessioni che ha stimolato hanno rimandando a Michele l’immagine di una madre che ama e si preoccupa del suo cucciolo, anche se con una modalità che lo fa sentire a disagio, e quindi di pensare in modo diverso al controllo che essa esercita su di lui, non solo come non riconoscimento dei suoi bisogni o del suo essere cucciolo. Questo rimando sembra essere avvenuto nonostante i comportamenti di Pallotto e di Michele siano differenti.
Pallotto risponde al controllo materno sottomettendosi, non fa capricci, non protesta, si adatta alle richieste ed aspettative materne. Non sa dare loro una spiegazione, forse non sa neanche chiederla, sa solo che deve scegliere tra il suo sentire, la sua individualità, la sperimentazione e dimostrazione delle proprie capacità e il sentire ed il “sapere” materno,  forse teme di perdere l’affetto della madre. Pallotto rinuncia ad affermare il suo punto di vista, ma ad un prezzo molto alto: la negazione del suo sentire e dei suoi desideri e la dipendenza affettiva.
Michele adotta un’altra modalità di risposta alle richieste della madre e degli adulti, in particolare di quelli che gli ricordano l’autorità: l’opposizione ostinata e la sfida. È questa una modalità difensiva che restituisce a Michele un senso di forza e di libertà da cui trae grande soddisfazione, anche se il costo emotivo è elevato e gli effetti del suo comportamento, che non è in grado di valutare appieno ma di cui anche si disinteressa, sono per lui negativi.

Prima di iniziare la lettura del viaggio nel Bosco degli Orsi Confusi, Michele mi chiede cos’è il frappè di emozioni. Riprendiamo le riflessioni già fatte in altre occasioni sulle “emozioni confuse”, immaginiamo situazioni, simuliamo episodi, alla fine afferma che è meglio essere elastico, la mamma elastico ed il bambino calamita. Chiedo spiegazioni. Mi porta esempi, riflette su di essi e commenta che anche in questa situazione sono a disagio entrambi, sia la mamma che il bambino. Ritorna il tema della separazione, ma in questo caso Michele non mostra disagio, sembra alla ricerca di una soluzione e sembra trovarla: “Tutti e due devono essere elastico! Ma quando il bambino vuole stare vicino vicino, scambiare baci e coccole con la mamma, la mamma deve essere d’accordo”. Riconosce che l’elastico permette sia di stare vicini, scambiarsi coccole, ma anche di fare cose da soli, scoprire cose nuove, per poi tornare a stare vicini, raccontarsi quanto fatto e scoperto.

La mamma elastico è in questo caso la rappresentazione della “base sicura” di Bowlby, colei da cui partire alla scoperta del mondo e a cui ritornare sicuro di essere accolto, nutrito, riconosciuto, ascoltato ed aiutato a superare le difficoltà incontrate.

All’inizio dell’incontro successivo Michele esordisce dicendomi “Anch’io ho provato il frappè di emozioni”, mi racconta un episodio successo il giorno precedente in piscina con il fratello ed i cugini, inizialmente era felice, poi è diventato triste e si è allontanato, poi è tornato felice, ma non sa spiegare cosa sia successo, come mai prima era felice e poi triste e poi di nuovo felice. Leggiamo il viaggio di Pallotto nel bosco: Pallotto capisce che il mal di pancia è la paura del bosco, e lui?
Michele a poco a poco collega situazioni, pensieri ed emozioni provate e i “rimedi” da lui attuati per gestire e modulare le proprie emozioni e che sono stati efficaci, riesce anche a dare un nome agli “ingredienti” del frappè di emozioni: ha provato un po’ di rabbia e un po’ di tristezza.
Quando leggo che anche i grandi soffrono di frappè di emozioni e della cura prescritta a Mamma Orsa prima mostra meraviglia, poi sembra mostrare una certa soddisfazione.

Forse questo passaggio gli ha permesso di cambiare punto di vista, di non leggere più il comportamento di Mamma Orsa come “causa” del disagio di Pallotto (che stress questa mamma!) e di vedere che Mamma Orsa vive difficoltà e sofferenze simili a quelle di Pallotto, che anche lei ha bisogno di essere aiutata, di ricevere una “cura” proprio come il suo cucciolo.

