Relazione genitori figli

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Relazione genitori figli

RELAZIONE GENITORI-FIGLI

 

L’uomo è un essere sociale.
Senza interrelazioni con la società
egli non può realizzare la sua unità con l’universo,
né sopprimere il proprio egoismo.
(M.K.Gandhi)

 

[…] stare gomito a gomito serve.
La vita è una comunità per darci una mano,
consolarci, aiutarci.
Anche le piante fioriscono meglio una accanto all’altra,
e gli uccelli migrano a gruppi,
i pesci nuotano a branchi.
Che faremo soli?
(O.Fallaci, Lettera a un bambino mai nato)

 

All'inizio è la relazione, categoria fondamentale dell'essere. La persona, intesa come singolo e come comunità-comunione, è il perno e il centro in relazione e di relazioni. Dunque, la relazione è nel cuore dell'essere della persona, cosicché l'uomo non è solo in relazione, ma prima di tutto è un essere-in-relazione con se stesso, con il mondo, con gli altri. Perché la relazione è costitutiva dell’essere uomo e la maturità è misurata propria dalla capacità di relazione con gli altri: l’uomo è persona. Il concetto di persona, infatti, vede l’uomo nella sua socialità, a differenza del concetto di individuo che lo vede come assoluto, come centro del mondo intorno a sé.
L’uomo nasce e diventa sé stesso attraverso la relazione e cerca costantemente la relazione. Ciascuno di noi diventa ciò che è costruendo sé stesso sulle fondamenta dei rapporti che ha vissuto. La nostra forza e le nostre debolezze sono nate dal rapporto con i nostri genitori, i nostri parenti, i nostri amici, i nostri insegnanti, con le persone che ci hanno amato o ci hanno odiato, con le persone che avrebbero dovuto amarci e non ci hanno amato, con le persone che non avevano motivo di amarci e invece ci hanno amato, con le persone che noi amiamo o che noi odiamo. In altre parole, i nostri talenti o le nostre paure si sono sviluppate in base al positivo o al negativo delle relazioni che per noi sono importanti.
Se i miei genitori mi hanno negato l’affetto proprio quando avevo bisogno di sostegno, specie nell’infanzia, crescerò più facilmente insicuro e con una stima di me stesso molto bassa; se nell’infanzia e nell’adolescenza mi sono visto ripetutamente tradire nella fiducia dagli amici più intimi o dalle persone che più stimavo mi ritroverò diffidente e pessimista nei confronti della vita.
In definitiva, possiamo dire chi siamo in base alle relazioni che realizziamo con chi ci sta vicino: siamo profondi o cinici, cattivi o dolci, sereni o cupi in base a queste relazioni. Siamo veramente felici o tristi se le nostre relazioni sono gratificanti o meno, specie con chi vogliamo bene: la nostra vita cambia a seconda che un abbraccio ci sia o non ci sia, che uno sguardo ci sia o non ci sia, una carezza ci sia o non ci sia.

 

