Emozioni, motivazione e personalità

Emozioni, motivazione e personalità

 

 

 

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Emozioni, motivazione e personalità

EVOLUZIONE PROGRESSIVA DELLE REGOLAZIONI EMOZIONALI E COMUNICATIVE IN PRE-ADOLESCENTI IMPEGNATI IN ATTIVITÀ DI GRUPPO
Pina Boggi Cavallo, Mauro Cozzolino, Daniel Donato, Antonio Iannaccone
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Salerno
Lo studio dei gruppi in psicologia, inaugurato da K. Lewin con una serie di ricerche ormai classiche, è andato perfezionandosi negli ultimi 50 anni con l’introduzione di metodologie particolarmente raffinate. È il caso, ad esempio, delle griglie di Bales (1950), delle reti di comunicazione di Flament (1974) della prospettiva psicosociale nell’interazione in-group e out-group (Palmonari, 1995; Petter, 1998).
La presente ricerca intende esplorare il problema classico dell’organizzazione e del funzionamento di gruppi, centrandosi, in modo specifico, sulle variazioni dei processi comunicativi e delle regolazioni emozionali in relazione alla dimensione temporale della vita di gruppo. In particolare, ricorrendo a tecniche di self-report e strumenti di osservazione delle dinamiche organizzative e comunicative, la ricerca si è posta l’obiettivo di individuare i processi di costruzione di significati (ed azioni) condivisi, anche in relazione alla progressiva modifica dei vissuti emozionali dei partecipanti alle diverse sessioni interattive.
Metodologia
Sono stati formati tre gruppi di adolescenti, impegnati nella realizzazione di una messa in scena di un breve atto di teatro dialettale. Le attività dei gruppi che si sono protratte in quattro sessioni successive, sono state completamente videoregistrate e le conversazione trascritte con l’ausilio di software specifico. Per ognuna delle sessioni è stata prevista una rilevazione dei vissuti emozionali all’inizio e alla fine della stessa.
Risultati
I risultati, ancora in corso di definitiva elaborazione, mostrano che le dinamiche di realizzazione delle attività collaborative sono in relazione con le modalità di condivisione e i vissuti emozionali dei membri del gruppo, sia nello spazio a breve termine della sessione che in quello a medio termine (inizio - fine della ricerca).
Lo studio consente di delineare un’analisi della dinamica di gruppo potenzialmente interessante e ricca di prospettive di approfondimento.
Riferimenti bibliografici
Bales R.F. (1950). Interaction Process Analysis: a Method for the Study of Small Groups, Addison-Wesley, Cambridge (Mass.)
Flament, C. (1965). Réseaux de communication et structures de groupe. Trad. it. Isedi, Milano, 1974.
Palmonari, A. (1995). Processi simbolici e dinamiche sociali, Bologna, Il Mulino.
Petter, G. (1998), Lavorare insieme nella scuola. Aspetti Psicologici della collaborazione fra insegnanti. Firenze, La Nuova Italia.
SETTING SPERIMENTALE E RISPOSTE EMOTIVE
Maria Teresa Cattaneo°, Elisa Frigerio°, Milena Peverelli°, Giorgio Annoni*
°Istituto di Psicologia, Facoltà Medica, Università di Milano
*Dipartimento di Medicina Interna, Cattedra di Geriatria, Facoltà Medica, Università di Milano
Uno dei problemi più dibattuti nell’ambito della psicologia delle emozioni è quello di suscitare risposte emozionali in laboratorio: le difficoltà incontrate riguardano soprattutto la specificità degli stimoli.
È stato approntato un piano generale di ricerca di tipo metodologico con l’obiettivo di individuare una procedura adeguata a stimolare una risposta emotigena costante e specifica. Il contesto teorico fa riferimento sia al modello di Scherer (1984), che considera le risposte emozionali come insieme complessi, dinamici, costituiti da diversi componenti organizzate gerarchicamente, sia ad approcci di tipo dimensionale (Osgood, Suci e Tannenbaum, 1957).
In una prima fase, è stato selezionato, attraverso una procedura che ha cercato di ridurre al minimo l’intervento degli sperimentatori, un set di stimoli filmici, che è stato validato su un campione di 60 soggetti (Galati, Cattaneo, Cesa-Bianchi, 1996). Lo studio prevedeva la rilevazione e l’analisi solo della componente cognitiva delle emozioni: i dati in letteratura permettono di avanzare l’ipotesi che il confronto tra più indicatori, quali la componente cognitiva, la componente espressivo-motoria (espressione facciale), la componente fisiologica (f.c., p. a., e.d.a.) possa portare ad una migliore differenziazione delle risposte emotigene. In questa fase della ricerca, si è deciso di limitare il numero degli indici considerati alle componenti cognitiva ed espressivo - motoria.
Il materiale stimolo è costituito da un set di 12 scene filmiche, organizzato in tre sequenze random, che vengono presentate al soggetto in una situazione che cerca di rispettare il più possibile le condizioni in cui il fenomeno si presenta nella realtà quotidiana. Si è cercato, infatti, di coniugare l’esigenza di controllare il maggior numero di variabili con il rispetto dei criteri che garantiscono validità ecologica all’esperimento.
Per valutare la componente cognitiva è stato utilizzato un questionario che indaga se il film è già stato visto in precedenza, e tipo ed intensità dell’emozione elicitata. La componente espressiva - motoria si rileva dalla videoregistrazione delle espressioni facciali, che verranno valutate attraverso il FACS (Ekman, Friesen, 1978). L’espressione delle emozioni ha anche una funzione comunicativa che si attiva in presenza di altre persone (Rimé, 1989): si è deciso di predisporre un piano sperimentale che comprendesse quattro diverse situazioni: soggetti da soli, con o senza sperimentatore; a coppie: con e senza sperimentatore.
Questa fase della ricerca è stata condotta su 40 soggetti. Le elaborazioni confermano nuovamente la validità del set di stimoli. Ogni scena è in grado di elicitare emozioni differenziate e di intensità variabile. Gli stimoli sembrano, inoltre, confermare le loro caratteristiche prototipiche; ogni sequenza possiede elementi strutturali e causali che le permettono di essere associata con grande facilità e frequenza ad una determinata esperienza emozionale (Fehr e Russel, 1984; Galati, 1993).
L’analisi della componente cognitiva delle risposte emotive evidenzia la difficoltà, già rilevata da altri ricercatori, di individuare degli stimoli puri, in grado cioè di evocare un’unica e specifica emozione. Questo è valido soprattutto per alcune emozioni, in particolare la rabbia, che viene indicata spesso in associazione al disgusto. Si ipotizza che il successivo confronto tra indici cognitivi ed espressivi migliori la capacità discriminativa degli stimoli.
I dati indicano come variabile critica la presenza dello sperimentatore che svolgerebbe una funzione inibitoria nei confronti della componente espressivo – motoria. Le situazioni in cui i soggetti assistono da soli alla proiezione sembrano, inoltre, differenziarsi dalle situazioni ‘in interazione’, che facilitano una maggiore espressività facciale.
Questi risultati, ancorché preliminari, confermano la validità della procedura utilizzata e incoraggiano un’ulteriore estensione della ricerca a soggetti anziani e con eventuali patologie.
Riferimenti bibliografici
Ekman P, Friesen WV, 1978. Manual for facial action coding system. Palo Alto: Consulting Psychologist Press.
Fehr B, Russell JA, 1984. Concept of emotion viewed from a prototype perspective. J Exper Psychol Gen, 113: 464-486.
Galati D, Cattaneo MT, Cesa-Bianchi G, 1996. Elaborazione di stimoli emozionali: criteri metodologici. Ikon, 32: 251-267.
Galati D. (ed), 1993. Le emozioni primarie. Torino: Boringhieri.
Osgood CE, Suci GJ, Tannenbaum PM, 1957. The measurement of meaning, Urbana: Univeristy of Illinois Press.
Rimé B, 1989. Le partage social des émotions. In: Rimé B, Scherer KR (eds), Les émotions, Neuchatel: Delachaux et Niestlé.
Scherer KR, Ekman P, 1984. Approaches to emotion. Hillsdale: Erlbaum.
L’ENTUSIASMO
Michela Checchi, Isabella Poggi
Università di Roma Tre
L’entusiasmo è un’emozione molto bella, e forse anche molto utile, ma poco studiata, con alcune rare eccezioni (Greenson, 1984; Lyotard, 1986). In questo lavoro vogliamo presentare un’analisi dell’emozione dell’entusiasmo in termini di scopi e conoscenze, e una ricerca empirica volta a verificare alcuni punti della nostra analisi.
Come sappiamo, ogni emozione è uno stato soggettivo complesso che comprende aspetti cognitivi, di vissuto interiore, fisiologici, espressivi e motivazionali (Battacchi, Renna e Suslow, 1995). Di un’emozione inoltre è possibile individuare le funzioni adattive, cioè gli scopi biologici a cui serve. Ogni emozione, infine, è attivata da una specifica classe di eventi (o antecedenti situazionali), che vengono categorizzati dall’individuo in base a una serie di elementi cognitivi, o ingredienti mentali (Castelfranchi e Poggi, 1992).
Come possiamo caratterizzare l’entusiasmo riguardo a questi diversi aspetti della "sindrome" emotiva?
Cominciamo dagli ingredienti mentali che devono essere presenti nella mente di una persona affinché possa provare entusiasmo. Noi proviamo entusiasmo quando abbiamo raggiunto, o stiamo ancora perseguendo, uno scopo per noi molto importante. L’entusiasmo appartiene infatti alla stessa famiglia della gioia, e anche la gioia si prova al raggiungimento di uno scopo per noi importante, uno scopo di alto coefficiente di valore. Tuttavia, l’entusiasmo è una gioia di tipo ben particolare: da un lato, certo, perché la gioia la sentiamo in genere quando lo scopo è effettivamente raggiunto, mentre l’entusiasmo si può provare anche mentre lo stiamo perseguendo; ma inoltre, probabilmente, fra gli scopi che ci provocano gioia, solo alcuni ci possono far provare entusiasmo: dobbiamo dunque individuare le specificità qualitative di questi scopi.
Secondo la nostra ipotesi, gli scopi il cui raggiungimento (o anche solo il perseguimento) ci fa provare entusiasmo sono particolarmente gli scopi del piacere estetico (possiamo entusiasmarci alla vista di un bel quadro o di un bel paesaggio, o al sentire un’esecuzione magistrale di una musica che amiamo) e gli scopi dell’autostima (ci entusiasma far bene qualcosa a cui teniamo molto); e all’interno di questi ultimi spesso ci fanno provare entusiasmo gli scopi morali (pensare di aver svolto o di stare svolgendo un’azione, magari faticosa ma socialmente utile, altruistica, importante per il bene degli altri).
Un altro elemento rilevante nell’entusiasmo sembra essere la consapevolezza che quello scopo particolarmente importante lo raggiungiamo o lo stiamo perseguendo insieme ad altri: vi è, in altre parole, una forte tendenza alla socialità nell’entusiasmo: se siamo insieme ad altri, nel godere di uno scopo raggiunto, ci entusiasmiamo molto di più.
Venendo agli aspetti fisiologici ed espressivi dell’entusiasmo, anche da questo punto di vista tale emozione condivide molte caratteristiche della gioia; ma gli aspetti espressivi dell’entusiasmo appaiono ancor più marcati: occhi che brillano, voglia di muoversi, di saltare, di abbracciare gli altri ecc..
Dal punto di vista motivazionale, cioè degli scopi attivati dall’emozione, l’entusiasmo ci dà tanta voglia di fare, o aumenta la voglia di continuare a fare ciò che stiamo facendo.
Qual è dunque la funzione adattiva dell’entusiasmo?
A nostro avviso, la grande energia attivata da questa emozione serve a permetterci di perseguire con maggiore costanza e determinazione proprio gli scopi visti sopra: scopi estetici, morali e dell’autostima. E questo si spiega a nostro avviso con l’importanza che tali scopi hanno per la sopravvivenza e il benessere dell’individuo.
Queste sono le ipotesi che avanziamo sulla natura dell’entusiasmo, a partire da un’analisi concettuale di questa emozione, così come la si deduce dal modello teorico qui adottato. Per sottoporre a verifica queste ipotesi, abbiamo somministrato, a 120 studenti universitari, un questionario con domande aperte e a scelta multipla, i cui risultati saranno esposti durante l’intervento.
Riferimenti bibliografici
Battacchi W., Renna M., Suslow T. (1995): Emozioni e linguaggio. Carocci, Roma.
Castelfranchi C. e Poggi I. (1992): "Gli ingredienti delle emozioni". Comunicazione al XI Congresso SIPS, Cagliari, 23-25 settembre 1992.
Greenson R.R. (1984): Esplorazioni psicoanalitiche. Boringhieri, Torino 1984.
Lyotard, J.F. (1986): L’enthousiasme. Editions Galilee, Paris.
STUDIO STORICO SUL COMPORTAMENTO DI INCLINAZIONE LATERALE DELLA TESTA NELLE ARTI FIGURATIVE
Marco Costa
Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna
Introduzione
Il comportamento di inclinazione laterale della testa consiste in un piegamento angolare del capo rispetto all’asse di congiunzione delle spalle. Esso è stato interpretato come gesto di sottomissione (Key, 1975), diminuendo l’altezza complessiva del corpo, come esempio di differenziazione dello status sociale (Ragan, 1982), come domanda di protezione (Morris, 1977) e come modo per comunicare amicizia e disponibilità al contatto sociale (Halberstad e Saitta, 1987).
