Riassunto diritto internazionale

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Riassunto diritto internazionale

DIRITTO INTERNAZIONALE

 

INTRODUZIONE

1. Definizione del Diritto Internazionale. Precisazioni terminologiche.
In una prima approssimazione il Diritto Internazionale può essere definito come il diritto della Comunità degli Stati. Tale complesso di norme si forma al di sopra dello Stato  e quest’ultimo si impegna a rispettarlo anche con norme di carattere Costituzionale (es.: art. 10 Cost.). Il Diritto Internazionale non regola soltanto i rapporti fra Stati. E’ vero che i destinatari diretti di tali norme siano gli Stati ma è anche vero che il Diritto Internazionale va sempre più regolando i rapporti interindividuali all’interno degli Stati stessi.

Il Diritto Internazionale viene anche comunemente chiamato Diritto Internazionale Pubblico in contrapposizione ad un ipotetico “privato”. Ipotetico perchè in realtà tale distinzione non esiste essendo il Diritto Internazionale e il Diritto Internazionale Privato due cose completamente diverse. Quest’ultimo consiste nelle norme statali che delimitano il diritto privato di uno Stato stabilendo quando esso va applicato e quando invece i giudici di quello Stato sono obbligati ad applicare norme di diritto privato straniere.

2. Quadro sintetico delle funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del Diritto Int.
Diamo un rapido sguardo alle funzioni normativa, accertamento del diritto e attuazione coattiva. Per quanto riguarda la funzione normativa dobbiamo distinguere innanzitutto tra Diritto Internazionale generale e particolare, cioè tra le norme indirizzate a tutti gli Stati e quelle che invece vincolano una ristretta cerchia di soggetti, solitamente coloro che hanno partecipato alla loro formazione. L’art. 10 Cost. sancisce l’uniformarsi del diritto Italiano alle norme del Diritto Internazionale generalmente riconosciute. Tali sono le norme consuetudinarie. La loro principale caratteristica è che pur essendo norme primarie hanno dato luogo ad uno scarso numero di norme materiali. Altra categoria di norme di Diritto Internazionale sono gli “accordi” che vincolano soltanto gli Stati contraenti. Essi, al contrario delle norme consuetudinarie sono numerosi (2° grado). Sotto agli accordi troviamo un’altra fonte, i procedimenti previsti da accordi che costituiscono fonti di Diritto Internazionale particolare. Traggono la loro forza dagli accordi che li prevedono e vincolano soltanto gli Stati contraenti (es. sono procedimenti previsti da accordi molti degli atti della CEE costituita appunto da un accordo).

Per quanto riguarda la funzione di accertamento giudiziario bisogna dire che essa è prevalentemente di carattere arbitrale dato che non esistono organi giurisdizionali istituzionali cui il singolo Stato possa ricorrere contro un altro che non accetti di sottoporvisi.

Per quanto riguarda i mezzi che nel Diritto Internazionale permettono l’osservanza delle norme dobbiamo realisticamente riconoscere che siano tutti riparabili alla categoria dell’autotutela. Il Diritto Internazionale poggia su rapporti di mera forza.

E’ discusso in dottrina se il Diritto Internazionale sia o no un vero e proprio diritto. La difesa dell’obbligatorietà del Diritto Internazionale è un problema rilevante, dato che formalmente non esiste nulla che possa imporre ad uno Stato di sottoporvisi. Tale problema si suole risolvere identificando negli operatori giuridici (in primo luogo i giudici) dei singoli Stati coloro che debbono dare attuazione alle norme di Diritto Internazionale.

La cooperazione del diritto interno è indispensabile per assicurare compiutamente al Diritto Internazionale il suo valore e la sua forza in quanto fenomeno giuridico. Ma anche considerando il Diritto Internazionale indipendentemente dai suoi rapporti con gli ordinamenti statali interni esso è il punto di riferimento di una sana diplomazia in un clima di sempre più ampia trasparenza.

3. Lo Stato come soggetto di Diritto Internazionale. Altri soggetti e presunti tali.
Le norme di Diritto Internazionale si indirizzano, almeno formalmente, agli Stati, creando diritti ed obblighi per questi ultimi. Viene da chiedersi tuttavia se lo Stato sia l’unico soggetto del Diritto Internazionale o ve ne siano altri ad affiancarlo. Innanzitutto, pacifico che lo Stato sia, anche nella seconda ipotesi, il soggetto principale, occorre meglio identificare il concetto di “Stato”. Dobbiamo infatti rilevare che il fenomeno giuridico “Stato” si presenta principalmente sotto due aspetti: lo Stato-comunità, intendendo con questa locuzione la comunità di persone che vive tutta su un certo territorio, unita da usi, costumi e da una legge comune; legge comune posta in essere da uno Stato-governo intendendo con quest’ultimo l’insieme dei “governanti” o meglio di tutti gli organi statali che in qualche modo esercitano il loro potere di imperio sui singoli associati. Ecco, è quest’ultima figura il soggetto “Stato” che a noi interessa.

Ora, perchè lo Stato sia legittimamente soggetto di Diritto Internazionale occorre che il suo governo sia “effettivo”. Sono pertanto da escludersi i Governi in esilio e i fronti (o comitati o organizzazioni) di liberazione nazionale (tipo l’O.L.P.). Oltre al requisito della effettività un altro è quello della indipendenza. Occorre cioè che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato (es.: gli Stati membri di uno Stato Federale non sono soggetti di Diritto Internazionale).

L’organizzazione di Governo che eserciti effettivamente e indipendentemente  il proprio potere diviene soggetto di Diritto Internazionale in modo automatico. Non occorre cioè alcun riconoscimento da parte degli altri Stati (quando si sente parlare di riconoscimenti si intende solo che quei due Stati vogliano intraprendere rapporti amichevoli ma non hanno nessuna rilevanza giuridica, solo politica).Chiarito quindi che un’organizzazione di governo diviene automaticamente soggetto quando esercita in modo effettivo ed indipendente il proprio potere su una comunità territoriale, resta risolto anche il problema dei “governi insurrezionali”. Se già durante l’insurrezione gli insorti riescano a instaurare un governo su una parte del territorio non gli si può negare personalità internazionale anche se magari la sua vita sarà breve.

Esistono allora altri soggetti di Diritto Internazionale? Parte della dottrina riconosce negli individui tale prerogativa ma questa tesi non sembra del tutto accettabile dato che sono sempre e solo gli Stati i diretti “recettori” delle norme internazionali anche se queste regolino dei rapporti interindividuali.

Discorso analogo per le minoranze nei confronti delle quali sono numerose le disposizioni ad esempio che le tutelano: recettori delle norme sono comunque sempre gli Stati. Quando poi si parla di “popoli” è solo per conferire maggiore enfasi al concetto di Stato e come tali vanno considerati. Per quanto riguarda l’autodeterminazione ovvero quella facoltà riconosciuta ad una comunità territoriale di “scegliersi” per così dire il Governo dobbiamo considerare che si applica soltanto ai Popoli sottoposti ad un Governo straniero o sottoposti a regime coloniale e a quelli occupati con la forza. Questo perchè una concezione troppo ampia dell’autodeterminazione è di fatto impossibile. Dunque abbiamo visto che il Diritto Internazionale impone allo Stato che governa un territorio non suo di consentirne l’autodeterminazione. Ecco risolto il problema della soggettività: è sempre lo Stato che ha l’obbligo di permettere l’autodeterminazione ed è solo nei suoi confronti che possono scattare sanzioni da parte della comunità degli Stati. Non si può cioè parlare di un vero e proprio diritto soggettivo all’autodeterminazione della comunità territoriale.

Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali (tipo ONU, CEE ecc.) è ormai pacifico riconoscerle la soggettività internazionale al pari degli Stati e numerosi sono i “sintomi”. Non bisogna comunque confondere la personalità internazionale di queste organizzazioni con la loro personalità interna nei rapporti con gli Stati (se ad esempio acquista immobili o contrae obbligazioni sarà il diritto interno dello Stato con cui pone in essere queste situazioni che stabilirà entro quali limiti ha capacità per farlo).

Infine è da considerarsi soggetto di Diritto Internazionale la Chiesa Cattolica, da sempre tradizionalmente riconosciuta.

 

PARTE PRIMA
LA FORMAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

4. Il Diritto Internazionale Generale. La consuetudine ed i suoi elementi costitutivi.
Le norme di Diritto Internazionale Generale hanno natura consuetudinaria in quanto derivano da un comportamento costante ed uniforme tenuto dagli Stati, dal ripetersi cioè di un dato comportamento, accompagnato dalla convinzione dell’obbligatorietà del comportamento stesso. Gli elementi che caratterizzano la consuetudine sono quindi due: la diurnitas (la prassi) e l’opinio juris ac necessitatis. Parte della dottrina sostiene che solo la prassi sia necessaria e che se si ammettesse l’opinio juris sarebbe come dire che il Diritto Internazionale si fonda su “errori” dovuti alla falsa convinzione che la norma da applicare esista già. In realtà si parla di opinio juris ac necessitatis quindi non è tanto l’obbligatorietà a rilevare quanto la doverosità sociale. Inoltre l’opinio juris è il solo criterio utilizzabile per ricavare una norma consuetudinaria dalla prassi internazionale. Serve inoltre a distinguere il comportamento dello Stato diretto a modificare il diritto consuetudinario da un mero illecito internazionale.

Per quanto riguarda la diurnitas il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo contegno tra i membri della comunità internazionale. Resta però inalienabile dato che è il decorso del tempo a conferire alle norme di Diritto Internazionale quel carattere di stabilità insito nel diritto non scritto.

Circa gli organi dello Stato che concorrono alla formazione della norma consuetudinaria possiamo dire che non solo quelli che hanno rilevanza interna ma anche gli organi interni hanno tale facoltà. Non c’è una priorità ma solo la maggiore importanza da valutare caso per caso. Un ruolo decisivo è svolto dalla Giurisprudenza interna e dalla Corti Supreme (specialmente nell’opera di “rinnovamento”).

La consuetudine crea diritto generale e come tale applicabile a tutti gli Stati. Ma anche a quelli di nuova formazione? E’ da considerare irrilevante la contestazione del singolo Stato ma deve essere presa in considerazione quella di gruppi di Stati. E’ chiaro che se un nutrito gruppo di Paesi contesta una norma internazionale evidentemente quest’ultima non può neanche considerarsi “norma internazionale”. Se si ammettesse invece la possibilità di opporsi del singolo Stato ammetteremmo quella concezione del Diritto Internazionale come “accordo tacito” (mentre invece è una sorta di “diritto spontaneo”).

