Emozioni del terapista

Emozioni del terapista

 

 

 

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Emozioni del terapista

Laura Fruggeri

Le emozioni del terapista
Psicobiettivo, 3, 1992, 23-34.

 

Affrontare la tematica delle emozioni nel contesto terapeutico significa addentrarsi in un campo vastissimo all'interno del quale si è inevitabilmente chiamati ad un attento confronto con la molteplicità di interrogativi implicati nelle diverse sfaccettature di un problema complesso. La consapevolezza della vastità e complessità di tale ambito tematico mi induce pertanto a delimitare la riflessione ad uno tra i tanti  aspetti rilevanti: quello delle emozioni del terapista. Questa scelta si iscrive all'interno di un percorso personale di riflessione sulla relazione terapeutica che ha come suo nucleo centrale la problematica concernente i criteri metodologici del "fare terapia" (Fruggeri, 1990; 1992; Fruggeri, Matteini, 1991). Da questo punto di vista,  uno degli strumenti essenziali a cui i terapisti ricorrono per  monitorare  la conduzione della terapia è quello dell'autosservazione, intendendo con ciò quell'attività tipica di ogni psicoterapista che consiste nel valutare di momento in momento quanto il proprio agire o il proprio essere nella relazione terapeutica sia il più appropriato in una determinata situazione.  E' infatti sulla base dell'autosservazione che il terapista decide via via come agire.  In questo senso la riflessione che intendo svolgere riguarderà in particolare le emozioni del terapista nel contesto del processo di autosservazione che caratterizza la sua attività.
Il richiamo, proveniente  ormai da più parti e di cui anche questo numero di Psicobiettivo è una espressione,  a  condurre una seria riflessione sulle emozioni  nel contesto terapeutico dovrebbe prima di tutto essere considerato come un opportuno invito a modificare lo stile monocentrico che ha spesso caratterizzato la riflessione dei terapisti familiari sistemico-relazionali: i comportamenti interattivi, i processi simbolici, la famiglia, l'individuo,  le mappe del terapista,  i giochi della famiglia, la relazione terapeutica,  la co-costruzione di significati sono stati infatti le componenti che, alternandosi tra di loro, hanno costituito il fulcro della riflessione o, peggio,  sono diventati di volta in volta "l'elemento unico che spiega  tutto".
A ben guardare, nell'attuale dibattito sulle emozioni sono tuttavia presenti segnali che testimoniano, a mio parere, del riproporsi di uno stile analogo e del rischio che il tema delle emozioni diventi il nuovo fuoco che monopolizza  l'attenzione, il nuovo, ma esclusivo, elemento di spiegazione anziché motivo ed occasione per iniziare una elaborazione di un vero e proprio approccio complesso alla psicoterapia. I segnali a cui mi riferisco sono costituiti innanzitutto dal fatto stesso che le emozioni siano proposte alla riflessione dei terapisti sistemici come tema nuovo, mai affrontato in precedenza. Le affermazioni che a questo proposito circolano più o meno informalmente fra i terapisti di questa impostazione teorica potrebbero infatti essere riassunti nella seguente considerazione: "Noi terapisti familiari, sistemici, relazionali non abbiamo mai tenuto conto o prestato attenzione alle emozioni, da oggi dovremmo occuparcene!"
Indubbiamente  nel mondo dei terapisti sistemici si è molto raramente riflettuto  sul ruolo che il contesto emotivo ha nel processo di cambiamento, ma d'altra parte dobbiamo riconoscere che la strada che conduce alla formulazione di una teoria del cambiamento terapeutico è ancora in gran parte da percorrere. Insistere, tuttavia, nel connotare come assolutamente nuova la  riflessione sulle emozioni lascia soprattutto emergere uno schematismo di fondo secondo cui alcuni approcci terapeutici terrebbero in dovuto conto il contesto emotivo ed altri no.  E' uno schematismo, questo, il cui presupposto implicito è che ci sia un solo linguaggio o un solo modo per "parlare di emozioni"; un linguaggio che non viene solitamente usato dai terapisti familiari. Una attenta analisi della letteratura sulla terapia familiare mostra tuttavia come i riferimenti alle emozioni siano molto più frequenti  di quanto non ci si aspetterebbe partendo da questa premessa; e questo vale, abbastanza sorprendentemente, anche per la letteratura sistemica più esplicitamente impostata ad un approccio pragmatico e strategico.  Certo i modi e i linguaggi restano diversi. Le emozioni a cui soprattutto in passato si è prestata attenzione riguardano infatti quasi esclusivamente i membri della famiglia,  anche in relazione al fatto che l'inclusione del terapista nel processo terapeutico è una acquisizione recente, non solanto nell'approccio sistemico-relazionale; ed il principale approccio attraverso cui esse sono state prese in considerazione è quello comunicativo, che esamina le emozioni stesse come informazioni per il terapista circa i pattern interattivi familiari, oppure come informazioni circa il modo in cui la famiglia accoglie gli interventi del terapista.