Scopo della presente ricerca è stato quello di studiare come questo comportamento sia stato utilizzato da pittori di diverse epoche storiche nelle rappresentazioni di figure umane in funzione dei seguenti parametri: a) Genere: figure maschili vs. figure femminili; b) Lato di inclinazione: destra, sinistro o dritto; c) Età del soggetto rappresentato: bambino, giovane, adulto o vecchio; d) Status: religioso (cristo, madonna, santo, angelo, personaggio biblico, religioso), personaggio mitologico, nobile (re, regina, principe, nobile), artista (pittore, musicista, scrittore, ballerino, cantante, buffone, poeta) e professionista (militare, umanista, mercante, archeologo, studioso, filosofo, medico e altri personaggi ben caratterizzati da una professione specifica); e) Contesto: soggetto in posa vs. rappresentazione naturalistica; f) Direzione dello sguardo: occhi puntati sull’osservatore vs. occhi puntati in altra direzione.
Metodo
Dalle opere omnie dei 10 autori studiati sono state esaminate tutte le figure umane che rispettassero i seguenti criteri di inclusione: a) meno di 10 personaggi nello stesso quadro; b) testa non rappresentata di profilo, da dietro, inclinata in avanti o dietro; c) corpo non coricato o sdraiato. Di seguito è riportato l’elenco degli autori in ordine cronologico di nascita, con indicato il numero di figure esaminate: Simone Martini (1284 - 1344): 126; Hubert Van Eyck (m 1426) e Jan Van Eyck (m 1441): 162; Hans Holbein il Giovane (1497/98 - 1560): 147; Ludovico Carracci (1555 - 1619), Annibale Carracci (1560 -1609) e Agostino Carracci (1557 -1602): 235; Velazquez (1599 -1660): 111; Rembrandt (1606 - 1669): 282; Edgar Degas (1834 - 1917): 122; Cézanne (1839 - 1906): 184; Gustav Klimt (1862 - 1918): 76; Amedeo Modigliani (1884 - 1920): 330. Il totale delle figure esaminate è stato di 1775. Gli autori sono stati scelti tenendo conto di due fattori: la loro rappresentatività rispetto ad un certo periodo artistico e la focalizzazione sulla figura umana con preponderante produzione di ritratti o rappresentazioni con un numero limitato di figure per quadro. Per ciascuna figura esaminata, la posizione angolare del capo è stata determinata calcolando l’ampiezza dell’angolo formato dalla retta congiungente il nasion (punto di innesto del naso fra le arcate ciliari) con il punto mediano delle labbra e la retta perpendicolare all’asse di congiunzione delle spalle.
Risultati
Le analisi condotte su tutte le figure complessive hanno evidenziato i seguenti risultati: a) l’inclinazione della testa è significativamente più accentuata nei soggetti femminili (media 12,9°) rispetto a quelli maschili (7,2°): F(1, 1496) = 50,3, p < .001; b) l’inclinazione verso sinistra (guardando il volto) è significativamente più probabile rispetto a quella a destra e quando è a sinistra è maggiore (20,2°) rispetto a quando è a destra (17,5°): F(2, 1495) = 750,5, p < .001; c) riguardo all’età dei soggetti è risultato che i bambini vengono dipinti con maggior inclinazione (11,2°) rispetto a giovani ed adulti (8,8°) mentre i vecchi tendono ad essere rappresentati con una minor inclinazione (4,1°); d) lo status sociale si è rivelato una variabile molto importante, le analisi hanno infatti messo in luce un primato dell’inclinazione per soggetti inerenti la religione (18,3°) e la mitologia (18,7°) mentre è risultata scarsa nella rappresentazione di artisti (3,9°) e professionisti (4,7°) e quasi del tutto assente nelle raffigurazioni di nobili (1,8°): F(4, 1003) = 117,4, p < .001; e) l’inclinazione della testa è maggiore quando il soggetto è rappresentato in un contesto naturalistico (17,5°) rispetto a quando è dipinto in atteggiamento di posa (4,3°): F(1, 1217) = 45,7, p < .001; f) l’inclinazione della testa non è stata utilizzata in egual misura dai vari autori ma in particolare da quelli che hanno centrato la loro produzione su soggetti sacri e mitologici come Carracci (20,9°), Martini (13°) e van Eyck (17,3°), autori che hanno operato fino al XVI secolo. Nei pittori successivi come Rembrandt (3,1°) e Velazquez (5,9°) risulta fortemente diminuito essendo prevalentemente ritrattisti di nobili e professionisti mentre in autori moderni come Cezanne (9.8°) e Modigliani (9,8°) ritorna ad essere fortemente utilizzato come strumento espressivo raggiungendo l’apice in Klimt (15,04°) dove in alcuni volti si superano gli 80° di inclinazione, ben al di là dei limiti fisiologici di possibile inclinazione della testa. Effetto principale per autore: F(9, 1488) = 35,5, p < .001.
Discussione
La frequenza del comportamento di inclinazione della testa negli autori considerati, tenendo conto di tutte le figure esaminate è risultata del 49%. Una percentuale molto alta che supera la frequenza del 38,4% indicata da Halberstadt e Saitta (1987) per persone in contesti naturalistici. Tale elevata frequenza e le forti significatività dimostrano quanto diffusamente l’inclinazione della testa sia stata adottata dai pittori come strumento espressivo. La diffusione dell’inclinazione della testa nell’arte sacra laddove il tema principale era quello della devozione, della sottomissione alla divinità, la sua assenza nei ritratti su commissione nei quali l’artista era chiamato ad esaltare l’immagine di potere e di ricchezza del committente nobile o professionista e la maggior frequenza nei bambini e nei soggetti di sesso femminile dotati nei secoli passati di uno status sociale inferiore rispetto ai soggetti maschili portano sostegno ai dati precedenti della letteratura che vedono nella presenza di questo comportamento una espressione di sottomissione e di disponibilità al contatto sociale e nella sua assenza una espressione di potere e di dominanza.
Riferimenti bibliografici
Halberstadt, A.G. e Saitta, M.B. (1987). Gender, nonverbal behavior, and perceived dominance: A test of the Theory. Journal of Personality and Social Psychology, 53, 257-272.
Key, M.R. (1975). Male/female language. Metuchen, NJ: Scarecrow Press.
Morris, D. (1977). Manwatching: A field guide to human behavior. New York: Abrams.
Ragan, J.M. (1982). Gender display in portrait photographs. Sex Roles, 8, 33-43.
DETERMINANTI COGNITIVE DELLA CONDIVISIONE SOCIALE DELLE EMOZIONI
Antonietta Curci*, Bernard Rimé**
* Dottorato di Ricerca in Psicologia della Comunicazione, Dipartimento di Psicologia Università degli studi di Bari
** Unité de Psychologie Clinique et Sociale, Département de Psychologie Université Catholique de Louvain (Louvain-la-Neuve, Belgique)
La condivisione sociale è un effetto normale dell’esperienza emozionale. Consiste nella rievocazione dell’episodio emozionale da parte dell’individuo che l’ha vissuto, in presenza di un altro soggetto, attraverso il linguaggio scritto o orale o altre forme espressive (Rimé, 1997; Rimé & al. 1992). Secondo la letteratura sull’argomento, l’emozione è un’esperienza che necessita di articolazione cognitiva. Il linguaggio e la comunicazione contribuiscono alla sistemazione del materiale emozionale in conformità alle regole ordinarie del pensiero logico (Rimé & al., 1997). Accanto alla condivisione, un’altra modalità di sistemazione dell’esperienza emozionale è la ruminazione mentale (Tait & Silver, 1989).
Scopo del presente lavoro è lo studio delle determinanti di base della condivisione dell’emozione. Dal momento che la condivisione obbedisce a particolari esigenze del sistema cognitivo, le stesse determinanti cognitive (appraisal) dell’emozione potrebbero rientrare tra gli antecedenti della condivisione. Le determinanti cognitive potrebbero, inoltre, influire sulla ruminazione mentale.
Allo scopo di testare queste ipotesi a 144 studenti dell’Université Catholique de Louvain (Belgio) e a 200 studenti dell’Università di Bari è stato proposto un questionario volto ad indagare la relazione tra appraisal, intensità emozionale, condivisione e ruminazione mentale. Nella prima sezione, veniva chiesto agli intervistati di rievocare una recente esperienza di paura, collera o tristezza. I soggetti erano casualmente assegnati ad una delle tre condizioni. Nella seconda sezione gli intervistati completavano una serie di scale sull’intensità dell’emozione, sulle dimensioni di appraisal (valenza, inaspettatezza, certezza, familiarità, importanza, controllabilità, azione, causalità, valutazione morale, autovalutazione) (Frijda, 1987; Frijda & al., 1989; Smith & Ellsworth, 1985) e sulla distintività dell’esperienza. La terza sezione conteneva scale di condivisione e ruminazione dell’esperienza.
I dati raccolti sono stati sottoposti ad analisi strutturale secondo un modello di path analysis (Jöreskog & Sörbom, 1996). Il modello ipotizzato prevedeva che le dimensioni di appraisal avessero influenza diretta sull’intensità dell’emozione e sulla condivisione e ruminazione dell’esperienza. L’intensità emozionale avrebbe dovuto influenzare direttamente la condivisione e la ruminazione. I risultati confermano parzialmente l’ipotesi in quanto le dimensioni di appraisal si connettono in modo non uniforme all’intensità dell’emozione, alla condivisione e alla ruminazione. Per di più, il modello esclude la relazione causale diretta tra emozione e condivisione-ruminazione. In sostanza, gli antecedenti cognitivi dell’emozione rendono ragione della condivisione e ruminazione, escludendo l’impatto diretto dell’intensità dell’emozione. In questo senso, la sistemazione dell’esperienza emozionale opera come prosecuzione del processo di valutazione cognitiva che precede l’emozione.
La presente ricerca opera su materiale rievocato e le misure di appraisal sentono gli effetti delle operazioni ricostruttive della memoria. Successive linee di ricerca possono concentrarsi sulla relazione tra emozione, appraisal e condivisione in contesti naturali, non basandosi su esperienze di rievocazione.
Riferimenti bibliografici
Frijda, N.H. (1987). Emotion, Cognitive Structure, and Action Tendency. Cognition and Emotion, 1 (2), 115-143.
Frijda, N.H., Kuipers, P. & ter Schure, L. (1989). Relations among emotion, appraisal and action tendency. Journal of Personality and Social Psychology, 57, 212-228.
Jöreskog, K. & Sörbom, D. (1996). LISREL 8: User’s Reference Guide. Chicago: Scientific Software International, Inc.
Rimé, B. (1997). Emotion et cognition. In J.P. Leyens & J.L. Beauvois (Eds.), L’ère de la cognition. Grenoble: Presses Universitaires de Grenoble, 107-125.
Rimé, B., Finkenauer, C., Luminet, O., Zech, E. & Philippot, P. (1997). Social Sharing of Emotion: New Evidence and New Questions. In W. Stroebe & M. Hewstone (Eds.), European Review of Social Psychology, 7, Chilchester: Wiley.
Rimé, B., Philippot, P., Boca, S. & Mesquita, B. (1992). Long-lasting Cognitive and Social Consequences of Emotion: Social Sharing and Rumination. In W. Stroebe & M. Hewstone (Eds.), European Review of Social Psychology, 3, Chilchester: Wiley, 225-258.
Smith, M.B. & Ellsworth, P.C. (1985). Pattern of cognitive appraisal in emotion. Journal of Personality and Social Psychology, 48, 813-838.
Tait, R. & Silver, R.C. (1989). Coming to terms with major negative life events. In J.S. Uleman & J.A. Bargh (Eds.). Unintended thought. New York: Guilford Press, 351-381.
MODELLI DI PERSONALITÀ A CONFRONTO MEDIANTE TECNICHE DI GENETICA COMPORTAMENTALE
Carlamaria Del Miglio, Sabina D’Amato
Dipartimento di Psicologia, Università di Roma "La Sapienza"
Introduzione
Nel campo della psicologia moderna, la genetica del comportamento si occupa di indagare gli effetti dei geni sul comportamento nelle sue diverse manifestazioni. Nell’ambito della psicologia della personalità si ritiene (Loehlin et al. 1994) che le differenze individuali possono essere attribuite a due componenti: genetiche (Zuckerman M., 1991) e ambientali, che risultano strettamente interrelate. Lavori condotti da diversi autori (Cattell, 1982; Loehlin, 1992; Eaves, et al.,1989), sono giunti alla conclusione che l’effetto che i geni esercitano sulle differenze individuali nella personalità può essere stimato attraverso i questionari self-report. Lo scopo di questo studio consiste nel confrontare diversi modelli di personalità utilizzando il metodo del confronto controllato tra gemelli (o metodo gemellare). I modelli considerati sono: Modello dei Big Five di Costa & McCrea, Modello dei Big Five proposto da Zuckerman, Modello PEN proposto da Eysenck.
Metodo
Il campione analizzato è composto da 40 coppie gemellari (MZ e DZ) di età media 35 anni. Ai soggetti sono stati somministrati tre questionari di personalità: BFQ, ZPQ, EPQ. Per analizzare i dati sono stati utilizzati indici di ereditabilità in accordo con i modelli biometrici proposti dai genetisti comportamentali (Loehlin et al., 1988, Plomin et al., 1991) con lo scopo di stimare il peso dei fattori genetici.
Risultati
I risultati di maggior rilievo ottenuti da questo studio preliminare sono tendenzialmente in accordo con quelli emersi in cinque importanti studi condotti sui gemelli, dal 1976 al 1989, in diverse popolazioni (USA, Gran Bretagna, Svezia, Australia, Finlandia). In particolare si evidenziano coefficienti di somiglianza più elevati nelle coppie di soggetti Mz. Il carattere preliminare di questo lavoro è determinato dal fatto che si inserisce in una linea di ricerca del tutto innovativa in Italia, mirata alla comprensione della trasmissione e del mantenimento dei tratti di personalità negli individui.
