Riassunto economia gestione delle organizzazioni

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Riassunto economia gestione delle organizzazioni

CAPITOLO 5
AUTORITÀ  E AGENZIA


AGENZIA
Tra le forme di coordinamento basate sullo scambio di informazioni e di diritti di decisione tra parti identificate, i sistemi di autorità hanno, ricevuto un’attenzione particolare ed hanno - in effetti - un ambito applicativo particolarmente ampio.
In effetti, i sistemi di coordinamento basati sull’uscita e la decisione unilaterale, e i sistemi basati sull’esistenza di un centro cui è demandata l’attività di coordinamento in parte funzionano grazie a principi opposti. Tuttavia essi hanno una importante proprietà in comune: quella di ridurre significativamente i costi di coordinamento di sistemi complessi attraverso una riduzione delle informazioni scambiate. Rispetto a un potenziale schema di coordinamento alternativo in cui tutti comunicano con tutti e raggiungono una decisione comune, sia le decisioni unilaterali sia le decisioni centralizzate implicano minori costi di raccolta e trasmissione delle informazioni, di discussione, di negoziazione, di controllo.
Una relazione di autorità tra due attori ha luogo quando una delle parti accetta di conformare i  propri comportamenti alle decisioni dell’altra parte relativamente ad un’area definita di comportamenti.  Tale relazione può sussistere anche con riferimento a più di due attori: un gruppo di persone può accettare l’autorità di uno o più leader.
Molte relazioni economico-sociali sono relazioni di autorità. Per esempio: i passeggeri che salgono su un aereo accettano l’autorità del comandante relativamente ai comportamenti che possono avere effetto sulla sicurezza del volo; i pazienti accettano l’autorità dei medici su problemi di salute. Queste relazioni sono relazioni di autorità. Esse hanno in comune due caratteristiche essenziali la sospensione o cessione di alcuni propri diritti di decisione da parte di un attore e l’accettazione delle decisioni prese da un altro attore. In altri termini l’autorità è una relazione di potere asimmetrica, ma legittima cioè accettata da tutte le parti coinvolte. Non ci si riferisce qui alla diversità dei “motivi” che possono presiedere alla formazione di questa relazione, i quali dovrebbero almeno includere:
a) i   calcoli di convenienza di tale relazione (“autorità razionale-legale”);
b) l’apprendimento o l’accettazione convenzionale di tale relazione come “normale” e appropriata in date circostanze (“autorità tradizionale”);
c) l’attrazione affettiva ed emotiva per un leader (“autorità carismatica”).
Piuttosto, si analizzano le proprietà del meccanismo dell’autorità, cercando di rispondere alla domanda quando e perché questo meccanismo è efficace e superiore ad altri?
Quando si parla di autorità, non ci si riferisce necessariamente a Re o ad imperatori industriali..
Anche le “piccole” relazioni di influenza che si sviluppano su particolari problemi nei gruppi o tra singole, sono relazioni di autorità. Anzi, partire da queste relazioni “semplici” aiuta a distinguere in modo più chiaro una fonte di autorità che nelle relazioni più complesse è spesso commista ad altre fonti: la competenza. In tutti gli esempi sopra proposti, la base della relazione di autorità è esclusivamente la competenza. Essa può essere tecnica o sociale, ma la competenza del leader deve comunque essere considerata non solo maggiore di quella di chi accetta di subire la sua influenza, ma anche sufficientemente grande in assoluto per risolvere con successo il problema in questione.
Un efficace funzionamento dell’autorità basata sulla competenza implica che tra chi subisce l’influenza e chi la esercita non vi siano conflitti d’interesse. Anche qualora riconoscessimo grandissima competenza in altre persone con cui siamo interdipendenti non ci fideremmo di loro se pensassimo che il consiglio possa essere interessato, possa seguire finalità e obiettivi propri e privati di chi dovrebbe esercitare influenza, divergenti dai nostri interessi.
Un gruppo di amici ugualmente esperti nella vela, nominerà comunque un comandante in condizioni
di navigazione difficili. Un gruppo di imprese consorziate ugualmente importanti e competenti nominerà comunque un’impresa portavoce per gestire il contatto con il cliente.
In questi casi l’emergere dell’autorità è innanzitutto legata all’opportunità di allineare le azioni di un numero elevato di attori interdipendenti con un minimo di impiego di risorse (tempo e numero di comunicazioni). Anche in questa situazione supponiamo che la situazione non sia complicata dalla presenza di interessi diversi sulle azioni da intraprendere tra chi accetta e chi esercita l’autorità. Semplicemente ipotizziamo che le parti vogliano trovare le azioni tecnicamente migliori nel modo più efficiente.
Uno schema di decisione in cui tutti scambiassero direttamente le proprie informazioni e conoscenze con tutti e decidessero insieme sulla combinazione di azione migliore sarebbe più costoso di uno schema accentrato in cui tutti inviassero le proprie informazioni ad un solo attore cui è demandata la responsabilità di decidere; basti considerare il numero di connessioni di comunicazione tra attori necessarie.
Tuttavia, l’efficienza relativa di uno schema di decisione accentrato o decentrato non dipende solo dal numero di attori e dalla pressione sulle risorse ma anche da un’altra fondamentale variabile: la complessità delle informazioni.
“L’autorità, la centralizzazione delle decisioni, serve ad economizzare la trasmissione e il trattamento delle informazioni”, se le informazioni sono strutturate, e se un solo attore può disporre della competenza necessaria a risolvere il problema, una volta in possesso delle informazioni.
Tornando ai nostri esempi iniziali, quindi, se da un lato l’autorità sarà spesso un sistema efficace ed efficiente per coordinare i piani di produzione di diversi stabilimenti, tipicamente non sarà tale per coordinare i contributi professionali di diverse funzioni aziendali nella definizione di un nuovo prodotto.
Anche nelle condizioni più difficili, in cui, di fronte a problemi completamente nuovi, nessuno degli attori ha già sviluppato molte competenze pertinenti, un confronto di tutti con tutti tipicamente produce risultati migliori che non la decisione di un solo attore, anche qualora quest’ultimo avesse consultato ad uno ad uno tutti gli altri.
Una ragione distinta di creazione di autorità è la possibilità che gli attori interdipendenti abbiano
interessi in conflitto e che non siano sempre in grado di risolvere direttamente tali conflitti.
Una delle ragioni d’essere della gerarchia è la necessità di stabilire delle “corti di appello” per la regolazione dei potenziali conflitti tra operatori economici. Nella pratica si osserva che in effetti una delle funzioni esercitate dai livelli gerarchici superiori rispetto a quelli inferiori è la composizione dei conflitti per eccezione, quando essi non vengono efficacemente risolti dai diretti interessati (o non possono essere convenientemente risolti per vie legali). Anche nelle relazioni tra imprese si ricorre ad arbitri, anche di professione, che possano risolvere eventuali dispute, specialmente nei caso di contratti complessi di cui sono sempre possibili diverse interpretazioni.
Una componente distintiva della legittimità dell’autorità arbitrale è una riconosciuta neutralità della terza parte rispetto alle parti in conflitto perché le parti accettino la relazione di autorità. Inoltre, l’autorità arbitrale deve possedere anche una competenza elevata sulla materia del contendere, anche se la sua ragion d’essere distintiva non è la maggior competenza  tecnica rispetto alle altre parti.
L’autorità può essere un meccanismo efficace ed efficiente anche quando chi la esercita ha  interessi
diversi da chi la subisce. Quando questi interessi diversi assumono la particolare configurazione che verrà descritta in questo paragrafo, tale “interazione” può essere regolata efficacemente da un accordo o “contratto sociale” di scambio.
Perché un libero individuo dovrebbe accettare di seguire le indicazioni di un altro su una serie di propri  comportamenti,  se  i  motivi  e  le  preferenze  dell’altro  sono  diverse  dalle  proprie  ed  egli  lo   sa?
L’accettabilità di una relazione di questo tipo è basata su uno scambio. Un individuo può cedere ad un altro il diritto di “dirigere” un certo insieme o classe determinata di propri comportamenti in cambio di qualcosa.
Il tipo di relazioni di gran lunga più importanti nell’attività economica in cui queste condizioni hanno spesso luogo sono le relazioni di lavoro. Una relazione di lavoro implica che vi sia qualcuno interessato a cedere lavoro in cambio di una ricompensa e qualcuno interessato ad acquisirne i servizi. Se tutti i servizi in questione fossero prevedibili e predeterminabili in anticipo, o scambiati istantaneamente, la regolazione di questa relazione potrebbe essere un contratto che specifica il tipo di prestazione e la sua ricompensa. Non si formerebbe nessuna autorità. Tuttavia, nella maggior parte delle situazioni di lavoro non è cognitivamente possibile io è troppo costoso scrivere contratti completi di questo tipo.
L’erogazione del lavoro avviene spesso attraverso una cooperazione nel tempo, e nel tempo le condizioni di miglior impiego del lavoro possono variare. In altre parole l’incertezza, cui è soggetta la transazione richiederebbe una rinegoziazione continua del contratto di lavoro. Pertanto, chi acquista servizi di lavoro in condizioni di incertezza è interessato a stabilire una relazione in cui i compiti possano essere adattati alle circostanze.
Supponiamo inoltre che chi acquista servizi di lavoro abbia anche le conoscenze (informazioni, competenze) e le risorse (tempo e attenzione) necessarie per individuare i modi migliori di impiegare il lavoro. Allora, questo attore, è interessato ad acquisire non solo contributi di lavoro ma anche diritti di decisione sulle modalità di impiego del lavoro.
Si guardi ora il problema dal punto di vista di chi cede il servizio. Questo attore è interessato a un corrispettivo, ma non solo a questo. Infatti, chi conferisce il proprio lavoro in una attività economica è di solito interessato a non sopportarne interamente il rischio. Inoltre la ricompensa derivante dal lavoro influisce significativamente sui livelli totali di ricchezza del lavoratore. Ed entrambe queste circostanze sono fonti di avversione al rischio riguardo alle ricompense pertanto chi conferisce lavoro in un’attività è anche interessato a una ricompensa che sia libera da rischio.
In sintesi, un lavoratore, avverso al rischio e “quasi indifferente” rispetto ad un dato insieme di modalità alternative di impiego del suo lavoro, cede i diritti di decisione e di controllo sui suoi  comportamenti in una “zona di accettazione” e riceve una ricompensa non soggetta a rischio. Un datore di lavoro acquisisce il diritto di decidere quale azione richiedere al lavoratore e di controllare che essa sia effettivamente intrapresa; nonché il diritto di trattenere i risultati residuali derivanti da tali azioni. Se inoltre il “datore di lavoro” è un “conferente capitale”, in condizione di diversificare gli investimenti e di approssimarsi a condizioni di neutralità al rischio, questo “trattato di autorità” rappresenta uno scambio Pareto-efficiente sia sotto il profilo dell’allocazione del rischio sia sotto il profilo degli incentivi a partecipare e a produrre.
Il fabbisogno di decisioni accentrate può essere concettualmente distinto dal fabbisogno di controllo
accentrato. Spesso esse si trovano unite, ma non sempre. Per esempio: decisioni prese tramite voto e non tramite autorità possono poi aver bisogno di una struttura centrale che controlli l’applicazione delle decisioni della maggioranza. Perché il controllo è necessario?
La questione del conflitto d’interesse è essenziale al riguardo. Se tutti gli attori avessero un interesse comune, una volta trovata la combinazione ottimale di azioni per quel fine, tutti avrebbero incentivi a collaborare e ad attuarle. Tuttavia, una causa frequente di conflitto d’interesse nell’azione economica collettiva è il costo dello sforzo per produrre l’azione. In altri termini, anche laddove gli attori abbiano accettato di impegnarsi in certe azioni perché sono nell’interesse di tutti o perché discendono da un contratto conveniente, è probabile che essi percepiscano almeno in parte come costo il consumo di risorse personali e organizzative impiegate per lo svolgimento di quelle azioni. Nelle situazioni in cui la struttura  delle preferenze ha questa configurazione, esisterà un incentivo a cercar di ridurre i propri sforzi se questo  può esser fatto senza ridurre significativamente i propri benefici (incentivo, al free-riding).
Fonte essenziale di possibilità di free-riding è  che gli attori ritengano di non poter essere scoperti o  di non poter essere puniti. La non osservabilità dei contributi individuali all’interno di un output collettivo è una delle condizioni di questo tipo più studiate e ricorrenti. Se i singoli contributi non sono osservabili e lo sforzo è costoso si crea un incentivo al free-riding tanto maggiore quanto più grande è la squadra. Infatti, riducendo il proprio sforzo (se gli altri non lo fanno) il singolo membro del gruppo si appropria interamente  di tale beneficio mentre i costi di minor output finale saranno ripartiti su tutta la squadra.
Se gli output individuali non sono osservabili una ragionevole alternativa può essere osservare i comportamenti in input: si possono osservare gli atti affinché le persone compiono anziché misurarne i risultati. Per esempio, anziché tentar di stabilire il peso trasportato da ogni persona in un lavoro di scarico, si potrà osservare se le persone sono attive, se seguono le tecniche di lavoro raccomandate, se aiutano gli altri quando ce n’è bisogno.
Ma chi osserverà i comportamenti? Se la squadra è piccola, i membri stessi direttamente potranno controllarsi l’un l’altro ed hanno interesse a farlo. Se la squadra è grande, sarà più efficiente affidare ad un unico agente il compito di controllare i comportamenti di tutti. Questo spiega il ricorso all’autorità in situazioni come la supervisione di processi di trasformazione industriale con impianti/attrezzature comuni; o la supervisione di attività di vendita di un servizio di qualità definito e sorretto da un unico marchio come nel franchising.
Ma chi controllerà il controllore’? Una risposta è stata trovata sul piano dei meccanismi di incentivo anziché  di  quelli  di  controllo.  La  soluzione  è  che  il  controllore  sia  direttamente  ed     economicamente
interessato a massimizzare il risultato della squadra attraverso l’impiego più efficiente possibile delle risorse. Chi esercita l’autorità con funzione di supervisione avrà diritto al risultato economico “residuale”  dell’attività, cioè agli utili dopo aver compensato ogni altro input come fattore produttivo.
Nelle economie moderne, tuttavia, spesso i risultati che interessano sono troppo complessi per essere sintetizzati nel singolo indicatore della redditività. Anche con riguardo ad attività economiche di produzione e distribuzione di beni e servizi, molti risultati interessanti come l’innovazione, la qualità di un servizio medico o di istruzione, non si prestano ad una buona misurazione del risultato di squadra stesso in termini economico-reddituali.
Per capire come possono essere controllate situazioni di questo tipo, In cui non solo vi è un  problema di non misurabilità dei risultati, individuali, ma anche di quelli della squadra (e quindi del controllore), si potrebbe guardare al campo di attività in cui più chiaramente questo accade, quello delle imprese o enti con finalità di servizio pubblico e/o che non operano su un mercato (per esempio, i servizi di magistratura, di amministrazione pubblica). Il sistema normalmente adottato, è quello del controllo reciproco tra controllori, di una pluralità di controlli esterni al sistema e specializzati su diverse dimensioni della performance, dei “checks and balances”. Naturalmente esso è un sistema di controllo imperfetto e costoso, che suppone che il numero dei centri delle, autorità che si controllano reciprocamente sia basso: cioè sia stato ridotto attraverso una catena di controlli sovrapposti all’interno delle diverse attività.
Infine, il più chiaro limite di applicabilità dell’autorità basata sul controllo deriva dal costo del controllo stesso, il controllo sui comportamenti è sempre elevato rispetto ad un controllo sui risultati e può diventare proibitivo se le attività sono molto complesse. Come controllare il livello e il tipo di sforzi profusi  da un ricercatore, da un legale, nella preparazione e realizzazione del suo risultato?
Una soluzione parziale a questi problemi è fornita dalla sostituzione della relazione di autorità con una “relazione di agenzia”.