Si veda ad esempio , da Paradosso e controparadosso, una descrizione delle retroazioni dei membri della famiglia ad un intervento, valutato efficace dai terapisti sulla base delle retroazioni osservate. "Risata fragorosa del fratellino, tosto seguita da un progressivo, commovente illuminarsi del viso di Giulio, infine travolto in un riso incontenibile, mentre i genitori, imbarazzati, sembrano trattenere il fiato." (Selvini e coll., 1975, p. 158)
Oppure si consideri il commento di L. Boscolo durante la discussione di seduta di un caso: "Sono rimasto molto colpito quando ho fatto la domanda sul periodo del ricovero di Gerte. Mi  sarei aspettato che la famiglia avesse dato messaggi di sollievo visto che il trattamento era incominciato. Invece erano molto infelici....Non c'era sollievo, in quel momento io ho sentito quanto importante questa figlia fosse per il sistema familiare." e ancora: "Ho potuto vedere un certo sollievo nella faccia della madre, un sorriso, quando diceva che ha una sorella con la quale parla."  (Boscolo et al., 1987, p. 313-314). Infine, le modalità con cui G. Cecchin illustra come l'equipe lavora allo scopo di formulare una ipotesi: "Il padre è depresso se la figlia non è a casa, la madre appare felice mentre parla della sorella,  il padre ha l'aspetto triste quando fa riferimento al matrimonio, il padre e la madre mostrano imbarazzo mentre parlano della loro vita notturna a casa. Il terapista  connette tutti questi spunti, essendo soprattutto attento alla comunicazione analogica. Poi cerca di creare una storia della famiglia che abbia senso." (Boscolo et al., 1987, p. 318).
Ritengo dunque che una riflessione sulla diversità dei linguaggi attraverso cui i terapisti sistemici "parlano di emozioni nel contesto terapeutico" sia un punto di partenza più fecondo dell'autocritica, in questo caso sterile, che si accompagna alla considerazione di non essersene mai occupati. Un dibattito sulle emozioni che scaturisca dall'idea che occuparsi di comunicazione, di interazione, di costruzione dei significati, di patterns o giochi familiari, delle mappe dell'osservatore, di tutti quei temi cioè che hanno nel passato anche recente caratterizzato la riflessione sistemica, significhi ignorare le emozioni, è un dibattito che nasce dal diffuso e radicato pregiudizio secondo cui il sentire e il pensare non solo costituiscono  come processi diversi, ma anche dicotomici e cioè non interconnessi tra loro. In effetti, un dibattito sulle emozioni che parta da queste premesse apre la strada a due tipi di rischi.
Il primo rischio è quello di scivolare in un confusivo eclettismo. Cioè di affrontare il tema delle emozioni in terapia prendendo a prestito linguaggi ed ipotesi esplicative appartenenti ad un diverso quadro concettuale. L'eclettismo è d'altra parte  uno stile frequentemente riscontrato nelle riflessioni degli psicologi. Come sottolineano infatti gli storici della disciplina,  gli autori dei manuali di psicologia spesso "mutano punto di vista col mutare dell'argomento esaminato: quando scrivono il capitolo del manuale dedicato alla percezione sono gestaltisti, passando all'apprendimento si trasformano in comportamentisti e infine, poniamo, diventano freudiani quando si tratta di affrontare lo studio della personalità." (Legrenzi, 1980, 15). E allo stesso modo potremmo dire che i terapisti familiari sono pragmatici quando analizzano la  comunicazione, funzionalisti quando descrivono i patterns interattivi,  si trasformano in costruttivisti radicali quando parlano di riflessività e diventano psicodinamici quando affrontano il tema delle emozioni.
Il secondo rischio è quello di andare ad impantanarsi nel campo della irrazionalità: laddove i sentimenti e le emozioni sfuggono ad ogni possibile analisi metodologica. E' così allora che si spiegano i processi terapeutici con i 'sesti sensi', le 'intuizioni' e 'l'amore del terapista'. Che "l'amore", per quanto importante, "non basta" ce lo ha ricordato Bettelheim (1967)  scrivendo sul trattamento di bambini psicotici. Ma chi ha vissuto per esperienza diretta il periodo della deistituzionalizzazione manicomiale, con le sue forti tinte  di umanizzazione della psichiatria, sa che addirittura l'amore del terapista, pensato come unica leva del cambiamento, può trasformarsi in rabbia o in colpevolizzazione del paziente: "Ma come, io ti dò il mio amore e tu mi fai il dispetto di non guarire?"
Ma l'eclettismo e l'appello ai "buoni sentimenti" sono qualcosa di più di un rischio, essi sono infatti annoverabili fra le strade già intraprese dai terapisti  familiari.
La problematica relativa alle emozioni del terapista è stata affrontata all'interno del modello sistemico relazionale secondo diverse modalità che, come sostenevo sopra, è utile esaminare nel momento in cui si tenta di rispondere da una prospettiva sistemica all'opportuno richiamo a riflettere con rigore sul contesto emotivo della psicoterapia.