Conclusioni
Sebbene l’idea che i tratti di personalità possano essere in qualche modo ereditabili non sia da tutti condivisa, oggi l’aumentare delle conoscenze sul funzionamento del cervello in relazione tanto alle malattie mentali, quanto alle abilità cognitive, sta determinando la diminuzione di questo scetticismo.
Riferimenti bibliografici
Del Miglio C. (1995). Il Sé gemellare. Roma: Borla.
Loehlin J. C. (1992). Genes and environment in personality devlopment. Newbury Park, CA: SAGE Publications.
Plomin R. & Bergerman, C.S. (1991). The nature of nurture: Genetic influence on "enviromental" measures. Behavioral and Brain Science, 14, 373-427.
Plomin R., DeFries J., McClearn G., Rutter M., (1997) Behavioral Genetics. New York: Freeman.
Zuckerman M. (1991). Psychobiology of personality. Cambridge: Cambridge University Press.
EMOZIONI, PROCESSI COGNITIVI E MOTIVAZIONI ATTRIBUITE, NELLA FRUIZIONE DI RACCONTI ILLUSTRATI
Anna Maria Giannini, Paolo Bonaiuto, Martina D’Ercole
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Roma "La Sapienza"
Introduzione
Esaminando numerose sequenze di racconti letterari, racconti a fumetti, filmati, appartenenti ai generi contrapposti "giallo" e "horror", fu possibile in passato individuare la maggior frequenza di immagini visive (sia percepibili direttamente, sia evocate tramite il racconto verbale) improntate ai noti processi del completamento amodale nel genere "giallo"; o della contraddizione (paradossi, incongruenze) nel caso dell’ "horror" (Bonaiuto, 1983). Anche processi emotivi e motivazionali pertinenti ai due opposti generi narrativi risultarono in quell’indagine ben differenziati e consonanti coi processi cognitivi con cui di volta in volta si articolavano. Il genere "giallo" fu colto far leva soprattutto su istanze alla soluzione di problemi di tipo convergente, sul piacere di scoprire schemi già esistenti, di architettare e produrre insiemi organizzati a partire da pochi elementi, di controllare, di riparare e ripristinare forme di integrità dopo esperienze disgregative e aggressive. Tali operazioni presuppongono appunto il completamento come procedimento cognitivo interessante per il fruitore specificamente motivato (conoscenza ordinata, costruzione, socialità, affermazione rispettosa di schemi). All’opposto, il genere "horror" fa leva su istanze alla sfida, alla dissonanza, al sovvertimento di schemi comunemente accettati; cioè al conflitto: oggetto-meta di istanze quali l’aggressione, la conoscenza esplorativa, i bisogni di tensione emotiva, l’affermazione attraverso l’indipendenza. Riflettendo su quella prima indagine e su altre affini, ci è parso che un panorama non meno produttivo e denso di informazioni sulle relazioni fra processi emotivi e cognitivi proposti al fruitore, fosse reperibile esaminando i racconti illustrati del genere fiabesco. In questa direzione si è mossa una complessa ricerca promossa presso gli insegnamenti di Psicologia generale e di Psicologia dell’arte e della letteratura nella nostra Facoltà di Psicologia.
Metodo
Sono state esaminate 100 fiabe illustrate a colori, edite in Italia negli ultimi trent’anni. Per ciascuna si sono evidenziate tre illustrazioni caratterizzanti: una di apertura, una centrale e una conclusiva. Ogni immagine, vagliata da tre esaminatori esperti (individualmente e poi in concorso fra loro) ha dato luogo a una scheda che compendia: a) le qualità emotive dominanti, con riferimento ad una gamma d’un centinaio di differenti emozioni: allegria, tristezza, serenità, rabbia, amore, odio, ammirazione, disgusto, ecc. (Giannini, 1997); b) i principali processi cognitivi proposti: completamento, contraddizione, risalto, mascheramento, coesione, segregazione, contrasto, assimilazione, regolarizzazione prospettica, aspetti del movimento, aspetti del colore, attribuzioni causali, ecc. (Bonaiuto, 1983; Bartoli, Giannini, Bonaiuto, 1996); c) le motivazioni attribuibili ai personaggi, e quindi proposte anch’esse al fruitore in chiave di identificazione o contrapposizione: socialità, sessualità, aggressione, affermazione, esigenze nutrizionali, bisogni di tensione emotiva, esigenze di movimento, di costruzione, di conoscenza variata (curiosità) o di ordine e congruenza cognitiva (Bonaiuto, 1967); d) i principali temi e significati rappresentati: conflitto, superamento di ostacoli, magia, rivalità, solidarietà, violenza, vendetta, obbedienza, ribellione, cura, maltrattamento, dipendenza, autonomia, astuzia, inventiva, ricerca di identità, accordo, ecc. (Propp, 1966; Bettelheim, 1976). Sono state così allestite 300 schede complete, per gli opportuni rilievi statistici.
Risultati, discussione, prospettive
Calcolando distribuzioni di frequenza e correlazioni fra i diversi item si individuano varie strategie di comunicazione e relazioni cariche di significato psicologico. I principali temi si accompagnano in modo congruente a proposte formali allestite favorendo tonalità emotive e attribuzioni motivazionali consonanti (e non altre); nonché processi cognitivi atti a veicolarle ed esprimerle. Ad esempio, temi di conflitto interpersonale, violenza e maleficio si accompagnano a tonalità emotive di attività, minaccia, ostilità, rabbia, angoscia, a loro volta veicolate da forme angolate, asperità, colorazioni "allarmanti" (viola, verde oliva, grigio, nero...) e dai processi visivi del contrasto e del risalto. Temi di amore, pacificazione, accordo nella coppia o nel gruppo, vengono proposti con tonalità emotive di serenità, quiete, tenerezza, gioia, fiducia, veicolate da forme tondeggianti e colorazioni "rasserenanti" (rosa, pastello, ecc.), in concomitanza con la coesione e l’assimilazione. L’indagine ha pure confermato e ampliato relazioni già colte per altra via, quali i nessi profondi fra processi cognitivi del completamento amodale e oggetti-meta di specifiche esigenze, che implicano vissuti iniziali di insufficienza e incompletezza del sé (sessualità, nutrizione, socialità); oppure fra contraddizione (incongruità) e motivazioni basate sul conflitto. Le immagini di apertura, descrittive, e di chiusura, risolutive, si differenziano fra loro e ancor più dalle immagini centrali, riferite sovente a conflitti aperti e fortemente dipendenti dai temi principali del racconto. Fra le prospettive di sviluppo emergono le analisi delle preferenze in funzione di esigenze dominanti nel fruitore e quindi del suo assetto motivazionale: su cui influiscono fattori culturali, stili educativi, fasi di sviluppo attraversate.
Riferimenti bibliografici
Bartoli, G., Giannini, A. M., Bonaiuto, P. (1996). Funzioni della percezione nell’ambito del museo. Firenze: La Nuova Italia.
Bettelheim, B. (1976). The uses of enchantment. The meaning and importance of fairy tales. New York: Knopf.
Bonaiuto, P. (1967). Le motivazioni dell’attività nell’età evolutiva. Milano: C.M.S.R. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, A. M. Giannini, V. Biasi (a cura di), Motivazioni umane, processi cognitivi, emozioni, personalità. Vol. 2 (pp. 15-99). Roma: Ed. Psicologia, 1994.
Bonaiuto, P. (1983). Processi cognitivi e significati nelle arti visive. Relazione al Convegno Nazionale "Linguaggi visivi, Storia dell’Arte, Psicologia della percezione", Roma. Pubbl. anche in P. Bonaiuto, G. Bartoli, A. M. Giannini (a cura di), Contributi di psicologia dell’arte e dell’esperienza estetica. Vol. 1 (pp. 39-84). Roma: Ed. Psicologia, 1994.
Giannini, A. M. (1997). Emozioni, motivi, interessi. In: C. M. Del Miglio (a cura di), Manuale di psicologia generale (pp. 225-266). Roma: Borla.
Propp, V. (1966). Morfologia della fiaba. Torino: Einaudi.
PERCHÉ CONDIVIDERE EMOZIONI? VERSO UN MODELLO PREDITTIVO
Emanuela Greci, Isabella Poggi
Università di Roma Tre
La letteratura recente sulle emozioni si è spesso concentrata sulla cosiddetta "condivisione delle emozioni": ci si è chiesto a chi si raccontano le proprie emozioni, quali si condividono più spesso, quali funzioni possa svolgere la condivisione, e se esistano differenze individuali nella scelta di condividere o meno. (Ricci Bitti, 1998; Bellelli, 1995). Ma il tema della condivisione s’intreccia con diversi tipi di ricerche, come la differenza fra internalizzatori ed esternalizzatori, o addirittura il dibattito sulla teoria della catarsi, sulla questione se esprimere le emozioni le faccia "raffreddare" o meno.
In questo lavoro proponiamo un’analisi concettuale del concetto di condivisione e illustriamo una ricerca empirica mirante a individuare gli scopi per cui si condividono le emozioni.
Innanzitutto, ci sembra importante osservare che l’espressione condividere un’emozione può avere in italiano almeno due significati diversi. Da un lato, può significare solo che uno vuole raccontare a un’altra persona un’emozione provata e l’evento che l’ha causata: tornando a casa dopo una litigata in ufficio posso raccontare ai miei familiari che mi sono molto arrabbiata col capufficio e perché. Ma in certi casi, condividere un’emozione vuol dire non solo che voglio far conoscere all’altro l’emozione che ho provato, ma voglio che un poco la provi anche lui; come quando alla fermata dell’autobus esprimo la mia indignazione per i ritardi e le inefficienze della rete filotranviaria, per suscitare negli astanti la mia stessa indignazione. Inoltre, la condivisione può avvenire in situazioni diverse, a maggiore o minore distanza di tempo, con persone diverse e per scopi diversi, a seconda che si condivida un’emozione positiva o negativa. Infine, l’espressione condividere in certi casi non sembra appropriata per riferirsi a ciò che le persone fanno quando esprimono in maniera non verbale, ma anche verbale, una propria emozione. Talvolta raccontiamo una nostra emozione non tanto per "condividerla", metterla in comune, per farla conoscere o addirittura provare all’altro, quanto, semplicemente, per "sfogarci". È necessario, in altre parole, distinguere i casi in cui lo scopo per cui raccontiamo o esprimiamo una nostra emozione menziona un’altra persona, e quelli in cui invece il nostro scopo è solo "buttar fuori", liberarci, sollevarci almeno in parte da quello sconvolgimento fisiologico e psicologico in cui un’emozione consiste.
Per chiarire le diverse letture del concetto di condivisione, che potranno essere rappresentate come significati almeno in parte diversi di questa parola, ci può aiutare un’indagine sugli scopi del condividere. Una persona quando condivide una propria emozione può avere scopi diversi: può voler essere consolata, voler ricevere aiuto o consiglio, può cercare empatia o volere dall’altro un’oggettivazione, un rispecchiamento o una rassicurazione sull’emozione provata; a meno che non lo faccia semplicemente, come nei casi accennati, solo per "sfogarsi".
Per indagare sugli scopi della condivisione di emozioni abbiamo condotto una ricerca: prima attraverso interviste strutturate e poi attraverso un questionario, abbiamo chiesto a due diversi campioni di soggetti in quali casi hanno raccontato ad altri una loro emozione piacevole o spiacevole, a chi e perché l’hanno raccontata, come si aspettavano che l’altro reagisse, come in realtà ha reagito, e qual è stato l’effetto che ha avuto su loro stessi questo atto di condivisione. I risultati della ricerca saranno presentati durante l’intervento.
Sulla base di questi verrà proposto un modello predittivo della condivisione delle emozioni. Quando, con chi e perché decidiamo di condividere una nostra emozione? Il potenziale Mittente di un messaggio comunicativo "decide" (a livelli diversi di consapevolezza) se comunicare una propria emozione, a chi comunicarla e come, sulla base di un modello del contesto che egli si rappresenta nella propria mente (Poggi e Pelachaud, 1998). Questo modello comprende da un lato la rappresentazione della propria mente, in particolare dei propri scopi cui può servire il comunicare l’emozione, dall’altro la rappresentazione della mente del Destinatario, dei suoi possibili scopi e della sua personalità, e infine la rappresentazione dei rapporti (affettivi e di potere) fra Mittente e Destinatario.
Riferimenti bibliografici
Bellelli G. (a cura di): Sapere e sentire. Liguori, Napoli 1995.
Poggi I. e Pelachaud C. (1998): "Performative faces". Speech Communication 26, pp.5-21.
Ricci Bitti P.E. (a cura di): Regolazione delle emozioni e arti-terapie. Carocci, Roma 1998.
NARRAZIONE DI EPISODI EMOZIONALI IN ADOLESCENZA
Olimpia Matarazzo, Dario Bacchini
Corso di Laurea in Psicologia, Seconda Università degli studi di Napoli
Introduzione
Alcuni degli studi che hanno indagato le teorie ingenue delle emozioni a partire dalle narrazioni delle esperienze emozionali hanno mostrato che esse possono essere concettualizzate come script (Conway e Bekerian, 1987; Fisher, 1991; Shaver et al.,1987) comprendenti sequenze di eventi tipici e con contenuti specifici per ogni emozione. Da tali ricerche si evince una sostanziale convergenza tra quelle teorie scientifiche che sostengono la dimensione processuale delle emozioni e il senso comune, anche se la metodologia adottata, in cui veniva richiesto di rispondere a domande più o meno dettagliate su vari aspetti dell’esperienza emozionale, non consente di stabilire se narrazioni spontanee si organizzino effettivamente in termini di script e, in caso affermativo, quali componenti essi contemplino e se presentino caratteristiche formali analoghe per tutte le emozioni.