Relazione o relazionarsi…?
Un numero sempre più ampio di ricerche sostiene che una delle componenti che maggiormente contribuisce al nostro benessere psicologico è la capacità di intrattenere delle relazioni sane. Ma cosa si intende esattamente con questa espressione?
La relazione è un legame, un vincolo tra due o più persone. La relazione è qualcosa che in se stessa possiede finalità migliorative dei rapporti. Può essere ad esempio di amicizia, d’amore, di affari.
A sua volta, un rapporto è, in senso più ampio, una forma di relazione tra persone e può essere di vari tipi (amore, amicizia, lavoro, parentela, ecc.).
Sano è ciò che è in buona salute, che non è affetto da malattie, né da lesioni e che anzi giova alla salute.
Da questa definizioni prettamente linguistiche si può notare come l’espressione ‘relazione sana’ abbia nella sua definizione un margine di soggettività.
Se sano è ciò che fa bene, per una persona potrà essere sana una determinata relazione, mentre potrà non esserlo per un’altra. E ancora: una relazione potrà essere sana in un determinato periodo della nostra vita, ma non in un altro.
Al limite di questo, il noto psicoanalista Adam Philips direbbe che il successo di un rapporto non è legato alla sua durata: non importa che possa durare 20 giorni, 20 mesi o 20 anni, ma il fatto che la propria vita migliori rapportandosi a tale persona.
Ad un limite ulteriore troviamo chi, come alcuni maestri buddisti, preferisce evitare di utilizzare il termine ‘relazione’ per sostituirlo con ‘relazionarsi’. Il primo, infatti, indica staticità, prevedibilità, qualcosa di concluso.
Relazionarsi, invece, significa essere consapevoli che l’altro risulta sempre in buona parte inconoscibile: l’altro è e sarà sempre in parte un mistero. Ciascuno di noi è in continua evoluzione e relazionarsi significa ricominciare ogni volta ad avvicinarsi all’altro con occhi nuovi, capaci di cogliere ogni minima trasformazione umana.
Ecco, quindi, che, gradualmente si comincia a delineare sempre più l’essenza della relazione, o meglio, del relazionarsi.
Rapportarsi, quindi, significa essere in grado di accettare quella quota di indeterminatezza associata al divenire. Lasciare che le cose scorrano, vivere nel presente quel che esso è in grado di offrire, mettendo da parte la paura che l’insicurezza, l’impossibilità di tenere tutto sotto controllo comportano.
Nessuno può garantire la durata eterna di uno scambio tra due o più persone, perché esse cambiano e con loro anche il loro modo di rapportarsi.
Sapersi relazionare adeguatamente implica la capacità di stare soli con se stessi. Molti per sfuggire a se stessi hanno bisogno dell’altro. Il bisogno, al contrario del desiderio, suscita dipendenza, che induce un vissuto di schiavitù, di odio, di rabbia, nei confronti di se stessi e degli altri.
Relazionarsi in modo autentico è il frutto di una scelta consapevole, di un impegno volto a favorire la crescita propria e altrui. Per fare questo, ancora una volta, è necessario partire da se stessi.
Secondo Adam Philips il prototipo migliore per relazionarsi è l’amicizia ed è a partire da questa che si strutturano tutte le altre modalità, l’amore in modo particolare.
“Non camminare davanti a me, potrei non seguirti; non camminare dietro di me, non saprei dove condurti; cammina al mio fianco e saremo sempre amici” (Anonimo cinese): questa è un’altra espressione che ben definisce un modo sano di relazionarsi, la parità. Non solo, quindi, il riconoscimento e il rispetto dell’altro, della sua essenza, della sua unicità, della sua libertà, il favorire la sua crescita, ma anche l’attribuzione di un senso di dignità al suo essere.
Questi sono alcuni tra gli aspetti fondamentali di un sano relazionarsi.

 

Interazione e relazione
Con il termine interazione Bange intende un “gioco complesso di attese reciproche al cui interno i soggetti costituiscono la propria identità in e attraverso il sistema interpersonale e nelle sue azioni sociali, un gioco complesso in cui la realtà sociale si costituisce nell’intercomprensione”. Tale visione presuppone il riferimento ad una sorta di “principio di reciprocità”: proprio il meccanismo di accettazione reciproca dei ruoli garantisce la reciprocità di interazione possibile attraverso quel sistema simbolico-infernziale che è la lingua.
Jacques ritiene che debba esistere un “fatto relazionale” che regoli da un livello superiore il gioco delle attese reciproche. È la reciprocità insita nella relazione a rendere possibili le attese e le anticipazioni del comportamento dell’altro, gli aggiustamenti e le approssimazioni dei codici di interpretazione. La relazione spiega gli sforzi di convergenza e le attese reciproche, e non l’inverso: non si potrebbe “giocare” sulle attese del partner se non si fosse già collegati a lui. In questo senso si dovrebbe parlare di circolarità.
L’interazione trova senso nella relazione, e quello che di nuovo produce l’interazione ricade a sua volta sulla relazione, chiudendo un cerchio che definisce l’influenzamento reciproco tra queste due dimensioni. Ciò che le distingue è che mentre la relazione viene mantenuta a distanza, l’interazione necessita della co-presenza fisica dei soggetti coinvolti, è lo scambio che avviene nel qui ed ora.
Galimberti afferma che per interazione si intende l’influenza reciproca che i partner esercitano sulle rispettive azioni quando si trovano in presenza fisica immediata. L’interazione è caratterizzata dalla soggettività e dalla personalità di chi interagisce, dall’essere contemporaneamente soggetto dell’azione e soggetto all’azione.
Le peculiari caratteristiche dell’interazione si rifanno alle relazioni sperimentate dall’individuo e ai rapporti con le generazioni presenti e passate, anche qualora tali rapporti non siano direttamente esperiti. Per esempio in una relazione nipote-nonno, il primo può non aver conosciuto il secondo, ma risentire ugualmente dell’influenza della sua immagine tramandata all’interno della sua famiglia.
La relazione trae il suo significato specifico dalla trasmissione intergenerazionale di modelli di comportamento, norme, valori, miti. La relazione fa quindi da sfondo all’interazione agendo per buona parte inconsapevolmente.
Le variazioni non variano soltanto rispetto a ciò che i partecipanti fanno insieme (contenuto della relazione), ma anche in come lo fanno (qualità della relazione), per esempio l’intensità di un’interazione. Quest’ultima dipende dall’emotività delle relazioni evocata nelle persone coinvolte, si manifesta soprattutto nel comportamento non-verbale e non p strettamente correlata alla relazione stessa.
La relazione inoltre, si sviluppa nel tempo (struttura temporale della relazione): gli attributi dei partner in relazione cambieranno e con essi anche il tipo di relazione.