 

Trasposizione del controtransfert dall'individuo alla famiglia

Alcuni autori propongono di riflettere sulla esperienza emotiva del terapista familiare a partire da una trasposizione del concetto di  contro-transfert dall'ambito terapeutico psicoanalitico individuale a quello relazionale familiare. Pur con un richiamo alla necessarie cautele che tale trasposizione richiede e con una sottolineatura delle differenze fra un contesto di relazione diadica e uno di relazioni multiple, il riferimento per una discussione sulle emozioni del terapista è costituito, in questo caso, dalla nozione di controtrasfert nelle due accezioni più note che questo concetto ha in psicoanalisi (Nicolò, 1983; Eiguer, 1983; Shapiro, 1983; Fissi, 1986).
Il controtransfert come insieme di sentimenti repressi o desideri infantili evocati nel terapista dal paziente diventa, nella versione familiare, un rivivere con la famiglia in terapia alcune delle tensioni provate nella propria. Le emozioni del terapista costituiscono, in questo senso, un ostacolo allo svolgimento corretto della terapia, vanno dunque controllate attraverso una analisi personale o attraverso l'analisi della propria famiglia.
Questo modo di concepire e definire le emozioni del terapista, si associa con una concezione dell'autosservazione  come una attività necessaria per rimuovere ogni ostacolo emotivo: autosservazione come controllo.
L'altro modo di concepire il controtransfert è quello di intenderlo più estensivamente come l'insieme delle risposte emotive del terapista nella situazione di terapia. In questo caso però le emozioni del terapista vengono valorizzate ed enfatizzate perchè sono ritenute indicatori dei processi inconsci del paziente e quindi la premessa per interpretazioni più efficaci. Trasposto nel campo della terapia familiare questo concetto di controtransfert fa riferimento alle emozioni del terapista come riflesso dei sentimenti della famiglia o di qualcuno dei suoi membri.
Le emozioni del terapista diventano da questo punto di vista uno strumento conoscitivo delle emozioni dei soggetti che il terapista ha di fronte, uno strumento che facilita la comprensione delle dinamiche  della famiglia , uno strumento che permette dunque al terapista di individuare le modalità più adeguate per intervenire.
In questo caso l'autosservazione è un'attività necessaria per il terapista in quanto gli permette di capire l'altro. Il terapista osserva se stesso per vedere l'altro: autosservazione come specchio.
Gli autori che fanno riferimento a queste due concezioni di controtransfert, non  le considerano alternative. Essi le indicano, infatti,  come due possibili esperienze emotive del terapista: la prima si verifica quando il terapista "cura se stesso attraverso la seduta con la famiglia" e viene indicata come errore, la seconda invece costituisce il caso di un terapista che, non disturbato da problemi personali, assolve correttamente alla sua funzione di rispecchiamento delle emozioni altrui.
In queste impostazioni di analisi  il terapista emerge come uno scienziato neutrale ed oggettivo o come un semplice ricettore di emozioni altrui. L'idea implicita è o che il terapista  possa non provare emozioni o che non ne provi in proprio .