Alcuni dei problemi di coordinamento che non possono essere risolti da una relazione di autorità in tutte le forme precedentemente descritte possono esserlo tramite una relazione di agenzia. Una relazione di agenzia è una relazione di scambio tra un attore (il “principale”) che delega ad un altro attore (l’”agente”) il potere discrezionale di agire nell’interesse del principale.
Si possono subito notare gli aspetti comuni e gli aspetti differenti tra questo tipo di relazione e la relazione di autorità. Di nuovo abbiamo una relazione di scambio che giustifica una cessione di diritti di decisione e  controllo, come  in una  relazione di  autorità  classica  basata  sullo scambio.  Tuttavia, in  quella
relazione un attore si impegna ad agire negli interessi di un altro, ma i diritti di decisione e controllo sulle azioni rimangono alla parte “interessata” (il “principale” o “datore di lavoro”).
Differentemente, in una relazione di agenzia chi si impegna ad agire negli interessi di un altro  contrae anche il diritto e l’obbligazione di scegliere i propri comportamenti nel miglior interesse del principale. I motivi di questa delega normalmente risiedono in una mancanza di risorse, tempo, o conoscenze da parte del principale per svolgere direttamente tutte le attività cui si sarebbe interessati e normalmente tra motivi di accettazione di tale delega vi è una ricompensa per l’agente.
La teoria dell’agenzia affronta il problema di come regolare questa relazione sotto  l’ipotesi  più difficile o nelle condizioni più avverse: cioè sotto l’ipotesi che l’agente valuti positivamente le ricompense in termini di utilità o beneficio e valuti negativamente lo sforzo in termini di disutilità o costo. In queste condizioni, vi sono due possibili mezzi per falsi che il “contratto” sia rispettato e che l’agente agisca effettivamente "negli interessi del principale. Il primo meccanismo è quello di ricorrere ad un sistema di incentivi contingenti ai risultati; il secondo è quello di investire in sistemi di controllo della performance. Entrambe queste soluzioni sono, nelle condizioni ipotizzate, costose per le ragioni seguenti.
Un sistema di incentivo che leghi la ricompensa al risultato osservabile potrebbe cointeressare l’agente agli stessi risultati cui è interessato il principale e “riallinearne” gli obiettivi. Tuttavia il problema di questi schemi di ricompensa è che essi trasferiscono parte del rischio da un attore neutrale al rischio ad un attore avverso al rischio. Il contratto presenterà, dunque costi pari all’ammontare del “premio” necessario  ad indurre l’agente avverso al rischio ad accettare tale esposizione al rischio. Pertanto, i contratti di agenzia devono essere costruiti in modo tale da risolvere il trade-off tra i benefici di incentivazione (riallineamento di obiettivi) e i costi di un’allocazione inefficiente dei rischio. Quanto meno i risultati dipendono dalle azioni dell’agente, tanto meno servirà trasferire il rischio all’agende. Questo significa che quanto più l’attività dell’agente è incerta, cioè soggetta a molti fattori variabili di natura esogena, tanto meno un contratto di agenzia basato su incentivi contingenti ai risultati sarà efficiente.
Nelle situazioni in cui è poco, conveniente risolvere il problema dell’agenzia trasferendo il rischio si può investire in sistemi controllo. Si possono istituire sistemi di rilevazione di indicatori dello sforzo compiuto diversi da quelli ottenibili osservando i risultati. Poiché nemmeno i comportamenti rilevanti di lavoro sono direttamente osservabili, si tratterà di indicatori imperfetti di tali comportamenti. Per esempio, rilevare le ore di presenza sul luogo di lavoro è un indicatore alquanto imperfetto. In effetti, esso è informativo solo se vi e una qualche correlazione tra le ore di presenza e gli sforzi profusi. Pertanto, anche il controllo è costoso  e imperfetto nelle condizioni assunte.
In conclusione, si può dire che le relazioni e i contratti di agenzia, nelle condizioni in cui essi sono distintivamente   applicabili    (informazione   asimmetrica   o   incompleta)   rappresentano   un   modo       di
coordinamento contiguo a quello dell’autorità ma più decentrato. Parte dei diritti decisionali sulle azioni da coordinare sono trasferiti a chi agisce l’agente. Con essi vengono trasferite all’agente anche parte del rischio cui sono soggette le conseguenze delle azioni, tramite alcuni diritti alle ricompense residuali. I diritti di controllo sulle azioni rimangono al principale ma, in generale, gli investimenti in controllo avranno limiti di convenienza. Perciò nelle condizioni di asimmetrie informative descritte, si osserveranno, in generale soluzioni miste, governate da un mix di incentivi legati ai risultati e di controllo su segnali dei comportamenti.
Per attività molto complesse e soggette a forte incertezza la relazione di agenzia “va in crisi”, poiché né un maggior trasferimento del rischio né l’intensificazione del controllo sono efficienti. Quindi, la teoria dell’agenzia predice che in tali condizioni contratti di agenzia tenderanno ad essere sostituiti da contratti di natura associativa e da una condivisione dei diritti di proprietà da parte degli attori, cioè da una riunificazione della figura del principale e dell’agente e dalla formazione di gruppi di pari.
Tutti i meccanismi di coordinamento basati sulla comunicazione e sull’influenza reciproca diretta tra attori hanno una dimensione sociale più pervasiva di quelli basati sulla decisione unilaterale. Essi si fondano su interazioni interpersonali e implicano necessariamente transazioni di “beni” sociali: l’approvazione, la stima, la socialità e l’appartenenza, l’affetto. Perché i vantaggi dell’autorità (e dell’agenzia) come meccanismo di coordinamento siano effettivamente colti, è necessario che la relazione sia in equilibrio sul piano relazionale.
L’errore più diffuso e più grave nella gestione delle relazioni di autorità è un errore di  autoritarismo.
Varie sono le sue componenti:
•  Un comportamento autoritario confonde il diritto di prescrivere certi compiti con l’aggressività verso le persone, il diritto di servirsi di certi contributi con il diritto ad essere servito come persona, il diritto - dovere di individuare e indicare le azioni migliori per il sistema di cooperazione e scambio con l’arbitrio personale.
•  Un comportamento autoritario pretende che la cessione di diritti decisionali a chi accetta l’autorità in una certa zona di comportamento, diventi un diritto generale a dirigere qualsiasi comportamento.
•  Un comportamento autoritario trascura gli scambi sociali che derivano necessariamente dall’esercizio di autorità; emana ordini, ma dimentica di fornire approvazione per il lavoro ben eseguito; reagisce, in sede di  attuazione  valutazione,  solo  negativamente  di  fronte  a  prestazioni  non  conformi  alle aspettative,
anziché anche positivamente di fronte a buone prestazioni.
Una patologia del tutto differente è quella della manipolazione. In questo caso, chi esercita l’autorità non trascura le relazioni sociali che emergono come conseguenza del rapporto lavorativo ma le sfrutta a fini produttivi. Esiste o si è creata amicizia, confidenza, fiducia, stima? Bene, in nome di questi valori, si chiede al partner o si spinge il partner che ne è inconsapevolmente guidato, ad accettare azioni che vanno al di là dell’accordo di cooperazione o scambio su cui la relazione di autorità è stata accettata. Si tratta quindi di una forma di opportunismo, che tradisce lo spirito di un accordo e spesso contiene elementi di inganno e dichiarazioni non credute da parte di chi le fa.
Va notato che strategie manipolative possono essere adottate sia da parte dei subordinati (o degli agenti) sia da parte dei leader o principali. Per esempio, subordinati o agenti possono usare le relazioni sociali con il superiore, o principale per ottenere trattamenti privilegiati rispetto ad altri, assenza di controlli, promozioni, ricompense.
Le componenti di controllo e supervisione delle relazioni di autorità e agenzia possono essere difficili da “vivere” relazionalmente dalla persona che le esercita. Soprattutto se le relazioni sociali e interpersonali sono buone, può essere difficile dare feedback negativi e rilevare inadempienze. Il controllore, che con quei comportamenti aumenta l’efficienza del sistema, dall’altra parte può incorrere in perdite personali di amicizia, affetto, sostegno emotivo. Sull’altro versante infatti, è probabile che comunque i feedback negativi non siano i messaggi più graditi e che il controllo in sé susciti sempre una certa resistenza psicologica. Pertanto, una patologia di origine prevalentemente affettiva ma per molti versi opposta a quella della manipolazione e quella del permissivismo: anziché di strumentalizzazione delle relazioni affettive a fini produttivi, si tratta di imprigionamento delle relazioni produttive in quelle affettive.
•  Un  comportamento  direttivo  efficace  richiede  un  orientamento  :  positivo  verso  le  persone. Questo
significa che una persona che accetta di esercitare autorità deve comunque occuparsi delle relazioni interpersonali; che non deve ledere l’equilibrio psicologico di persone mature dei subordinati; che deve essere in grado di distinguere il “dire cosa fare su un problema un’attività” dal “comandare le persone”.
•  Un comportamento direttivo efficace richiede attenzione e capacità di dare feedback alle persone sull’attuazione delle attività sia negativi sia positivi. Questo aspetto è fondamentale nell’autorità da competenza in quanto consente a chi la subisce di apprendere e sviluppare le proprie competenze. Ed è fondamentale nell’autorità basata sullo scambio, poiché se la remunerazione è fissa, il feedback, è fondamentale per sollecitare prestazioni superiori piuttosto che inferiori.
•  Un comportamento direttivo efficace è consapevole delle particolari fonti    da cui deriva la possibilità di
esercitare autorità. Un leader efficace sa se la sua capacità di influenza è basata su competenze tecniche o sociali; o su funzioni di controllo di applicazione di decisioni e di regole prestabilite; o su uno scambio di risorse; o su funzioni arbitrali; o su problemi di efficienza di coordinamento in pressione di tempo; o su quale mix di tali fonti. Poiché in pratica è normale che un singolo leader possa far leva su più basi interconnesse di autorità, una capacità manageriale importante è saper attivare diverse relazioni in funzione dei tipi di compiti o di persone, cioè di essere leader “multidimensionali”.
•  Un comportamento direttivo efficace è in grado di discernere il grado di delega efficace nello svolgimento delle attività. Le condizioni sotto cui relazioni di autorità o di agenzia sono efficaci non si presentano tutte insieme.
Le relazioni di autorità e di agenzia implicano la raccolta di informazioni sulle situazioni locali, l’elaborazione di piani di azione, la trasmissione di descrizioni di attività da eseguire e la raccolta di informazioni su attività svolte. Pertanto, i costi di informazione e comunicazione saranno maggiori nelle relazioni di autorità, e anche di agenzia, che non in un sistema di coordinamento basato su decisioni unilaterali. A tali costi vanno tuttavia aggiunti altri caratteristici di questo tipo di relazioni.
Soprattutto nelle relazioni di autorità basate sullo scambio e nelle relazioni di agenzia, le ricompense complessive ottenute dal subordinato o dall’agente dipendono dal giudizio del controllore, egli è responsabile di valutare la prestazione. Poiché i giudizi e le valutazioni non sono mai perfetti, è probabile che i subordinati e gli agenti impegnino risorse non indifferenti per influenzare il giudizio dei superiori: per esempio, presentando i propri risultati positivi nel modo più visibile e cognitivamente “disponibile”, mantenendo relazioni personali strette, fornendo giustificazioni, costituendo pegni e garanzie materiali o immateriali (come la reputazione) in funzione di assicurazione della correttezza e qualità del proprio  operato. I costi di questi processi sono stati chiamati in generale costi di influenza, e più in particolare nel caso di relazioni di agenzia costi di rassicurazione.
Rispetto a sistemi di coordinamento in cui gli attori decidono, agiscono e controllano direttamente i risultati delle proprie azioni, i sistemi principale-agente e di autorità comportano il mantenimento di una o più posizioni specializzate in tutto o in parte in attività di coordinamento. Questi costi crescono più che proporzionalmente al crescere del numero degli attori coinvolti. Infatti, le attività di coordinamento centrali possono includere l’elaborazione a integrazione delle informazioni locali, la definizione e comunicazione di piani d’azione, la risoluzione dei conflitti, il controllo dell’attuazione. L’entità e difficoltà di queste attività cresce più che in proporzione rispetto al numero degli attori da coordinare poiché deve tener conto delle relazioni tra di essi.
Perciò, esiste un limite al numero di attori che può esser coordinato da uno stesso centro. Si tratta di un limite molto basso se le attività sono regolate da una sola persona attraverso decisioni caso per caso, cioè se non sono largamente predeterminate dal punto di vista tecnico ovvero regolate anche da meccanismi alternativi come le regole e la programmazione. In secondo luogo, quanto più i compiti sono complessi (e  quindi più intensa l’attività decisionale richiesta), tanto più basso esso diventa, fino a raggiungere le dimensioni del piccolo gruppo. In terzo luogo, lo span of control efficiente diminuisce se i subordinati non sono “indifferenti” riguardo ai compiti da eseguire o comunque manifestano un certo tasso di non adeguamento alle direttive. Pertanto, al crescere del numero di attori interdipendenti coordinati tramite autorità o agenzia, si osserva la formazione di sistemi di coordinamento sovrapposti, cioè di una gerarchia.
Quanto maggiore è lo span of control, e quanto più numerosi i livelli gerarchici, a parità di altre condizioni, tanto maggiori saranno le imperfezioni e le perdite di controllo nel sistema. Queste imperfezioni  si manifestano anche qualora si supponga che l’autorità sia utilizzata correttamente nel suo ambito applicativo. Le perdite di controllo possono infatti derivare innanzitutto dalle inevitabili perdite di informazione in catene di processi di comunicazione qualitativa, basati sul linguaggio. I messaggi tendono infatti ad indebolirsi e distorcersi attraverso più processi di emissione - ricezione. Nel caso dell’autorità, questo varrà sia per la trasmissione verso il centro delle informazioni locali sia per la trasmissione dal centro alla periferia degli ordini o piani di azione.
In secondo luogo, un adeguamento imperfetto delle azioni ai piani, anche in assenza di conflitti d’interesse, può derivare dall’incidenza di fattori esogeni, non previsti, o casuali. Infatti, si è detto che l’autorità dovrebbe essere in grado di regolare - tra l’altro - attività non totalmente prevedibili, in cui l’attore centrale possa di volta in volta decidere l’allocazione migliore degli sforzi. Tuttavia, ciò non riduce a zero il divario temporale tra decisione, attuazione e controllo. Rimane la possibilità che le circostanze possano variare durante l’attuazione e che il comportamento degli attori che subiscono l’autorità possa risultare comunque imperfettamente adattato alle aspettative per due diversi e opposti motivi. Essi si possono attenere rigidamente alla lettera delle istruzioni ricevute - e proprio per questo non riuscire ad attuare in realtà lo “spirito del contratto” di autorità nelle circostanze osservate. È questo un difetto o costo di rigidità o inerzia dei sistemi basati sull’autorità largamente osservato e osservabile. Alternativamente, gli attori in posizione subordinata possono “prendersi la responsabilità” di interpretare lo spirito degli ordini e di scegliere azioni diverse da quelle prescritte: con questo possono salvare l’efficacia del sistema di azione, ma comunque lo fanno “uscendo” dai limiti di una relazione di autorità intesa in senso stretto.

In terzo luogo, un adeguamento imperfetto delle azioni ai piani può naturalmente verificarsi per errore, mancanza di risorse professionali o strumentali e altre incongruenze tra la prestazione richiesta e la possibilità di erogarla in un particolare momento. Per definizione la possibilità di errore è tanto maggiore quanto più un’attività è complicata e difficile. I costi di errore quindi, di per sé, non sono specifici del
meccanismo di autorità, bensì della natura della attività. Tuttavia, il meccanismo di correzione degli errori è invece tipico del particolare sistema di coordinamento adottato. Nel caso dell’autorità il circuito di controllo e feedback richiede ulteriori e specifiche attività di rilevazione, di informazioni e di comunicazione di giudizi e valutazioni: la correzione degli errori è dunque particolarmente costosa in un regime di autorità, e costituirà un limite di applicazione dell’autorità in attività difficili.
Nelle relazioni di agenzia il controllo presenta difficoltà addizionali per via della delega di poteri decisionali. Queste difficoltà aumenteranno al crescere della discrezionalità dell’agente; e al crescere dell’inosservabilità dei suoi comportamenti e dell’imperfezione dei segnali su cui può essere basato il controllo.