Anche le “consuetudini particolari”, quelle cioè vincolanti una ristretta cerchia di Stati, sono da ammettersi (es. le consuetudini regionali o locali tipo quelle formatesi fra i paesi dell’America Latina). Spesso si tratta di diritto non scritto teso a modificare o abrogare regole di un determinato trattato precedentemente pattuito. Questo comportamento è criticabile solo quando esista un organo internazionale preposto a tali modifiche (es. nelle Comunità Europee).

Anche nel Diritto Internazionale si ricorre all’interpretazione analogica (es. classico quello che le norme sulla navigazione marittima, a loro tempo, furono applicate anche per la navigazione aerea).

5. I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
Esistono norme di Diritto Internazionale diverse da quelle consuetudinarie? L’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia (organo arbitrale  della Nazioni Unite) annovera tra le fonti “i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”. Il ricorso a tali principi costituirebbe una sorta di analogia juris destinata a colmare le lacune del diritto pattizio e consuetudinario. Del resto se tale principio esiste in quasi tutti gli Stati perchè negarne l’applicabilità in campo internazionale? Semmai il problema è un altro ovvero identificare questi principi. A nostro avviso sono due le condizioni che debbono sussistere: a) tali principi devono esistere nella maggior parte degli Stati; b) occorre che siano sentiti come obbligatori e necessari anche in ambito internazionale. Così intesi, i principi generali del Diritto Internazionale costituiscono una categoria sui generis di norme consuetudinarie dove la diurnitas è data dalla loro uniforme previsione e applicazione da parte degli Stati all’interno dei rispettivi ordinamenti.

Dato che, come abbiamo detto, uno dei requisiti fondamentali per l’esistenza di un principio internazionale è la sua previsione dalla maggior parte degli Stati si deduce che tale principio sia invocabile dal giudice interno di uno Stato nel quale tale principio non esista sempre che l’ordinamento interno preveda l’osservanza del Diritto Internazionale (es. Art. 10 Cost. Italiana).

6. Altre presunte norme generali non scritte.
Una parte della dottrina, guidata dal Quadri, trova nei principi delle norme superiori. Quindi consuetudine e trattati sarebbero fonti di secondo grado subordinate ad alcuni super-principi che avrebbero carattere formale o materiale a seconda che disciplinino altre fonti o regolino direttamente i rapporti fra Stati. I Principi formali sarebbero due: consuetudo est servanda e pacta sunt servanda. Fin qui, tutto sommato, niente da criticare, potremmo anche essere d’accordo. Il problema è che secondo la concezione del Quadri i principi materiali potrebbero avere qualsiasi contenuto a seconda che le forze prevalenti si combinino per volere una certa disciplina di una determinata materia (fino anche a giustificare il ricorso alla guerra). Se così fosse arriveremmo a legittimare ogni abuso.

Si discute se l’equità, intesa come ausilio meramente interpretativo, possa costituire fonte di norme internazionali. La risposta sembra dover essere negativa in quanto se il Diritto Internazionale è lacunoso significa che gli Stati non hanno obblighi da osservare e l’equità non può essere idonea a crearli.
7. Inesistenza di norme generali scritte. Il valore degli accordi di codificazione.
Resta da analizzare il problema se esistano norme internazionali scritte. Tale problema si pone anzitutto con riguardo alle grandi convenzioni di codificazione promosse dalle Nazioni Unite. E’ ovvio che non esistendo in ambito internazionale nessun organo preposto alla codificazione, il trattato è l’unico strumento adoperabile per la trasformazione del diritto non scritto in diritto scritto.

L’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite prevede che l’Assemblea generale intraprenda studi e faccia raccomandazioni per incoraggiare lo sviluppo progressivo del Diritto Internazionale e la sua codificazione. Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì un proprio organo sussidiario composto da esperti che vi risiedono a titolo personale con il compito di preparare testi di codificazione delle norme procedendo a studi, inviando questionari agli Stati, raccogliendo dati dalla prassi ecc. Queste codificazioni rimangono poi aperte alla ratifica da parte degli Stati. Numerosi sono Stati gli interventi di tale commissione anche se solo poche convenzioni sono state ratificate da un numero cospicuo di Stati. Spesso non si sono raggiunte le 50 adesioni.

Gli accordi di codificazione, in quanto comuni accordi, vincolano gli Stati contraenti. Qualcuno tende però a sostenere che siccome si tratta di atti che mirano a codificare il diritto generale, abbiano valore anche per gli Stati non contraenti. Innanzitutto non è il caso di riporre un’illuminata fiducia nell’opera della Commissione di Codificazione delle Nazioni Unite. Spesso nell’opera di ricostruzione influisce in modo determinante la mentalità dell’interprete, i tempi, le situazioni internazionali ecc. Mentalità e generazione possono insomma essere abbastanza determinanti nel ritenere esistenti certe norme non scritte o nel cancellarne altre. Inoltre, non si può negare, che durante i “lavori” tutti gli Stati cercano di salvaguardare soprattutto i propri interessi. Si può quindi affermare che gli accordi di codificazione valgono solo per gli Stati che li ratificano.

A questo punto rileva il problema del rinnovamento delle norme pattizie. Spesso infatti le convenzioni di codificazione non prevedono termini o procedure di revisione, hanno valore illimitato. E’ chiaro che invece, in un mondo in sempre più rapida trasformazione, capita spesso di trovarsi davanti ad una norma di Diritto Internazionale codificata ma non più rispondente ad esigenze attuali. Si deve allora considerare che norme consuetudinarie e norme pattizie sono sullo stesso piano nelle fonti di Diritto Internazionale. Quindi se l’interprete è estremamente sicuro della prassi da cui intende estrarre la norma abrogatrice e anche gli altri Stati siano sostanzialmente concordi la norma pattizia deve soccombere.

8. Le dichiarazioni di principi dell’assemblea generale dell’ONU.
Le dichiarazioni di principi (per esempio la famosa Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo) non costituiscono una autonoma fonte di norme internazionali generali in quanto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non ha poteri legislativi. Quindi anche le Dichiarazioni non hanno carattere vincolante. Tuttavia è ragionevole inquadrare certe Dichiarazioni come accordi e come tali vincolanti quando prevedano esse stesse che la loro inosservanza sia contraria ai principi della Carta. In tale ipotesi è lecito pensare che i paesi che partecipano all’approvazione con voto favorevole vogliano obbligarsi.

9. I Trattati.
Anche i trattati, come tutte le fonti del diritto, possono avere natura materiale o formale, rispettivamente nei casi in cui si tratti di norme dirette a disciplinare certi rapporti oppure siano regole formali per la creazione di altre norme. Tale è il caso dei trattati istitutivi di Organizzazioni internazionali che oltre a disciplinare i rapporti fra gli Stati membri demandano in più o meno larga misura agli organi sociali la produzione di norme ulteriori.

Come nel diritto interno i contratti sottostanno alla legge, così i Trattati Internazionali sottostanno a quella particolare categoria di norme consuetudinarie costituita dai principi generali del Diritto Internazionale che ne disciplinano il procedimento di formazione nonché i requisiti di validità ed efficacia. A tale complesso di regole è dedicata una delle grandi codificazioni elaborata dalla Commissione di Diritto Internazionale, la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei Trattati. L’art. 4 di tale convenzione stabilisce nella prima parte un principio ovvio e cioè che le regole contenute nella convenzione sarebbero applicabili anche senza la convenzione stessa essendo norme di Diritto Internazionale. Ma ciò ha un significato, in luce della seconda parte, perchè la convenzione contiene anche norme innovative. Infatti prosegue l’art. 4 in implicito riferimento a quest’ultime norme che la validità di queste non ha effetto retroattivo e obbligano solo gli Stati che ratificano la convenzione. Unico dubbio rimane nel caso di trattati multilaterali dove alcuni abbiano ratificato la convenzione, altri ne siano estranei. In tal caso si deve ritenere che fra gli Stati che abbiano ratificato la Convenzione le nome di quest’ultima siano vincolanti mentre per quelli estranei no. Ciò comporta una fastidiosa scissione nella disciplina di un accordo multilaterale qualora appunto certi Stati siano legati alla convenzione e altri no.

Vediamo ora come si arriva alla stipulazione di un accordo. Dobbiamo premettere che il Diritto Internazionale lascia la più ampia libertà di forma e procedura e che quindi ogni manifestazione di volontà da parte di due o più Stati che vogliono obbligarsi a seguire determinate regole è sufficiente a formare un accordo. Tuttavia, il procedimento normale di formazione degli accordi segue ancora quello dell’epoca delle monarchie assolute (chiamato anche solenne). Tutto inizia con una fase di negoziazione fra i plenipotenziari. Questi sono così definiti perchè dotati di pieni poteri per la negoziazione (di solito organi dell’Esecutivo). Per raggiungere l’accordo si va sostituendo al principio dell’unanimità quello della maggioranza. Al termine delle negoziazioni abbiamo la firma da parte dei plenipotenziari dell’atto. Si noti bene che tale firma ha un solo fine di “autenticazione” dell’atto e non vincola in nessun modo gli Stati. Perchè un accordo possa, per così dire, entrare in vigore occorre la ratifica da parte degli Stati. Solitamente tale funzione è ancora racchiusa nella mani del Capo dello Stato (almeno formalmente). [vedere artt. 80, 87, 89 Cost. per il procedimento di ratifica Italiano].
Caso “particolare” di ratifica è l’adesione che si ha nel caso in cui uno Stato che non ha preso parte alla preparazione di un trattato multilaterale decida poi di aderirvi e quindi vincolarsi ad esso. Chiaramente occorre che tale ipotesi sia prevista dal trattato stesso (cosiddetti trattati aperti). Il procedimento si conclude con lo scambio o il deposito delle ratifiche. Nel primo caso l’efficacia è istantanea, nel secondo l’efficacia vale per gli Stati che via via la depositano.

Data l’ampia libertà di forma nel procedimento di formazione dei trattati, come detto in precedenza, gli Stati possono ricorrere a forme alternative alla solenne. Quella più in uso è la cosiddetta “forma semplificata” che consiste nell’attribuire alla firma dell’accordo da parte dei plenipotenziari il valore di piena manifestazione di volontà (es. negli scambi di note diplomatiche). Naturalmente, per aversi accordo in forma semplificata, occorre che dal testo del trattato. Ciò è importante per distinguere tali accordi da mere intese tra Governi (un esempio è costituito dalle intese fra Stati che abbiano stipulato un accordo e che, d’intesa, conferiscano a questo applicazione provvisoria in attesa di ratifica. Per quanto riguarda la competenza a stipulare accordi in forma semplificata, questa spetta agli organi previsti dalle norme costituzionali dei vari Stati. In Italia, in particolare, accogliendo la tesi del Cassese con l’esclusione dei casi previsti dall’art. 80 Cost. sembra che il Governo possa o intraprendere la via Solenne facendo poi intervenire il capo dello Stato o stipulare direttamente [v. caso particolare sugli oneri alle finanze pag. 74]. La prassi degli accordi in forma semplificata si è andata estendendo in modo impressionante negli ultimi anni (per esempio negli Stati Uniti).