 

Rideclinazione sistemico-relazionale del controtransfert

 "Parlare di transfert e di controtransfert in senso proprio, osservano Loriedo e Vella , implica necessariamente il riferimento a una epistemologia, a una metapsicologia e a un metodo di indagine che sono centrati sulla struttura dell'inconscio", per poi aggiungere che " nell'ottica relazionale-sistemica non si può, ovviamente, far riferimento all'inconscio, nel senso analitico
del termine, per tutti gli impliciti riferimenti teorici e pratici che ne deriverebbero" (1985, p. 7). Le posizioni illustrate nel paragrafo precedente si incentrano invece sulla adozione in toto del concetto di controtransfert, assumendone anche il costitutivo riferimento alle dinamiche riguardanti la struttura dell'inconscio e in questo senso introducono un linguaggio altro rispetto al modello relazionale-sistemico.
Esistono tuttavia altre posizioni che pur non usando il costrutto di controtransfert , né facendo riferimento all'inconscio,  si configurano come delle "rideclinazioni sistemico-relazionali" delle prime e a queste possono essere ricondotte.
L'approccio sistemico, nella sua impostazione pragmatico-strategica, pur non ricorrendo al concetto di proiezione, nè interessandosi alle motivazioni intrapsichiche dell'insorgenza dello stato emotivo, non disconosce o trascura le emozioni del terapista. Queste ultime vengono però considerate all'interno della dimensione temporale del presente e nella riduttiva accezione di reazioni a comportamenti o atteggiamenti manipolativi di vario tipo del paziente (seduzioni, simmetria, squalifiche..) o a giochi altrettanto manipolativi della famiglia (Selvini e coll., 1975).
Ciò che questa posizione condivide con coloro che assumono a riferimento la prima delle accezioni di controtransfert sopra riportate, è il fatto che le emozioni del terapista vengono considerate come ostacolo alla terapia, e, in quanto tali, devono essere controllate, non ricorrendo all'analisi personale, nè a quella familiare, ma molto più pragmaticamente attraverso un supervisore a cui è demandata l'attività di autosservazione, altrimenti compito  del terapista.  Anche in questo caso, l'autosservazione è concepita come controllo delle emozioni.
Alla seconda delle  accezioni di controtransfert descritte sopra può essere invece associato il suggerimento a considerare le emozioni del terapista come un rispecchiamento dei sentimenti provati da un qualche membro della famiglia.  In questo caso non si ricorre alla nozione di dinamiche proiettive per spiegare tale rispecchiamento, ma alla ipotesi, di natura più sistemica, secondo cui la famiglia nella sua relazione col terapista tenderebbe a riprodurre i patterns interattivi che la caratterizzano  e il terapista verrebbe quindi ad occupare una posizione nel sistema di relazioni che è la stessa solitamente sperimentata da uno specifico membro della famiglia ogni qualvolta quel tipo di interazione si attiva. Si implica dunque che occupando la stessa posizione il terapista provi gli stessi sentimenti che a tale posizione sono associati.  Le emozioni del terapista diventano così una "insostituibile guida per capire quanto sta succendendo nella famiglia" e per scegliere le modalità di intervento più utili (Selvini e coll., 1989; Selvini,  1990).  Le emozioni del terapista vengono valorizzate, costituiscono un elemento fondamentale nel processo di autosservazione che è concepito nella sua accezione di rispecchiamento: il terapista infatti anche in questo caso, osserva se stesso per vedere l'altro. 
Ambedue queste modalità di affrontare le emozioni del terapista sono riconducibili a quelle contenute nel modello del controtransfert perché costituiscono delle rideclinazioni teoriche di tale modello  all'interno di un quadro epistemologico che resta  immutato. L'idea implicita è cioè,  anche in questo caso, quella di un terapista come scienziato neutrale ed oggettivo in grado di non provare emozioni oppure come semplice ricettore di emozioni altrui, capace di non provarne in proprio. A ciò va inoltre aggiunta una condivisa sottovalutazione della dimensione interpersonale del processo terapeutico. L'accento è infatti posto sul terapista come agente di cambiamento della famiglia. Il  processo evolutivo è schiacciato sul polo del terapista, sui suoi strumenti, sugli eventuali ostacoli a mantenere tale posizione e sui modi per superarli. Tutto ciò  a scapito di una più adeguata considerazione della relazione fra terapista e famiglia come ambito del cambiamento.