Mi domanda se ci sono i papà calamita e come mai non c’è Papà Orso. Proviamo ad immaginare insieme: in effetti anche i papà possono essere calamita, oppure possono aiutare le mamme calamita ad esserlo di meno offrendo loro un altro punto di vista (in entrambi i casi per Michele “…… ma le mamme fanno bla, bla, bla ……” cioè stressano i padri). Per quanto riguarda Papà Orso, conveniamo che nelle favole alcuni fatti non sono raccontati e si può solo immaginarli. Secondo lui Papà Orso è occupato a fare tutto quello che Mamma Orsa non riesce a fare perché troppo impegnata a controllare Pallotto “Mamma Orsa non vuole che Pallotto si stacchi da lei ed è preoccupata che Papà Orso lo faccia allontanare, allora gli dice di togliere la polvere, cucinare, lavare, stendere così lei può guardare Pallotto”. Nella ricostruzione di Michele la preoccupazione di Mamma Orsa è tale da spingerla a non fidarsi di Papà Orso e di dover essere lei a controllare Pallotto. Forse mi sta parlando della sua difficoltà ad avvicinarsi al “nuovo papà”.
Delle due favole quella che gli è piaciuta di più è quest’ultima, in particolare gli è piaciuta la parte della ricetta per Mamma Orsa e la sua decisione di lascia giocare Pallotto con il cugino, anche se non si è dimenticata di lui.

Le favole lette stanno aiutando Michele a guardare con occhi nuovi alle proprie difficoltà e paure e a trovare dentro di sé la soluzione che lo può aiutare a risolverle.
La prima favola ha messo in luce un nucleo di difficoltà che riguarda il rapporto con la madre (lo sguardo della madre di Luca è più simile allo sguardo dell’amico/nemico Paolo che ad uno sguardo amorevole ed accettante, Michele ha espresso il desiderio di un rapporto esclusivo con la madre) e dato voce al desiderio di una maggiore vicinanza con colui che adesso chiama papà, aspetti che la seconda ha permesso di meglio comprendere.
La seconda favola, che ha come protagonisti degli animali, ha favorito in Michele la proiezione dei propri vissuti, permettendogli di poterne parlare e di riconoscerli. Spostando su un animale le tematiche affettive è più facile per il bambino rendersi conto che le difficoltà del protagonista ricordano le sue difficoltà, nello stesso tempo è per lui più facile avvicinarsi e riconoscere la propria affettività, evitando la messa in atto di meccanismi difensivi che gli impedirebbero di entrare in contatto con i nodi problematici.
Nel leggere le favole Michele ha giocato con la fantasia, ha proposto temi di discussione, ha immaginato situazioni e soluzioni, si è avvicinato a emozioni e sentimenti, ha potuto accedere ed esprimere suoi pensieri.
Prima di salutarci per la pausa estiva mi dice che durante le vacanze andrà a giocare con un amico (è un suo compagno di classe) ed  aggiunge con un certo orgoglio che ci andrà da solo, inoltre aspetta con ansia il rientro di un altro amico (anche lui compagno di classe) per andare alla sua festa di compleanno.
Altre piccole cose sono successe durante la lettura delle favole. A volte uno di quei cassetti disegnati da Michele ben chiusi da catene e lucchetti si è aperto, anche se per poco, ha mostrato che può aprirsi e lasciar uscire quanto gelosamente custodito, dandoci la possibilità di vedere, sentire e parlare di quanto non si riusciva a vedere, a sentire e a parlare. Piccole cose ma durature, che hanno permesso di procedere nel cammino che stiamo percorrendo.

 

John Bowlby, 1989, Una base sicura, Cortina, Milano
Daniel Goleman, 1996, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano
John Gottman con Joan De Claire, 1997, Intelligenza emotiva per un figlio, Rizzoli, Milano
Giuseppe Maiolo e Giuliana Franchini, 2003, Ciripò, Lilli, Rataplan e altri animali paurosi, Erickson, Trento
Alba Marcoli, 1993, Il bambino nascosto, Mondadori,  Milano
Alberto Pellai, 2006, Il mio cuore è un purè di fragole, Erickson, Trento
Alberto Pellai, 2006, Una calamita di mamma, Erickson, Trento
Deborah Plummer, 2001, La mia autostima,  Erickson, Trento
Sunderland M Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l'invenzione, Trento, Centro Studi Erickson, 2004

 

Fonte: http://www.educazione-salute.it/1/upload/storie_npo_del_prof._alberto_pellai.doc

Sito web da visitare: http://www.educazione-salute.it

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