Un problema fondamentale in materia di trattati internazionali è quello che riguarda la competenza a stipulare e in particolare il caso in cui un accordo sia promosso e concluso da un organo non legittimato costituzionalmente. La dottrina non è uniforme: per risolvere il problema c’è chi sostiene il ricorso alla Costituzione Vivente, chi alla buona fede. Analizzando l’art. 46 della Convenzione di Vienna dobbiamo concludere che il trattato sia invalido in caso di mancato intervento di un organo dotato di potere decisionale effettivo (sancito costituzionalmente). Il ricorso alla buona fede (seconda parte art. 46) non sembra invece un principio di Diritto Internazionale anche perchè molto raramente interviene in tale ambito [v. anche problematica relativa alla partecipazione delle Regioni nei procedimenti Internazionali di formazione dei trattati pag. 81]. Naturalmente tutto ciò vale anche nel caso in cui invece degli Stati siano Organizzazioni internazionali a stipulare, con la differenza che in questo caso la competenza a stipulare potrebbe essere determinata dalla consuetudine anche in deroga a norme scritte del trattato istitutivo dell’Organizzazione medesima.

10. Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra norme convenzionali.
Perchè un trattato abbia ripercussioni giuridiche anche su uno Stato terzo, come già abbiamo detto, occorre sempre da parte di quest’ultimo una forma di accettazione. E’ chiaro che le parti di un trattato possono sempre impegnarsi a tenere comportamenti vantaggiosi per i terzi (es. possibilità di navigare un fiume concessa a tutti gli Stati). La Convenzione di Vienna in proposito disciplina che “un trattato non crea obblighi o diritti per un terzo senza il suo consenso” (art. 34) e che un eventuale obbligo può derivare dalla disposizione di un trattato solo se “lo Stato terzo accetta espressamente per iscritto tale obbligo”.

Vediamo ora il problema della incompatibilità fra norme convenzionali. Cosa accade cioè se uno Stato si impegna con un certo accordo e poi, con Stati diversi, ne adotta un altro con norme sostanzialmente incompatibili a quelle del primo? Oppure se in un accordo multilaterale due o più parti di tale accordo ne modifichino le norme con estensione anche agli altri Stati? Per arrivare alla soluzione dobbiamo combinare due principi: quello della successione dei trattati nel tempo e quello dell’inefficacia dei trattati per i terzi: fra gli Stati contraenti entrambi i trattati , vale quello successivo; nei confronti degli Stati che siano parti di uno solo dei due trattati, restano invece integri, nonostante l’incompatibilità, tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano. Lo Stato contraente di entrambi i trattati dovrà scegliere a quale tener fede e sarà quindi internazionalmente responsabile verso gli Stati contraenti del secondo oppure del primo accordo. Tale soluzione è accolta anche dalla Convenzione di Vienna (artt. 30 e segg.). Comunque non è il caso di drammatizzare più del dovuto su questo problema in quanto gli Stati sono di regola molto attenti ad evitare situazioni del genere. Frequenti sono le cosiddette dichiarazioni di “compatibilità” o di “subordinazione” contenute in un trattato nei confronti di un altro o di una serie di altri trattati preesistenti che vincolino una delle parti. In casi del genere il problema è risolto alla radice. Un esempio importante di clausola di compatibilità è quella prevista dall’art. 234 del Trattato istitutivo della CEE.

11. Le riserve nei trattati.
La  riserva indica la volontà dello Stato di non accettare certe clausole del Trattato o di accettarle con talune modifiche oppure secondo una determinata interpretazione; cosicché tra lo Stato autore della riserva e gli altri Stati contraenti, l’accordo si forma solo per la parte non investita dalla riserva, laddove il Trattato resta integralmente applicabile agli Stati. La disciplina della riserva ha chiaramente senso solo quando riguarda trattati multilaterali. La sua funzione principale è quella di facilitare la più larga partecipazione a tali trattati. Secondo il Diritto Internazionale classico la possibilità di apporre riserve da parte degli Stati contraenti doveva risultare espressamente dal testo del trattato. Non era quindi ammissibile la ratifica di un trattato accompagnata da riserve non previste. In seguito all’indirizzo segnato dalla Corte Internazionale di Giustizia e recepita dalla Convenzione di Vienna possiamo sintetizzare l’odierna disciplina nei seguenti punti:
a) Le riserve sono ammissibili se non sono espressamente vietate dal trattato o incompatibili con l’oggetto e lo scopo di quest’ultimo.
b) L’accettazione di una riserva in qualsiasi modo manifestata, da parte di un altro Stato contraente, elimina ogni questione nei rapporti  tra lo Stato autore della riserva  e lo Stato accettante.
c) L’obiezione avanzata contro una riserva impedisce il formarsi del vincolo contrattuale tra Stato autore e Stato obbiettante solo se all’obiezione si accompagna una chiara volontà in tal senso
d) Le riserve inammissibili comportano la non partecipazione del loro autore al trattato, salvo che lo stesso autore abbia manifestato una volontà contraria.

Per quanto riguarda la competenza a formulare le riserve sorge un problema quando alla formazione della volontà di uno Stato sono chiamati a partecipare più organi (es. Parlamento e Governo in Italia). La prassi ha dato luogo a vivaci scontri dottrinali fra chi sostiene che il Governo “possa” e chi “non possa” formulare riserve non previste dalla legge di autorizzazione.

12. L’interpretazione dei trattati.
La tendenza oggi prevalente è nel senso dell’abbandono del metodo “subbiettivistico” (ovvero la ricerca della volontà affettiva delle parti come avviene nella disciplina di diritto interno dei contratti) a favore di quello “obbiettivistico” cioè l’interpretazione dei trattati si deve desumere direttamente dal testo, dai rapporti di connessione logica intercorrenti tra le varie parti del testo. Anche la Convenzione di Vienna appoggia tale tesi (artt. 31-33).  Nell’interpretazione obbiettivistica valgono quelle regole che la teoria generale ha elaborato nei confronti dell’interpretazione delle norme giuridiche in genere: interpretazione estensiva, analogica, restrittiva. E’ da abbandonare la vecchia convinzione che le norme di Diritto Internazionale fossero sempre da interpretare restrittivamente in quanto comportano una limitazione della sovranità e libertà degli Stati.

Oltre ai normali mezzi di interpretazione vale anche per i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali la cosiddetta teoria dei “poteri impliciti”. Secondo tale teoria ogni organo di una tale organizzazione disporrebbe non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali ma anche di tutti i poteri necessari per l’esercizio dei poteri espressi. Essa appare però eccessiva, l’esatto contrario alla concezione restrittiva.

Per quanto riguarda le interpretazioni unilateralistiche, sembra che debbano essere escluse. Mal si conciliano con l’idea stessa di Trattato, in quanto punto di incontro e di fusione della volontà degli Stati contraenti e muovono coscientemente o incoscientemente dalla presunzione che la volontà di ciascuno Stato sia nel senso di obbligarsi in modo conforme al proprio diritto, ovvero da una interpretazione di tipo subbiettivistico spinta all’eccesso.

 

13. La successione degli Stati nei trattati.
Il problema della successione riguarda quelle situazioni in cui uno Stato si sostituisce ad un altro nel governo di un territorio. A tale materia è dedicata una Convenzione firmata a Vienna nel ‘78 che tuttavia non è ancora in vigore per non aver raggiunto il limite minimo di adesioni previste dalla Convenzione stessa per la sua efficacia.

Un principio è pacificamente riconosciuto: lo Stato che in qualsiasi modo si sostituisce ad un altro nel governo di una comunità territoriale è vincolato dai trattati di natura reale o territoriale che riguardano appunto l’uso di determinate parti di territorio (cosiddetta “localizzabilità”). Un limite a tale principio può essere costituito dalla intrasmissibilità dei trattati di natura politica (es. accordi che concedono parti di territorio per basi militari straniere ecc.). In realtà più che un limite autonomo si tratta del principio generale secondo il quale un trattato si annulla se mutano radicalmente le circostanze esistenti al momento della conclusione.

Per quanto riguarda i trattati non localizzabili il punto di partenza è il principio della tabula rasa: lo Stato che subentra nel governo di un territorio non è, in linea di principio, vincolato dagli accordi del predecessore. Vediamo le singole ipotesi che si possono configurare.

Nel caso una parte di territorio passi da uno Stato ad un altro anche gli accordi vigenti diverranno quelli del nuovo Stato (mobilità delle frontiere dei trattati). Scompaiono gli accordi del predecessore e avanzano i nuovi. Se invece la parte distaccata va a formare autonomamente un nuovo Stato questo si vedrà libero dagli obblighi dello Stato cui prima apparteneva (principio della tabula rasa). Per i trattati multilaterali aperti all’adesione, lo Stato di nuova formazione può procedere alla cosiddetta notificazione di successione (in luogo dell’adesione) con effetti retroattivi al momento dell’acquisto dell’indipendenza. Stessa disciplina nel caso in cui uno Stato si smembri, dia cioè vita a nuovi Stati. Opposti al distacco e allo smembramento sono l’incorporazione e la fusione con la particolarità che nel caso in cui dopo un incorporazione gli Stati mantengano un certo grado di autonomia (es. federazione) non sarà il principio della tabula rasa a valere ma quello della continuità. Ultima ipotesi è quella del mutamento radicale di governo. Non ci sono qui sconvolgimenti territoriali ma solo un cambiamento del governo. In tal caso gli accordi del predecessore saranno validi ad esclusione di quelli incompatibili con il nuovo assetto istituzionale.

Circa la successione nei debiti contratti mediante accordo internazionale vale sempre il principio della tabula rasa salvo i debiti localizzabili ossia i debiti contratti con esclusivo riguardo al territorio oggetto del cambiamento di sovranità, ad es. al fine di finanziarie opere pubbliche nel territorio.

14. Cause di invalidità e di estinzione dei trattati.
Fra le cause di invalidità e di estinzione degli accordi internazionali ne troviamo molte analoghe a quelle proprie dei contratti, e più in generale dei negozi giuridici del diritto interno. Tanto per fare qualche esempio: l’errore essenziale, il dolo, la violenza per quanto riguarda l’invalidità; la condizione risolutiva, il termine finale, la denuncia, il recesso, l’inadempimento, la sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione, l’abrogazione per quanto riguarda l’estinzione.