 

Le emozioni come indicatori di processi relazionali

Una particolare attenzione al contesto relazionale della terapia costituisce invece il fulcro della riflessione proposta da altri autori.
Pur accomunati dall'enfasi posta sulla relazione fra terapista e famiglia, anche in questo caso si configurano tuttavia due diversi  modi di affrontare la tematica delle emozioni del terapista.
Un primo modo è espresso da quello che potrebbe definirsi un "appello ai buoni sentimenti" dal momento che pone soprattutto l'accento sul 'calore umano' (Green Herget, 1991) che il terapista deve manifestare nei confronti della famiglia. E l'uso del verbo dovere non è casuale, visto che  il calore viene identificato come la condizione normativa per il buon esito della terapia. 
L'appello al calore umano si giustifica e può anzi risultare opportuno come una correzione dell'immagine spesso troppo cinica  del terapista familiare strategico che procede con mosse e contromosse attraverso una seduta concepita come lotta contro una famiglia a sua volta immaginata (e quindi "vista")  come sempre pronta a trarre in inganno o a mettere in scacco il terapista.  Fuorviante è invece porre, come ad esempio fanno Green e Herget (1991), il calore del terapista in alternativa al principio della neutralità elaborato da Selvini e coll. (1980) e rivisitato da Tomm (1984), Boscolo et al. (1987) e Cecchin (1988, 1992). E' fuorviante perchè implica una riduzione della neutralità terapeutica a distacco emotivo, quando invece il principio di neutralità, suggerendo  un accoglimento dei punti di vista di tutti i membri della famiglia, fa riferimento alla possibilità per il terapista di cogliere il modello interattivo del gruppo familiare nella sua globalità (Cecchin, 1991).
L'appello al calore umano si configura inoltre come confusivo rispetto al problema delle emozioni del terapista perchè appiattisce su un unico livello aspetti che si collocano invece a livelli diversi.  Che il terapista debba avere rispetto e interesse per i propri pazienti  e provare desiderio di essere loro di aiuto non è un principio metodologico del fare terapia, ma costituisce una premessa basilare di etica professionale.  A partire da questa premessa il terapista stabilisce relazioni con il paziente, all'interno delle quali le emozioni non possono essere nè  prescritte nè proibite, si possono solo provare.
E' una posizione questa che sembra sostituire il pregiudizio legato alla dicotomia fra sentire e pensare (e quindi alla considerazione delle emozioni come ostacolo all'attività terapeutica) con un pregiudizio di stampo moralistico che attribuisce valore terapeutico alle emozioni positive e invece considera di ostacolo all'andamento della terapia quelle negative. A mio parere, due sono i  problemi che da ciò possono derivare: uno è legato al rischio che si finisca col prescrivere le emozioni al terapista, l'altro consiste nel fatto che si aprono interrogativi che allontanano da quella che dovrebbe essere una analisi rigorosa e proficua sulla problematica delle emozioni del terapista. Cosa fa il terapista che prova emozioni non in sintonia con ciò che viene qualificato come calore umano?  Le deve negare o deve concludere di non essere un buon terapista? L'autosservazione diventa, in questo caso, un'attività costantemente finalizzata a monitorare il tipo di emozione provata dal terapista e l'appello ai buoni sentimenti finisce per indurre alla prescrizione dei buoni sentimenti. 
Ma, come sottolinea G. Cecchin, "Con 'emozioni' si intende il calore, la simpatia, l'empatia, ma anche la noia, il fastidio, la rabbia, l'indignazione, ecc. Il problema diventa  non quello di sapere qual'è l'emozione giusta o più terapeutica, ma di come utilizzare in terapia le varie emozioni che sorgono spontaneamente nell'interazione e che sono comunque parte importante nello sviluppo di un legame 'forte', presupposto necessario di qualsiasi intervento, educativo o paradossale che sia" (1991, 66).
Vanno in questa direzione le riflessioni condotte da altri autori che, non solo considerano le emozioni del terapista in riferimento al contesto relazionale della terapia, ma più specificatamente individuano nelle emozioni del terapista degli indicatori  della relazione che si sviluppa  fra questi ed il paziente. In questo senso non viene operata nessuna distinzione fra emozioni positive e negative, favorevoli ed ostacolanti il processo terapeutico; e la domanda principale che viene formulata riguarda il come le emozioni possano essere utilizzate nel processo terapeutico (Loriedo, Vella, 1985; Cecchin, 1988).
Questa impostazione del problema nasce  dall'interno di un quadro teorico che:
a) considera il terapista partecipe del processo di costruzione interpersonale che ha luogo nel corso della terapia;
b) colloca le emozioni, così   come ogni altro aspetto che riguardi la terapia, in un ambito relazionale;
c) considera la relazione fra terapista e paziente come una relazione reale fra due persone specifiche che si incontrano in un tempo e uno spazio definito.
Una simile prospettiva risulta particolarmente interessante proprio perchè delinea una impostazione di analisi delle emozioni del terapista coerente con un approccio sistemico  e con i criteri metodologici del fare terapia che, a partire da esso, sono stati elaborati. Si tratta tuttavia di  un ambito di riflessione ancora aperto, che non si è ancora confrontato fino in fondo con alcuni rilevanti interrogativi di carattere metodologico. Che cosa significa affermare che le emozioni del terapista sono indicatori di una relazione? Attraverso quali percorsi metodologici può essere adeguatamente tradotta questa idea? Come possono essere utilizzate le emozioni? In che modo  ci si interroga su di esse? Quale collocazione viene data alle emozioni stesse nell'ambito del processo terapeutico? In che rapporto stanno col processo di autosservazione del terapista?
Per avviare una ricerca finalizzata a fornire risposte a questi interrogativi, ho trovato utile fare riferimento alla più recente letteratura sulle emozioni e, in particolare, a due degli aspetti più rilevanti che da essa emergono in sostanziale accordo con le riflessioni fin qui esposte: quello riguardante l'interdipendenza del sistema cognitivo, emotivo e comportamentale a partire dal quale le emozioni vengono definite come "forme di disposizione all'azione elicitate da particolari sistemi di valutazione" (Frijda 1988, p.35, Maturana, 1988); e quello che, pur sottolineando la caratterizzazione individuale di tali sistemi di valutazione, riconduce la loro genesi ai processi di interazione che la persona intrattiene col proprio ambiente sociale e quindi attribuisce ad essi una natura sociale (Harré, 1986).
In questa prospettiva le emozioni del terapista non sono nè una reazione ad uno stimolo esterno, nè riflesso delle emozioni altrui, nè proiezione di istanze fantasmatiche. Le indicazioni della  più recente ricerca ci suggeriscono semmai di considerare le emozioni del terapista come indicatori del modo in cui egli partecipa attraverso le proprie mappe, sistemi di credenze e di significato alla costruzione della relazione terapeutica .
Le emozioni del terapista non sono, da questo punto di vista, nè da controllare, nè da attribuire ad altri.  Esse vanno piuttosto riconosciute e ricollocate nell' interdipendenza  che collega i sistemi cognitivo, affettivo, comportamentale nel cui ambito  si costruiscono le relazioni interpersonali e quindi anche la relazione terapeutica.
La riflessione su un caso permetterà di approfondire ed articolare questa ipotesi teorica.