Il lavoro che presentiamo, e che è parte di una più ampia ricerca sulla competenza emotiva in adolescenza (Matarazzo e Bacchini, 1997, 1999), mira ad affrontare queste questioni attraverso un’indagine sulle narrazioni di episodi emozionali effettuate da adolescenti. Nello specifico, ci proponiamo di mettere alla prova l’ipotesi secondo cui la struttura delle narrazioni, pur potendo essere rappresentata in termini di script, vari non solo qualitativamente ma anche formalmente a seconda delle emozioni descritte e del livello di competenza emotiva dei soggetti, vale a dire che riteniamo che le componenti in cui può essere articolato il processo emozionale siano presenti in modo non equanime e assumano una rilevanza diversa in funzione delle due variabili considerate.
Metodo
A 275 soggetti di età compresa fra i 12 e i 20 anni, frequentanti il terzo anno di scuola media, il secondo e il quinto anno di scuola superiore, equidistribuiti rispetto al sesso, è stato chiesto di indicare le emozioni provate più frequentemente nell’ultimo anno e di descrivere per tre di esse, indicandone il nome, un episodio in cui erano state sperimentate Nessuna ulteriore specificazione veniva richiesta nella consegna al fine di lasciare emergere il modo in cui i soggetti organizzavano spontaneamente la narrazione degli episodi emozionali.
Le descrizioni così raccolte sono state analizzate in relazione alle diverse componenti dell’esperienza emotiva: condizioni elicitanti, vissuto fenomenologico, reazioni fisiologiche, manifestazioni espressive e comportamentali, durata, eventuali modalità di autoregolazione e di coping, conseguenze sulle azioni future.
Risultati
Sono stati raccolti 781 episodi (un soggetto non ha descritto alcun episodio, 264 ne hanno descritti due e 243 hanno rispettato pienamente la consegna): di questi, 91 erano stati etichettati o con termini non emozionali (es. cambiato, testardo) o con l’indicazione delle situazioni elicitanti (es. partita di calcio, primo bacio, ingiustizia); 64 riportavano nel titolo due emozioni e 15 tre. Tale scelta rifletteva nella maggior parte dei casi una concomitanza di stati emozionali innescati dall’episodio mentre in altri indicava piuttosto il susseguirsi di emozioni in funzione dello sviluppo degli eventi.
Gli episodi descritti più frequentemente, e che vengono analizzati in questa sede, si riferiscono alle seguenti emozioni, citate sia da sole che insieme ad altre: felicità (66 episodi), amore (62), paura (50), gioia (34), tristezza (32), solitudine (28), rabbia (27). È da notare che tali emozioni, anche se non rigorosamente nello stesso ordine, sono quelle che avevano fatto registrare le più elevate frequenze alla richiesta di indicare le emozioni provate più spesso nell’ultimo anno.
Nell’analizzare gli episodi si è proceduto dapprima a registrare quali componenti del processo emozionale venivano descritte in ognuno di essi e si è poi passati a classificare i resoconti mediante una procedura di progressiva astrazione del contenuto, analoga a quella messa a punto da Boucher (1983). Sono state pertanto costruite, per ogni componente del processo emozionale, apposite categorie di codifica in grado di sussumere la varietà delle descrizioni individuali anche se nelle analisi successive sono state eliminate, secondo la procedura seguita da Shaver et al. (1987), quelle idiosincratiche.
I dati così sistematizzati sono stati sottoposti alle seguenti elaborazioni statistiche: 1) analisi log-lineare per individuare se la scelta delle emozioni di cui si erano descritti gli episodi variava in funzione dell’età e del sesso dei soggetti; 2) analisi delle corrispondenze basata sul computo delle componenti presenti o assenti nei resoconti relativi a ciascuna delle sette emozioni per accertare se si delineavano profili emozionali formalmente diversi a seconda della predominanza di specifiche componenti in ognuna di esse; 3) analisi della varianza (classe x sesso) per valutare se in funzione dell’età e del sesso dei soggetti variava il numero delle componenti presenti nelle descrizioni; 4) analisi delle corrispondenze basata sulla distribuzione delle categorie di codifica di ciascuna componente, e considerando le 7 emozioni come variabili supplementari, per individuare se i profili emozionali erano sufficientemente discriminati qualitativamente.
I risultati hanno messo in luce che le emozioni descritte variavano sia in base al numero delle componenti utilizzate nella descrizione degli episodi ad esse relativi, sia in base alle caratteristiche qualitative delle stesse componenti. Le descrizioni delle femmine sono risultate tendenzialmente più ricche di quelle dei maschi mentre non è stata riscontrata una relazione lineare tra età e numero delle componenti utilizzate nei resoconti.
Riferimenti bibliografici
Boucher, J. (1983). Antecedents to emotions across cultures. In S.H. Irvine, J.W.Berry (Eds.), Human Assessment and cultural factors. New York: Plenum Press, pp.407-420.
Conway, M.A. e Bekerian, D.A. (1987). Situational knowledge and emotions. Cognition and Emotion, 1, 2, 145-191.
Fisher, A. (1991). Emotion scripts. A study of social and cognitive facets of emotions. Leiden: DSWO-Press.
Matarazzo, O. e Bacchini, D. (1997). Comunicare e descrivere le proprie emozioni: studio sulla competenza emotiva in adolescenza. Comunicazione presentata al Congresso nazionale della Sezione di psicologia sperimentale dell’A.I.P., Capri 22-24 settembre.
Matarazzo, O. e Bacchini, D. (1999). Denominare e valutare le proprie emozioni in adolescenza. Psicologia e Società, XXV (XLVI), 59-87.
Shaver, P., Schwartz, J., Kirson, D. e ÒConnor, C. (1987). Emotion knowledge: further exploration of a prototype approach. Journal of Personality and Social Psychology, 52, 6, 1061-1086.
APERTURA MENTALE E STRATEGIE COGNITIVE NEL PROBLEM SOLVING QUOTIDIANO
Silvana Miceli, Raffaella Misuraca, Daniela Donato, Maurizio Cardaci
Università degli Studi di Palermo
Introduzione
All’interno del modello dei "Big Five" (Caprara e Perugini, 1991a; Digman, 1990; John, 1990; McCrae e Costa, 1992), l’Apertura Mentale appare il fattore più controverso e di difficile definizione. Le ragioni di ciò sono riconducibili all’esiguo numero di ricerche specifiche, nonché ai dubbi sollevati da numerosi autori (p.e. Cattell, 1943; Eysenck, 1947; Guilford, 1959), circa la possibilità di considerare l’intelligenza una delle dimensioni della personalità. Attualmente, il fattore Apertura Mentale viene considerato una "dimensione intrapsichica" (McCrae, 1996) caratterizzabile in termini di larghezza di vedute, profondità di pensiero, creatività, intelligenza, fantasia, talento, ecc. Secondo Caprara e coll.(1993), l’Apertura Mentale si compone di due fondamentali sottodimensioni: Apertura alla Cultura e Apertura all’Esperienza. La prima riguarda l’inclinazione a tenersi informati e ad acquisire conoscenze. La seconda è relativa a una disposizione favorevole nei confronti delle novità, alla capacità di considerare ogni cosa da più prospettive e ad una apertura nei confronti di valori, stili, modi di vita e culture diverse. Per queste sue caratteristiche, si può avanzare la duplice ipotesi che l’Apertura Mentale possa essere sensatamente considerata un antecedente sia delle strategie cognitive attraverso le quali il soggetto fronteggia nella vita quotidiana concrete situazioni problemiche, sia della ricerca di una pluralità di spiegazioni nel ragionamento attribuzionale (più "cause" per uno stesso comportamento; più comportamenti per una stessa "causa"). Il presente studio si propone di fornire una verifica empirica delle suddette ipotesi.
Metodo
Hanno partecipato alla ricerca 74 studentesse universitarie, alle quali sono stati somministrati tre questionari. Il primo era una check list di Apertura Mentale ispirata al NEO-PI (Costa e McCrae,1985) e al BFQ (Caprara et al. 1993), composta da 26 item (Likert), 13 dei quali riguardanti la sottodimensione di Apertura alla Cultura, gli altri relativi all’Apertura all’Esperienza. Il secondo strumento esplorava il problem solving situazionale (S.P.S.I.), presentando 10 situazioni specificamente riferite a differenti concrete situazioni (domain-dependent), (ad esempio, quale strategia scegliere per superare un conflitto lavorativo, come risolvere una situazione imprevista durante un viaggio in un paese straniero, ecc.). Per ciascuna situazione problemica il soggetto doveva scegliere tra quattro possibili alternative (1.apertura alla cultura, 2.apertura alla esperienza, 3.risparmio cognitivo, 4.passività) la strategia cognitiva percepita come più efficace. Il terzo strumento era un questionario "multiattribuzionale" (M.I.), articolato in 30 item: il soggetto poteva attribuire una o più motivazioni ad un certo comportamento (ad esempio, una persona ama leggere perché: a) desidera arricchire il proprio bagaglio culturale; b) vuole lasciare vagare la sua mente; c) si vuole rilassare). Il rationale dello strumento si basa sull’assunto che i soggetti con un alto livello di Apertura Mentale sono capaci di fornire spiegazioni multiattribuzionali al contrario di quelli con un basso livello di Apertura Mentale. Dopo aver sottoposto i soggetti alle tre prove, sulla base dei risultati ottenuti alla check list di Apertura Mentale, sono stati individuati due gruppi contrapposti: soggetti ad alto livello di Apertura Mentale (rango = 75% percentile) e soggetti a basso livello di Apertura Mentale (rango = 25% percentile). Per ogni soggetto veniva inoltre calcolato un punteggio totale basato sul numero di scelte "apertura mentale" (AC+AE), "risparmio cognitivo" (RC) al questionario S.P.S.I e un punteggio basato sul totale di risposte attribuzionali al M.I.
Risultati
Dal confronto tra il gruppo a bassa e ad alta apertura mentale (t test) è emerso quanto segue: i soggetti ad alta apertura mentale ottengono punteggi significativamente più alti in ordine alle due strategie di Apertura (AC: p= .0259; AE: p= .0317), quelli a bassa apertura mentale, ottengono invece punteggi significativamente più alti nel numero di preferenze relative alla dimensione "passività" (p= .0026), mentre nessuna differenza significativa è emersa rispetto alla strategia "risparmio cognitivo". Per quanto riguarda il questionario M.I., non sono state riscontrate differenze significative tra i due gruppi.
Conclusioni
Questi risultati supportano l’ipotesi che l’Apertura Mentale come dimensione di personalità, si traduce in specifici stili di funzionamento cognitivo-situazionale. Non risulta sorprendentemente confermata l’ipotesi secondo cui l’Apertura Mentale costituisce l’antecedente di capacità di giudizio multiattribuzionale. Ulteriori ricerche si rendono necessarie, in particolare per comprendere quali siano i correlati di personalità sottostanti alle evidenti differenze individuali da noi trovate nei processi di multiattribuzionalità.
Riferimenti bibliografici
Caprara, G.V. e Perugini, M. (1991 a), L’approccio Psicolessicale e l’emergenza dei Big Five nello studio della Personalità. Giornale Italiano di Psicologia, XVIII, 5, 721-747.
Costa, P.T. e McCrae, R.R. (1985), The NEO Personality Inventory Manual. Odessa, Fla, Psychological Assessment Resources.
Mc Crae, R.R. e John, O.P. (1992), An Introduction to the Five-Factor Model and its Applications. Journal of Personality, 60, 2, 175-215.
UMANO CHI LEGGE (DUE RACCONTI IN DUE CULTURE)
Sergio Morra
Università di Genova
Introduzione
Questa ricerca considera la risposta alla letteratura da un punto di vista interculturale, finora preso in considerazione solo in pochi studi (p.es. Halász, 1991; Larsen e László, 1990; László e Larsen, 1991). Oltre agli effetti della distanza culturale sulla comprensione e l’apprezzamento dei racconti, vengono riesaminati problemi classici della psicologia della risposta alla letteratura, quali le relazioni fra familiarità, comprensione e interesse (p.es. Asher, 1980; Sadoski, Goetz e Fritz, 1993) e quelle fra comprensione, immaginazione ed emozioni (p.es. Brewer e Liechtenstein, 1981; Miall, 1989).
L’Islanda è un paese in cui la cultura letteraria ha profonde radici e vasta diffusione (cfr. Guðbjörnsdóttir e Morra, 1997, 1998). In questa ricerca si utilizzano due racconti folklorici (uno italiano e uno islandese), di circa duemila parole ciascuno, accomunati dal tema principale dell’incontro con un mondo "altro" e misterioso (i morti nel racconto italiano, gli elfi in quello islandese) e anche da un tema secondario, l’amore coniugale. Due gruppi di soggetti, italiani e islandesi, dopo avere letto ciascun racconto, lo hanno ripetuto oralmente e valutato mediante un questionario.
Metodo