In conclusione, ci si può attendere che il fenomeno della “perdita di controllo” sia tanto maggiore quanto più complesse sono le indicazioni operative trasmesse, quanto più l’attività è variabile e quanto più è difficile, ma non ci si può mai attendere che esso sia completamente assente. Inoltre, non è nemmeno auspicabile che esso sia assente, che il sistema sia “perfettamente coerente”, che il controllo sia perfetto. In effetti, un sistema di controllo perfetto, quale che esso sia avrebbe scarsissime capacità di apprendimento  ed evoluzione. Infatti gli errori di esecuzione possono trasformarsi in scoperte di nuovi modi efficaci di agire, in effetti imprevisti ma positivi in innovazione senza costi di ricerca. L’interpretazione flessibile dello spirito del contratto di autorità e di agenzia è spesso molto più efficace di un perfetto adeguamento agli ordini o  alle aspettative di azione iniziali. La crescita della “perdita di controllo” può esser perciò letta come un segnale che la natura delle attività non si presta più ad una relazione per autorità o di agenzia e non necessariamente come un costo che deve essere ridotto.
Con riferimento all’autorità basata sullo scambio, si è detto che una “quasi - indifferenza” di chi subisce l’autorità con riguardo ai possibili impieghi dei propri servizi di lavoro entro una determinata zona, è una condizione che rende lo scambio fattibile ed efficiente. Tuttavia, tale circostanza non è priva di costi.
Infatti, in primo luogo, una descrizione di comportamento di lavoro di attività da svolgere non potrà mai essere completa. Tuttavia, una persona “quasi - indifferente” sul contenuto della propria attività, se non ha particolari incentivi ad eludere e ad agire diversamente da quanto prescritto, non ha neppure incentivi ad operare oltre le indicazioni ricevute, a perfezionarle ed integrarle come opportuno.
Infine, il divorzio tra le persone e il governo delle proprie attività, anche se volontariamente accettato, è una situazione psicologicamente innaturale e potenzialmente riduttiva per le capacità generali  di dare contributi ai gruppi cui si appartiene o “alienante”. In effetti, si può osservare che ogni regime di comportamento può creare assuefazione, generare “allenamento” e formare “predisposizioni” che poi si ripropongono al di là dei contesti e delle occasioni in cui sono state apprese. Nel caso specifico dei regimi di subordinazione, specie se molto accentrati, le persone che agiscono senza decidere per una parte estesa  del
proprio tempo, possono trovare poi difficile l’assunzione di comportamenti non eterodiretti anche quando questi ultimi siano necessari o opportuni.
Le relazioni di agenzia presentano minori problemi sia con riguardo all’alienazione sia con riguardo all’indulgenza. Infatti, da un lato esse implicano un’allocazione di diritti decisionali significativi a chi agisce; dall’altro istituiscono incentivi più forti grazie al collegamento tra prestazione e risultati dell’agente. D’altra parte generato l’orientamento a risultati misurabili e predefiniti può produrre un effetto “paraocchi” sui comportamenti, rendendoli poco innovativi. Per esempio si è spesso lamentata la scarsa propensione agli investimenti innovativi nelle risorse tecniche e umane da parte di direttori di divisione incentivati prevalentemente in funzione dei ritorni economici sugli investimenti come da risultati di esercizio.
Il prezzo, il voto, le relazioni di agenzia e l’autorità non risolvono tutti i problemi di coordinamento. Un’importante modalità alternativa è costituita da un processo di aggiustamento diretto e reciproco tra gli attori interdipendenti. È la modalità più naturale e antica di coordinamento. Anche nelle attività economiche, il baratto i gruppi associativi erano diffusi nel medioevo e nelle economie preindustriali. In questo capitolo si cerca di capire grazie a quali meccanismi di comunicazione, decisione e controllo i gruppi possano coordinare l’azione collettiva in modo efficace, efficiente ed equo, e sotto quali condizioni.
Una  base empirica importante per comprendere come  funzionino i  gruppi  nel definire   un’azione
collettiva coordinata è stata prodotta da una serie di esperimenti sulla soluzione di problemi in gruppo. Il disegno classico di questi esperimenti prevede l’assegnazione di un compito ad un piccolo gruppo persone  e osservare i processi tramite i quali esso è in grado di produrre una scelta su una linea di azione collettiva. Inoltre, poiché interessa anche valutare l’efficacia di tali processi, spesso si sono proposti compiti e problemi che, per quanto di incerta soluzione per i partecipanti all’esperimento, hanno una soluzione “corretta” di raffronto. Le soluzioni prodotte dal gruppo possono poi essere comparate, oltre che con la soluzione corretta di raffronto, anche con le soluzioni che gli stessi individui, con le stesse competenze, sono in grado di produrre da soli, prima di poter avere un confronto con gli altri.
Qual è dunque il miracolo dei gruppi per cui una somma di quasi incompetenze individuali produce una certa competenza collettiva? E quando possiamo attenderci che questo accada?
Il meccanismo centrale è mettere in comune ed integrare informazioni e competenze parziali e differenti: il confronto. La possibilità di vedere aspetti prima non considerati di un problema, di accedere a nuove informazioni, porta le persone ad accettare di rivedere le proprie percezioni, giudizi e posizioni, e a persuadersi a vicenda. Ognuno esercita influenza in base alle proprie informazioni e competenze. Nessuno, in un modello ideale di gruppo, ha sufficienti informazioni e competenze per risolvere bene il problema da solo. Se uno o più membri del gruppo fossero in queste condizioni, allora sarebbe ugualmente efficace e più efficiente demandare ad uno di essi il compito di definire l’azione collettiva per tutti, cioè creare un’autorità basata sulla competenza.
Saranno dunque tipicamente i problemi nuovi, complessi, multidisciplinari a richiedere l’impiego di processi di decisione di gruppo e a beneficiarne maggiormente.
Sui problemi complessi, il gruppo consegue grandi vantaggi di tipo cognitivo. Anziché operare attraverso la riduzione della quantità di informazioni trattate e scambiate come fanno, in modo diverso, il prezzo, il voto, il coordinamento tacito e l’autorità, la decisione di gruppo punta all’ampliamento della capacità di trattamento delle informazioni e della potenza cognitiva del sistema decisore.
Tra i benefici delle decisioni di gruppo si sottolineano spesso anche vantaggi motivazionali e non solo vantaggi cognitivi. Infatti, la partecipazione ai processi decisionali è spesso un fattore di accettazione e convinzione sulle azioni da compiere. Tuttavia, il gruppo permette di conseguire tali benefici solo se funziona “bene”: cioè, come nel caso del prezzo o dell’autorità, se certe condizioni riguardo alla natura delle informazioni e degli interessi sono rispettate.
Quali sono gli attributi del gruppo come meccanismo distintivo di coordinamento? Innanzitutto,  una rete di comunicazione totale, in cui tutti possono comunicare con tutti ed effettivamente lo fanno. Un’elevata interazione diretta fra tutti gli attori è un tratto distintivo e una condizione di efficacia del coordinamento tramite gruppo. Un gruppo in cui alcuni membri non riescono ad esprimersi e a dare il proprio contributo di competenze e informazioni, non realizzerà che in parte miglioramenti nella qualità delle decisioni collettive.
Perché vi sia uno scambio aperto e paritario di informazioni e perché esso sia efficace, è importante che gli attori controllino informazioni e competenze approssimativamente della stessa consistenza e rilevanza per il problema o attività in questione, cioè siano dotati di capacità di influenza equilibrate. Per esempio, un “circolo di qualità” per il miglioramento di un processo produttivo, può generare effettivamente la qualità superiore prevista, se tutti i lavoratori che operano su parti diverse del processo sono presenti e possono esprimersi liberamente.
In terzo luogo, il raggiungimento del consenso tramite il confronto e la persuasione è possibile solo se i potenziali conflitti tra i membri non sono conflitti d’interesse. Se i partecipanti avessero un interesse proprio in questa o quella alternativa la chiarificazione razionale e il confronto fra analisi diverse non risolverebbe il problema. Saprebbe necessario ricorrere alla negoziazione. Il gruppo, il “lavoro di gruppo”, la “decisione di gruppo” è un collettivo con interessi comuni, una “squadra” e tutti i membri della squadra hanno interesse a vincere il gioco che stanno giocando. I conflitti possono riguardare i modi migliori per farlo, l’interpretazione delle informazioni, i giudizi e le diagnosi, le relazioni causali tra azioni e risultati. Sono conflitti di giudizio, di opinione, non conflitti d’interesse che possono essere risolti tramite confronto  e decisione di gruppo.
II  gruppo  è  un’arma  a  doppio  taglio.  Esso  può  funzionare,  per  così  dire  come  un     “decisore
superumano”, riducendo i limiti e le distorsioni della razionalità individuale. Tuttavia, il processo di gruppo può anche prendere una strada del tutto opposta; qualora non si presidino e non si supportino determinate condizioni decomposizione e funzionamento interno.
Uno dei più noti esperimenti sui processi decisionali di gruppo ha chiarito molto tempo fa quale  può essere la potenza della decisione di gruppo e come essa possa portare facilmente ad “abbagli” di gruppo piuttosto che a decisioni migliori. Data la struttura dell’esperimento, la “pressione” si può attribuire interamente a fattori cognitivi. In altri termini, negli esperimenti le persone trovano difficile esprimere il proprio parere e/o cambiano opinione per il solo fatto che altri, e più precisamente tutti gli altri,  sostengano un’altra opinione. Anche in un compito in cui l’ambiguità di giudizio è minima, le persone perdono sicurezza nelle proprie valutazioni, iniziano a pensare a tutti i possibili indizi, elementi contrari e controindicazioni che evidentemente gli altri vedono mentre loro no. Questo processo, che sarebbe  positivo in un regime di pluralità di opinioni, è distruttivo in un regime quasi unanimistico, in situazioni in  cui vi sia una visione nettamente prevalente.
La patologia derivante dalla pressione cognitiva del gruppo è stata definita groupthink. Essa è stata studiata in casi e situazioni organizzative reali e avanzata come spiegazione di alcune decisioni di gruppo disastrose. In tali casi, pur esistendo alcuni segnali sui limiti dei progetti e alcune espressioni di dissenso, le aspettative esterne e interne al gruppo decisore per avere comunque risultati e l’entusiasmo collettivo per l’impresa portarono quei gruppi a una cecità e mancanza di senso critico assai superiori a quella dei loro membri singolarmente presi.
Una delle caratteristiche delle decisioni prodotte in regime di groupthink e di elevata pressione di gruppo è la loro rischiosità. Probabilmente nessun decisore individuale si sarebbe preso la responsabilità di avallare personalmente quelle azioni, avendo ricevuto le informazioni di tipo negativo che erano in effetti disponibili a priori. È l’effetto di “produzione di squadra” e il possibile “free-riding” a livello di  responsabilità; i singoli si deresponsabilizzano poiché i contributi e le responsabilità individuali non sono discernibili nella decisione di gruppo. Pertanto ogni membro del gruppo non sopporterà che in parte le conseguenze delle scelte qualora l’esito fosse negativo. In mancanza di incentivi esplicitamente volti a rendere i membri del gruppo solidalmente responsabili, a parità di altre condizioni, è quindi probabile che il gruppo sia più propenso al rischio rispetto ad un decisore individuale interamente responsabile.
In considerazione delle patologie delle decisioni di gruppo menzionate in questo paragrafo e dei vantaggi sottolineati nel paragrafo precedente, si può osservare che almeno la serie seguente di variabili ha effetti significativi sull’efficacia del gruppo:
•  il grado di differenziazione delle informazioni possedute dai membri;
•  il grado di differenziazione degli stili cognitivi e degli schemi percettivi;
•  il grado di coesione attorno agli interessi del gruppo vissuti come “missione” (obiettivi da raggiungere in ogni caso e a qualunque costo) piuttosto che come parametri con cui valutare opzioni (per cui un problema può anche non ammettere soluzioni in un dato momento, se non ci sono alternative adatte;
•  il grado di pressione del tempo;
•  il grado di pressione esterna per risultati immediati; >
•  una rivalità diretta tra gruppi.
Tuttavia, la relazione di queste variabili con l’efficacia dei gruppi non è lineare. Il gruppo efficace ha bisogno di gradi elevati di differenziazione interna, di tempo per decidere, di non essere minacciato esternamente. D’altro lato, se questi attributi del gruppo e del suo contesto raggiungono valori estremi, il gruppo può essere posto in difficoltà o non essere sufficientemente stimolato e motivato. Una differenziazione cognitiva troppo elevata può rendere difficile la comunicazione, interessi e valori comuni sono necessari per orientare l’azione è permettere la costruzione del consenso per confronto, la pressione e competizione esterna sostiene l’orientamento all’efficienza interna.
Così  come   la   concorrenza  ha  bisogno  di   supporti  e  difese   ed  è  difficile  che  si       mantenga
“spontaneamente”; così come l’esercizio di autorità necessita di competenze specifiche perché non degeneri in autoritarismo o imposizioni; così il gruppo ha bisogno di tecniche e competenze comportamentali per funziona re in modo positivo e per non cadere in patologie e impasse.
Tra le prescrizioni offerte da studi di comportamento organizzativo ricordiamo le seguenti.
•  Coinvolgimento nella definizione dei problemi. Nei processi decisionali si possono individuare alcune sottoattività di trattamento di informazioni, quali la definizione dei problemi, la ricerca di informazioni e alternative, la valutazione delle alternative e la scelta. Il coinvolgimento del gruppo nelle varie attività è di grande impatto sulla dinamica del gruppo. Molte riunioni e processi decisionali di gruppo non vanno a buon fine perché i partecipanti hanno idee piuttosto diverse su quale sia il problema da risolvere. Discutendo, per esempio, di quale sia il miglior investimento in un sistema informativo, è  possibile che non si riesca a risolvere il problema perché per gli esperti si tratta di un problema di capacità di memoria, per i commerciali di un problema di tempestività dei dati, per la funzione del personale di un problema di riorganizzazione del lavoro. L’allocazione ai gruppi di attività di definizione dei problemi, e non solo di discussione e valutazione di alternative, è fondamentale perché il gruppo si costituisca come tale  con riguardo alla presenza di un interesse comune, di una percezione comune del gioco.
•  Generazione di alternative libera e indipendente. Quanto detto con riguardo alla definizione del problema non esclude che, invece, nella fase di generazioni di opzioni, i membri del gruppo riducano la loro interdipendenza per conseguire maggior creatività. Una tecnica molto utilizzata è quella della formazione di sottogruppi. Definito un problema di lancio di un nuovo prodotto, un gruppo di marketing si può dividere in sottogruppi che generino idee pubblicitarie diverse, senza influenzarsi l’un l’altro in questa fase dedicata all’aumento della varietà degli input informativi. Una seconda nota tecnica, dagli scopi simili, è quella del brainstorming, o generazione libera di alternative in regime di sospensione del giudizio e della valutazione. Quali sono i modi potenziali per migliorare un processo di montaggio? o per migliorare il processo tradizionale di conduzione di un esame universitario? o per migliorare una procedura di valutazione del personale? Lo sforzo dominante in questa fase è di pensare a qualcosa di diverso dalla situazione preesistente, di “lontano”, di radicale, di non facilmente “disponibile” in termini cognitivi. Solo in un secondo tempo tali idee verranno giudicate in termini di fattibilità, e, anche qualora vengano scartate, alcuni loro elementi potranno essere incorporati nelle soluzioni accettate. Altra tecnica di sostegno alla varietà degli input informativi è la costruzione deliberatamente differenziata del gruppo in modo tale da contenere portatori di diversi schemi mentali, diversi stili cognitivi (esperti esterni, persone provenienti da altre organizzazioni o da altri contesti nazionali); o persone chiamate a svolgere uno specifico ruolo di “critico”, di “discussant”, di “controrelatore”.