Si tratta di una terapia che conduco insieme ad un collega senza supervisore dietro lo specchio.  La famiglia è composta da padre, madre, figlio adolescente e figlia in età scolare elementare. La telefonata di richiesta è effettuata dal padre su consiglio di uno psichiatra che i genitori avevano consultato a causa del comportamento molto problematico del figlio adolescente. Nel tempo che intercorre fra la richiesta di terapia e l'appuntamento, esattamente due giorni prima del previsto incontro, il padre mi telefona e mi comunica che il figlio è ricoverato in ospedale per una malattia organica appena diagnosticata (si tratta di una malattia molto grave ad alto rischio di morte). Mi informa che a causa di ciò il figlio non può essere presente all'appuntamento e  mi chiede se possono venire i due genitori soltanto. Io acconsento.
Si presentano alla prima seduta e nel corso dei primi venti minuti di colloquio si  crea un impasse relazionale col  padre di cui sintetizzo gli elementi più salienti.
*  Di fronte al nostro interessamento per la malattia del ragazzo,  il padre sostiene, in modo perentorio,  che si tratta di un semplice incidente di percorso di cui non vale la pena di parlare. La sua opinione è che il problema vero è costituito dai disturbi psicologici del figlio, di cui egli ha una spiegazione essendo, per via del suo lavoro, a contatto con psicologi e quindi "un po' psicologo anche lui".
* Lancia un attacco alle donne che "dopo aver abbindolato gli uomini con le idee di uguaglianza del '68, adesso pensano soltanto a se stesse e alle loro carriere, lasciando gli uomini  ad occuparsi di tutto."
*  Quando non emette sentenze e non fa arringhe, di fronte alle nostre domande che indagano sulle relazioni nella famiglia, fra figli e genitori, nella coppia, la sua modalità di partecipare alla conversazione é la seguente:
- mette in discussione tutto quello che dice la moglie e con un "non è vero"  incomincia a fornire versioni opposte degli stessi eventi;         
- di fronte al nostro tentativo di comprendere queste differenze, egli mette in discussione ogni domanda, facendone una questione linguistica. Un esempio: alla domanda: "quando lei è andato dall'avvocato..", interrompe per chiarire:" io non sono andato dall'avvocato, io mi sono rivolto a un avvocato" . Di rimando alla affermazione del terapista:"bene, quando lei si è rivolto..." ,  la sua ulteriore precisazione è:" un momento, c'è differenza fra andare e rivolgersi...." .
* Dopo una serie di sequenze interattive di questo tipo, propongo di accordarci sul significato delle parole che si stanno usando. Egli osserva che è venuto per cercare di capire e invece si sta facendo una gran confusione. Rispondo che anch'io voglio capire e procediamo a concordare i termini da usare. A quel punto, la sua risposta è che non capisce che cosa si stia facendo, poichè mentre lui è venuto per parlare del figlio,  noi  parliamo della coppia.
* Nel corso di questa interazione, il mio collega risponde inizialmente con un tono  un po' aggressivo, poi diventa sempre più silezioso e io sempre più pazientemente cerco di definire, senza successo,  un dominio di consensualità che ci permetta di procedere nella conversazione.
Decidiamo di uscire.
Il collega mi comunica che intende ritirarsi dalla terapia, non potendo condurla adeguatamente a causa della rabbia che prova nei confronti di quest'uomo. Propone che continui io, da sola, visto che riesco a "controllarmi di più". Io rispondo che non mi sto affatto controllando, che anzi provo pena per quest'uomo, che semmai la rabbia la provo nei confronti suoi, del collega, che ritirandosi, mi lascia sola in una situazione molto difficile.
Al turbinio di emozioni provate nei confronti del padre dobbiamo quindi aggiungere quelle che accompagnano la discussione fra me e il collega.
Io  sono arrabbiata con lui perchè vuole ritirarsi dalla terapia, lui è arrabbiato con me perchè  esprimo  giudizi di inadeguatezza sulla sua reazione  emotiva.
Alla osservazione del collega:"Sa tutto lui, ha già una spiegazione per tutto, ha sempre ragione lui, è arrogante." Io oppongo le mie ragioni: "E' vero, è per questo che mi fa pena, per me questo modo di fare indica una estrema debolezza, un profondo disagio."