I soggetti sono 55 studenti dell’università di Padova e 60 dell’università d’Islanda. I due racconti sono presentati ai soggetti in ordine bilanciato. Di ogni racconto si chiede l’immediata ripetizione orale, di cui si valuta la percentuale di ricordo delle proposizioni e degli eventi. Quindi, il soggetto risponde a un questionario riguardante la familiarità con storie e temi di quel tipo, l’interesse e il piacere provato nella lettura, la facilità di comprensione, l’immaginazione visiva, diversi aspetti della conclusione del racconto, la sua eventuale identificazione con qualche personaggio, e un elenco di 23 emozioni. La procedura viene poi ripetuta per l’altro racconto.
I dati sono analizzati mediante analisi di varianza 2x2 a disegno misto (campioni indipendenti per la nazionalità dei soggetti, osservazioni ripetute per i due racconti) e con analisi correlazionali e di covarianza. Queste ultime si propongono di fare luce su possibili relazioni causali (quali variabili potrebbero spiegarne altre).
Primi risultati
La raccolta dei dati nel campione islandese è in via di completamento. Un’analisi limitata al campione italiano indica un ricordo delle due storie simile quando si considerino le proposizioni (cioè il ricordo dei dettagli), mentre il racconto italiano è ricordato meglio quando si considerino gli eventi cruciali (cioè la comprensione della struttura). Per i soggetti italiani, il racconto italiano è più piacevole e interessante, più facile da comprendere, più simile a storie già conosciute, più positivo e più coerente nella conclusione, e suscita più immagini visive, più emozioni positive e più emozioni "drammatiche", mentre il racconto islandese suscita più emozioni negative. Col racconto islandese, ma non con quello italiano, la valutazione della comprensibilità della storia correla con l’esperienza di immagini visive.
Sempre nel campione italiano, le analisi di covarianza indicano che le differenze di gradimento fra i due testi possono essere spiegate dalle differenze nella memoria di eventi, nella facilità di comprensione, nell’esperienza di immaginazione visiva, di emozioni positive e "drammatiche", e nella percezione di una conclusione "positiva" (lieto fine, trionfo del bene). A sua volta, la differenza nelle emozioni "positive" può essere spiegata dalla familiarità con storie simili, dalla facilità di comprensione, dall’immaginazione visiva e dalla percezione di una conclusione "positiva". In breve, sembra che vi sia un’influenza massiccia dell’elaborazione cognitiva sulle esperienze emotive, piuttosto che viceversa.
Tale conclusione, peraltro, potrà essere meglio valutata non appena siano disponibili per le analisi anche i dati del campione islandese.
Riferimenti bibliografici
Asher S.R. (1980). Topic interest in children’s reading comprehension. In: Spiro R.J., Bruce B.C., Brewer W.F. (Eds.), Theoretical issues in reading comprehension. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
Brewer W.F., Liechtenstein E.H. (1982). Stories are to entertain: A structural-affect theory of stories. Journal of Pragmatics, 6, 473-486.
Guðbjörnsdóttir G., Morra S. (1997). Social and developmental aspects of Icelandic pupils’ interest and experience in Icelandic culture. Scandinavian Journal of Educational Research, 41, 141-163.
Guðbjörnsdóttir G., Morra S. (1998). Cultural literacy: Developmental and social aspects of experience and knowledge of Icelandic culture. Scandinavian Journal of Educational Research, 42, 85-99.
Halász L. (1991). Understanding short stories: An American-Hungarian cross-cultural study. Empirical Studies of the Arts, 9, 143-163.
Larsen S.F., László J. (1990). Cultural-historical knowledge and personal experience in appreciation of literature. European Journal of Social Psychology, 20, 425-440.
László J., Larsen S.F. (1991). Cultural and text variables in processing personal experiences while reading literature. Empirical Studies of the Arts, 9, 23-34.
Miall D.S. (1989). Beyond the schema given: Affective comprehension of literary narratives. Cognition and Emotion, 3, 55-78.
Sadoski M., Goetz E.T., Fritz J.B. (1993). A causal model of sentence recall: Effects of familiarity, concreteness, comprehensibility, and interestingness. Journal of Reading Behaviour, 25, 5-16.
INTERESSI PROFESSIONALI, SELF-EFFICACY E DIFFERENZE DI GENERE
Francesco Pace, Giovanni Sprini, Velia di Benedetto
Dipartimento di Psicologia, Università di Palermo
Negli ultimi anni gli studi che si sono concentrati sull’assessment delle dimensioni psicologiche intervenienti nei processi di scelta professionale, nelle aree dell’orientamento, del ri-orientamento e della selezione del personale, hanno aperto interessanti prospettive per il collegamento tra i fattori più tradizionalmente esplorati (abilità, interessi, valori professionali, personalità) ed i correlati motivazionali delle scelte (Betz et.al., 1996). Si è, più in generale, concentrata maggiormente l’attenzione su alcuni aspetti che apparentemente costituiscono importanti indicatori della volontà del soggetto di "mettersi in gioco" nel proprio sviluppo professionale (Solberg et.al., 1994). Tra questi indicatori, il concetto di self-efficacy di Bandura (1977) ha certamente assunto un ruolo di primaria importanza: si tratta infatti di un costrutto che spiega la percezione personale che un soggetto ha di essere capace di adottare con successo un comportamento (in campo professionale, sociale, ecc.).
Gli studi sugli interessi professionali, d’altronde, hanno da molti anni segnalato l’importanza di una teoria capace di rendere ragione delle conclusioni di ricerche dalle quali emergeva come solo una parte dei soggetti che ottenevano una marcata e precisa configurazione di interessi svolgevano in seguito con successo e soddisfazione la professione indicata come preferita, soprattutto nei casi in cui questo fenomeno non fosse legato alla mancanza di abilità specifiche. È apparso chiaro come un modello esaustivo di spiegazione dello sviluppo delle carriere, pur tenendo in debita considerazione le variabili legate alle limitazioni strutturali del mercato del lavoro, debba dare ampio spazio agli aspetti motivazionali e di personalità. Alcuni lavori, in particolare Lent et. al.(1995) ed il già citato lavoro di Betz et.al., hanno sottolineato come un basso livello di self-efficacy può ostacolare persino l’iniziale interesse in un’area specifica: questi autori arrivano inoltre! alla conclusione che l’indagine sugli interessi, i valori e le abilità di un soggetto non sono sufficienti a valutare la potenzialità dell’individuo nello sviluppo della propria carriera.
La presente ricerca si prefigge di esplorare le linee di connessione tra gli interessi professionali e la efficacia percepita, tenendo in considerazione le differenze legate al sesso. Abbiamo fatto perciò riferimento alla teoria di Holland (1985) sulle tipologie professionali, che rappresenta un importante punto di incontro tra personalità ed interessi, e che è universalmente riconosciuta come modello semplice ed intuitivo. Tale modello prevede sei differenti tipologie professionali (Realistica, Investigativa, Artistica, Sociale, Imprenditoriale e Convenzionale), che rappresentano anche sei differenti ambiti lavorativi.
Metodo. Per valutare le tipologie di Holland abbiamo utilizzato la versione italiana dello Strong-Campbell Interest Inventory (Sprini e Pace, 1998). Per esplorare la dimensione della self-efficacy abbiamo utilizzato il questionario General Self Efficacy (GSE) proposto da Pierro (1997). Il nostro campione é composto da 150 soggetti che frequentano il Liceo Classico. Le nostre ipotesi erano: 1) che alti punteggi alla scala GSE fossero correlati alle tipologie professionali di Holland collegate a professioni che prevedono un alto livello di approfondimento culturale e/o di alto rischio professionale (in particolare le tipologie Investigativa ed Imprenditoriale); 2) che i soggetti con alti interessi nelle aree professionali stereotipicamente non attribuite al loro sesso (ad es. area Realistica per i maschi, area Sociale per le femmine) avrebbero ottenuto un punteggio più alto alla scala GSE rispetto a tutti i soggetti di sesso opposto. Sono state effettuate delle analisi correlazionali e multivariate.
Risultati. I risultati confermano pienamente la prima ipotesi. La seconda ipotesi è confermata soltanto per quel che riguarda le aree professionali stereotipicamente maschili, verso le quali le femmine con alti punteggi risultano avere un punteggio maggiore alla scala GSE rispetto ai maschi.
Conclusioni. Le nostre analisi sembrano suggerire che la combinazione di alti interessi professionali ed efficacia percepita sia capace di limitare (almeno nella dimensione delle possibilità) uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione professionale, costituito dagli stereotipi sessuali. In accordo con le conclusioni di Betz et al. (1996), possiamo affermare che la valutazione della self-efficacy, soprattutto nella fase adolescenziale nella quale é più vivo il processo di sviluppo delle scelte scolastiche e professionali, può essere un efficace strumento di supporto alle attività orientative. Riteniamo opportuno, in tal senso, avviare la costruzione di uno strumento che valuti in particolar modo la self-efficacy negli studi e lavorativa.
Riferimenti bibliografici
Bandura, A. (1977). Self-Efficacy: toward a unifying theory of behavioral change. Psychological Review, 84, 191-215.
Betz, N.E., Harmon, L.W, Borgen, F.H. (1996). The relationships of Self-Efficacy for the Holland Themes to Gender. Occupational group membership, and Vocational Interests, Journal of Counseling Psychology, 43, 90-98.
Holland, J.L. (1985) Making Vocational Choices (2nd ed.). Englewood Cliffs, NJ: Prentice Hall.
Lent, R.W., Brown, S.D., Hackett, G. (1994). Toward a unifying social cognitive theory of career and academic interest, choice, and performance. Journal of Vocational Behavior, 45, 79-122.
Sprini, G., Pace, F. (1998). La misurazione degli interessi professionali: applicabilità della teoria di Holland alla popolazione italiana. Comunicazione al Congresso Nazionale di Psicologia Sperimentale dell’AIP, Firenze.
Pierro, A. (1997). Caratteristiche strutturali della scala di General Self Efficacy. Bollettino di Psicologia Applicata, 221, 29-38.
Solberg, V.S., Good, G.E., Nord, D., Holm, C., Hohner, R., Zima, N., Hefferman, M., Malen, A. (1994). Assessing career search expectations: development and validation of the Career Search Efficacy Scale. Journal of Career Assessment, 2, 111-124.
ANALISI STRUTTURALE DELL’EMOZIONE DI SORPRESA: UNO STUDIO INTERCULTURALE CONDOTTO ATTRAVERSO INTERNET
Donatella Pagani, Luigi Lombardi
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova.
Introduzione
La sorpresa occupa spesso una posizione particolare se confrontata con quella delle altre emozioni considerate "universali" (Frijda e Tcherkassof, 1997; Katsikitis, 1997; Mc Andrew, 1986; Russel, 1997).
Diversi autori (Ekman e Friesen, 1978; Izard, 1971; Katsikitis, 1997; Smith e Scott, 1997) hanno evidenziato il ruolo delle componenti della regione superiore del volto, occhi e sopracciglia, nell’identificazione della sorpresa. In questo lavoro viene presentato uno studio esplorativo condotto attraverso Internet sulla comunicazione iconografica dell’emozione di sorpresa in diversi gruppi di partecipanti classificabili in accordo a distinte aree geografiche e culturali. A questo scopo è stato costruito un esperimento on-line per investigare il ruolo delle componenti dell’area superiore del volto (occhi e sopracciglia) nella valutazione di sorpresa in un set di pittogrammi sintetici generati attraverso una apposita interfaccia grafica chiamata MAS (Modello di Analisi Strutturale) (Lombardi, 1997).
Metodo
Soggetti
742 partecipanti (68,9% femmine, 30.1% maschi) nell’arco di 5 mesi si sono connessi da 45 paesi differenti al nostro laboratorio on-line della facoltà di psicologia di Padova. La dimensione del campione e l’eterogenea provenienza dei partecipanti ha permesso di costituire otto gruppi geografici, quattro dei quali (gruppo nord americano [478 ss.], gruppo nord europeo [99 ss.], gruppo sud europeo [87 ss.] e gruppo asiatico [33 ss.]) con sufficiente dimensione campionaria.
Materiale
9 pittogrammi rappresentanti la parte superiore del volto sono stati utilizzati come stimoli sperimentali. I pittogrammi potevano variare nel grado di apertura degli occhi (3 livelli: media, medio-massima, massima), nella posizione delle sopracciglia (3 livelli: media, medio-alta, alta), e nell’inclinazione delle sopracciglia (3 livelli: nessuna inclinazione, convergenza verso l’alto, convergenza verso il basso). I nove pittogrammi utilizzati nell’esperimento sono stati selezionati dall’insieme totale delle 27 possibili combinazioni attraverso un opportuno quadrato latino e successivamente organizzati secondo tre differenti ordini di presentazione.
Procedura
I partecipanti avevano accesso all’esperimento on-line attraverso quattro possibili link (APS (American Psychological Society) On-line, WWW Università di Padova, WWW University of Tuebingen, WWW University of Plymouth). Per ciascun pittogramma presentato veniva richiesto di valutare il grado di sorpresa ad esso associato attraverso una scala a 7 punti (0=totale assenza di sorpresa, 6=massima sorpresa).
Disegno
Tre ANOVA a misure ripetute:

  1. 3(posizione delle sopracciglia)×3(apertura degli occhi)×2(sesso)×4(area geografica);
  2. 3(posizione delle sopracciglia)×3(inclinazione delle sopracciglia)×2(sesso)×4(area geografica);
  3. 3(apertura degli occhi)×3(inclinazione delle sopracciglia)×2(sesso)×4(area geografica);

aventi come componente within-ss le tre possibili coppie di variabili definenti i fattori strutturali dello stimolo, e come componente between-ss le variabili sesso e area geografica.
Risultati
Un primo risultato importante è emerso, rispettivamente, dall’interazione significativa tra il fattore apertura degli occhi e l’area geografica di provenienza dei partecipanti: F(6,1246)=4,30 (p<0,001), e tra il fattore posizione delle sopracciglia e l’area geografica: F(6,1246)=2,40 (p<0,05). L’analisi dei confronti multipli (eseguiti attraverso opportuni contrasti) ha evidenziato come una generale espansione delle componenti dell’area superiore del volto ha prodotto una valutazione superiore del grado di sorpresa indipendentemente dai distinti gruppi geografici. Nel particolare, si è registrata una pressoché identica modalità di valutazione tra il gruppo nord americano e quello nord europeo, che si sono differenziati chiaramente da quello asiatico, che è apparso assegnare maggior peso nel processo di attribuzione del grado di sorpresa all’apertura degli occhi piuttosto che alle sopracciglia. I sud europei si sono collocati in una posizione intermedia rispetto alle due tipologie descritte.
Il secondo risultato importante è rappresentato dalle interazioni statisticamente significative tra il genere sessuale dei partecipanti e il fattore apertura degli occhi: F(2,1246)=6.07 (p<0,005), oltre che tra lo stesso fattore between e l’inclinazione delle sopracciglia: F(2,1246)=13,37 (p<0,001). In particolare, abbiamo osservato una tendenza relativamente più accentuata del gruppo femminile ad assegnare valori di sorpresa più alti in relazione alla crescente apertura degli occhi.
Conclusioni
I laboratori on-line costituiscono a nostro parere un nuovo e affascinante strumento per la progettazione di esperimenti a carattere interculturale, in modo particolare per gli studi sulla comunicazione pittografica delle emozioni.
La possibilità di accedere ad un bacino eterogeneo e pressoché illimitato di individui (la popolazione della rete), fa di Internet lo strumento più interessante in termini di costi e di accessibilità che al giorno d’oggi il ricercatore che si occupa di problematiche interculturali ha concretamente a disposizione.
Riferimenti bibliografici
Ekman, P. & Friesen, W. V. (1978). Facial action coding system. Palo Alto: Consulting Psychologists Press.
Frijda, N. H. & Tcherkassof, A. (1997). Facial expressions as modes of action readiness. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.
Izard, C. E. (1971). The face of emotion. New York: Appleton Century Crofts.
Katsikitis, M. (1997), The classification of facial expressions of emotion: a multidimensional-scaling approach. Perception, 26, 613-626.
Lombardi, L. (1997, Settembre). Rappresentazione delle espressioni del volto: proposta di un modello insiemistico orientato ad oggetti. Contributo presentato al 1997 Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri.
Russel, J. A. (1997). Reading emotions from and into faces: Resurrecting a dimensional-contextual perspective. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.
Smith, C. A. & Scott, H. (1997). A componential approach to the meaning of facial expressions. In The Psychology of Expression. Eds J. A. Russell, J. M. Fernàndez Dols. New York: Cambridge University Press.
SUONO ED EMOZIONI: ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’ASCOLTO OLOFONICO
Tito Pavan, Roberto Caterina
Dipartimento di Psicologia, Università degli studi di Bologna
Introduzione
Con lo sviluppo della stereofonia nei decenni passati furono messi in atto diversi tentativi per migliorare il realismo spaziale del suono, come la quadrifonia o altre sperimentazioni multi-speaker, tipo il sistema Dolby Surround o il sistema inglese Ambisonic. Questi sistemi hanno soltanto in parte raggiunto lo scopo di dare una maggiore naturalezza e spazialità al suono e richiedono sia in fase di registrazione sia di ascolto l’impiego di ingombranti e complicate apparecchiature.
Utilizzando una tecnologia differente, basata su un più approfondito studio dei meccanismi relativi all’ascolto binaurale e dei moduli che sottostanno alla ricezione, alla percezione e all’interpretazione del segnale acustico (Blauert,1983; Lehnert and Blauert, 1992), dai primi anni ‘80, si è sviluppata una linea di ricerca tesa alla costruzione di speciali microfoni -trasduttori olofonici che consentono di riprodurre le caratteristiche spaziali del suono con un impianto stereofonico tradizionale. Le ricerche sull’olofonia al di là della loro applicazione commerciale in vari contesti hanno una notevole rilevanza scientifica in quanto ci consentono di delineare meglio l’influenza che la qualità del suono può avere sulla rappresentazione del significato che ad esso attribuiamo.
In quest’ottica ci siamo proposti di iniziare un’indagine su quanto la tecnica olofonica possa essere un fattore importante nell’induzione delle emozioni. L’esperimento che presentiamo costituisce, naturalmente, soltanto un primo, limitato, passo in questa direzione.
Metodo
Dopo un pre-test effettuato su un ampio campione di stimoli si sono prodotti una serie di 6 brevi stimoli sonori riguardanti rispettivamente il suono di una campana tibetana, di un carillon, di un paio di nacchere, il rumore di un asciugacapelli e due diverse voci umane maschili. Ogni stimolo è stato prodotto in tre diverse modalità: registrazione monofonica, stereofonica e olofonica per un totale, quindi di 18 stimoli.
25 soggetti in gran parte studenti universitari o loro familiari (età media anni 25,2; range 16-38), 19 maschi e 6 femmine hanno ascoltato in cuffia in una serie di sedute individuali gli stimoli prima descritti presentati in ordine casuale e con un intervallo di 20 secs tra uno stimolo e l’altro. Su un apposito foglio di risposta i soggetti hanno indicato per ogni stimolo: 1) la direzionalità del suono (frontale, sinistra-destra, alto-basso); 2) il grado di movimento attribuito allo stimolo, su una scala unipolare a 6 punti da 0=immobile a 5=estremamente mosso; 3) il grado di piacevolezza-spiacevolezza attribuito allo stimolo, su una scala bipolare a 7 punti da –3=estremamente spiacevole a +3=estremamente piacevole; 4) il grado di naturalezza-innaturalezza attribuito allo stimolo su una scala bipolare a 7 punti da –3=estremamente innaturale a +3=estremamente naturale.
Secondo la nostra ipotesi il suono o il rumore olofonico avrebbe dovuto essere percepito come più mosso, più piacevole e più naturale rispetto allo stesso suono o rumore prodotto sia in modalità monofonica sia in modalità stereofonica.
Risultati
I risultati hanno confermato ampiamente la nostra ipotesi. Per quanto riguarda la direzionalità i soggetti hanno ben percepito le differenze tra i suoni monofonici, stereofonici e olofonici: i primi sono stati percepiti come prevalentemente frontali, i secondi come frontali o provenienti da destra e sinistra, i terzi come provenienti da più direzioni (frontali, destra-sinistra, alto-basso). Per quanto riguarda l’attribuzione del grado di movimento, piacevolezza e naturalezza i risultati sono sintentizzati nella tabella in calce. Tutte le differenze tra le tre condizioni sono altamente significative (p<.001), ad eccezione del rapporto tra stimoli monofonici e stereofonici che è risultato non significativo per quanto riguarda il grado di piacevolezza e che presenta una minore significatività (p<.05) per quanto riguarda il grado di naturalezza.