Tra le cause d’estinzione troviamo la violenza esercitata sullo Stato al fine di costringerlo all’accordo. La violenza è intesa come “minaccia all’uso di forza armata” e la prassi non sembra riconprendere in tale categoria pressioni di altro genere (politiche, economiche ecc.).

Altra forma particolare di estinzione dei trattati è il principio rebus sic stantibus secondo il quale un trattato si estingue quando le circostanze di fatto esistenti al momento della stipulazione siano radicalmente mutate.

La guerra non determina l’estinzione dei trattati come invece sembrava secondo il Diritto Internazionale classico. Oggi si deve applicare il principio rebus sic stantibus per determinare quali trattati devono estinguersi.

Quali sono i mezzi per far valere una causa di invalidità o di estinzione? Operano in automatico o occorre un atto formale? La dottrina è divisa. Sembra da accettare l’ipotesi secondo la quale tale rilevazione è automatica e spetterebbe ai giudici interni (soprattutto) di applicare o no un accordo “critico”. In questo caso però la decisione vale per ogni singolo caso concreto e non vincola altri giudici o lo stesso giudice in un’altra fattispecie. Una denuncia formale invece, a meno che non sia espressamente prevista dall’accordo medesimo, non è indispensabile e tende solo a manifestare una volta per tutte la volontà dello Stato di sciogliersi. [la Convenzione di Vienna prevede una disciplina particolare. V. pag. 135].
15. Le fonti previste da accordi. Il fenomeno delle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite.
Si è già detto che i trattati possono contenere non solo norme materiali ma anche regole formali e strumentali per istituire nuove fonti di produzione. Tali sono i trattati istitutivi di organizzazioni internazionali. Generalmente comunque l’attività di tali organizzazioni non è tanto quella di legiferare ma di facilitare la collaborazione fra Stati e predisporre progetti di Convenzioni aperti alla ratifica.

L’Organizzazione delle Nazioni Unite fu fondata dopo la seconda guerra mondiale dagli Stati che avevano combattuto contro le Potenze dell’Asse e prese il posto della Società delle Nazioni. La conferenza di San Francisco ne elaborò del 1945 la Carta. Organi delle NU sono:
a) Il Consiglio di Sicurezza, composto di 15 membri (5 a titolo permanente con diritto di veto: Stai Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna - 10 eletti biennalmente dall’assemblea). Si occupa delle questioni attinenti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
b) L’Assemblea Generale, composta da rappresentanti di tutti i paesi, ha la competenza più vasta ma quasi nessun potere vincolante (cosa che invece ha il Consiglio di Sicurezza).
c) Il Consiglio economico e sociale, composto da membri eletti dall’Assemblea ogni 3 anni.
d) Il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria (che sta esaurendo la propria funzione consistente nel controllo sull’amministrazione dei territori di tipo coloniale).
e) Il Segretariato, nella persona del Segretario Generale, è l’organo esecutivo.
f) La Corte di Giustizia, composta da 15 giudici, ha anche una funzione consultiva.
Tutti questi organi, ad esclusione del Segretario Generale e della Corte di Giustizia sono composti da Stati. Gli ultimi due invece sono individuali.
Individuare la competenza dell’Organizzazione non è agevole tanto è estesa. E’ più semplice indicare le materie di cui non può occuparsi che ai sensi dell’art. 2 par. 7 sono quelle di essenziale appartenenza alla competenza interna di uno Stato. Possiamo comunque individuare tre settori fondamentali di competenza:
a) Mantenimento della Pace.
b) Sviluppo delle relazioni amichevoli fra gli Stati fondati sul rispetto del principio di uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli.
c) Collaborazione in campo economico, sociale, culturale e umanitario.
All’ampiezza dei fini dell’Organizzazione non corrispondono tuttavia poteri vincolanti nei confronti degli Stati membri. I casi di decisioni vincolanti sono rari e possiamo individuare:
a) Per quanto riguarda l’Assemblea Generale la possibilità di imporre la ripartizione delle spese dell’Organizzazione fra gli Stati membri.
b) Sempre l’Assemblea può determinare in modo vincolante modo e tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale.
c) Al Consiglio di Sicurezza è riconosciuta la capacità di intraprendere azioni belliche contro uno Stato e sanzioni di altro genere (embargo ecc.).

16. Gli istituti specializzati delle Nazioni Unite.
FAO: Le sue funzioni spaziano dall’attività di ricerca ed informazione alla promozione ed esecuzione di programmi di assistenza tecnica e di aiuti nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione.
ILO: Organizzazione Internazionale del Lavoro. Emana raccomandazioni ed elabora progetti di Convenzioni multilaterali in materia di lavoro.
UNESCO: Si propone di diffondere la cultura, di promuovere lo sviluppo dei mezzi di educazione all’interno degli Stati membri e l’accesso all’istruzione senza distinzioni di sesso, razza, condizione economica ecc.
ICAO: Regola il traffico aereo. Vincola tutti gli Stati anche quelli dissenzienti.
WHO: L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha l’obiettivo di far conseguire a tutti gli Stato il livello più alto di salute. Svolge e ha svolto una intensa opera di assistenza tecnica.
IMO: Regola i traffici marini ma non è mai vincolante.
ITU: Telecomunicazioni.
WMO: Meteorologia.
UPU: Poste.
IMF, IBRD, IFC, IDA: Fondo Monetario Internazionale, Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, Organo Finanziario Internazionale, Associazione Internazionale per lo Sviluppo. Si propongono di promuovere la collaborazione monetaria internazionale, la stabilità dei cambi, l’equilibrio della varie bilance dei pagamenti ecc. Dispone di un capitale sottoscritto pro quota dagli Stati membri.
IFAD: Il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo ha la funzione di promuovere lo sviluppo dell’agricoltura nei paesi poveri soprattutto mediante prestiti.
WIPO: Si occupa della proprietà intellettuale nel mondo, assicurando la cooperazione amministrativa tra le Unioni già esistenti nel settore.
UNIDO: Ha prevalentemente funzioni operative in ambito di sviluppo industriale tecnologico.
IAEA: promuove lo sviluppo e la diffusione delle applicazioni pacifiche dell’energia atomica.

17. Le comunità Europee.
Le tre comunità costituiscono delle organizzazioni tra loro separate e indipendenti e furono costituite in tempi diversi: 1951 a Parigi per la CECA, 1957 a Roma per CEE e EURATOM. Sebbene separate come abbiamo detto, le comunità hanno gli organi fondamentali in comune. Con l’atto Unico del 1986 (firmato a Lussemburgo) furono apportate alcune modifiche alle comunità per potenziare certe funzioni del Parlamento Europeo e per rafforzare ed estendere l’integrazione economica fra gli Stati membri.  Fra le tre comunità la CEE è senza dubbio la più importante. CECA ed EURATOM sono organizzazioni settoriali, rispettivamente per attività carbosiderurgiche e per l’energia atomica. La CEE invece ha preso vita e si è sviluppata come una Organizzazione che investe tutta la vita economico-sociale degli Stati membri. Prevede la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, assicura la libera concorrenza, sostiene una politica agricola comune ecc.

Gli organi delle Comunità Europee sono essenzialmente quattro:
a) La Commissione, organo composto da individui e non da Stati. Nella CEE e nell’EURATOM ha solo poteri di iniziativa ed esecutivi mentre nella CECA è l’organo decisionale effettivo.
b) Il Consiglio, organo costituito dai rappresentanti degli Stati è presieduto a turno da ciascun membro per sei mesi. Nella CEE (ed EURATOM) emana gli atti più importanti della legislazione comunitaria mentre nella CECA ha prevalentemente funzioni consultive.
c) L’Assemblea o Parlamento Europeo, formata a partire dal 1979 dai rappresentanti dei popoli degli Stati membri eletti a suffragio universale e diretto, dispone di un potere decisionale assai scarso e non è certo da considerare come l’organo legislativo delle Comunità. Essa esprime pareri e procede ad interrogazioni nei confronti degli altri organi; inoltre può votare una mozione di sfiducia nei confronti della Commissione, provocandone le dimissioni.
d) La Corte di Giustizia veglia sul rispetto del trattato, ha una serie di competenze interessanti e nuove e può tra l’altro essere adita anche dagli individui. Ad essa, così come previsto dall’atto unico europeo, è stato affiancato nel 1988 e limitatamente ad un certo tipo di controversie un Tribunale di primo grado.

L’art. 189 del Trattato CEE prevede i seguenti tipi di atti vincolanti:
a) Regolamenti: sono gli atti comunitari più importanti e completi. Il regolamento è l’atto attraverso il quale la legislazione comunitaria può sovrapporsi o sostituirsi alle norme interne degli Stati membri. Ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.
b) Decisioni: differiscono dai regolamenti perchè non hanno portata generale ma concreta ed individuata. Una decisione in altri termini si indirizza ad uno Stato membro, ad una impresa o ad un individuo determinato e il soggetto destinatario è tenuto ad osservarla.
c) Direttive: la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Anche la direttiva come le decisioni deve essere notificata allo Stato o agli Stati destinatari.
Ultimamente assistiamo ad un singolare fenomeno. Questo consiste nell’emanazione di direttive cosiddette “dettagliate” tanto da renderle sostanzialmente identiche ai regolamenti. Circa la loro legittimità dobbiamo verificare se la materia che disciplinano sia regolabile anche mediante regolamento e in tal caso nessun problema. Se invece fosse prevista la sola direttiva la legittimità di tali direttive è da negarsi. Per attenuare tale tesi è possibile sostenere che l’illegittimità sia sanata allorché lo Stato esegua comunque la direttiva.
d) Raccomandazioni e pareri: non hanno efficacia vincolante.

Possiamo poi trovare una serie di atti atipici affermatisi con la prassi. Per citare un esempio tali sono alcune decisioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio (es. le cosiddette riunioni di accelerazione). Tali atti vanno considerati come accordi in forma semplificata conclusi tra gli Stati membri.