 

La relazione genitori-figli
La relazione genitori figli è un processo dinamico che viene costruito durante tutto l'arco della vita, e al quale sia i genitori che i figli partecipano attivamente, in modo più o meno consapevole.
La relazione è caratterizzata da aspetti multidimensionali, che comprendono la comunicazione, l'affettività, l'ascolto, ecc; e risente dei processi evolutivi, sociali e comunicativi.
Fin dalla nascita (e già a partire dal concepimento e dallo sviluppo del feto), i genitori modellano il comportamento dei propri figli attraverso l'invio di messaggi verbali e non verbali, che vengono codificati, rielaborati e interpretati dai figli. Ovviamente il bambino avrà modo di ampliare i propri schemi cognitivi interagendo con i diversi contesti scolastico, sociale, ecc., che contribuiranno alla strutturazione della sua personalità. E', pertanto, di primaria importanza la consapevolezza, da parte del genitore, dei messaggi (di svalutazione e critica, o di rinforzo e incoraggiamento, ecc.), che invia al proprio figlio, affinchè possa potenziare le proprie competenze comunicative nella relazione.
La consapevolezza della propria modalità comunicativa, la capacità di ascolto rispetto ai bisogni del figlio, l'apertura al dialogo e la capacità di trovare alternative nell'esercitare il potere/controllo, sono risorse fondamentali nell'esercizio di una genitorialità adeguata. È, quindi, molto importante per i genitori focalizzarsi sul potenziamento delle proprie competenze comunicative e sul riconoscimento/consapevolezza delle proprie modalità di comunicazione poco funzionali e inadeguate messe in atto nella relazione, soprattutto se la relazione riguarda la fase di sviluppo dell'adolescenza che, di per sè, rappresenta un momento delicato che mette a dura prova la comunicazione.
Il genitore dovrebbe lavorare per:

  • accogliere, accettare, comprendere i bisogni del bambino o dell'adolescente piuttosto che svalutarli o negarli,
  • comprendere e riconoscere i propri bisogni ed emozioni, affinchè possa adeguatamente distinguerli da quelli del figlio
  • riconoscere e a potenziare le proprie competenze comunicative e ad utilizzarle adeguatamente nella relazione con il figlio
  • mettersi in discussione come soggetto capace di fornire sicurezza e di rispondere ad una emozione negativa con una di segno positivo.
  • comunicare in modo efficace. Nel dialogo con il figlio è importante accogliere anziche’ svalutare/criticare.

 