E' utile a questo punto fare alcune considerazioni.
Non è il comportamento oggettivo di questo uomo che scatena la rabbia o la pena, ma la valutazione che ognuno di noi due faceva del suo comportamento: l'inferenza di arroganza scatenava rabbia, l'attribuzione di debolezza scatenava pena.
Possiamo anche fare l'ipotesi che le due diverse valutazioni treassero origine da qualche recondito motivo connesso alle nostre rispettive storie o esperienze, ma questa linea di pensiero, tutta orientata come è sulle nostre storie personali, non tiene assolutamente conto della nostra relazione, in quel momento e in quel contesto, con quella coppia che ci stava aspettando nella stanza di terapia e a cui dovevamo ritornare possibilmente cambiati per poter continuare quella conversazione che in quel momento, per quello che provavamo e pensavamo, risultava  estremamente difficoltosa.
E' inoltre utile sottolineare che l'impasse non riguardava la qualità dell'emozione provata: l'emozione della pena non era più utile della emozione della rabbia. La mia pazienza e il mio fervore terapeutico non erano più efficaci del tono aggressivo o del silenzio del collega per sbloccare la situazione.
Neanche  la soluzione cognitiva si presentava come adeguata: scegliere razionalmente in base alla opportunità terapeutica se quest'uomo fosse un arrogante o un debole avrebbe comunque comportato per uno di noi negare quello che stava provando. L'interdipendenza fra cognitivo ed emotivo, è davvero interdipendenza. Voglio dire che io provavo pena perchè vedevo quest'uomo debole e siccome provavo pena non potevo che vederlo debole. Il collega provava rabbia perchè lo vedeva arrogante, ma siccome provava rabbia non poteva che vederlo irrimediabilmente arrogante. Infatti, di fronte alla mia benevola lettura del comportamento del padre, il mio collega mi faceva giustamente  notare che egli era "talmente oppositivo da non potere permettersi neanche di accettare la mia gentilezza" .  D'altra parte, era proprio questa considerazione che rafforzava in me il sentimento di pena che provavo per lui visto che, io osservavo di rimando, " è molto difficile essere sempre forti!"
Più l'autosservazione, cioè la discussione su noi stessi e su quello che provavamo, procedeva, più appariva a noi stessi chiaro  che le emozioni che ognuno di noi provava erano legate a  due diversi modi di "costruire" il padre. Ma soprattutto appariva chiaro che il modo che ognuno di noi adottava per interpretare il comportamento del padre era parziale, ognuno di noi vedeva rispettivamente  arroganza o debolezza, quindi provava rabbia o pena. Non riuscivamo cioè ad assumere un punto di vista bioculare che mettesse insieme arroganza e debolezza,  quel punto di vista che annullava sia la rabbia che la pena. Le nostre rispettive emozioni di rabbia o di pena poste fra loro in alternativa  erano l'espressione di un punto di vista dualistico che era perfettamente isomorfico a quello del padre: anch'egli come noi, o noi come lui, non riuscivamo a mettere insieme forza e debolezza nella stessa persona.
Alla fine di questo percorso di autosservazione non c'era più pena, nè rabbia, c'era invece una domanda di tipo diverso che desideravamo porre al padre: "Come fa un uomo forte a chiedere le coccole della moglie, quando ne ha voglia, senza perdere la faccia?"
La risposta a questa domanda ("io temo che mia moglie non abbia  voglia di farmi delle coccole")  ha segnato l'inizio della costruzione di un dominio finalmente condiviso.
Le domande formulate in precedenza  incominciano a trovare un primo ed embrionale tentativo di risposta. Le emozioni del terapista sono indicatori della relazione di questi col paziente in quanto costituiscono degli indicatori di come il terapista stesso partecipa attraverso i propri sistemi di valutazione alla costruzione del processo interattivo con i membri della famiglia. In questo senso le emozioni diventano uno strumento più che un oggetto dell'autosservazione, diventano cioè uno strumento per monitorare la funzione teraputica. La presa d'atto da parte del  terapista della propria esperienza emotiva, gli permette di riflettere su come egli  contribuisce a costruire la relazione coi diversi membri della famiglia.
L'autosservazione in questo senso è intesa come un osservare se stessi mentre si osserva la famiglia, é cioè intesa come riflessività.