La CEE, in qualità di organizzazione internazionale può concludere essa stessa accordi internazionali. L’art. 228, oltre a stabilire la competenza degli organi a stipulare, sancisce un principio “anomalo” rispetto al Diritto Internazionale classico: gli accordi conclusi dalle Comunità sono vincolanti per le istituzioni delle Comunità stesse e per gli Stati membri. [Accordi di associazione e accordi commerciali, pag. 166]. La competenza della CEE a concludere accordi internazionali nei casi contemplati dal Trattato ha carattere esclusivo. Gli Stati mebri non possono quindi concludere accordi per conto loro nelle stesse materie a meno che non ottengano l’autorizzazione da parte del Consiglio. A questo punto rileva un altro problema: può la Comunità stipulare in una delle tante altre materie regolate dal trattato che non siano accordi di associazione o commerciali? La concezione classica dava parere negativo. Negli ultimi anni è però intervenuta la giurisprudenza della Corte comunitaria a sostenere il contrario. Secondo tale tendenza che si fonda sul parallelismo tra competenze interne ed esterne, la CEE ha la competenza a concludere accordi con Stati terzi in tutte quelle materie in cui può emanare atti di legislazione comunitaria. Gli Stati membri restano liberi di stipulare accordi internazionali finché la Comunità non abbia agito all’interno o all’esterno.

18. Il Consiglio d’Europa e gli organi europei per la tutela dei diritti umani.
Subito dopo la seconda guerra mondiale furono istituite due organizzazioni che hanno dato un notevole contributo al rafforzamento dei vincoli tra gli Stati dell’Europa occidentale: l’OCSE e il Consiglio d’Europa. Quest’ultimo in particolare ha il fine di conseguire una più stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e sociale. Tale organo elaborò la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950. Le norme di questa convenzione possono essere divise in due gruppi: uno normativo, uno procedurale che da vita a due organi, la Commissione e la Corte europea dei diritti dell’uomo, destinati insieme al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a garantire sul piano internazionale il rispetto della Convenzione stessa. [Per il procedimento dei ricorsi v. pag. 172]

19. Altri organi per la tutela dei diritti umani.
L’esperienza Europea ha servito da modello per altre Convenzioni: quella americana, la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli ecc. Per quanto riguarda i Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani dobbiamo dire che la differenza più importante fra questi e la Convenzione europea è il minor potere e le ristrette funzionalità degli organi preposti al controllo sull’osservanza dei Patti.

20. Le raccomandazioni degli organi internazionali.
Come detto più volte, la raccomandazione non è vincolante per lo Stato destinatario dell’atto stesso. Possiamo però ritenere che nonostante ciò la raccomandazione produca un effetto importante che è quello della “liceità”. Secondo tale principio, lo Stato che in seguito ad una raccomandazione vada contro a precedenti impegni assunti mediante accordo o obblighi derivanti dal Diritto Internazionale. L’effetto della liceità è da ammettere soltanto nei rapporti fra gli Stati membri e solo in ordine a raccomandazioni legittime. Inoltre l’effetto della liceità potrà verificarsi solo fra quegli Stati membri che abbiano votato a favore della raccomandazione o che comunque l’abbiano approvata senza alcuna riserva; nei confronti degli Stati che abbiano votato contro o si siano astenuti l’effetto della liceità dovrà escludersi.

21. La gerarchia delle fonti internazionali.
Tracciamo ora un quadro della gerarchia delle fonti del Diritto Internazionale. Al vertice troviamo le norme Consuetudinarie, seguono i trattati e infine le fonti previste da accordi. Resta da analizzare il problema circa la possibile derogabilità delle norme di grado superiore da parte di quelle inferiori. Le norme consuetudinarie sono caratterizzate dallo loro flessibilità e quindi la loro derogabilità da parte di accordi è da ammettere. Questo però se le norme del Diritto Internazionale da derogare non fanno parte di quel gruppo particolare che è costituito dalle norme cogenti. Il problema è quindi individuare queste norme cogenti (e quindi inderogabili) dato che anche la Convenzione di Vienna non è di grande aiuto. Partiamo comunque dall’art. 103 della Carta. Secondo tale articolo in caso di contrasto tra gli obblighi contratti fra i membri delle Nazioni Unite in base alla Carta e gli obblighi assunti con qualsiasi altro accordo internazionale prevalgono i primi. Questo è confermato dalla prassi tanto da farlo considerare non un semplice articolo di un accordo ma una vera e propria norma consuetudinaria. Fra gli obblighi che possono farsi rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 103 ne troviamo alcuni degni di nota: a) il principio che impone agli Stati di astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza nei rapporti internazionali (salva l’autotutela); b) principio di collaborazione in campo economico tra gli Stati; c) rispetto della dignità umana; d) autodeterminazione dei popoli.

Sempre sul tema dei rapporti tra consuetudini e accordi dobbiamo riconoscere come inderogabili le norme sulle cause di estinzione e invalidità dei trattati.

Per quanto riguarda infine gli atti delle organizzazioni internazionali il problema dei limiti entro i quali essi possono derogare alle norme dei trattati che ne prevedono l’emanazione va ovviamente risolto caso per caso.

PARTE SECONDA
IL CONTENUTO DELLE NORME INTERNAZIONALI

22. Il contenuto del Diritto Internazionale come insieme di limiti all’uso della forza internazionale ed interna degli Stati.
Il contenuto del Diritto Internazionale attuale (in riferimento naturalmente alle norme materiali) è vastissimo. Tuttavia possiamo senz’altro affermare che si snodi intorno ad un filo conduttore: insieme di limiti all’uso della forza da parte degli Stati. Forza intesa sia esternamente che internamente. Per forza esterna si intende la forza di tipo bellico ovvero qualsiasi atto che implichi operazioni militari. Definire invece la forza interna è cosa meno semplice dato che consiste nel potere di Governo esplicato sugli individui e sui loro beni. Possiamo sintetizzare che il potere di Governo sia costituito da qualsiasi intervento concreto di organi statali, sia avente esso stesso natura coercitiva sia in quanto suscettibile di essere coercitivamente attuato.

23. La sovranità territoriale.
La prima e fondamentale norma consuetudinaria in tema di delimitazione del potere di governo dello Stato è quella della sovranità territoriale. In base a tale norma può dirsi che ad ogni Stato è riconosciuto il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulla comunità territoriale. Correlativamente ogni Stato ha l’obbligo di non esercitare in territorio altrui il proprio potere di governo, ossia di non svolgervi con i propri organi azioni di natura coercitiva o comunque suscettibili di essere coercitivamente attuate. In linea di principio oltre ad essere esclusivo il potere di governo è anche libero. In linea di principio perchè, nato come assoluto, è andato via via restringendosi con l’affermazione del Diritto Internazionale moderno. Ad esempio notevoli eccezioni rilevano a proposito del trattamento di certi stranieri (come agenti diplomatici ecc.). Altri importanti limiti sono quelli che perseguono valori di giustizia e solidarietà tra i popoli.

Per quanto riguarda l’acquisto della sovranità territoriale vale il criterio della effettività del potere di governo. La prassi sembra ancor oggi sostanzialmente orientata nel senso che l’effettivo e consolidato esercizio del potere di governo su di un territorio comunque conquistato comporti l’acquisto della sovranità territoriale.

24. I limiti della sovranità territoriale. Il trattamento degli stranieri.
Due sono i principi fondamentali in materia di trattamento degli stranieri.
a) Il primo prevede che allo straniero non possano imporsi prestazioni, e più in generale non possano richiedersi comportamenti che non si giustifichino con un sufficiente “attacco” dello straniero stesso con la comunità territoriale. In particolare non potranno applicarsi sanzioni penali se non di fronte a reati che dovunque siano stati commessi presentino un qualche collegamento con lo Stato territoriale e i suoi sudditi, salvo che si tratti di reati particolarmente efferati, come tali idonei a turbare la coscienza dell’individuo medio e quindi collegati, in un certo senso, con qualsiasi comunità territoriale (cosiddetto principio dell’universalità della giurisdizione penale che copre anche i crimina juris gentium ovvero i crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità). Si badi, infine, che lo Stato “può” ma non “deve” punire e nemmeno ha l’obbligo di estradizione dell’individuo verso lo Stato che intenda punirlo (a meno che ciò non sia previsto da un accordo).
b) Il secondo prevede il principio dell’obbligo di protezione dello straniero secondo il quale lo Stato deve predisporre misure idonee a prevenire e a reprimere le offese contro la persona o i beni dello straniero, l’idoneità essendo commisurata a quanto di solito si fa per tutti gli individui (sudditi quindi compresi) in uno Stato civile, cioè in uno Stato “il quale provveda normalmente hai bisogni di ordine e sicurezza della società sottoposta al suo controllo”.

Per quanto riguarda la protezione degli investimenti stranieri occorre fare una sintesi tra le posizioni dei Paesi in sviluppo, tendenzialmente favorevoli all’assoluta libertà dello Stato territoriale, e le posizioni dei Paesi industrializzati, tendenzialmente favorevoli alla massima protezione degli investimenti stranieri.

Circa l’espropriazione e nazionalizzazione di beni stranieri nessuno dubita dell’assoluta libertà dello Stato di operarle. L’unica importante questione riguarda l’indennizzo che secondo la corrente di pensiero prevalente sarebbe dovuto. E’ da notare come l’indennizzo venga corrisposto nei modi più vari (es. accordi di compensazione globale) e che non si possa parlare di illecito internazionale qualora l’indennizzo non sia corrisposto in ottemperanza di un accordo.

A questo stesso tema si riallaccia il problema del rispetto dei debiti pubblici contratti con gli stranieri dallo Stato predecessore (nei casi di distacco, smembramento ecc.). La dottrina classica era favorevole alla successione ma il nuovo indirizzo tende a seguire i principi valevoli per la successione dei trattati ovvero ammette la successione nei debiti localizzabili.

Nessun limite è previsto dal Diritto Internazionale per quanto concerne l’ammissione e l’espulsione degli stranieri essendo valida in pieno la norma sulla sovranità territoriale. Tuttavia ciò non esclude che tale materia sia oggetto di accordi e quindi diversamente regolata.

Nel caso in cui uno Stato non rispetti le norme sul trattamento degli stranieri, lo Stato cui lo straniero stesso appartiene può esercitare la cosiddetta “protezione diplomatica”. Questa consiste nella difesa sul piano internazionale del suo suddito fermo restando che per arrivare a questo debbono essersi esaurite tutte le procedure che lo straniero ha a disposizione nell’ambito dell’ordinamento dello Stato territoriale. Inoltre, siccome lo Stato non agisce come rappresentante o mandatario dell’individuo, può sempre rinunciare.

Va notato che l’istituto della protezione diplomatica è oggetto di contestazioni, limitatamente ai rapporti economici facenti capo a stranieri, da parte degli Stati in sviluppo. Questi si rifanno alla dottrina Calvo secondo la quale le controversie in tema di trattamento degli stranieri sarebbero esclusiva competenza dei Tribunali dello Stato locale (e questi paesi introducono spesso nei contratti con imprese straniere questa clausola).