•  Conflitti sui problemi, non con le persone. La discussione e il confronto sono dinamiche ad alta intensità sociale ed emotiva. Sono processi dedicati non solo a risolvere i conflitti di razionalità e giudizio, ma addirittura, come si è visto, a crearli a fini di innovazione. Tuttavia, non sempre le persone sono allenate a fare e ricevere critiche “costruttivamente”. La patologia del conflitto relazionale è stata la preoccupazione principale nella letteratura psico-sociale sui processi di gruppo. In questa prospettiva, si indicano e si prescrivono una serie di comportamenti poco costruttivi quanto frequenti: interrompere, essere aggressivi verso le persone, cercar di abbassare lo status degli altri, disconoscere la legittimità dei partner, estraniarsi. Come tecnica di supporto la formazione comportamentale al lavoro di gruppo ha un ruolo fondamentale  nel facilitare processi di gruppo efficaci, ed è infatti uno strumento organizzativo centrale nelle attività che fanno ampio uso del lavoro di gruppo (dalle task forces militari alle équipe mediche, dai gruppi di progettazione tecnica ai comitati interfunzionali e internazionali).
•  Differenziazione di ruoli. L’assunzione di ruoli diversi e complementarità parte dei membri è spesso efficace. Sia la differenziazione delle competenze e delle informazioni dei membri di un gruppo, sia la possibilità e la convenienza ad una certa divisione del lavoro interna la giustifica. Per esempio, è spesso utile creare ruoli focalizzati su diverse fasi o sottoattività decisionali (studi e ricerche, elaborazione di piani  e scenari, valutazioni comparate di alternative) o su diversi aspetti della dinamica di gruppo (come per esempio i ruoli di moderatore, di esperto tecnico, di critico o discussant, di portavoce, di collegamento  con
altri gruppi) o naturalmente per specializzazione tecnica.
In conclusione, si può osservare che il coordinamento di gruppo ha sia relazioni positive sia negative con gli altri meccanismi di coordinamento. Il coordinamento tramite confronto e decisione di gruppo può essere in parte supportato e “assistito” da alcuni meccanismi tipici di altre modalità di coordinamento, per creare forme organizzative basate sul gruppo. D’altra parte il confronto può essere facilmente “ucciso” se l’impiego di quei meccanismi travalica determinati limiti.
Importanti meccanismi rafforzativi di un processo di gruppo efficace sono per esempio:
1. l’uso di forme di autorità procedurale, afferente al metodo di discussione, alla gestione degli  interventi, ma non al contenuto (le figure di moderatore, di presidente, di una seduta di un organo collegiale);
2. la presenza di una conoscenza comune per quanto riguarda gli elementi di fondo: il linguaggio e le capacità di capirsi, dei principi etici comuni, una condivisione dei valori che orientano l’attività del gruppo ma non routine e conoscenze operative troppo simili.
3. lo scambio sociale, cioè la ricompensa reciproca attraverso transazioni di “beni sociali”: lo status, la stima, il potere cognitivo, l’appartenenza e la socialità, e un sistema di “norme di reciprocità” che lo regoli  ma non la negoziazione e lo scambio sulle soluzioni tecniche.
Dimensioni del gruppo. Il coordinamento dell’azione collettiva tramite confronto e costruzione  del
consenso è il meccanismo più costoso in termini di tempo necessario e numero di comunicazioni impiegate. Inoltre, al crescere del numero degli attori da coordinare, i costi crescono in ragione del numero di combinazioni (connessioni) possibili tra le parti. Pertanto, una prima causa importante di “crisi del gruppo” sono le dimensioni del sistema da coordinare. Vi sono piccole imprese che si avvicinano molto ad un modello di governo di gruppo - si pensi a un gruppo di professionisti. Tuttavia anche nel caso di imprese professionali, dove valga l’ipotesi di competenze distribuite e potere equilibrato, dove l’interesse comune sia sostenuto da sistemi di compartecipazione e proprietà diffusa, la grande dimensione porta a processi decisionali basati sulla consultazione, il voto, la negoziazione tra centro e periferia. Pertanto, nei sistemi grandi ove per altri aspetti permangano le condizioni di complessità dei compiti che favoriscono l’uso dei gruppi, ci si può aspettare forme di organizzazione che ibridano i meccanismi di gruppo con quelli più adatti al governo delle grandi dimensioni.
Importanza delle decisioni. Oltre alla dimensione del sistema e alla complessità delle informazioni dà trattare, l’importanza delle attività ha un impatto sulla convenienza relativa del gruppo rispetto a modalità di coordinamento alternative. Decisioni con conseguenze importanti possono giustificare i costi di
processi decisionali ampi, gli investimenti in capacità di trattamento delle informazioni maggiori di quelle individuali. Infatti, anche nei sistemi organizzativi dove tutti i membri sono titolari di diritti decisionali (per esempio le associazioni imprenditoriali e sindacali, l’insieme degli azionisti di una Spa, le cooperative) solo  le decisioni importanti sono discusse e valutate da tutti. Per contro, anche in sistemi coordinati prevalentemente tramite autorità, le decisioni complesse e importanti sono spesso prese tramite confronto e decisione di gruppo tra gli attori che controllano le informazioni e le competenze rilevanti (per esempio, i comitati dei direttori di divisione o di funzione).
Conflitti tra interessi. Infine, il gruppo come modalità di coordinamento è tanto meno efficace quanto più vi siano interessi in conflitto.
Il gruppo,non ha solo capacità di comunicazione e decisione, ma anche capacità di controllo. Come accade anche per gli altri modi coordinamento, l’impiego a fini decisionali e l’impiego a fini di controllo possono essere effettuati separatamente. Si può decidere in gruppo e affidare le garanzie di applicazione al controllo per autorità o a schemi di incentivo.
Viceversa, si può confrontare sul controllo di gruppo per l’applicazione e realizzazione di attività  non decise dal gruppo stesso. Per esempio, in un gruppo di montaggio di una macchina per ufficio, le attività possono essere predefinite; ciò nonostante, se i montatori sono incentivati a raggiungere un risultato collettivo, possono controllare reciprocamente i comportamenti di lavoro.
Aree di attività in cui i contributi individuali invece non sono discernibili, situazioni di “produzione di gruppo” o “di squadra”, sono potenziali candidate al controllo di gruppo, sotto alcune condizioni di configurazione delle competenze e degli interessi dei componenti. Qualora le attività dei membri  del gruppo fossero separabili e ad ogni azione di ciascuno fossero collegabili senza ambiguità determinati risultati, nessuna attività di controllo sarebbe necessaria; poiché le persone potrebbero essere incentivate a contribuire tramite ricompense legate ai risultati.
Il  controllo  di  gruppo  implica  innanzitutto  che  i  membri  del  gruppo  possano  osservare  la
performance; il contributo di ogni membro del gruppo deve essere rilevabile dagli altri, o attraverso la visibilità dei risultati o attraverso la visibilità dei comportamenti tenuti.
Questo requisito restringe la fattibilità del controllo di gruppo ad alcune circostanze. Innanzitutto,  al crescere delle dimensioni del gruppo, il controllo diretto tra i membri diviene sempre più difficile e
costoso. Oltre al numero di persone, anche il grado di divisione del lavoro e di diversità tra le specializzazioni dei diversi membri costituiscono una barriera al controllo di gruppo.
Un problema delicato è posto dalla complessità delle attività. Infatti, si è visto che il gruppo è un efficace meccanismo decisionale su attività complesse. Ci si può quindi chiedere se il gruppo abbia anche proprietà di controllo di quel tipo di attività. Per esempio, consideriamo attività di ricerca. In attività di ricerca e analisi medica, biologica e chimica di laboratorio, dove è richiesta presenza fisica delle persone ci sono molti indicatori osservabili di attività, sia in termini di accuratezza di comportamento sia di risultati degli esperimenti, il controllo di gruppo sarà molto efficace. Al contrario, nelle attività di ricerca poco osservabili, vuoi perché svolte prevalentemente sul campo, il controllo di gruppo è poco praticabile.
Pertanto, mentre la decisione di gruppo è efficace soprattutto in i condizioni di elevata complessità informativa, il controllo di gruppo è tanto più efficace quanto minore è la complessità dell’attività.
I  membri  del  gruppo  devono  essere  in  grado  di  valutare  la  qualità  dei  contributi  forniti.   Per
esempio, nel caso di impiego del gruppo in attività di decisione о soluzione di problemi, i membri saranno normalmente in grado di valutare la qualità dei contributi forniti in termini di impegno, preparazione, serietà, rispetto delle regole di svolgimento della discussione, non evasione dai propri compiti e dal ruolo atteso nel processo. Non sempre saranno in grado di valutare la qualità tecnica delle analisi e delle informazioni fornite, specie se la differenziazione di competenze specialistiche nei gruppo è elevata. Pertanto, una condizione importante per l’efficacia del gruppo come meccanismo di controllo è una relativa diffusione e omogeneità delle competenze rilevanti per l’attività di gruppo.
La creazione di aspettative condivise sui modelli specifici di comportamento favorisce la formazione di giudizi omogenei sulla qualità dei contributi di ciascun individuo da parte di tutti gli altri. Infatti, sé nel gruppo vi fossero molte opinioni diverse sulla performance di un dato membro, il gruppo non sarebbe in grado di applicare coerentemente nessuna sanzione capace di correggere il comportamento. Pertanto, il gruppo sarà tanto più efficace nel controllo quanto più chiaro e condiviso sarà il sistema di ruoli, di aspettative reciproche di comportamento che governa il suo funzionamento. Se questo è vero, allora tra le condizioni in cui i gruppi che possono esercitare efficacemente un controllo sociale sui loro membri vi è una condizione di stabilità nella composizione del gruppo, e stabilità nelle attività del gruppo. In altri termini i membri del gruppo devono avere il tempo’ di conoscersi, di formarsi aspettative reciproche, di definire dei modelli di comportamento rispetto ai quali valutare, i contributi dei membri che non siano già obsoleti prima di poter diventare operativi. Le attività nuove e innovative, invece, mal si prestano al controllo di gruppo.
Attraverso quali  strumenti i  gruppi  possono esercitare influenza? Perche i  membri  di  un  gruppo
dovrebbero prendersi il disturbo, talvolta psicologicamente costoso, di controllarsi l’un l’altro?
Il gruppo è inevitabilmente un luogo di scambio sociale; Anche qualora esso sia formato per lo svolgimento di attività economiche, le interazioni tra i membri del gruppo implicano transazioni sociali.  Quali beni sociali vengono creati dal gruppo e possono da esso venir conferiti o ritirati nei confronti dei propri membri? Per esempio i seguenti.
•  Lo “status”. l’impegno, le capacità cognitive, la capacità di risolvere e mediare i conflitti, l’esperienza nelle attività del gruppo vengono riconosciuti dai membri del gruppo che gratificano i singoli attribuendo loro uno status ad essi congruente;
•  Le competenze, il controllo di informazioni e risorse critiche per il gruppo, le capacità dialettiche e relazionali, costituiscono base per l’esercizio di influenza tra i membri del gruppo e questa possibilità rappresenta un beneficio, una ricompensa per molti individui;
•  La stima: molti individui traggono inoltre dalla stima degli altri una parte importante delle ricompense, dei ritorni che essi cercano nella propria attività; i gruppi conferiscono o ritirano la stima in funzione della qualità dei contributi individuali;
•  L’appartenenza: l’isolamento, l’esclusione, l’emarginazione, il ridicolo sono sanzioni sociali che di solito sono avvertite in modo molto negativo dalle persone, tanto più, quanto più un singolo gruppo di lavoro è prevalente nella vita di un individuo, quanto meno diversificati sono gli impegni della persona e le sue possibilità di ottenere ricompense in altri gruppi.
Le diverse proprietà del gruppo come meccanismo di decisione e come "meccanismo di controllo

portano ad una contraddizione nell’uso dei gruppi come modalità di coordinamento.

 

In teoria, non è impossibile pensare a gruppi capaci di indossare due cappelli diversi a seconda dell’esercizio delle due diverse funzioni di decisione e di controllo. Tuttavia, in pratica, è molto difficile che i membri di un gruppo sviluppino una capacità così sofisticata di comportamento contingente. Inoltre, le stesse caratteristiche strutturali dei membri - orientamenti, personalità, diversità di informazione e formazione, varietà interna di frames percettivi e stili cognitivi - che sostengono processi efficaci sono diverse nel gruppo “creativo” rispetto al gruppo “precettivo” o “normativo”. Pertanto, esiste un trade-off di fondo nei gruppi tra investimento in capacità di decisione e investimento in capacità di controllo.
Nella realtà organizzativa molti gruppi privilegiano infatti chiaramente l’una o l’altra dimensione.
Per esempio, il funzionamento dei gruppi nelle imprese giapponesi, così come descritto dagli studi organizzativi più accurati, è centrato sull’uso di un mix di controllo di gruppo e di controllo culturale sui comportamenti. Questi stessi studiosi dei “clan”, ne hanno messo in luce i costi sul versante delle capacità di cambiamento e di generazione di innovazioni. Al contrario, i gruppi che hanno bisogno di creatività, innovatività e flessibilità hanno spesso problemi sul versante del controllo.
Al di là del contrasto con la funzionalità decisionale, il controllo di gruppo incorre in altri limiti suoi propri: nel controllo per supervisione vi è sèmpre un certo tasso di devianza dalle indicazioni, di perdita di controllo; nel controllo tramite uscita, il processo è temperato da fattori di inerzia e fedeltà. Nella letteratura organizzativa di impostazione più tradizionale e/o meno recente, queste imperfezioni sono state spesso modellizzate come “costi” incomprimibili di controllo. Tuttavia, come si è già posto in luce, la presenza di queste distorsioni nei processi di controllo può avere almeno due importanti funzioni positive. Primo, esse possono essere il segnale che la natura delle attività sta cambiando, che la forma di controllo adottata sta entrando in crisi, e che il passaggio ad altre modalità di coordinamento delle attività economiche è all’ordine del giorno. Secondo, esse possono costituire un segnale che il sistema sta apprendendo nuovi comportamenti attraverso abuso degli spazi di discrezionalità e adattamento lasciati  dai processi di controllo. I supervisori non potrebbero apprendere nulla dall’esperienza degli esecutori se i sistemi di autorità fossero perfetti; i produttori non avrebbero il tempo di apprendere nulla dai  consumatori se l’uscita fosse perfettamente senza attrito. Nei gruppi, la “devianza” e le “tensioni di ruolo” rappresentano un simile fattore a doppio taglio.
Gli studi sulle tensioni di ruolo hanno utilmente individuato una serie di fonti di distorsione nell’assunzione di comportamenti conformi alle aspettative del gruppo da parte degli individui. Per esempio, la comunicazione delle aspettative può esser soggetta a tutti problemi di non chiarezza del messaggio o di percezione e interpretazione del ricevente difforme da quella dell’emittente tipici di qualunque processo di comunicazione poco codificato {distorsione di ruolo). Così, il ruolo, diciamo, di un venditore di cosmetici porta a porta può esser “poco chiaro” perché i venditori non hanno avuto tempo e modo di formarsi aspettative reciproche, perché non è stato dedicato tempo alla comunicazione e all’interazione, alla formazione, alla socializzazione e allo scambio di esperienze sui comportamenti e le tecniche utilizzabili. I comportamenti dei venditori potrebbero essere poco prevedibili e poco conformi alle aspettative innanzitutto e semplicemente perché questi non sanno come comportarsi.