Condizione 

Movimento 

Piacevolezza 

Naturalezza 

 

 

 

 

Monofonica 

1,147 

-,167 

-,067 

Stereofonica 

2,407 

+,067 

+,240 

Olofonica 

4,280 

+1,327 

+1,480 

Conclusioni
In sostanza l’ascolto olofonico risulta più piacevole e naturale sia di quello monofonico sia di quello stereofonico. È importante sottolineare che la differenza tra olofonia e stereofonia appare quasi sempre più marcata rispetto a quella tra monofonia e stereofonia nelle dimensioni della piacevolezza e della naturalezza. Questi primi dati ci consentono di ipotizzare che il sistema olofonico permetta un ascolto reale e consenta un più efficace trasferimento delle informazioni emotive che si vogliono indurre. I risultati di alcune indagini preliminari sugli spettri di potenza del segnale elettroencefalografico (EEG), nonché variazioni del ritmo cardiaco e respiratorio, rilevabili in alcuni stimoli olofonici emotivamente connotati rispetto a stimoli neutri sembrano andare in questa direzione.
Riferimenti bibliografici
Blauert, J. (1983). Hearing - Psychological Bases and Psychophysics, Springer, Berlin New York.
Lehnert, H. and J. Blauert, J.(1992). Principles of Binaural Room Simulation. Journ. Appl. Acoust., 36:259-291.
PERCEZIONE CORPOREA E RELAZIONI INTERPERSONALI ALL’INTERNO DELLE DINAMICHE DI CLASSE
Annalisa Pelosi, Marina Pinelli, Raffaele Tucci
Università degli Studi di Modena, Dipartimento di Scienze Biomediche
Introduzione
Intento della nostra ricerca è quello di mettere in correlazione fenomeni sociali e di gruppo con vissuti dell’individuo, ovvero verificare l’esistenza di modulazioni tra gli aspetti cognitivi (misurati attraverso il rendimento scolastico), ed emozionali (in specifico la percezione del sé corporeo) dell’adolescente e dinamiche sociali, sia genericamente amicali, sia più specificatamente legate alla coesione del gruppo-classe d’appartenenza del singolo. L’importanza che il gruppo riveste nella acquisizione di una buona percezione di sé dell’adolescente è già stata ampiamente dimostrata dalla letteratura (Muss, 1976; Coleman, 1983; Loprieno, 1986; Berndt, 1992; Damon, Hart, 1992; De Wit, Van der Veer, 1993; Palmonari,1993): nel gruppo di amici l’adolescente si rispecchia e conferma o disconferma la propria immagine. Particolarmente critico durante questo periodo della vita è il vissuto corporeo, che sembra influenzare le relazioni sociali in senso positivo o negativo, anche se con intensità diverse tra maschi e femmine. Il fenomeno potrebbe essere letto anche nell’altro senso: relazioni sociali non buone si accompagnano a un senso di inadeguatezza da un punto di vista fisico. Rispetto al gruppo degli amici, come si colloca il gruppo classe? Quale importanza ha relativamente alle relazioni sociali, al vissuto corporeo e non ultimo al rendimento scolastico? La classe è un gruppo orientato funzionalmente e/o un gruppo di amici? Una classe coesa è una classe orientata al compito o una classe solidale? Un’alta coesione all’interno della classe è funzionale alla performance del singolo?
Metodo
Il campione è costituito da 636 studenti di un Istituto Tecnico per Geometri (463 maschi - 73,7% - e 165 femmine -26,3% -), di età media 16.7 anni.
Ad essi è stata somministrata durante il normale orario scolastico, in forma collettiva e anonima, dagli insegnanti stessi, la seguente batteria di test: un questionario (che prende spunto dal Group Environment Questionnaire, Carron, 1985) per la misurazione della coesione nei cinque domini dell’attrazione individuale per il gruppo focalizzata ai rapporti sociali (AGS), dell’attrazione individuale per il gruppo focalizzata sul compito (AGC), dell’integrazione del gruppo focalizzata ai rapporti sociali (IGS), della solidarietà di classe e della coesione di genere; un questionario (Kellman, 1993) per le relazioni interpersonali di tipo amicale; una scala del Test Multidimensionale dell’Autostima (TMA: Bracken, 1993) relativa al vissuto corporeo. Sono state inoltre raccolte informazioni relative ai voti scolastici nelle materie professionalizzanti.
Risultati
Nella coesione, il peso del dominio "orientamento al compito" è significativamente maggiore dell’integrazione orientata ai rapporti sociali (t= 4.3, p<.01). Non è stata trovata nessuna correlazione tra i cinque domini della coesione di classe e le relazioni amicali. Il vissuto corporeo è correlato con le relazioni interpersonali (r=.472, p>.01) e con la coesione di genere, ma non con le scale della coesione di orientamento sociale e al compito. Vi sono differenze significative nel TMA tra maschi e femmine (F= 84.2, p<.01), che ottengono un punteggio inferiore di 10 punti. Anche nelle relazioni interpersonali sono i ragazzi ad ottenere un maggior punteggio (F= 3.7, p<.05); i punteggi delle relazioni interpersonali sono significativamente peggiori (F= 4.7, p<01) in relazione a performance scolastiche alte. La solidarietà di classe presenta variazioni significative in relazione alla classe d’appartenenza (F= 4.3, p< .01). La coesione di genere mostra differenze significative per sesso (t= -7.9, p<.01) e per rendimento scolastico (F= 3.1, p< 05).
Conclusioni
Per quanto riguarda il campione preso in esame sembrerebbe che la percezione del sé corporeo sia in relazione con le scelte amicali, ma che sia indipendente dalle dinamiche di attrazione o esclusione verso o dal gruppo classe. Probabilmente quest’ultimo, in quanto gruppo imposto e non scelto, è orientato funzionalmente, per cui vengono a mancare le motivazioni affettive e le motivazioni di durata. La classe si prefigura dunque come un gruppo di lavoro temporaneo, le cui dinamiche prosociali non devono essere equivocate con le relazioni amicali, da esse distinte per essere spontanee e durature. Buone relazioni all’interno della classe non preservano quindi il ragazzo/a dallo sviluppare un negativo schema corporeo. Inoltre migliori performance scolastiche corrispondono a peggiori relazioni interpersonali, e sembrano essere indipendenti dai domini della coesione.
Riferimenti bibliografici
Berndt, T.J. (1992) Friendship and fiends’ influence in adolescence. Current Directions in Psychological Science, 1:156-159.
Bracken, T. (1993). Test multidimensionale dell’autostima.. Trento, Edizioni Erikson.
Carron, A.V., Widmeyer, W.N., Brawley, L.R. (1985). The development of an instrument to assess cohesion in sport teams: the Group Environment Questionnaire. Journal of Sport Psychology, 7: 244-266.
Coleman, J.C. (1980). La natura dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.
Damon, W., Hart, D. Self-understanding and its role in social and moral development. In M.H. Bornstein e M.E. Lamb (Eds,) Developmental Psychology: An advanced textbook, Hillsdale NJ:Erlbaum.
De Wit, J., Van der Veer, G. (1993). Psicologia dell’adolescenza. Teorie dello sviluppo e prospettive di intervento. Firenze, Giunti.
Loprieno, M., a cura di (1986). Identità e valori nell’adolescenza. Pisa, ETS.
Muss, R.E. (1976). Le teorie psicologiche dell’adolescenza. Firenze, La Nuova Italia.
Palmonari A., a cura di (1993) Psicologia dell’adolescenza. Bologna, Il Mulino.
ATTENZIONE, PERICOLO!
IL PROCESSAMENTO EMOZIONALE DI STIMOLI MINACCIOSI
Michela Sarlo, Giulia Buodo*
Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
*Dipartimento di Psicologia Generale, Università di Padova
Da un punto di vista evoluzionistico, appare verosimile che stimoli minacciosi, e quindi potenzialmente dannosi per la sopravvivenza, abbiano una priorità di elaborazione: l’analisi dei semplici attributi percettivi di tali stimoli avverrebbe in stadi molto precoci dell’elaborazione dell’informazione e farebbe capo a meccanismi di processamento preattentivi, automatici ed estremamente rapidi, in grado di favorire il successivo processo di completa estrazione del significato (Öhman, 1997). Una tale priorità sarebbe inoltre funzionale alla preparazione all’azione (attacco/fuga), dimensione implicitamente sottostante al concetto stesso di emozione.
Parallelamente, numerosi studi sostengono che i volti godano di un’elaborazione privilegiata, essendo processati in modo olistico, come un’unica configurazione, piuttosto che come insieme di caratteristiche discrete (Tanaka e Farah, 1993) e che l’identificazione delle espressioni facciali avvenga in modo automatico, senza gravare sull’impiego di risorse di processamento (White, 1995). L’universale capacità di riconoscere ed identificare le diverse espressioni facciali, fondamentale meccanismo adattivo di comunicazione sociale ed emozionale, sarebbe infatti innata, o "hard-wired" e favorirebbe un’estrazione rapida e automatica dell’informazione emozionale. In linea con quanto affermato in precedenza, alcuni dati empirici sostengono, anche se non univocamente, che il meccanismo che governa l’elaborazione dei volti raggiunga la massima efficienza nell’individuare segnali di potenziale minaccia (Hansen e Hansen, 1988).
Scopo del presente esperimento era di mettere in relazione la ribadita rilevanza motivazionale di alcune categorie di stimoli con l’impegno attentivo richiesto per la loro elaborazione.
Si intendeva valutare: a) il processamento delle informazioni di minaccia, contrapposte ad altri contenuti emozionali, veicolate o meno dallo stimolo "volto"; b) l’andamento temporale e la peculiare precocità di elaborazione legata ad emozioni evoluzionisticamente rilevanti; c) l’eventuale influenza dell’impegno attentivo sul consolidamento delle tracce mnestiche.
Sono state presentate a 49 soggetti 36 immagini standardizzate tratte dall’International Affective Picture System (IAPS, Center for the Study of Emotion and Attention, 1999), a contenuto piacevole, spiacevole e neutro, suddivise nelle seguenti classi: volti (sorridenti, minacciosi e neutri) e non-volti (avventura/sport, minacce e oggetti domestici). Nell’ambito di un paradigma del doppio compito sono stati misurati i tempi di reazione (TR) semplici ad un tono acustico presentato durante la visione delle immagini a 300, 800 o 1800 msec dall’onset. Subito dopo la sessione sperimentale è stata effettuata una prova di rievocazione libera delle immagini mostrate chiedendo al soggetto di riportare il maggior numero di dettagli possibile.
I risultati hanno mostrato TR globalmente inferiori per le immagini spiacevoli rispetto alle neutre e alle piacevoli, sostenendo la priorità di elaborazione per le informazioni di minaccia, in linea con quanto riportato in letteratura. Inoltre, i volti minacciosi hanno prodotto i TR più rapidi, mostrando di richiedere una quantità minima di risorse di processamento, probabilmente perché veicolano l’informazione rilevante per la sopravvivenza attraverso l’espressione facciale, immediatamente e automaticamente analizzata. Dall’analisi dell’andamento temporale dell’impegno attentivo è emerso che le informazioni a contenuto spiacevole vengono estratte precocemente permettendo una successiva e progressiva maggiore disponibilità di risorse (riduzione dei TR), mentre per le altre categorie si verifica una stabilizzazione.