 

 

 

Bibliografia

 

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Riassunto

L'A. conduce una riflessione sul tema relativo alle emozioni del terapista in connessione con il processo di autosservazione che caratterizza l'attività terapeutica. Il tentativo è quello di rifuggire i rischi di eclettismo e di irrazionalismo che sono a volte presenti nel dibattito dei terapista familiari sulle emozioni e di ricondurre, invece, questo importante aspetto del processo terapeutico all'ambito della discussione sul metodo terapeutico.
A questo scopo, dopo aver preso in considerazione i diversi modi attraverso cui il tema delle emozioni del terapista è stato trattato nella letteratura sistemica, l'A. propone una impostazione secondo cui le emozioni vengono ricollocate nell'interdipendenza che collega i sistemi cognitivo, affettivo e comportamentale attraverso cui si costruisce la relazione terapeutica.

 

 

Summary

The A. discusses the issue of therapists' emotions in connection with the process of self-observation which characterizes every therapeutic activity. The attempt is to avoid the risks of eclectism and irrationalism which are sometimes present in the debate about emotions.
For this purpose, the A. considers the different approaches to the topic that can be found in the systemic literature and proposes a framework according to which the therapist's emotions are analyzed in the interdependence that connects the cognitive, affective and behavioral systems through which the therapeutic relationship is constructed.

 

Le due concettualizzazioni del controtransfert trasferite all'ambito della terapia familiare dalla psicoanalisi sono oggi fortemente messe in discussione all'interno dello stesso  approccio  psicoanalitico. L'abbando di un approccio più strettamente ermeneutico in favore di una valorizzazione della relazione analitica ha infatti anche in quell'ambito portato a sollevare critiche a queste due concettualizzazioni di controtransfert. Quello  che viene messo in discussione sono le premesse implicite in queste due concettualizzazioni di controtransfert (Albarella, Donadio, 1986): a) la figura del terapista come scienziato neutrale ed oggettivo o come semplice ricettatore di emozioni altrui; b) la sottovalutazione della dimensione inter personale del rapporto analitico; c) la considerazione della relazione terapeutica come relazione solamente fantasmatica. In psicoanalisi le emozioni del terapista vengono oggi riconsiderate a partire da una definizone di relazione fra terapista e paziente, come relazione reale fra due persone specifiche che si incontrano in un tempo e spazio definito. Da questo punto di vista le emozioni del terapista sono emozioni che fanno riferimento alla relazione terapeutica.

Il Dott. Massimo Matteini che ringranzio per le riflessioni insieme condotte sul caso.

 

Fonte: http://www.in-formazione-psicologia.com/Psicobiettivoemozioni[1].doc

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