Il problema della scarsità di informazioni e conoscenze sui comportamenti attesi può assumere proporzioni più gravi e strutturali se le persone non hanno le risorse, tecniche e professionali, per soddisfare le aspettative (incongruenza di ruolo). Una disfunzione organizzativa spesso rilevata è la formazione di aspettative verso le persone che svolgono determinate attività - senza che a queste persone vengano  messi  a  disposizione  i  mezzi  per  assumere  quel  ruolo  (competenze,  status,  tempo  e istanze
appropriate). Un esempio ricorrente riguarda i “ruoli di integrazione” tra funzioni aziendali, per lo scaricarsi inavvertito di responsabilità di integrazione su ruoli che sono intermediari nel processo produttivo ma che non hanno lo status e le competenze necessarie: per esempio, l’aspettativa che tecnici dell’ingegnerizzazione dei prodotti medino e integrino le esigenze di innovazione dei progettisti  della ricerca con quelle di standardizzazione della produzione senza averne gli strumenti tecnici e organizzativi. Possono infine insorgere conflitti di ruolo e tra ruoli. Ogni attore appartiene normalmente a più gruppi, anche limitandosi alle attività lavorative. Se i diversi gruppi hanno aspettative diverse con riguardo alle stesse attività di un attore, i meccanismi di controllo si intersecano e il ruolo risulterà definito in modo conflittuale e ambiguo. Per esempio, i ruoli di confine tra diversi gruppi hanno tipicamente questa caratteristica: il ruolo dei capi intermedi è definito in modo conflittuale dalle aspettative del gruppo dei subordinati e del gruppo direttivo di un’impresa; il ruolo dei venditori di beni/servizi complessi,  con  rilevanti contatti con i clienti, risente del conflitto tra aspettative di questi ultimi e dell’impresa in cui è incluso; i diversi gruppi funzionali hanno aspettative differenti riguardo ai comportamenti che dovrebbero caratterizzare i ruoli trasversali di collegamento tra di esse, come i product-manager.
Il  conflitto di ruolo può diventare conflitto d’interesse qualora una stessa "persona" assumesse  ruoli con obiettivi parzialmente o totalmente incompatibili. Un certo livello di conflitto fra ruoli è naturale e incomprimibile in una società differenziata, come il conflitto tra ruoli di lavoro e impegni e ruoli extra- lavorativi e familiari; o tra ruoli di lavoro differenziati come un ruolo di lavoro dipendente affiancato da un’attività professionale. Tuttavia il conflitto tra ruoli può diventare distruttivo se arriva ad assumere il carattere di “incompatibilità” fra orientamenti e interessi loro caratteristici. Possono essere incompatibili, per esempio, ruoli di controllore e di responsabile di una stessa attività; ruoli di direzione d’impresa e di direzione di sindacati dei lavoratori, ruoli di interesse pubblico e di proprietà e gestione di attività private.
Pertanto, i membri del gruppo potranno non accettare deliberatamente di uniformarsi alle attese, potranno assumere un certo grado di devianza dalle norme e dai ruoli attesi. I gruppi normalmente tollerano un certo grado di devianza, non solo poiché un processo di controllo perfetto è impossibile, ma anche perché è controproducente. Infatti, lo slittamento dei comportamenti, rispetto, alle attese, deliberato o casuale, può essere fonte di apprendimento per tentativi o errori di nuovi comportamenti e può permettere un aggiustamento a cambiamenti non previsti nelle attività.
Un gruppo può essere titolare in diversa misura di diritti e obblighi riguardanti le azioni, le decisioni, il controllo e la ricompensa derivante dall’azione di gruppo. La diversa allocazione di tali diritti al gruppo
definisce diversi tipi di gruppo, la cui efficacia può essere collegata a diverse condizioni, anche perché essi risolvono in modo diverso il trade-off tra esigenze di prevedibilità e coesione ed esigenze di soluzione dei problemi e di innovazione.
Se il gruppo può osservare perfettamente i comportamenti di ogni componente allora il controllo del gruppo sarà deterministico e istantaneo: a comportamenti devianti dalle attese corrisponderanno sanzioni (sociali e/o economiche), a comportamenti conformi conseguiranno premi e ricompense. Questo tipo di gruppo, adatto a governare attività chiare e direttamente osservabili, è stato chiamato gruppo primitivo. Quando le dimensioni del gruppo diventano grandi può essere efficiente la costituzione di un’autorità che svolga l’attività di supervisione che i membri del gruppo non possono più svolgere direttamente. Si supponga ora che le attività di gruppo oltre ad essere interdipendenti e non separabili, siano anche difficilmente osservabili e misurabili. Per esempio, si pensi ad un progetto tecnico di impianto, da definirsi in modo da risolvere alcuni problemi di lavorazioni particolari di un cliente, realizzato da un gruppo misto tecnico-commerciale. I membri del gruppo potranno osservare reciprocamente i comportamenti rilevanti solo indirettamente. Quanto duramente un ingegnere ha pensato a possibili soluzioni tecniche alternative? Quanto bene si sono informati su esperienze utilizzabili disponibili o descritte su pubblicazioni specialistiche? Quanto approfonditamente i responsabili degli acquisti hanno cercato i materiali che avrebbero potuto risolvere il problema? Quanto il ritrovamento di una soluzione più o meno buona dipende dallo sforzo delle persone e quanto da fattori esogeni? La qualità e la quantità dei contributi è valutabile dai membri del gruppo solo imprecisamente.
In queste condizioni di ambiguità nella valutazione delle prestazioni, si è sostenuto, l’allungamento dell’orizzonte temporale, la “longevità” della relazione, la valutazione delle prestazioni e l’erogazione di ricompense sulla base di una serie lunga di episodi dovrebbe permettere il governo di un tipo di relazione non gestibile in nessun modo in relazioni istantanee. Perciò la forma di coordinamento di gruppo in tale configurazione è stata definita “gruppo relazionale”.
Nel lungo periodo, infine, ci si può attendere che anche in presenza di incentivi al free-riding dovuti all’incompleta osservabilità dei contributi, almeno nei piccoli gruppi in cui i contributi di ognuno sono importanti, gli attori scoprano che norme di reciprocità cooperative del tipo “contribuire per sempre, fino a che non si hanno segnali che qualcun altro non contribuisca” è conveniente anche per il singolo.
Infine, vi possono essere situazioni in cui le attività e i contributi non sono osservabili né valutabili nemmeno nel lungo periodo. Sono troppo complesse, troppo specializzate, troppo individuali, troppo distanti. La decisione non è separabile dal controllo ed entrambi non sono separabili dall’azione; vi sono forti esigenze di qualità, creatività e innovatività nelle decisioni. Come può governare e controllare i propri membri un gruppo di consulenti di direzione aziendale che opera internazionalmente? uno studio legale
che opera su cause rischiose e complesse?
La cooperazione e lo scambio in queste condizioni non può essere gestita tramite processi di controllo (esterno, da parte di altri); ma solo da sistemi di incentivo o comunque di auto-controllo. Si tratta di riallineare gli obiettivi piuttosto che i comportamenti. In pratica, ciò può realizzarsi in due modi, non mutuamente esclusivi, ed entrambi diversi dal controllo di gruppo. Il coordinamento di gruppo sarà focalizzato sulla condivisione di conoscenze e sulla formazione delle decisioni anziché sul controllo.
•  i membri dei gruppo possono diventare controllori di se stessi attraverso meccanismi di incentivo come il cointeressamento individuale ai risultati economici residuali o la proprietà condivisa delle attività. Questo è quanto infatti accade nelle partnership di professionisti, che raggiungono, grazie a tali meccanismi, dimensioni anche molto elevate (come nel caso delle imprese di consulenza internazionali).
•  I membri del gruppo possono essere controllori di se stessi grazie a meccanismi culturali, all’identificazione con gli obiettivi comuni e con il gruppo, all’aspettativa reciproca di adesione ad un insieme di norme uguali per tutti i membri, alla condivisione di conoscenze e linguaggi. I gruppi di professionisti sono sempre un esempio pertinente: i codici di condotta, la reputazione di osservanza delle norme e della deontologia professionale, la selezione attenta e la formazione intensiva, sono strumenti fondamentali per il governo di tali gruppi. Per definire questo tipo di gruppo in modo distintivo usiamo il termine “gruppo comunitario”.
“Vi sono molte modalità consolidate per risolvere le dispute: le tradizioni, le regole, i duelli, i  tribunali, i mercati e le negoziazioni” Qual è lo specifico ambito applicativo della negoziazione rispetto a modalità di coordinamento alternative? Quali sono le sue proprietà distintive? In effetti, il termine “negoziazione” ha un significato amplissimo. Nec otium in latino identificava l’attività economica stessa, la “negazione dell’ozio”, il dedicarsi agli affari. Il significato tecnico in cui oggi si usa questo termine è più ristretto. Condizioni necessarie e sufficienti per definire un processo di coordinamento, una negoziazione sono le seguenti:
•  il processo implica comunicazione tra parti identificate con interessi e preferenze diverse;
•  processo implica uno scambio di risorse materiali o immateriali tra le parti (denaro, informazioni, diritti, impegni di comportamento);
•  il processo implica una ricerca di modalità di scambio che rispondano il più possibile agli interessi delle parti;
•  il processo viene chiuso - se si chiude - con una decisione congiunta o accordo tra le parti;
Le definizioni costruite dagli studiosi della negoziazione la identificano infatti come “un processo di interazione in cui due o più parti cercano di accordarsi su un risultato reciprocamente accettabile”, una decisione congiunta tra due o più parti che non hanno gli stessi interessi.
Queste definizioni mettono in luce il tratto distintivo e il diverso ambito applicativo della  negoziazione come modalità di coordinamento rispetto agli altri sinora esaminati: non è un meccanismo basato su decisioni unilaterali come il prezzo e il voto; i diritti di decisione sulle azioni da compiere sono esercitati direttamente dalle parti - diversamente da quanto accade in una relazione di autorità; le parti hanno e sanno di avere interessi in conflitto - in un processo di decisione di gruppo.
Inoltre, la negoziazione è basata sulla voce, è un processo di comunicazione tra attori specifici; ma è anche un processo di ricerca, un tentativo di trovare soluzioni, un processo in cui le alternative di azione vengono generate durante il processo, non solo in modo unilaterale, come nell’autorità, ma multilaterale, come nel gruppo.
Pertanto, la negoziazione è un processo capace di gestire l’incertezza nel senso forte di capacità di gestire problemi non strutturati, in cui le alternative d’azione non sono predefinite.
La negoziazione non è però un processo efficace ed efficiente per gestire qualunque situazione di scambio o cooperazione. Essa è un processo estremamente costoso, può quindi essere altamente inefficiente in alcune situazioni rispetto ad altri sistemi. Oppure può essere impossibile, inefficace, o inutile. Può essere distorcente, in alcune circostanze estreme.
Se due o più parti hanno interessi completamente opposti, se il gioco è “a somma zero”, non c’è spazio per negoziare. Per esempio, se due candidati sono interessati alla stessa posizione di direttore, e non vi sono altre materie di scambio da usare in modo compensativo, essi non hanno nulla da negoziare. Uno vincerà e l’altro perderà, in funzione delle loro mosse unilaterali. I giochi a somma zero non sono tuttavia molto frequenti nella vita economica.
Ciò vale anche nelle relazioni più competitive, per esempio quelle compratore - venditore in cui la materia fondamentale di cui si discute è il prezzo e una parte ha interesse a comprimerlo, l’altra ad alzarlo. Infatti, anche in questo caso le parti possono preferire comunque un accordo a nessun accordo, il compromesso all’uscita. In questo modo si crea spazio per la negoziazione.
Dire che due parti negoziano un prezzo implica che il prezzo non sia determinato esogenamente dalla legge della domanda e dell’offerta, che gli attori possano decidere sui prezzi, almeno entro un arco di  valori, che i prezzi non contengano di per sé tutte le informazioni rilevanti per effettuare lo scambio.
Inoltre, dire che due o più parti preferiscono un accordo a nessun accordo implica che vi siano alcuni elementi di monopolio, che le parti non siano perfettamente sostituibili. Come sappiamo, ciò può avvenire sia perché uno o più attori controllano risorse scarse e utili non reperibili da altre fonti per motivi naturali, di dimensioni del mercato, o di intervento pubblico sia perché le risorse scambiate sono specifiche alle  parti, cioè hanno minor valore in scambi con partner alternativi.
Sotto questi aspetti, la negoziazione è un meccanismo efficace nella regolazione di alcuni tipi di relazioni in cui lo scambio e la competizione basate sul prezzo “falliscono”. Altre condizioni di impiego efficace della negoziazione coincidono con situazioni di crisi di altri meccanismi di coordinamento,  l’autorità, il gruppo, le regole. Per esempio, molti aspetti delle relazioni di lavoro nelle grandi imprese, precedentemente governate da relazioni di autorità, sono oggi negoziati. Tra i motivi di questa “ritirata” dell’autorità a vantaggio della negoziazione vi può essere la maturazione di una capacità di  definire  interessi e preferenze propri sulle condizioni di impiego del lavoro o sulle azioni da compiere in generale - il restringimento delle “zone d’indifferenza” in cui si è disposti a rinunciare all’esercizio dei diritti di decisione.
Inoltre, anche l’aumentata complessità informativa e incertezza di molte attività hanno contribuito  a minare l’efficacia e l’efficienza di decisioni prese da un solo agente centrale.
In effetti la negoziazione è un processo basato su promesse o minacce di dare o fare qualcosa “in cambio” di qualcos’altro su basi più o meno simmetriche. Se una delle parti non può uscire dalla relazione, “non ha alternative” e dipende completamente dalle risorse fornite dalla controparte si può effettivamente ritenere probabile un’imposizione che appare tuttavia come una forma estrema, totalmente asimmetrica di negoziazione.
Per esempio, imprese quasi monopoliste possono “imporre” le condizioni di scambio ai loro fornitori. Tuttavia, anche questo esito, pur probabile in condizioni di monopolio unilaterale, non è scontato. Le basi del potere negoziale non sono infatti solo le risorse a disposizione e la loro importanza e insostituibilità.  Non è impossibile negoziare difendendo bene i propri interessi anche in posizione di debolezza strutturale. Tuttavia relazioni con partner che controllano tutte le risorse e/o le informazioni rilevanti sulla materia in questione non dovrebbero apparire.
La raccomandazione standard è quindi di non entrare in negoziati in condizioni di accentuata asimmetria informativa. Tuttavia, un negoziatore sagace potrebbe trovare alcune vie d’uscita alternative a una perdita economica o dell’affare. Più in generale, affinché negoziare sia conveniente è necessario che le relazioni di scambio o cooperazione abbiano qualche aspetto vantaggioso per tutte le parti, ovvero che esista una possibile zona di accordo.
La risposta al dilemma - negoziare o non negoziare - dipende inoltre dalla convenienza relativa di tale meccanismo rispetto ad altri! Meccanismi basati sull’“uscita” possono essere più efficienti di quelli basati sulla “voce”; meccanismi basati sulla “loyalty” e l’adesione a norme, regole e programmi possono essere  più efficienti in altre situazioni. Perché gli automobilisti non negoziano chi deve passare per primo agli incroci? O perché i cittadini non negoziano quante tasse pagare? Perché, in quelle situazioni, le regole sono un meccanismo di coordinamento molto più efficiente della negoziazione.
Uno dei motivi è il numero di relazioni di interdipendenza da coordinare può negoziare tra due, tre, forse dieci parti; difficilmente tra mille. Un altro motivo, non scollegato al numero di attori interdipendenti, e il potenziale di opportunismo rispetto a qualunque accordo possa essere preso. Per esempio, se l’attuazione di un accordo non avviene contestualmente alla definizione del medesimo e gli interessi sono e rimangono conflittuali, vi possono essere incentivi a tradire i patti in fase di attuazione. Quanto maggiori sono i vantaggi nel non cooperare, quanto minore è l’osservabilità e la controllabilità dei comportamenti  tra le parti, in fase di attuazione, tanto meno la negoziazione, o almeno la negoziazione da sola, sarà efficiente.
Un terzo motivo, collegato ai due precedenti, è il costo del processo negoziale - il tempo e le risorse che esso stesso assorbe. Non varrebbe la pena, per esempio, impegnare nel processo di decisione  congiunta risorse che hanno maggior valore di quelle che si stanno negoziando. Oppure, una regola o un’autorità arbitrale può forse rispondere meno accuratamente a tutte le particolari configurazioni degli interessi delle parti, ma questi costi di mancata rappresentanza degli interessi degli attori nelle azioni collettive potrebbero essere controbilanciati dai minori costi dei processi di negoziazione di quelle azioni.
Non esiste un modo migliore di negoziare in generale. La prima e principale cosa da capire in una negoziazione è quale sia la “struttura del gioco”, ovvero la configurazione degli interessi.