La protezione diplomatica  può essere esercitata a favore di un individuo o di una persona giuridica come una società commerciale. In quest’ultima ipotesi rileva il problema della sua nazionalità. Gli indirizzi della dottrina sono essenzialmente due: uno che guarda allo Stato dove si trova la sede principale e l’altro che guarda alla nazionalità della maggioranza dei soci. La prima ipotesi è la più accettabile.

25. Il trattamento degli organi stranieri, particolarmente degli agenti diplomatici.
Particolari limiti alla potestà di governo nell’ambito del territorio sono previsti dal diritto consuetudinario per quanto riguarda gli agenti diplomatici. Essi si concretano nel rispetto delle cosiddette immunità diplomatiche che riguardano gli agenti diplomatici presso lo Stato territoriale e accompagnano l’agente dal momento in cui esso entra nel territorio di tale Stato per esercitarvi le sue funzioni fino al momento in cui ne esce.
a) Inviolabilità personale: l’agente diplomatico deve essere innanzitutto protetto contro le offese alla sua persona mediante particolari misure preventive e repressive. L’inviolabilità personale consiste anche e soprattutto nella sottrazione del diplomatico straniero a qualsiasi misura di polizia (fermo, arresto ecc.).
b) Inviolabilità domiciliare: intendendosi per domicilio sia la sede della missione diplomatica sia l’abitazione privata dell’agente diplomatico.
c) Immunità dalla giurisdizione penale e civile: bisogna distinguere fra atti compiuti dal diplomatico in quanto organo dello Stato e atti da lui compiuti come privato. Nel primo caso tali atti non sono a lui imputabili bensì al suo Stato e non possiamo neanche parlare di vera e propria immunità (cosiddetta immunità funzionale). Nella seconda ipotesi invece esiste una vera e propria immunità processuale nel senso che il diplomatico finché esplica la sua funzione non può essere processato.
d) Immunità fiscale: sussiste solo per le imposte dirette personali.

Ci siamo sempre riferiti a agenti diplomatici. In questa categoria vanno ricompresi i capi missione, tutto il personale diplomatico delle missioni, le famiglie degli agenti e di coloro che fanno parte di questo personale.

Le suddette immunità spettano anche ai Capi di Stato, di Governo e ai Ministri quando si recano all’estero in forma ufficiale. Per qualsiasi altro organo statale il Diritto Internazionale non prevede nessuna immunità salva quella funzionale.

26. Il trattamento degli Stati stranieri.
Il principio più classico e conosciuto è quello della “non ingerenza negli affari di altri Stati” ma la cui vera portata non è altrettanto chiara e circoscritta. Si tratta essenzialmente di un principio giuridico spesso di mera propaganda politica e che negli ultimi tempi ha perso molto della originaria autonoma sfera di applicazione. Oggi le regole più importanti sono costituite dai limiti alla forza internazionale degli Stati e gli interventi di questi ultimi diretti a condizionare le scelte di politica interna e internazionale di un altro Stato (si pensi alle misure di carattere economico). Nel principio di non ingerenza non rientrano le manifestazioni di condanna o di critica del sistema politico o del regime economico, sociale ecc. di uno Stato straniero (a parte la norma consuetudinaria che impone di vietare la preparazione di atti di terrorismo diretti altri Stati).

Un problema interessante in tema di trattamento degli Stati stranieri è se questi siano assoggettabili alla giurisdizione civile dello Stato territoriale. Il Diritto Internazionale classico era favorevole alla cosiddetta immunità assoluta. Oggi, grazie alla giurisprudenza italiana e belga si è verificata un’inversione di tendenza verso quella che si è chiamata “immunità ristretta o relativa”. Secondo tale teoria l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile è limitata agli atti jure imperii (quelli mediante i quali si esplica la funziona pubblica dello Stato) mentre per gli atti jure privatorum (cioè a carattere privatistico) non sussisterebbe. Uno dei campi in cui tale distinzione rileva maggiormente è quello del lavoro in particolare riferimento al lavoro presso ambasciate ecc. dove è piuttosto difficoltoso stabilire quali aspetti del rapporto di lavoro stesso siano da considerare per classificarli come pubblicistici o privatistici. Secondo la Convenzione europea sull’immunità degli Stati se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato straniero che lo recluta, l’immunità sussiste in ogni caso; se il lavoratore ha la nazionalità dello Stato territoriale, o quivi risieda abitualmente pur essendo cittadino di terzo Stato, e il lavoro deve essere prestato nel territorio, l’immunità è esclusa.

L’immunità della giurisdizione civile sopra esposta si applica anche agli enti territoriali e alle persone giuridiche pubbliche.

L’esecuzione forzata su beni di Stati esteri può considerarsi ammissibile solo se è esperita su beni non destinati ad una pubblica funzione [v. anche rapporti esecutivo-magistratura nel nostro ordinamento pag. 225].

Le Corti di uno Stato , anche nei giudizi tra parti private, non possono controllare la legittimità internazionale o interna di leggi, sentenze ed atti amministrativi stranieri che in un modo o nell’altro vengano in rilievo nei giudizi medesimi (dottrina dell’Act of State).

27. Il trattamento delle Organizzazioni Internazionali.
Per quanto riguarda il trattamento dei funzionari delle organizzazioni internazionali non esistono norme consuetudinarie che impongano agli Stati di concedere loro particolari immunità, e tanto meno le immunità diplomatiche; sicché solo mediante convenzione lo Stato può essere obbligato in tal senso.

Lo Stato nel cui territorio opera ufficialmente un funzionario internazionale che non abbia la sua nazionalità è tenuto a proteggerlo con le misure preventive e repressive previste dalle norme consuetudinarie sul trattamento degli stranieri. Oltre in capo allo Stato esiste un obbligo di protezione anche in capo all’Organizzazione cui il medesimo soggetto appartiene? Allo stato attuale la risposta è affermativa ma solo per il risarcimento dei danni ad essa arrecati e non quelli arrecati all’individuo in quanto tale.

Nei limiti in cui gli Stati stranieri sono immuni dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale lo sono anche le Organizzazioni internazionali.

28. I limiti relativi al cosiddetto dominio riservato.
Nel corso degli anni si è andato progressivamente erodendo il cosiddetto dominio riservato (o competenza interna) dello Stato espressione con cui si intende appunto indicare le materie delle quali il Diritto Internazionale sia consuetudinario che pattizio si disinteressa e rispetto alle quali lo Stato è conseguentemente libero da obblighi.

Per quanto riguarda l’ambito dei diritti umani la tendenza è quella di promuovere la tutela dell’individuo ovunque esso si trovi (v. le Convenzioni internazionali in materia di cui si è parlato). In particolare il diritto consuetudinario indica il divieto delle cosiddette “gross violations” ossia le violazioni gravi e generalizzate ti taluni diritti, categoria cui si è soliti riportare quelle pratiche di governo particolarmente disumane ed efferate (apartheid, genocidio, tortura ecc.). Tra le norme consuetudinarie sui diritti umani va anche collocato il principio di autodeterminazione dei popoli.

Numerosi sono i limiti che la sovranità territoriale di uno Stato incontra in ambito economico. Questi limiti non derivano comunque da norme consuetudinarie ma da norme pattizie. I rapporti economici tra i Paesi in sviluppo ed i Paesi industrializzati debbono essere convenzionalmente regolati.

Infine molto importante è il problema relativo agli usi “nocivi” del territorio. Secondo la Convenzione di Stoccolma gli Stati avrebbero il diritto di sfruttare come meglio credono il territorio con l’obbligo però di non recare danno agli altri Stati. La convenzione non ha carattere vincolante e non recita una norma consuetudinaria. Semmai possiamo dire che si va affermando la prassi secondo la quale lo Stato che si trovi in un imminente pericolo di recare danno a terzi è obbligato di informare questi terzi perchè possano provvedere. Tuttavia è diffuso il ricorso a trattati specifichi che tagliano alla radice il problema stabilendo quali attività non possano essere esercitate o a quali condizioni ecc.

29. Il Diritto Internazionale Marittimo. Libertà dei mari e controllo degli Stati costieri sui mari adiacenti.
Nella materia del Diritto Internazionale Marittimo esistono quattro convenzioni adottate a Ginevra nel 1958: la convenzione sul mare territoriale e la zona contigua, quella sull’alto mare, sulla pesca e conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, sulla piattaforma continentale. Inoltre nel 1982 è stata firmata a Montego Bay una nuova convenzione per la ricodificazione del Diritto Internazionale Marittimo (ben 320 articoli) che nonostante non sia ancora entrata in vigore ha fatto si che molte sue norme innovative siano state accettate da tutti i Governi.

Il principio classico della “libertà dei mari” significa che il singolo Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli altri Stati. L’utilizzazione degli spazi marini incontra il limite che consiste nella pari libertà altrui. In contrapposizione al principio della libertà dei mari si è sempre manifestata la pretesa degli Stati ad assicurarsi un certo controllo delle acque adiacenti alle proprie coste. Nascono così i concetti di mare territoriale (fine secolo scorso), piattaforma continentale (fine seconda guerra mondiale) e la zona economica esclusiva (da alcuni anni).

30. Il mare territoriale.
Il mare territoriale è sottoposto alla sovranità dello Stato costiero così come la terraferma. L’acquisto della sovranità è automatico. L’art. 1 della prima Convenzione di Ginevra lo definisce così: “La sovranità dello Stato si estende, al di là del suo territorio e delle sue acque interne, a una zona di mare adiacente alle coste denominata mare territoriale”. In base ad un principio da ritenersi ormai consolidato e sancito anche nella Convenzione di Montego Bay il mare territoriale può estendersi fino ad un massimo di 12 miglia dalla costa.

Lo Stato ha anche il diritto di esercitare poteri di vigilanza doganale in una zona contigua al mare territoriale. Questa zona, inizialmente fissata in massimo 12 miglia di larghezza, estesa a 24 dalla convenzione di Montego Bay, trova invece, secondo il Diritto Internazionale consuetudinario un limite funzionale e non spaziale. Lo Stato sarebbe cioè legittimato a prevenire e reprimere il contrabbando nelle acque adiacenti alle sue coste ma senza “vincoli numerici”.

Per quanto riguarda il limite interno del mare territoriale l’art. 3 della Convenzione di Ginevra fissa il principio della linea di bassa marea come base per la misurazione. All’art. 4 introduce poi la possibilità di derogare a tale principio con il sistema delle “linee rette”. Secondo questo sistema la base per la misurazione si ha congiungendo i punti sporgenti della costa in linea retta e non seguendone le sinuosità. Nel caso di una baia, se i punti estremi sono distanti fino a 24 miglia si congiungono e le acque della baia sono considerate “interne”. Altrimenti si traccia una linea retta di 24 miglia all’interno della baia.