I figli ci fanno crescere
Le teorie sullo sviluppo dell'età evolutiva pongono l'accento sull'importanza della relazione genitori-figli, non solo per favorire la crescita dei figli in modo sano, ma anche per mantenere nel tempo un rapporto costruttivo, che consenta sia ai figli sia ai genitori di rivedere costantemente i loro ruoli.
I genitori aiutano i figli a crescere, ma a loro volta i figli sono una preziosa occasione di cambiamento per i genitori, nel loro modo di vedere e considerare se stessi, la vita e le relazioni con gli altri. Proprio grazie al gioco relazionale che i figli richiedono, l'essere genitori può divenire un impegnativo ma anche nutriente momento di cambiamento, dove gli errori, che fanno parte dell'intensità del coinvolgimento, possono essere utilizzati come occasioni di incontro e di scambio.
Questo non significa che i figli siano un mezzo per ottenere positivi cambiamenti di vita o soluzioni ai problemi di coppia: "proviamo a salvare la relazione facendo un figlio?". Non è questa la soluzione anche se in alcuni casi l'impegno richiesto porta a vedere sotto un'altra luce i motivi di dissidio e a trovare elementi di unione più profondi nel rapporto di coppia. Certamente i figli contribuiscono a trasmettere energia vitale ai propri genitori e a dare un nuovo significato all'essere insieme.
Molti genitori, ricordando i passaggi significativi della loro vita insieme ai figli, possono sentire che alcuni di questi momenti hanno contribuito a produrre in loro un cambiamento, rendendoli diversi nel loro modo di rapportarsi con i figli, più efficaci nel loro ruolo di genitori, e cresciuti e cambiati da un punto di vista umano e relazionale. Alcuni si sono sentiti più fiduciosi e più consapevoli, soprattutto nei periodi di crisi e di passaggio evolutivi come l'adolescenza, della loro capacità di essere una base accogliente per i figli.
Questo modo di intendere la genitorialità non prevede l'essere un genitore perfetto, ma "sufficientemente buono" come suggeriva Winnicot, attento alle dinamiche relazionali, a rivedere i propri errori e le proprie mancanze nei momenti in cui il conflitto con il figlio li pone in primo piano. Un atteggiamento aperto aiuta entrambi: i genitori imparano a rinegoziare il proprio rapporto con i figli e i figli imparano, attraverso l'esempio dei genitori, che non si è mai finito di imparare e che ci si può sempre rinnovare. La capacità di cambiare dei genitori dà ai figli il via per proseguire serenamente nel proprio processo di crescita.
È auspicabile che se i genitori comprendono la grande opportunità che viene data loro dal rapportarsi con i figli e dal cogliere dai momenti critici spunti e risorse per rivedere la propria prospettiva, ciò sarà l'inizio di un circolo virtuoso che stimolerà i figli, attraverso questa positiva reciprocità, ad avere un atteggiamento di apertura nei confronti di se stessi e del mondo che li circonda.
E’ stato ampiamente dimostrato che la capacità dei genitori di rapportarsi con i propri figli e di crescere assieme a loro è favorita dalla conoscenza di sé, quindi dalla comprensione interna e dalla capacità di relazionarsi con l’altro.
Nello specifico D.J. Siegel e M. Hartzell indicano gli elementi essenziali per costruire una costruttiva relazione genitore-figlio: consapevolezza, continua disponibilità ad apprendere, flessibilità di risposta, capacità di percepire le menti e gioia di vivere.
Quando gli autori parlano di “consapevolezza” intendono la capacità del genitore di vivere nel presente, di essere consapevole dei propri pensieri, dei sentimenti che prova nel qui ed ora dando significato ad essi; d'altronde i bambini imparano a conoscersi attraverso il modo in cui i genitori comunicano con loro e le interazioni emotive che si instaurano aiutano i bambini a sviluppare un più profondo senso di sé e la capacità di mettersi in relazione con gli altri.
E’ importante, inoltre, che i genitori acquisiscano un approccio alla vita che prevede una costante disponibilità a imparare per affrontare il ruolo di genitore con mente aperta, come un viaggio continuo alla scoperta di nuovi mondi.
La disponibilità ad apprendere del genitore genera nei bambini la curiosità e, sentendosi sostenuti, possono esplorare serenamente l’ambiente. La flessibilità di risposta del genitore implica la capacità riflessiva, componente essenziale della maturità emotiva e delle relazioni con l’altro efficaci e si riferisce alla capacità di reagire a una situazione non in maniera automatica e impulsiva bensì riflettendo e producendo intenzionalmente un comportamento adeguato.
Gli autori parlano anche della capacità del genitore di percepire le menti, cioè l’attitudine di andare oltre la superficie di un’esperienza, quindi la possibilità di dare dei significati profondi ai pensieri, alle emozioni, alle percezioni, alle sensazioni, ai ricordi, alle convinzioni, agli atteggiamenti e alle intenzioni di sé e del proprio bambino.
La capacità di percepire le menti del genitore consente di stabilire col proprio figlio un’interazione basata sull’empatia e sulla comprensione emotiva favorendo nel bambino lo sviluppo della sua capacità di conoscere se stesso e di porsi in relazione con gli altri.
Infine, ma non il meno importante, il genitore deve darsi la possibilità di divertirsi con il proprio figlio, è importante che si lasci appassionare dalle parole e dai comportamenti del proprio bambino condividendo con lui lo stupore della scoperta graduale del mondo e delle sue meraviglie.
Il genitore deve saper accostarsi al suo bambino utilizzando il proprio bambino libero interiore, per poter trasmettergli la curiosità e la gioia di scoprire il mondo rispettando sé e l’altro.
Tutto questo non significa che i genitori che hanno avuto un passato difficile e non hanno sviluppato le capacità descritte non possono avere un costruttivo rapporto con i propri figli, nessuno ha mai avuto un’infanzia perfetta, tuttavia è importante che il genitore si sia dato la possibilità di elaborare quanto ha vissuto e di comprenderlo, consentendosi di crescere e cambiare, perché si può decidere di cambiare durante tutto il corso della propria esistenza, per il proprio benessere e per quello dei propri figli.

 

 

Bibliografia

  • Maurizio Andolfi, Manuale di psicologia relazionale. La dimensione familiare, Collana di psicologia relazionale
  • Osho (2004), Con te e senza di te, Milano, Mondadori
  • Philips A. (2005), Going sane, Hamish Mamilton

 

 

Fonte: http://www.folignano1.org/wp-content/Progetti/www.pereducareunbambino.it/wp-content/uploads/2012/11/RELAZIONE-GENITORI-FIGLI.doc

Sito web da visitare: http://www.folignano1.org/

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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