Si è detto che la negoziazione è un processo utile per comporre il conflitto tra interessi diversi, ma quanto diversi? Differenti tipi e gradi conflitto possono essere risolti in modo efficace ed equo tramite diverse strategie. Tuttavia, come riconoscere la struttura del gioco in una situazione di incertezza? Per definizione, in una situazione potenzialmente risolvibile tramite negoziazione le parti non conoscono per certo i vincoli, le alternative e le preferenze delle altre parti (se mai conoscono le proprie). Pertanto, i primi passi di un processo negoziale efficace sono sempre esplorativi e interlocutori. Non si tratta, ancora; si scambiano informazioni sugli intenti e gli scopi di fondo per cui si vorrebbe negoziare. Perché siamo qui? Perché ci serve ciò che vorremmo negoziare? Da quali contesti emergono tali bisogni? Queste semplici domande di fondo sulla situazione negoziale sono di estremo valore e aiuto. Infatti una delle patologie più note della negoziazione è la sopravvalutazione del conflitto. Poiché la situazione contiene alcuni ovvi e visibili elementi di conflitto - le parti si contendono o si stanno dividendo risorse - allora si presume che gli interessi siano totalmente opposti cioè che ad una fetta più grande ottenuta da una parte corrisponda necessariamente una fetta in pari misura più piccola destinata all’altra.
Un esempio molto citato di quanto le situazioni negoziali possano sembrare di questo tipo altamente conflittuale mentre in realtà non lo siano, è diventato il famoso negoziato e accordo di Camp David tra Egitto e Israele sulla striscia di territorio che i due paesi si contesero negli anni 70. Quale gioco può apparire più conflittuale di questo? La torta sembra fissa, un dato territorio; e sembra trattarsi, appunto di come tagliarla a fette, ognuno aspirando alla parte maggiore (anzi a tutto il territorio). La domanda sugli interessi di fondo retrostanti tali posizioni di domanda/offerta chiarì che la risorsa realmente appetita non era il territorio in sé, ma la sicurezza delle frontiere da parte israeliana e la sovranità di principio da parte egiziana. Così la soluzione della zona smilitarizzata a bandiera egiziana consentì di soddisfare gli interessi di entrambe le parti. Molte situazioni di interdipendenza economica corrispondono a questo prototipo di
conflittualità tra le posizioni che sono cognitivamente più disponibili alle parti e, allo stesso tempo, di conciliabilità sostanziale tra interessi retrostanti.
Per esempio, due imprese con prodotti simili possono competere per sottrarsi quote di mercato, salvo scoprire che le loro competenze sono, complementari - rendendole forti su linee di prodotti e canali  di vendita complementari per cui potrebbero stringere accordi di commercializzazione (per esempio, una banca e una compagnia di assicurazione sui prodotti per l’investimento finanziario a lungo   termine).
Ci si può tuttavia chiedere se la cessione di informazioni e la comunicazione non rappresenti un rischio eccessivo data la presenza potenziale di conflitto forte e la possibilità che tali informazioni vengano usate ostilmente in fase di trattativa. Il dilemma “comunicare o non comunicare” in un gioco di cui non si conosce ancorala struttura e con una controparte di cui non si conosce ancora la disponibilità a  comunicare, ha la struttura di un dilemma del prigioniero. Per entrambi, l’esito sarebbe migliore se si comunicasse, ma ad ognuno, non sapendo ciò che l’altro farà, conviene non comunicare. Questo può spiegare perché tante negoziazioni non decollino o vengano impostate conflittualmente anche quando sarebbe meglio per tutti non farlo. Tra le possibili vie d’uscita, come in ogni dilemma del prigioniero, vi sono la trasformazione di una scelta singola in un “gioco ripetuto” un insieme di piccoli passi, di piccole aperture, che vengono confermati e seguiti da altri solo se la controparte adotta comportamenti reciproci; oppure una conoscenza individualizzata della controparte, della sua specifica propensione alla cooperatività, basata sull’esperienza passata e sulla reputazione. Un secondo elemento fondamentale per comprendere la natura della negoziazione che si va a condurre è la ricerca e l’analisi delle alternative che ogni parte può avere alla conclusione di un accordo con una specifica controparte. Questo elemento è tanto importante e fre- quentemente considerato nelle analisi delle negoziazioni da, essere identificato dagli esperti di  negoziazione con un acronimo, “MAAN” o “migliore alternativa a un accordo negoziato” (“BATNA” in inglese, “best alternative to a negotiated agreement”).
Ricercare o immaginare alcune principali alternative è utile per valutarne le conseguenze in termini di costi/benefici e comprendere quale può essere il livello di accordo sotto o sopra il quale non si è disposti a continuare la trattativa. Questo livello è chiamato, nelle negoziazioni in cui i benefici possono essere monetizzati, prezzo di rottura o prezzo di riserva. Comunque anche qualora non si tratti di beni valorizzabili monetariamente e di “prezzi” propriamente detti, una collocazione, almeno ordinale, delle diverse alternative secondo una scala di utilità per il negoziatore è un requisito necessario per coordinare gli scambi utilizzando la negoziazione.
Per quanto riguarda la struttura della negoziazione, se il prezzo è l’unica materia ritenuta rilevante,   se non si vuole o non si può cercare o non si trovano altre materie compensative di scambio, essa è
effettivamente caratterizzata da interessi  diametralmente opposti con  riguardo al  punto  di  accordo    (gli
interessi sono invece convergenti con riguardo alla convenienza di accordarsi, ed è questo che rende possibile una negoziazione).
Tale struttura negoziale è chiamata struttura distributiva. L’altra possibile configurazione principale è la struttura integrativa: in cui è possibile trovare combinazioni di scambio in cui tutti guadagnano rispetto ad altre configurazioni, In cui si può “allargare la torta” prima di dividerla.
L’esempio già citato di Egitto e Israele consente di chiarire come questo possa avvenire. In realtà l’esempio, se stilizzato, rappresenta un caso limite in cui due parti che si contendono il 100% di una risorsa , riescono ad ottenerlo entrambe (tutto il territorio quanto a sovranità all’Egitto e tutto il territorio quanto a smilitarizzazione ad Israele). Un punto di accordo simile sarebbe rappresentato dal punto M in figura 1,  esso porta ad entrambe le parti l’utilità corrispondente ad una appropriazione di tutta la torta. Una volta che si sia visto o trovato un punto simile, si è di fatto scoperto di essere in una situazione praticamente  priva di conflitto d’interesse, in cui non c’è in realtà nulla da trattare (scambiare). Lo stesso accadrebbe se si scoprisse addirittura un punto come S: le due parti accordandosi possono ottenere di più che non appropriandosi ognuna di tutta la torta. Ciò significa che l’accordo genera nuove risorse e nuovo valore,
come nel caso di due imprese con competenze commerciali complementari che accordandosi conquistano una quota di mercato superiore alla somma delle quote controllate e contese dalle due imprese separate. Si potrebbe classificare separatamente questo tipo di negoziazioni - data la loro importanza sotto l’aspetto della creazione di valore e della riduzione  dei costi opportunità - come “negoziazioni generative”.
Nella maggior parte dei casi tuttavia, non si riuscirà a trovare  punti di  accordo che comportano solo benefici   e
nessun costo. Graficamente, considerando gli “accordi integrativi” A, B, C e D in figura 1 si può  notare  che  punti come A e D siano generati da piccole concessioni dell’attore 1 e 2 rispettivamente, che fanno fare grandi  passi all’utilità della controparte, cioè sono generati da cessioni di risorse che hanno utilità scarsa per chi le cede e molto elevata per chi le riceve.
Questa osservazione porta a notare un altro aspetto importante della negoziazione - e della negoziazione integrativa in particolare. Le azioni negoziate non sono indipendenti dal processo che le genera. Uno degli aspetti del processo che ha maggior influenza sul contenuto degli accordi che verranno raggiunti è la misura in cui le diverse materie sono trattate disgiuntamente o congiuntamente. Si sono distinti tre approcci principali, caratterizzati da diversi vantaggi e limiti.
•  L’approccio “item per item”. Trattare sequenzialmente le singole materie presenta il grande, spesso decisivo, svantaggio, di limitare la visione delle loro complementarità. L’approccio è pertanto più adatto a negoziati distributivi dove non vi siano molte possibilità di scambi di items fra le parti. L’approccio item per item può essere temperato da forme di alternanza, lungo la durata del processo: avendo A ceduto sull’item X, già trattato, pretenderà una concessione di B sull’item Y, ancora da trattare. Tuttavia, l’approccio item per item è talvolta il male minore in negoziati con materie numerose, sofisticate e molto diverse fra loro. Sia pur al prezzo di trascurare le interdipendenze tra le materie, l’approccio item per item permette una maggior competenza specialistica dei negoziato riducendo tempi e costi dei processo.
•  L’approccio “a testo unico”. Secondo questo approccio, i negoziatori non procedono partendo da piattaforme contrapposte ma lavorano sin dall’inizio su un unico documento, comprensivo di tutte le materie in gioco, che prefigura una о più ipotesi di accordo, modificandolo e sviluppandolo fino a raggiungere un testo di mutua soddisfazione. Il metodo è ambizioso. Infatti, poiché è ammesso che il testo di partenza influenza notevolmente l’accordo finale, esso deve già rispondere a standard elevati di razionalità ed equità; raramente può essere elaborato senza l’intervento di una terza parte di indiscussa competenza ed equilibrio; sempre richiede l’investimento di ingenti risorse in analisi e studi preliminari; è inseparabile da un notevole grado di formalizzazione e istituzionalizzazione delle trattative. Pertanto è un approccio interessante soprattutto in negoziati innovativi e complessi, per esempio le grandi questioni relative alle" relazioni industriali.
•  L’approccio “per pacchetti”. È un approccio intermedio con ampie possibilità di applicazione. Infatti, in tutti i negoziati di media complessità in cui non si sia costretti a procedere item per item per vantaggi di specializzazione, о non vi siano le condizioni e le risorse per procedere a testo unico, si potranno utilmente creare gruppi di materie da trattare congiuntamente perché tecnicamente affini, e potenzialmente scambiabili.
Con il termine “accordi efficienti” si usano indicare le combinazioni allocative Pareto-efficienti о Pareto-ottimali: cioè le soluzioni “non dominate” da altre, gli accordi rispetto ai quali non sono possibili miglioramenti per entrambe le parti. Il processo di ricerca di ipotesi di accordo efficienti porterà, di solito, ad individuarne più d’una (per esempio, gli accordi A, В, С e D in figura 1, se non fossero disponibili le alternative M e S. sarebbero tutti Pareto-efficienti).
La negoziazione tuttavia non si chiude con, e non si limita a una ricerca di soluzioni Pareto-superiori. Essa richiede una ricerca e un giudizio che porti all’adozione e alla scelta di una di queste. Il processo e le procedure di negoziazione seguite aiutano e condizionano al tempo stesso la scelta. Per esempio, una
procedura “a testo unico” tenderà a esplorare solo le zone centrali, equilibrate e a trascurare le allocazioni molto vantaggiose per una parte e molto svantaggiose per l’altra del set delle soluzioni efficienti, come illustrato in figura 2 (punti T1 e T2). Questi criteri di cernita sono anche definiti “sostantivi” o “distributivi” per distinguerli da quelli “procedurali” o “processuali”. La figura mostra come accordi selezionati secondo diversi criteri di equità possano collocarsi in punti diversi sulla curva degli accordi Pareto-efficienti. Per esempio, se la
curva ha una forma simile a quella in figura 2, il criterio del massimo prodotto delle utilità è più favorevole al giocatore 2. Invece, un altro criterio importante, quello delle “eguali proporzioni” genera una distribuzione più paritaria. È da notare che normalmente esiste una varietà di soluzioni efficienti ed eque. È probabile che i giocatori che possiedono un buon repertorio di possibili criteri siano in grado di proporre soluzioni eleganti, di mutuo vantaggio, e nello stesso tempo più favorevoli ai propri interessi rispetto ad altre.
Si supponga di essere un collezionista di quadri di un certo autore e di aver trovato in una galleria
una delle sue ultime tele. Si contatta quindi l’espositore, che ha il mandato di concludere le vendite per gli artisti. Quali possono essere strategie efficaci di conduzione di questa negoziazione, sia dal punto di vista dell’acquirente sia del venditore? Molte persone tendono a rispondere a questa domanda dichiarando che come prima cosa chiederebbero al venditore quanto è valutato il quadro. Tuttavia, ad una seconda riflessione, ci si rende conto che, questa strategia può essere ragionevole solo se il prezzo non è molto negoziabile. Supponiamo di non essere né nell’una né nell’altra di tali circostanze, e che il prezzo sia largamente negoziabile. Per prima cosa, constatiamo che siamo in una situazione distributiva, cioè con
interessi contrapposti su una materia, il prezzo. La ricerca empirica disponibile ha mostrato che in queste condizioni le strategie di domanda/offerta più efficaci sono proattive e assertive.
Le informazioni sono una base di potere negoziale importantissima. Quanto più si sa sul contesto, le condizioni di mercato, le alternative disponibili, tanto meglio si sapranno stimare i valori minimi accettabili  e massimi ottenibili propri e della controparte. Per esempio, il valore di un quadro di un autore vivente può essere incerto; ma, data la natura tecnica, il soggetto, le dimensioni dell’opera, il mercato possono  suggerire (a tutti) ragionevoli limiti superiori e inferiori.
Su altre materie, meno strutturate, le risorse scambiate possono non avere un mercato e possono avere valori del tutto soggettivi per le parti. Per esempio, nel “baratto” di informazioni relative ad attività di ricerca tra persone che lavorano nella stessa area tecnica, i “tassi di scambio” saranno specifici e interni alla relazione e non chiaramente limitati da informazioni e alternative di scambio esterne.
La ricerca attiva di partner alternativi è tuttavia sempre consigliata prima di intraprendere una negoziazione, anche solo per scoprire che non ve ne sono. In molti negoziati economici ciò è fondamentale, per non rimanere intrappolati in un processo negoziale con un partner meno attraente di altri; in altre parole, per non investire risorse specifiche in una transazione sbagliata. Non pochi accordi commerciali e alleanze strategiche tra imprese falliscono presto anche per questo motivo. Infatti una scarsa ricerca di alternative genera “costi opportunità”: vengono “lasciate risorse sul tavolo”, poiché si intraprendono relazioni economiche che creano minor valore specifico della relazione rispetto ad altre.
Il punto di accordo più probabile in una negoziazione distributiva è il punto medio fra le "prime offerte dichiarate. Non si tratta del punto medio tra i reali prezzi di riserva, ma fra le offerte sul tavolo. Per esempio, se il responsabile della mostra d’arte parla inizialmente di un valore di 2,5 milioni e l’acquirente dichiara che pensava di spenderne al massimo 1,5 è probabile che la contrattazione si chiuda a 2. Questo fenomeno ha conseguenze pratiche importanti come il fatto che, nelle negoziazioni distributive, il payoff di ogni parte è positivamente correlato all’ambiziosità della prima mossa e che esistono vantaggi nel “parlare per primi” poiché, le prime mosse “ancorano” cognitivamente la trattativa. Il “balletto” delle concessioni è un gioco di reciprocità incrementale. Tramite una serie di passi, si cerca di apprendere quanto si può ottenere facendo concessioni, condizionatamente all’evento che l’altra parte risponda ad ogni passo facendo concessioni. Irrigidimenti e riduzioni nell’ampiezza delle concessioni possono essere adottati sia in risposta a irrigidimenti dell’altro, sia come “segnale” che ci si sta avvicinando ai prezzi di riserva.