I poteri che spettano allo Stato costiero sono in linea di principio gli stessi esercitati nell’ambito del territorio ma con alcuni limiti peculiari: a) diritto di passaggio inoffensivo secondo il quale ogni nave straniera può attraversare il mare territoriale se non reca pregiudizio alla pace e al buon ordine dello Stato costiero; b) La giurisdizione penale non può esercitarsi in ordine a fatti puramente interni alla nave straniera che cioè non turbino in alcun modo il normale svolgimento della vita della comunità territoriale.

31. La piattaforma continentale. La zona economica esclusiva.
In seguito alla seconda guerra mondiale, la tecnologia iniziò a permettere lo sfruttamento di risorse marine diverse dalla semplice ittica (minerali, idrocarburi ecc.).

Secondo un’altra delle Convenzioni di Ginevra, largamente riproduttiva del diritto consuetudinario, lo Stato costiero ha il diritto esclusivo di sfruttare tutte le risorse della piattaforma, intesa come quella parte del suolo arino contiguo alle coste che costituisce il naturale prolungamento della terra emersa e che pertanto si mantiene ad una profondità costante (circa 200m) per poi precipitare negli abissi. Il diritto sulla piattaforma continentale ha natura funzionale. Lo Stato non può cioè esercitare in modo generico il suo potere di governo sulla piattaforma ma solo per sfruttarne le risorse. Poiché la dottrina sulla piattaforma, facendo leva sulla conformazione geografica, risulta in certi casi iniqua (es. Perù e Cile che ne sono sprovvisti) l’art. 1 della Convenzione di Ginevra stabilisce che per piattaforma continentale debba intendersi anche il suolo delle regioni marine dove la profondità delle acque sovrastanti consente lo sfruttamento delle risorse naturali delle dette regioni.

Altro problema è la delimitazione della piattaforma di due Stati che si fronteggiano. In tal caso si traccia una linea i cui punti siano equidistanti dai punti delle rispettive linee di base del mare territoriale. Dobbiamo considerare che il criterio di equità che la Corte internazionale di giustizia prescrive per gli accordi in materia è in realtà irrilevante dato che una volta concluso l’accordo questo resta valido qualunque siano stati i criteri.

Negli ultimi anni ai poteri dello Stato costiero sulla piattaforma continentale si sono venuti sovrapponendo quelli esercitabili nell’ambito della zona economica esclusiva la quale può estendersi fino a 200 miglia dalla linea di base del mare territoriale. I poteri consistono nell’attribuzione esclusiva di tutte le risorse economiche della zona, sia biologiche che minerali.

Per gli Stati diversi da quello costiero nella zona economica esclusiva è ammessa la navigazione, la posa di cavi sottomarini, e il sorvolo.

Per quanto riguarda la piattaforma continentale che geologicamente si estende oltre 200 miglia è ammessa la giurisdizione da parte dello Stato costiero secondo la Convenzione di Montego Bay. Tuttavia una parte di ciò che lo Stato ricava in tale zona deve essere versata alla costituenda Autorità internazionale dei fondi marini.

Per i Paesi in sviluppo la zona economica esclusiva costituisce una sorta di “sequestro conservativo” dato che spesso non hanno i mezzi necessari a goderne.

32. Il mare internazionale e l’area internazionale dei fondi marini.
Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli Stati costieri. Il mare internazionale è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il vecchio principio della libertà dei mari. Tutti gli Stati hanno eguale diritto a trarre dal mare internazionale le risorse che questo è in grado di offrire. Naturalmente, trattandosi spesso di risorse esauribili, non è ammissibile che gli Stati se ne approprino a loro arbitrio. Questo problema è stato affrontato nella Convenzione di Montego Bay con la costituzione dell’Autorità internazionale dei fondi marini destinata a presiedere allo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo del mare internazionale in modo che tutto avvenga nell’interesse dell’umanità. Quest’ultimo obiettivo verrebbe raggiunto dividendo ogni area da sfruttare in due parti uguali, l’una attribuita allo Stato che l’ha individuata e l’altra direttamente sfruttata dall’Autorità.

Il problema è che l’Autorità non è ancora operativa. Come debbono comportarsi allora gli Stati? Non sembra accettabile l’ipotesi secondo la quale lo sfruttamento di tali risorse sia congelato fino alla istituzione dell’Autorità. Dobbiamo concludere che vada ammesso purché nell’interesse dell’umanità.

33. La navigazione marittima.
Il principio generale è che ogni nave è sottoposta esclusivamente al potere dello Stato di cui ha nazionalità: lo Stato di bandiera o Stato nazionale ha diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale e esercita siffatto potere attraverso il comandante (considerato come organo dello Stato). Vediamo ora le eccezioni che tale principio incontra allorché una nave si avvicini alle coste di un altro Stato:
a) Acque internazionali. La nave pirata può essere catturata da qualsiasi Stato e sottoposta a misure repressive. Lo Stato nel cui territorio è in corso una guerra civile può visitare e catturare qualsiasi nave che si proponga di recare aiuto (in armi o armati) agli insorti.
b) Zona economica esclusiva. Lo Stato costiero può visitare e catturare navi e relativo carico per infrazioni alle proprie leggi sulla pesca o allo sfruttamento delle risorse sottomarine.
c) Mare territoriale. Rilevano i principi già analizzati del diritto di passaggio inoffensivo e della sottrazione alla giurisdizione penale dello Stato costiero dei fatti puramente interni alla nave.

Le navi da guerra o comunque destinate a servizi pubblici possono inseguire una nave straniera che abbia violato le loro leggi purché l’inseguimento sia continuo e abbia avuto inizio almeno nelle acque contigue al mare territoriale. Se la nave inseguita entra nelle acque territoriali di un altro Stato l’inseguimento cessa.

Per quanto riguarda la nazionalità delle navi occorre che tra queste e lo Stato che concede la bandiera esista un legame sostanziale (genuine link).

34. La protezione dell’ambiente marino.
La lotta all’inquinamento marino non può non fondarsi su una stretta cooperazione internazionale. Ecco perchè la Convenzione di Montego Bay dedica all’argomento più di quaranta articoli. Tuttavia nella prassi non vi sono elementi che inducano ad affermare l’esistenza di obblighi particolari in materia in capo agli Stati. La problematica è molto simile a quella che già abbiamo affrontato al riguardo degli inquinamenti su terraferma. Al contrario, per quanto riguarda il diritto convenzionale numerose sono gli accordi stipulati in materia.

Ad imporre divieti ed a comminare sanzioni saranno lo Stato della bandiera e, nelle zone sottoposte a giurisdizione nazionale, lo Stato costiero (per prevenire inquinamento delle sue acque interne e territoriali).

E’ ammesso l’intervento eccezionale su una nave altrui in acque internazionali per prendere le misure strettamente necessarie ad impedire o attenuare i danni derivanti da un incidente già avvenuto.

35. Gli spazi aerei e cosmici.
Sono due i principi fondamentali: il primo è che la sovranità dello Stato si estende allo spazio atmosferico sovrastante il suo territorio e le acque territoriali; il secondo è che fuori da questa ipotesi lo spazio aereo sia libero all’utilizzazione da parte di tutti gli Stati. E’ inoltre invalsa nella prassi la cosiddetta “zona di identificazione”, zona che si estende anche per centinaia di miglia nello spazio sovrastante all’alto mare intorno alle coste. Gli aerei che attraversano queste aree hanno l’obbligo di farsi identificare.

Per quanto riguarda la navigazione cosmica ad essa è applicabile per analogia il principio sulla libertà di sorvolo degli spazi nullius dato che non avrebbe senso parlare di “sorvolo” del territorio.

Circa le risorse dello spazio, in particolare riferimento all’utilizzabilità in ambito di radio-telecomunicazioni, vige il principio della libertà con il consueto limite del rispetto delle pari libertà altrui.

36. Le regioni polari.
Le regioni polari non sono soggette alla sovranità di alcuno Stato nonostante i vari tentativi in tal senso (teoria dei settori). L’Antartide è stato internazionalizzato con il trattato di Washington del 1959. Principi fondamentali del trattato sono il divieto di ogni attività militare e la libertà di ricerca scientifica. Il regime internazionale dell’Antartide, essendo previsto da un trattato, vincola solo le parti contraenti.

 

PARTE TERZA
L’APPLICAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI ALL’INTERNO DELLO STATO

37. L’adattamento del diritto statale al Diritto Internazionale.
L’osservanza del Diritto Internazionale da parte di uno Stato deve ritenersi affidata in primo luogo agli operatori giuridici interni. Ci riferiremo di seguito alla disciplina italiana in particolare.

I procedimenti di adattamento del diritto statale al Diritto Internazionale sono essenzialmente due:
a) Procedimento ordinario. Le norme internazionali vengono riformulate all’interno dello Stato (con leggi ecc.).
b) Procedimento speciale. Un atto normativo si limita a ordinare l’osservanza delle norme internazionali.
Il vantaggio principale del procedimento speciale consiste nella flessibilità dell’adattamento. La norma vige cioè finché vige nell’ordinamento internazionale. Se l’interprete sbaglia a ricostruire una norma internazionale il suo errore sarà limitato al caso concreto. Tuttavia, benché sia preferibile il procedimento speciale, ci sono casi in cui è possibile ricorrere solo a quello ordinario. Si tratta del Diritto Internazionale che non sia self-executing ovvero che presupponga un’opera attuativa o integrativa da parte del legislatore interno.

Una volta che una norma di Diritto Internazionale è stata recepita dall’ordinamento interno questa è obbligatoria. Per quanto riguarda le norme non self-executing dobbiamo circoscriverle a soli due casi: attribuzione di facoltà agli Stati; impossibilità attuativa dovuta alla mancanza di organi interni “recettori”. Occorre reagire contro quelle tendenze dirette ad utilizzare la distinzione fra self-executing e non, per non applicare norme indesiderate o scomode.

38. L’adattamento al Diritto Internazionale consuetudinario.
L’adattamento al Diritto Internazionale consuetudinario avviene in Italia a livello costituzionale (art. 10).
Le norme recepite ai sensi dell’art. 10 Cost. saranno senz’altro di rango superiore alle leggi ordinarie e pertanto, le norme interne in contrasto con esse potranno essere annullate dalla Corte Costituzionale. Tuttavia, non vi è una completa parificazione delle norme internazionali a quelle costituzionali dato che le prime non potranno derogare in alcun modo ai principi fondamentali della nostra Costituzione. Potranno derogare al resto della Costituzione a titolo di diritto speciale.