Nonostante la minor quantità di risorse richiesta per l’elaborazione, la rievocazione degli stimoli spiacevoli è risultata globalmente più dettagliata rispetto a quella degli stimoli piacevoli e neutri. Appare vantaggioso, d’altra parte, in funzione della rilevanza evoluzionistica di tali stimoli, ricordare i particolari di una situazione minacciosa, utili per il consolidamento di uno schema mnestico efficace. Tale effetto non è così evidente per i volti minacciosi, per i quali, verosimilmente, i dettagli non risultano di grande utilità una volta identificato il messaggio che il volto esprime.
Riferimenti bibliografici
Center for the Study of Emotion and Attention {CSEA-NIMH} (1999). The international affective picture system: digitized photographs. Gainesville, FL: The Center for Research in Psychophysiology, University of Florida.
Hansen, C.H., & Hansen, R.D. (1988). Finding the face in the crowd: an anger superiority effect. Journal of Personality and Social Psychology, 54, 917-924.
Öhman, A. (1997). As fast as the blink of an eye: evolutionary preparedness for preattentive processing of threat. In: P.J. Lang, R.F. Simons, & M.T. Balaban (Eds.), Attention and orienting: sensory and motivational processes. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
Tanaka, J.W., & Farah, M. (1993). Parts and wholes in face recognition. Quarterly Journal of Experimental Psychology, 46A, 225-245.
White, M. (1995). Preattentive analysis of facial expression of emotion. Cognition and Emotion, 9, 439-460.
RELAZIONI PERSONALI, ANTECEDENTI DI EMOZIONI, ED ETICHETTE EMOZIONALI [1]
Vanda L. Zammuner
Dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
Secondo i risultati di varie ricerche, la conoscenza che gli individui hanno delle emozioni comprende anche informazioni circa gli eventi che tipicamente suscitano questa o quella emozione (e.g., Shaver et al. 1987). I termini del lessico emozionale a loro volta presumibilmente denotano, oltre ad altri aspetti (e.g., l’intensità dell’emozione), anche tali legami (e.g., Conway e Beckerian, 1987). La ricerca che verrà presentata si prefiggeva di analizzare le rappresentazioni dei legami eventi-emozioni allo scopo di indagare quali e quanti termini emotivi sono associati a diversi tipi di eventi che possiamo ipotizzare siano antecedenti (più o meno) prototipici di questa o quell’emozione. L’ipotesi era che il grado di omogeneità, o uniformità tra i soggetti, nell’etichettare l’esperienza emotiva suscitata dagli eventi variasse in funzione: (i) della natura dell’esperienza emotiva (più o meno articolata e complessa), (ii) di alcune caratteristiche specifiche del tipo di evento - in particolare, a seconda della natura del rapporto interpersonale che lega chi esperisce l’emozione, che chiameremo protagonista (P), a chi causa l’evento, che chiameremo agente (A), e infine (iii) del grado in cui uno specifico termine è di livello "basilare", utile a designare economicamente esperienze emotive anche tra loro diverse, piuttosto che di livello "subordinato", atto cioè a specificare una gamma ristretta di esperienze. In altre parole, dovremmo trovare che se un certo evento tende a suscitare esperienze emotive piuttosto simili nella maggior parte delle persone, i soggetti le etichetteranno in modo omogeneo, utilizzando pochi termini, di significato molto simile; viceversa, se l’evento suscita un’esperienza emotiva complessa ed articolata, e/o esperienze diverse a seconda di certe sue caratteristiche specifiche e/o di chi ne sono i protagonisti, soggetti diversi etichetteranno l’esperienza in modi anche piuttosto dissimili.
Metodo
La ricerca verte su 10 emozioni, spesso indagate in letteratura e presumibilmente frequenti, sia "di base" che "complesse": Gioia, Orgoglio, Tristezza, Paura/Ansia, Sorpresa, Rabbia, Disgusto, Colpa, Imbarazzo, e Gelosia. I rapporti interpersonali tra protagonista (P) e agente (A) indagati furono 7: A è rispettivamente (i) Sé stesso, (ii) Genitore (padre/madre) di P, (iii) Fratello/sorella, (iv) Partner, (v) Amico/a, (vi) Conoscente, (vii) Boss (capo/un superiore) nell’ambito del lavoro. Per ogni emozione furono costruite 7 vignette che riportavano un evento causato da uno di questi 7 agenti, per un totale di 69 eventi (non fu testato, in quanto irrealistico, l’evento di gelosia causato dal Sé) - per es., P scopre che A, suo fratello, spaccia droga; P litiga con A, suo partner; P "perde" A, suo amico, perché la famiglia di A si trasferisce all’estero; A, padre di P, viene ricoverato all’ospedale per un incidente d’auto; A, capo di P, lo promuove e gli aumenta lo stipendio; A, amico di P, vince un importante concorso; P fallisce un esame perché non ha studiato a sufficienza. Le vignette furono presentate ai soggetti (N= 81; 42 M, 39 F) in uno di più ordini randomizzati in un questionario che chiedeva loro di esprimere 2 giudizi: dire quale emozione (un solo termine) proverebbe nella situazione descritta (a) la maggior parte delle persone, (b) essi stessi. I soggetti sceglievano l’emozione da un elenco di 80 termini prescelti come rilevanti in base alla letteratura, comprendenti, oltre a quelle sopracitate, emozioni quali allegria, dispiacere, indignazione, stupore, preoccupazione, soddisfazione, invidia, e terrore. Se lo ritenevano necessario, potevano supplire essi stessi un termine diverso.
Le scelte dei termini emozionali da parte dei soggetti in rapporto alle vignette proposte (138 giudizi per ciascun soggetto) furono tabulate in una matrice e sottoposte a varie analisi, tra le quali l’analisi delle corrispondenze (AC).
Risultati
Per etichettare le vignette loro proposte, i soggetti utilizzarono 236 termini in tutto - 156 termini ‘nuovi’, oltre agli 80 pre-elencati. Una prima analisi dei giudizi permise di ridurre a 94 (80 originali, più 14 ‘nuovi’) il numero di termini emozionali necessari a dar conto di tali giudizi. La riduzione fu effettuata considerando sia la frequenza di ciascuno dei termini prodotti spontaneamente, sia il grado di somiglianza concettuale con i termini pre-elencati nel questionario. La risultante matrice di dati (94 termini x 69 situazioni x 2 giudizi (sé stessi, in generale) fu sottoposta ad una prima AC, i cui risultati permisero di ridurre ulteriormente la matrice a 17 categorie emozionali - le 10 elencate sopra, più altre 7, quali Contentezza, Indignazione e Preoccupazione - e 69 eventi, matrice che fu sottoposta ad una ulteriore AC i cui risultati permisero di ridurre ulteriormente il numero di tipi di eventi distinti. La (terza ed ultima) analisi AC riguarda la matrice ‘definitiva’ di 17 categorie emozionali x 32 eventi - sono state mantenute le distinzioni dovute alla natura del rapporto interpersonale implicato soprattutto per Rabbia, Disgusto, Sorpresa, e Imbarazzo; viceversa, non vi sono distinzioni significative connesse all’etichettamento degli eventi di Gioia e Paura, e sono poche quelle per gli eventi di Colpa, Orgoglio e Tristezza). I risultati mostrano che l’etichettamento degli eventi è spiegato da 6 fattori (varianza spiegata: 80.9%): non sorprendentemente, il primo (22.4%) distingue tra (eventi che suscitano) emozioni di tono edonico positivo, e quelle di tono negativo; il secondo (15.9%) distingue tra Paura/preoccupazione e Rabbia/gelosia, il terzo (12.9%) tra Colpa/imbarazzo e Sorpresa/Dispiacere, il quarto (12.1%) tra Colpa/sorpresa/stupore e Gelosia/rabbia/imbarazzo, il quinto (10.1%) tra Tristezza/dispiacere e Imbarazzo, e infine il sesto (7.4%) tra Disgusto (anche nell’accezione di Indignazione)/gelosia/rabbia e Sorpresa/stupore. I dati mostrano in sintesi che il tipo specifico di evento considerato (Sé/qualcuno viene promosso sul lavoro, vince un concorso, ecc.) non influisce molto sulla natura delle emozioni positive che suscita, perlomeno secondo l’opinione dei soggetti - ad esempio, gioia è l’etichetta scelta non solo in rapporto alla quasi totalità degli eventi di Gioia, ma anche l’etichetta che definisce molti eventi di Orgoglio; questi ultimi, naturalmente, sono spesso etichettati anche come Orgoglio, oltre che, come alcuni di quelli di Gioia, come Contentezza o Soddisfazione. La Sorpresa - ma anche Sbalordimento e Stupore - è, sempre secondo i soggetti, un’emozione che caratterizza non solo gli eventi ipotizzati quali antecedenti tipici di questa emozione, ma abbastanza spesso anche gli eventi che suscitano Disgusto, e meno frequentemente, Tristezza, Rabbia, e altre emozioni negative. Tristezza e Dispiacere sono a loro volta emozioni che caratterizzano non solo gli eventi loro prototipici, ma emozioni onnipresenti, associate cioè alla maggior parte degli eventi che suscitano emozioni negative, e dunque anche in relazione a tutti i tipi di rapporto interpersonale indagati. Lo stesso vale per la Rabbia che, associata in misura prevalente agli eventi prototipici, è tuttavia spesso presente come etichetta per altri tipi di eventi negativi. Paura, Gelosia, Disgusto/indignazione, e Colpa e Imbarazzo sono infine etichette che i soggetti attribuiscono prevalentemente solo agli eventi ipotizzati come prototipici per ciascuna di esse - anche se vi è uno stretto rapporto tra Colpa e Imbarazzo (nell’accezione spesso di Vergogna).
Nel complesso i dati ottenuti mostrano: (i) la maggiore articolazione presentata dalle emozioni negative rispetto a quelle positive; (ii) il fatto che certi termini emotivi (quali rabbia, disgusto, imbarazzo) designano esperienze emotive di natura molto diversa tra loro; (iii) gli eventi variano significativamente tra loro nel grado in cui i soggetti ritengono che suscitino un’esperienza emotiva di questa piuttosto che quella natura (e.g., rabbia piuttosto che tristezza; disgusto piuttosto che rabbia, sorpresa, tristezza); (iv) la natura del rapporto interpersonale tra l’agente A, cioè chi causa l’evento, e il protagonista P, colui/colei che esperisce l’emozione, è una variabile importante nel definire la natura dell’esperienza emotiva soprattutto quando essa è di tono edonico negativo, e quando implica che l’azione di A blocca (Rabbia), ‘ferisce’ (Disgusto), o mette a repentaglio in qualche modo (Imbarazzo, Colpa, Gelosia) gli scopi immediati o a lungo termine di P (e.g., ottenere x, dove x può essere il superamento di un esame, una promozione, l’amore del partner, ecc.).
I dati ottenuti, oltre che nella definizione del significato dei termini del lessico emozionale (e.g., vedi Zammuner 1998; Zammuner e Galli 1997), sono a mio avviso pertinenti anche allo scopo di costruire un data-base dei legami eventi-emozioni così come se li rappresentano gli individui.
Riferimenti bibliografici
Zammuner, V.L. (1998). Concepts of emotion: ‘Emotionness’, and dimensional ratings of Italian emotion words. Cognition and Emotion, 12, 243-272.
Zammuner, V.L., Galli, C. (1997). La conoscenza del lessico emozionale negli adolescenti e nei giovani. Congresso AIP, Sezione di Psicologia Sperimentale, Capri.

 

Fonte: http://sddb85c7171b1f47d.jimcontent.com/download/version/1235577837/module/1501093316/name/Psicologia%20-%20Emozioni,%20Motivazione,%20Personalit%C3%A0.doc

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