Il ricorso a terze parti nelle negoziazioni distributive può essere letto come un sostegno della negoziazione tramite elementi di coordinamento per autorità. Le terze parti possono infatti avere innanzitutto una funzione arbitrale. In altri termini, un meccanismo di autorità arbitrale può essere impiegato  per risolvere eventuali  impasses  nella divisione  delle risorse. In condizioni di  incertezza     sulla
soluzione migliore da un punto di vista tecnico, tuttavia, la soluzione arbitrale può essere anche piuttosto arbitraria e comunque tendere a generare scarsa accettazione e insoddisfazione a posteriori in entrambe le parti. Questo ed altri aspetti negativi dell’arbitrato puro hanno portato ad individuare tecniche di arbitrato più raffinate che mantengano vivo l’impegno e la partecipazione dei negoziatori, come la final offer arbitration la scelta da parte dell’arbitro di una delle due offerte finali formulate dalle parti
Il potenziale di integrazione tra le parti nasce dal fatto che l’intensità delle preferenze che le parti
assegnano a diverse risorse, anche sulle risorse che sono da dividere, è diversa e complementare. La domanda fondamentale che gli attori devono porre a se stessi e alla controparte (sia pur in forme indirette) è: qual è l’utilità per sé e quale per la controparte di ciascuna materia o risorsa? Per esempio, le quote di ricavo di due giornali nel prezzo di vendita potrebbero sembrare una materia distributiva. Tuttavia, per il Quotidiano Nazionale quei ricavi rappresentano comunque molto poco, ed esiste solo un’esigenza di copertura dei costi; mentre per il Quotidiano Locale essi rappresentano quasi tutti i ricavi. E dunque efficiente che il quotidiano locale mantenga i suoi ricavi e quello nazionale copra solo i suoi costi.

L’entità delle inserzioni e dei gettito pubblicitario è una materia a cui entrambe le parti sono estremamente interessate. Tuttavia, il caso dei due quotidiani illustra come esse abbiano saputo trasformare una negoziazione distributiva di divisione di quella risorsa in una negoziazione integrativa tramite l’individuazione di sottomaterie. Infatti, al Quotidiano Nazionale interessano soprattutto le inserzioni delle grandi aziende mentre il Quotidiano Locale può realisticamente essere ricercato soprattutto dai piccoli e medi inserzionisti.
Come illustra l’esperienza dei due quotidiani la strategia negoziale di gran lunga più importante in una negoziazione integrativa è quella di generare ipotesi di accordo creative. Questo approccio al negoziato è essenziale sia all’interno della relazione per utilizzare il più possibile le possibilità di creazione di valore  per tutte le parti, sia all’esterno della relazione per scoprire, analizzare, costruire, persino inventare alternative di azione creative ad un accordo negoziato. Infatti, proprio quelle stesse specificità tra le parti che creano le sinergie e il surplus di risorse da dividere rendono nel contempo difficile trovare partner al- ternativi attraenti. Alternative migliori saranno perciò spesso costituite da azioni alternative, da accordi di altro genere - che vanno creativamente sviluppate - piuttosto che accordi dello stesso genere con parti alternative.
Le tecniche di supporto alla varietà delle ipotesi di soluzione considerate sono in linea di principio innumerevoli quanto le tecniche di supporto alla creatività in genere. Tuttavia, nel caso specifico della negoziazione si possono dare alcune linee guida per la costruzione di alternative innovative rispetto alla formulazione corrente del problema o comunque difficili da vedere spontaneamente.
Contratti contingenti. Uno schema di contratto che consente di risolvere le divergenze derivanti da diverse stime delle parti sul valore della transazione e sulle probabilità di eventi incerti che lo possono condizionare, è quello dei contratto contingente: si conviene di corrispondere compensi di diversa entità in funzione di diversi livelli di risultato osservati, “Bridging”. La tecnica di bridging tra gli interessi delle parti è utile dove si debbano definire le caratteristiche di un oggetto o di un’azione comune, e consiste nel progettarle in modo da soddisfare contemporaneamente le preferenze più importanti di entrambe le parti.
Introduzione e ideazione di nuove materie. Quante più materie sono incluse in un negoziato, tanto più varie potranno essere le combinazioni di scambio, e tanto maggiori le possibilità di integrazione. L’ampliamento delle materie può avvenire introducendone di nuove, cioè allargando il negoziato ad aspetti precedentemente “fuori” dalla trattativa, oppure “spaccando” le materie di cui già si parla in sottomaterie. Una menzione speciale meritano due materie che hanno valore di scambio generale rispetto a quasi tutte  le altre, e possono quindi facilmente essere introdotte e creare alternative accettabili in qualsiasi negoziato. Esse sono il tempo e i compensi in denaro.
Il tempo è una variabile importante perché è improbabile che le parti abbiano esattamente le  stesse scadenze e necessità quanto ai tempi in cui si renderanno disponibili gli oggetti negoziati. Accade quindi sovente che una concessione sia impossibile se trattata tutta e subito ma diventi accettabile se scaglionata opportunamente.
Le compensazioni in denaro pure consentono spesso di costruire alternative di accordo accettabili (side payments). Infatti, anche quando si trovino soluzioni integrative, esse possono essere rappresentate  in diversa misura e possono permanere degli squilibri. Non sempre però soluzioni che riflettano tutte le esigenze sono tecnicamente o economicamente fattibili. In questi casi si potrà ricorrere a forme di indennizzo, cioè a pagamenti collaterali di natura monetaria alla parte svantaggiata. Un esempio tipico è il maggior compenso monetario per lavori pericolosi o nocivi laddove non si riescano a trovare miglioramenti tecnici delle condizioni di lavoro.
L’intervento di terze parti nelle negoziazioni integrative non dovrebbe implicare l’uso di autorità, poiché le informazioni sono diffuse e complesse, bensì dovrebbe essere di brokeraggio tra partner, di inter- mediazione nelle comunicazioni e di mediazione tra gli interessi. Le tecniche di intervento sono molteplici e si possono raggruppare e ordinare secondo l’entità dei diritti di intervento allocati alla terza parte. Se ne può trarre l’implicazione che tanto maggiore è la distanza cognitiva e informativa tra partner e la divergenza tra interessi tanto più estesi saranno i diritti di informazione e decisione che l’efficace ed efficiente concedere a terze parti.
L’aumento del numero di attori interdipendenti che si coordinano tramite negoziazione comporta complicazioni sostanziali e dinamiche qualitativamente diverse rispetto alla negoziazione a due parti. La fonte principale di tali complicazioni e differenze è la possibilità di formare coalizioni.
Infatti le negoziazioni a più parti in cui non è presente la possibilità di coalizzarsi è più complicata ma qualitativamente simile a quella a due parti. Per esempio, una negoziazione tra un’associazione ambientalista, la direzione aziendale e il sindacato dei lavoratori sui provvedimenti da prendere per rendere accettabile la presenza di un’azienda inquinante in un dato territorio, non ha caratteri fondamentalmente diversi dalle negoziazioni a due parti su più materie descritte nel precedente paragrafo. Vi sono interessi comuni, come il fatto di essere tutti abitanti della zona. Si tratta di trovare configurazioni impiantistiche e allocazioni dei costi che soddisfino i livelli minimi di risultato accettabili dalle parti e che riflettano il più possibile l’intensità delle preferenze di ogni attore per ogni materia o aspetto in discussione.
Le situazioni in cui è possibile formare coalizioni implicano, in aggiunta, la possibilità di accordarsi con qualcuno e non con altri attori in funzione dei vantaggi relativi di diverse coalizioni. Queste situazioni sono frequenti nell’attività economica: per esempio, imprese situate nella stessa area geografica, che dipendono dalle stesse infrastrutture e gli stessi consumatori. Vi sono interessi comuni, ma anche problemi di divisione dei benefici e di allocazione dei costi all’interno della coalizione. Di qui, un problema negoziale.
La negoziazione è tipicamente un processo di ricerca, un processo euristico. Sulla base delle  ricerche sulle distorsioni cognitive nelle situazioni negoziali, si possono segnalare almeno i seguenti tre tipi di effetti principali.
Effetti di framing. I frames distributivi tendono spesso a prevalete come schemi interpretativi di  che cosa sia un negoziato. La diffusione di tali frames genera inefficienze per la sottoutilizzazione di risorse e la mancata creazione di valore dovute a rotture ingiustificate e accordi inferiori a quelli ottenibili. Un altro fattore di irrigidimento dei comportamenti negoziali è la diffusione di frames negativi, cioè di un modo di guardare alle conseguenze del negoziato come perdite e concessioni relativamente al massimo ottenibile e desiderato, piuttosto che come guadagni rispetto all’alternativa di non accordarsi o di doversi accordare  con altri. Naturalmente, infine, anche la diversità dei frames, nel senso qualitativo di visioni del mondo, di significati e valori attribuiti agli eventi e alle azioni, di culture, rende più difficile la comunicazione  e aggiunge al conflitto d’interesse altre fonti di conflitto incomprensione, difficoltà di interpretazione dei segnali, offese involontarie, fino ad arrivare allo scontro tra valori e al conflitto ideologico, irresolubile tramite negoziazione. Per ridurre e gestire le distorsioni della percezione competitiva della controparte,  gli
esperti di negoziazione consigliano tattiche di rottura della spirale competitiva come le seguenti: conoscere a fondo la cultura e II modo di pensare delle controparti; mettersi nei panni degli altri; comportarsi in modo difforme dagli stereotipi che gli altri possono nutrire su di noi; discutere le reciproche impressioni e interpretazioni; cercare e utilizzare il più possibile informazioni e analisi “oggettive” (o neutrali, fornite da terze parti) piuttosto che le proprie intuizioni soggettive.
Effetti di commitment. Gli impegni presi, le azioni compiute, le risorse investite in un processo negoziale hanno effetti poderosi di intrappolamento delle parti e escalation del conflitto. I decisori tendono a commettere con particolare frequenza e intensità, nei processi negoziali, l’errore decisionale del conteggiare i “costi sommersi”: “ho investito troppo per mollare”, “ormai che siamo arrivati sin qui...”.
Effetti di ricerca locale. I possibili partner alternativi di un negoziato sono alternative particolarmente “indisponibili”. Lo sono soprattutto perché per sapere se un’impresa o una persona sia un possibile partner interessante, in molti casi bisognerebbe iniziare un rapporto, “provare” l’alternativa, almeno in parte. Ma iniziare molte relazioni negoziali sullo stesso oggetto è estremamente costoso nonché considerato scorretto in gran parte delle relazioni economiche. Dunque, se può esser facile valutare la propria MAAN in negoziati abbastanza semplici e strutturati, in cui basta un’offerta per capire le alternative di cui si dispone; nei negoziati complessi gli effetti della disponibilità e della casualità degli incontri sono enormi. I partner potenziali da considerare sono spesso cercati tra i contatti che già si hanno, tra gli attori direttamente conosciuti; e in ogni caso tra coloro che si è avuto occasione di incontrare. Le relazioni negoziali sono iniziate su basi di conoscenza limitata sulle materie che interessano, e gran parte della decisione congiunta di accordo o non accordo è basata sul processo di apprendimento reciproco in itinere.
Altri studi hanno cercato di modellizzare anche gli effetti dei contenuti delle motivazioni e degli obiettivi degli attori. Le predizioni che sono state sviluppate sono piuttosto generali, come quella di cercare di salvaguardare i bisogni umani fondamentali o interessi primari delle! persone, qualunque sia la materia specifica del negoziato. Tali bisogni includono la sicurezza personale che non deve essere minacciata, il senso di identità e di appartenenza al proprio gruppo, il diritto ad ognuno di giocare il proprio ruolo va riconosciuto, il bisogno di riconoscimento si può stimare una controparte e farglielo capire e comunque non si può porla in condizioni di “perdere la faccia” verso coloro che la riconoscono, se si vuol giungere ad un accordo.
Infine, la chiarezza e la quantificabilità dei motivi e degli obiettivi degli attori ha effetti sul tipo di processo negoziale e sulla difficoltà di ,composizione dei conflitti. Tali effetti sono duplici. Da un lato la chiarezza e la quantificabilità degli obiettivi può rendere più forte il conflitto. Dall’altro, quanto più le parti sono disposte a “monetizzare” gli scambi e a considerare accettabili vari mix di risorse, purché di pari utilità complessiva,  tanto  più  sarà  semplice  effettuare  trade-offs  tra  materie  e  usare  il  denaro  come risorsa
compensativa per eventuali squilibri e difficoltà di divisione adeguata delle altre risorse.
In conclusione, poiché i fattori e i processi cognitivi hanno tanto peso nei processi negoziali essi possono costituire basi di potere negoziale molto rilevanti, anche più rilevanti di quelle più strutturali dovute alle risorse controllate. Infatti, anche alcune basi di potere strutturale come la sostituibilità e la disponibilità di alternative devono essere cercate e percepite per costituire un’effettiva base di influenza: pertanto esse stesse dipendono dalle capacità cognitive degli attori. In secondo luogo, la consapevolezza e la capacità di un attore di stabilire frames, usare strategicamente gli effetti di commitment, ancorare la trattativa, proporre vie d’uscita e soluzioni eque, fare offerte che non possono essere rifiutate, vedere soluzioni integrative, ecc., possono portare quell’attore a governare la relazione.
Il conflitto tra interessi si trasforma in conflitto tra persone. E questa la patologia più diffusa in cui può cadere un processo negoziale. Fisher e Ury hanno distinto le due dimensioni della durezza e della conflittualità “sul problema” e della durezza e conflittualità “verso le persone” o relazionale, e hanno illustrato la superiore efficacia del comportamento negoziale soft verso le persone e hard sul problema, che essi considerano pertanto il comportamento prevalente del negoziatore professionale.
La longevità delle relazioni, l’aspettativa di incontri ripetuti o di un rapporto continuo nel tempo, specialmente se coinvolge persone identificate (piuttosto che attori collettivi e istituti) facilita l’impostazione integrativa delle negoziazioni. Infatti, qualora gli attori tengano conto di una serie di interazioni, saranno interessati non solo al risultato di breve periodo ma anche a non compromettere le possibilità di conseguire risultati in futuro. Perciò, la longevità delle relazioni di solito fa sì che si assegni una valenza positiva al mantenimento di una buona relazione. La ripetizione o continuità delle relazioni aumenta il valore assegnato al raggiungimento di un qualunque accordo rispetto alla rottura e il valore assegnato ad un’atmosfera positiva. Inoltre essa aumenta l’interscambio di informazioni, la possibilità di verificare le affermazioni altrui, la creazione di linguaggi comuni: pertanto essa scoraggia l’opportunismo e limita le possibilità di uso strategico dell’informazione (i bluff, le false promesse e la manipolazione delle informazioni).
Se questi sono i processi e le interazioni che possono supportare negoziati efficaci ed efficienti, non tutte le personalità, le mentalità e le culture sono ugualmente adatte alla negoziazione. Si è mostrato per esempio che le personalità autoritarie sono particolarmente in difficoltà e inefficaci nei contesti negoziali. Tuttavia, questo non significa che i comportamenti negoziali possano essere previsti in base a fattori di fondo, piuttosto lontani dai comportamenti, come le culture nazionali o di “genere” dei negoziatori: l’adozione di comportamenti. conflittuali o cooperativi non risulta correlata alla nazionalità o al sesso, dei negoziatori. Risultano invece positivamente correlati al grado di cooperatività negoziale alcuni attributi più specifici  e  più  operativi  di  particolari  classi  di  attori,  come  il  grado  di  istruzione  e  lo  status    sociale,
l’autostima e la sicurezza di sé, un atteggiamento avverso al rischio piuttosto che propenso ad esso.
Per concludere l’esame delle proprietà della negoziazione come modalità di coordinamento dell’azione collettiva ci si deve chiedere quali proprietà di controllo essa possegga. Esiste un “controllo negoziale”, così come esiste un controllo per autorità, un controllo democratico, un controllo di mercato,  un controllo di gruppo, un controllo culturale? Quali sono i suoi meccanismi?
Sicuramente l’azione negoziata ha bisogno di controlli: l’accordo sulle azioni da compiere infatti  non implica una omogeneizzazione delle preferenze. Solo in situazioni molto particolari può accadere che gli attori modifichino i propri obiettivi e la percezione dei propri interessi fino ad arrivare a definire preferenze comuni come risultato del processo di ricerca e apprendimento. Nella maggior parte dei casi gli interessi rimangono in conflitto e questo crea potenziale di opportunismo in sede di attuazione di contratti e accordi conclusi.