39. L’adattamento ai trattati e alle fonti derivate dai trattati.
L’adattamento delle norme pattizie internazionali avviene in Italia con un atto ad hoc chiamato “ordine di esecuzione”. Esso si limita ad esprimere la volontà che il trattato sia eseguito ed applicato nello Stato. Si tratta di un provvedimento che subordina l’applicazione della norma internazionale all’effettiva esistenza di questa e che dovrà essere accertata dall’interprete.

La giurisprudenza è unanime nel ritenere che un trattato, in difetto dell’ordine di esecuzione, non abbia valore per l’ordinamento interno.

Per quanto riguarda al gradino occupato dai trattati nella gerarchia delle fonti interne possiamo dire che in linea di massima vale il principio secondo il quale questo coinciderebbe con quello della norma che ne da l’ordine di esecuzione (solitamente una legge ordinaria). Dobbiamo ora analizzare se legge ordinaria e trattati siano realmente parificabili o ci siano aspetti di prevalenza dell’uno o dell’altro in certe ipotesi. Anzitutto dobbiamo prendere atto che in linea di principio e da un punto di vista formale trattati e leggi sono norme dello stesso rango e quindi seguono la regola della successione delle leggi nel tempo. In linea di principio perchè in realtà la giurisprudenza tende ad assicurare una certa prevalenza del trattato sulla legge. Infatti il trattato una volta entrato a far parte dell’ordinamento interno è sorretto da una duplice volontà: quella che certi rapporti siano disciplinati secondo la norma internazionale e che gli impegni assunti verso altri Stati siano rispettati. Quindi, perchè una legge posteriore possa prevalere su un trattato si ritiene che debba rivelare non solo la volontà di disciplinare in modo diverso gli stessi rapporti ma anche quella di ripudiare gli impegni internazionali (questo duplice “sostegno” è definito come principio di specificità dei trattati).

Per quanto riguarda i rapporti fra trattati e norme costituzionali non si pongono problemi. I primi potranno essere sottoposti a controllo di costituzionalità ed annullate se violano norme della Costituzione.

Circa le fonti previste da trattati (tipo i provvedimenti dell’ONU) dobbiamo distinguere se il trattato preveda esso stesso la diretta applicabilità di dette norme, e in tal caso il problema non si pone, oppure non dica nulla. In quest’ultima ipotesi è discusso in dottrina se occorra un ordine di esecuzione per ogni decisione (dell’organizzazione internazionale per esempio). La prassi italiana, seguita anche da molti altri Stati, è orientata in tal senso. L’emanazione dei singoli atti di adattamento nella forma ordinaria serve, da un lato, a fini di maggiore certezza e dall’altro ad integrare il contenuto non sempre autosufficiente della decisione. Per quanto riguarda la forza formale delle decisioni, detta emanazione e comunque superflua.

40. L’adattamento al diritto comunitario.
L’adattamento al diritto comunitario segue una strada un po’ diversa, collegata alla “specialità” della struttura comunitaria stessa. Si è infatti arrivati ad assicurare al diritto comunitario una prevalenza ed una precedenza sulle norme nazionali che sono tipici di vincoli di carattere federalistico.

Come già detto ai Trattati istitutivi delle Comunità Europee si è dato esecuzione con legge. Quindi oltre alle norme del trattato acquistano valore di legge anche i regolamenti comunitari ai sensi dell’art. 189. Questo significa che i regolamenti sono immediatamente e direttamente applicabili all’interno dello Stato membro senza che occorrano ulteriori interventi legislativi da parte dello Stato. Ciò non esclude comunque che lo Stato intervenga per integrare dei regolamenti non totalmente self-executing.

Vediamo ora come si adatta il diritto interno alle direttive e alle decisioni. L’opinione diffusa è che tali atti normativi non siano direttamente applicabili ma richiedano sempre l’intervento dello Stato (con legge, atto amministrativo ecc.). Il problema sorge se consideriamo che l’art. 189 sancisce l’obbligatorietà anche delle direttive e delle decisioni in quanto al risultato. Occorre quindi stabilire quali effetti costituiscano un corollario all’obbligo di risultato e quindi direttamente applicabili e quali invece siano condizionati dall’intervento statale. Insomma dobbiamo considerare regolamenti, direttive e decisioni sullo stesso piano per quanto concerne la diretta applicabilità e che l’emanazione di atti di esecuzione è necessaria quando tali atti sono incompleti; dato che la direttiva è incompleta (o meglio “dovrebbe”) per definizione può produrre immediatamente solo gli effetti conciliabili con l’obbligo di risultato.

Gli accordi conclusi dall’Organizzazione con stati terzi debbono considerarsi direttamente efficaci (sempre nei limiti in cui tali accordi siano sufficientemente completi).

Occupiamoci adesso del rango delle norme comunitarie e partiamo dai rapporti fra queste e le leggi ordinarie. La nostra Corte Costituzionale ha più volte cambiato parere ed è pure stata in contrasto con la Corte di Giustizia Europea. La tesi sostenuta nel 1975 era che la prevalenza del diritto comunitario sulle leggi interne fosse assicurata attraverso lo strumento del controllo di costituzionalità. Ciò comportava l’inconveniente che una norma comunitaria non fosse applicabile prima della pronuncia di incostituzionalità della norma interna in contrasto. Dopo varie polemiche con la Corte di Giustizia Europea la nostra Corte è approdata alla conclusione che il compito di far prevalere il diritto comunitario su quello interno sia compito del giudice ordinario il quale può disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria. Si noti che la norma interna non è abrogata ma soltanto “compressa” nell’efficacia. Qualora la norma comunitaria cessi di esistere il diritto interno si potrà “riespandere” e la norma prima compressa riacquisterà il suo valore originario.

Per quanto riguarda i rapporti fra norme comunitarie e norme costituzionali vale il solito principio che a “resistere” alle prime è solo il nucleo dei principi fondamentali della Costituzione. Peculiare è poi che gli stessi organi della comunità si siano impegnati a non violare questi principi.

41. L’adattamento al diritto internazionale e le competenze delle regioni.
Il problema rileva se si considera che il “responsabile” sul piano internazionale è lo Stato centrale ma che nel nostro ordinamento, per esempio, molte materie sono di competenza regionale e non statale. Chi è che deve intervenire se una direttiva ad esempio venga a interferire su materie di competenza regionale? Allo Stato dovrebbe competere in ogni caso l’emanazione dell’ordine di esecuzione, mentre alle regioni dovrebbe spettare l’adozione, nelle materie di loro pertinenza, delle norme necessarie per integrare e specificare le norme convenzionali, per attuare gli obblighi ecc. Inizialmente il legislatore e la Corte Costituzionale partivano dall’idea che tutto ciò che riguardasse l’applicazione del Diritto Internazionale e del diritto comunitario, rientrando nella materia degli “affari esteri” fosse di esclusiva competenza dello Stato. Oggi la Corte riconosce la competenza autonoma ed originaria delle regioni ma d’altro canto continua a fondarsi sul limite del rispetto degli obblighi internazionali e comunitari per dedurne il potere dello Stato di sostituirsi alle regioni, quando si tratta di assicurare il puntuale adempimento degli obblighi medesimi.

42. Il fatto illecito e i suoi elementi costitutivi: l’elemento soggettivo.
La materia in esame è estremamente complessa. Nel 1980 la Commissione di Diritto Internazionale delle Nazioni unite ha approvato in prima lettura soltanto la prima parte di un Progetto di articoli sulla responsabilità (la prima parte si riferisce all’origine della responsabilità; la seconda, ancora in preparazione si riferirà alle conseguenze dell’illecito).

Partiamo dunque dall’origine della responsabilità. Il fatto illecito consiste anzitutto in un comportamento di uno o più organi statali intesi in senso ampio (anche enti pubblici territoriali e addirittura i privati quando nell’esercizio di una funzione pubblica).

In linea di principio possiamo poi affermare che la responsabilità dello Stato sia esclusa quando l’illecito contro un cittadino straniero o uno Stato sia commesso da un privato. Nel caso in cui l’illecito sia commesso da un organo dello Stato ma fuori dalla sua competenza la responsabilità dello Stato non sarà quella del fatto dell’organo ma di non aver posto in essere adeguate misure preventive.

43. L’elemento oggettivo.
In generale l’art. 16 del Progetto definisce l’elemento oggettivo dell’illecito sostenendo che “si ha violazione di un obbligo internazionale da parte di uno Stato quando un fatto di tale Stato non è conforme a ciò che gli è imposto dal predetto obbligo”.

Gli artt. 29 e segg. elencano i fatti escludenti l’illiceità, le eccezioni insomma. Vediamole di seguito.
Il consenso validamente dato da uno Stato alla commissione da parte di un altro Stato di un comportamento non conforme ad un obbligo esistente nei suoi confronti esclude l’illiceità sempre che non sia vado contro una norma di jus cogens.
L’autotutela non può considerarsi illecito anche quando va contro certe norme di Diritto Internazionale.
Forza maggiore o caso fortuito.
Discusso è se lo “stato di necessità” possa costituire eccezione di illecito. Dubbi non se ne pongono se in gioco è la vita dell’individuo-organo. In altri casi si dovrà ponderare la situazione concreta.
Principio di “liceità” delle raccomandazioni.
Contrasti con norme costituzionali fondamentali interne di uno Stato.

44. Gli elementi controversi: la colpa e il danno.
Ci si chiede se oltre ai due elementi che abbiamo visto fin qui ce ne siano altri necessari alla formazione di un atto illecito internazionale, in particolare se occorra la “colpa”. Vediamo in generale le responsabilità configurabili secondo la colpa. Anzitutto abbiamo la responsabilità per colpa che si ha quando l’autore dell’illecito abbia commesso questo per volontà (dolo) o negligenza. Vi è poi una responsabilità oggettiva relativa quando sorge per effetto del solo compimento dell’illecito ma l’autore di quest’ultimo può invocare una causa di giustificazione (l’onere della prova spetta all’autore e non alla vittima dell’illecito). Infine abbiamo la responsabilità oggettiva assoluta quando a differenza del caso precedente non sono ammesse giustificazioni.

Per quanto riguarda il danno sembra che una sua rilevanza sia da escludersi dato che ci possono essere delle situazioni in cui un interesse concreto non viene leso ma sempre di illecito si tratta. Tale è il caso delle norme in materia di diritti umani.

 

Fonte: http://www.neverstop.tv/appunti/diritto_internazionale.doc

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