Alcuni tipi di accordi possono essere controllati tramite osservazione e sorveglianza  tra le  parti. Ogni parte ha incentivo a controllare che la prestazione della controparte e si conforma ai propri interessi secondo quanto previsto nell’accordo. Ogni parte, in una relazione che dura nel tempo, ha inoltre una capacità di sanzionare direttamente le eventuali inadempienze della controparte condizionando la sua prestazione al verificarsi di comportamenti corretti dell’altra. In altri termini, le parti sono “ostaggio” l’una dell’altra nei processi di attuazione di contratti negoziati.
L’uso di ostaggi, garanzie e pegni è meccanismo fondamentale del controllo negoziale. Essi possono anche andare al di là della reciprocità di prestazione e consistere in apposite allocazioni e riserve di risorse che rappresentano un potenziale indennizzo per le parti che venissero lese o danneggiate da una parte inadempiente. Ne sono esempio le fideiussioni a garanzia del rispetto dei termini negoziati o le penalità previste in caso di inadempimento e ritardi negli accordi industriali e commerciali tra imprese.
Il controllo incrociato è tuttavia efficace solo a condizione che le azioni e prestazioni dei partner siano reciprocamente osservabili e valutabili dagli attori, sia pur al prezzo di specifici investimenti in strutture di controllo (per esempio ispettori). L’osservabilità reciproca può essere invece compromessa sia dall’elevato numero di parti coinvolte, sia dalla complessità informativa delle attività. Oppure, può darsi che il processo di trasformazione e l’output sia composto da troppi elementi e usi competenze molto specifiche e complesse per cui diventa assai difficile controllare che la controparte si sia attenuta completamente allo spirito e alla lettera degli accordi.
In   queste   situazioni   la   negoziazione   può   risolvere   il   problema   decisionale   (quali       azioni
intraprendere) ma non il problema del controllo sulle "azioni. A tal fine saranno più efficaci ed efficienti altri meccanismi, che infatti assai spesso “assistono” il meccanismo negoziale in fase di attuazione. In primo luogo l’autorità arbitrale di una terza parte, che può svolgere più efficientemente compiti di controllo su molti attori o agire da garante competente nei casi in cui le parti non possano accedere direttamente alle informazioni e competenze rilevanti per giudicare la prestazione di un’altra.
Alternativamente o in aggiunta all’investimento in controllo, bilaterale o trilaterale attraverso una terza parte, si può investire in sistemi di incentivo. Per esempio, in attività molto complesse, l’autorità neutrale non ha migliore accesso alle informazioni rilevanti per il controllo che non le parti stesse. In questi casi, un’attuazione non distorta degli ; accordi può essere raggiunta co-interessando le parti all’attività di attuazione. Per esempio, la costituzione di joint venture tra imprese per ‘ la realizzazione di attività complesse - come la ricerca e sviluppo o la produzione basata su tecnologie sofisticate complementari - le quote prestabilite di proprietà e ricompensa residuale sulle attività, scoraggiano l’opportunismo riallineando gli obiettivi delle parti nell’attuazione dell’azione negoziata.
Le modalità di coordinamento sin qui trattate implicano decisioni sulle azioni da intraprendere da parte degli attori coinvolti: decisioni unilaterali nel caso del prezzo e del voto; decisioni concertate nel caso dell’autorità, del gruppo, della negoziazione. Tuttavia, una gran varietà di comportamenti vengono coordinati senza decisione ad hoc, senza ricerca, previsione e calcolo specifici al singolo problema. “Paga eguale per eguale lavoro”; “Non è legittimo scavalcare il superiore”; questi comportamenti sono prescritti o vietati da norme o modelli di comportamento socialmente accettati e validi per tutti i membri di una collettività (e in taluni casi formalizzate in leggi e regole).
In effetti, un sistema di azione collettiva in cui fosse necessario prendere decisioni caso per caso su ogni azione rilevante ogni volta che essa viene intrapresa, sarebbe un sistema semi-paralizzato. Uno degli esempi più citati per illustrare le ragioni per non decidere caso per caso è quello della circolazione stradale. Sarebbe estremamente inefficiente affidare a qualunque forma di decisione concertata o di aggiustamento diretto tra le parti il coordinamento del traffico. Né la decisione unilaterale sarebbe un modo efficace ed efficiente di assicurare il coordinamento. Il modo di coordinamento chiaramente superiore in problemi simili è quello di adottare una regola.
Vantaggi delle norme e delle regole. Le regole della strada, le regole della politica, la programmazione nelle imprese, i sistemi di ricompensa, persino il linguaggio comune, sono sistemi di  regole che possono essere giustificati come “convenienti” per tutti i partecipanti ad un sistema di azione collettiva. La contrattazione o decisione congiunta diretta è estremamente costosa.
•  Tutti i partecipanti stanno meglio se viene adottata una regola, qualunque regola, piuttosto che nessuna regola. Per esempio adottare un linguaggio o uno standard di comunicazione è un’utile convenzione.
•  La scelta tra una regola e l’altra è di solito un gioco meno conflittuale che non la scelta di  azioni all’interno di regole definite, perché ogni attore non sa quale sarà la sua specifica posizione quando la regola dovrà essere applicata. Per esempio, verrà da destra o da sinistra? Sarà in posizione maggioritaria o minoritaria? Sarà riuscito a dare un contributo, a conseguire una performance elevata o ridotta? Le regole di circolazione, di voto, di ricompensa possono essere accettate come eque dietro un “velo di ignoranza” o di incertezza sulla propria specifica posizione. Inoltre, esse possono essere più facilmente accettate rispetto a singoli equilibri in singole transazioni, poiché, per definizione, esse si applicano a interazioni ripetute e possono essere accettate come eque serialmente nel tempo.
•  Grandissima parte delle norme che regolano i comportamenti economici non sono tuttavia frutto di decisione calcolativa né nella scelta delle norme e regole come modo di coordinamento né nella scelta del contenuto delle norme. Piuttosto, sono frutto di un processo di apprendimento, di una storia di tentativi ed errori che ha portato alla definizione di regole in alcune aree di comportamento e ad un loro particolare contenuto che “funziona”. Molte norme e consuetudini di comportamento consolidate, così come molti programmi d’azione, hanno questa natura: sono sedimentazioni di apprendimento su una serie di decisioni ed esperimenti passati. In ciò risiede la loro saggezza e giustificazione.
•  Non solo nelle azioni, ma anche nelle interazioni una varietà notevole di comportamenti è regolata da modelli appresi come efficaci. A livello di modelli di fondo del comportamento interattivo si è per esempio sostenuto che nessun sistema di interazione può funzionare se gli attori non istituiscono e apprendono una norma di reciprocità, per cui gli attori sono disposti a ricambiare i contributi degli altri e a “non fare agli altri ciò che non si vuole gli altri facciano a noi”.
•  Se gli attori fossero completamente liberi di considerare qualunque tipo di azione o comportamento tecnicamente fattibile in una data situazione, il problema del coordinamento  sarebbe molto più difficile da risolvere di quanto in realtà non sia. In effetti, i comportamenti alternativi presi in considerazione in una data circostanza sono molto meno variegati e difformi di quanto non potrebbero essere in linea di principio. Ciò accade non solo perché gli attori accettano razionalmente di definire regole del gioco, e non solo perché apprendono in prima persona regole soddisfacenti, ma anche perché ricevono in eredità un repertorio, un bagaglio di conoscenze, di modelli di azione e di comportamenti, che non hanno né gli strumenti né la convenienza di mettere in discussione. I processi di apprendimento di questo tipo di norme sono largamente inconsapevoli. Esse sono accettate in modo fiduciario e “docile” in quanto trasmesse da fonti depositarie dell’apprendimento passato di una collettività.
•  Le regole e le norme sono spesso considerate meccanismi di coordinamento “sovraordinati” o di quadro rispetto ad altri meccanismi. In tale insieme di “regole del gioco”, di “paradigmi” relativi a cosa si può considerare un buono o cattivo comportamento esse agiscono come dispensatrici di legittimazione e come agenti selezionatori di modalità organizzative favorendo la sopravvivenza dei sistemi ad esse “isomorfi”. Tuttavia, vi può essere competizione tra diversi sistemi di regole. Per esempio, le imprese possono scegliere dove insediare i loro investimenti tra diversi paesi, o scegliere a quale regime di diritto commerciale vogliono essere sottoposte tra quelli dei vari paesi, paragonando i sistemi di regole in competizione e influendo sulla sopravvivenza o lo sviluppo differenziale di quei sistemi. Analogamente, le imprese possono scegliere di localizzare le loro unità in contesti in cui prevalgono sistemi di norme e di convenzioni culturali funzionali al modo in cui quella unità dovrebbe agire.
Diversi  filoni  di  studio  hanno  messo  in  risalto  l’una  o  l’altra  fra  le  modalità  di  formazione  e  le
proprietà delle regole sopra esplicitate. Il filone di studi dell’”economia delle convenzioni” ha per esempio considerato le regole di comportamento una modalità di coordinamento alternativa a quelle basate sul calcolo, sottolineandone le capacità di generare azioni in situazioni di forte incertezza e ambiguità. Nell’ambito dell’economia istituzionale, Douglas North ha fornito un importante riferimento definendo le istituzioni come insiemi di regole del gioco, formali e informali, che, una volta stabilite, agiscono come vincoli entro i quali si esercitano le scelte sulle mosse da effettuare da parte degli attori. Nella sociologia dell’organizzazione, la nozione che i comportamenti possano essere dettati dall’obbedienza a norme piutto- sto che calcolati è un modo di vedere diventato per alcuni un paradigma e reso universale, nonostante importanti contributi avessero posto da tempo il coordinamento e controllo “normativo” come complemento e cornice rispetto al coordinamento e controllo utilitaristico e calcolativo. Gli economisti evoluzionisti hanno posto al centro dei loro interessi la natura e le proprietà di riduzione dei costi di informazione del comportamento guidato dalle regole e dalle routine.
Indipendentemente dal loro grado di formalizzazione e dal tipo di processo che ha portato alla loro legittimazione e formazione, le norme e le regole sono insiemi di prescrizioni di comportamento accettate come legittime. Una volta accettate, esse hanno in generale la proprietà cognitiva di generare azioni in modo automatico, senza richiedere decisioni ad hoc.
Regole e norme sono qui analizzate come sistemi stratificati di cognizioni con diverso grado di generalità o astrazione verso particolarità o operatività. Tale stratificazione deriva dall’”operazionalizzazione” di principi in regole di comportamento e viceversa dall’astrazione da esperienze particolari di leggi di validità più generale.
L’analisi di un grado efficace, efficiente ed equo di generalità delle regole è un problema centrale nell’analisi organizzativa. Infatti, come si mostrerà nei successivi paragrafi, tanto gli studi sulle culture organizzative quanto gli studi sui sistemi di management formali hanno messo in luce, direttamente o indirettamente, la presenza e le diverse proprietà organizzative di livelli sovrapposti di regolazione caratterizzati da un diverso grado di generalità.
Il meccanismo principale di coordinamento di una cultura organizzativa è prevalentemente individuato nel sistema di norme accettato dai partecipanti, e rilevante ai fini dell’azione economica e sociale. Con riguardo a norme di comportamento economico. Una caratteristica distintiva del coordinamento  e  del  controllo  culturale  è  il  suo  fondamento  cognitivo  in  una  “programmazione della
mente” con funzioni analoghe a quelle di un software nel generare l’azione.
Un primo livello di base delle culture si identifica solitamente nei valori e principi di base, gli “assunti” fuori discussione, spesso condivisi a livello di intere società, ma anche di sottosistemi, come i settori, le regioni, le imprese: per esempio la “missione aziendale” o la “costituzione” non scritta di un distretto industriale o i valori di un gruppo di persone. Una proprietà distintiva di questo livello di regolazione è quella di lasciare elevata discrezionalità agli attori e quindi di essere in grado di governare attività ad alto grado di complessità e variabilità. Le persone stesse devono poter scegliere i comportamenti “adatti” o “migliori” in funzione di finalità di efficacia e/o efficienza del sistema, se l’azione collettiva deve essere coordinata. Pertanto, in queste situazioni sono preziosi tutti i meccanismi di coordinamento basati sull’allineamento di obiettivi, piuttosto che sulla prescrizione e sul controllo di certi comportamenti.
L’altro estremo dello spettro di generalità dei tipi di regole è stato ben analizzato nelle ricerche sia di economia cognitiva sia di cultura organizzativa. Esso è costituito dai programmi, le procedure, le routine, le abitudini e le pratiche. Si tratta di regole che prescrivono quale azione intraprendere in presenza di quale stimolo o situazione. Ne sono esempi la sequenza di azioni intrapresa automaticamente da un impiegato di banca per incassare un assegno o da un artigiano per produrre un oggetto tradizionale.
In termini di coordinamento tra diversi attori, le routine e i programmi producono un allineamento dei comportamenti anziché degli interessi o dei valori retrostanti. Pertanto, l’efficacia della routinizzazione come modalità di coordinamento dipende da condizioni di elevata stabilità delle attività anche se non necessariamente da una loro particolare semplicità. Anzi la routinizzazione del know-how è una modalità di coordinamento molto diffusa anche in attività e relazioni ambigue, poco decidibili in modo calcolativo, poco controllabili con altri mezzi, come nell’insegnamento e nell’assistenza sanitaria.
Un livello intermedio di specificità all’azione delle norme e regole è rappresentato da “eurismi” e leggi empiriche che si suppone generino azioni corrette in specifici campi d’azione. Queste “rules of thumb” incorporano conoscenze procedurali (come fare) anziché “sostantive” (cosa fare) e lasciano maggior discrezionalità agli attori.
Figura 3 - Gli strati della cultura organizzativa
L’utilità   di   questa   distinzione   tra   strati  della
cultura secondo i tipi di conoscenze che essa incorpora, può essere illustrata dalla seguente applicazione. L’efficacia di alcuni sistemi di coordinamento, come quelli di alcuni distretti industriali italiani, o di alcune imprese giapponesi, è stata ascritta all’uso intensivo del coordinamento culturale. Tuttavia, atri sistemi in declino o in difficoltà, pure presentano un’elevata omogeneità culturale e proprio a questo devono le proprie  difficoltà nell’innovazione  e  nel  cambiamento. La  distinzione  fra  tipi di  norme  culturali  aiuta  a
risolvere la contraddizione. Le ragioni dell’efficienza e dell’efficacia del sistema di norme descritto  risiedono, almeno in parte, in un’appropriata articolazione di norme a diversi livelli di generalità e nella ricchezza e importanza di regole procedurali che assicurano predicibilità agli aspetti importanti del comportamento senza irrigidirlo in soluzioni stereotipate
Sul piano dei contenuti, molte ricerche organizzative hanno contribuito a costruire tipologie degli orientamenti cognitivi ed emotivi e a collegarli con l’efficacia nello svolgimento di compiti di diversa natura. Alcuni di questi studi si sono riferiti alla cultura delle imprese, altri hanno studiato le diverse sottoculture che possono coesistere ed essere efficaci in diversi sottosistemi (per esempio, tipicamente, le diverse funzioni aziendali). Prima di entrare brevemente nel merito, si ricordano qui le avvertenze critiche sui modelli dei contenuti in genere delle culture come dei bisogni o delle competenze. I “modelli dei  contenuti” non sono in effetti propriamente modelli, ma “liste”, linguaggi (sistemi di definizioni), sistemi di classificazione logicamente aperti e per definizione non esaustivi. Essi possono essere usati per descrivere alcuni tratti (fra i molti possibili) che si sono empiricamente dimostrati rilevanti per l’organizzazione.
In molte culture che governano attività in cui la qualità è legata ad un’elevata innovatività e creatività nei comportamenti, come la ricerca o la produzione artistica, sono spesso incorporate norme di  innovatività. Tra le attese di comportamento rivolte alle persone vi sono attese di comportamenti originali, nuovi, critici, stimolanti.
Altri studi hanno mostrato che all’interno delle imprese più efficaci ed efficienti dei settori fortemente dinamici (come le materie plastiche e composite) gli orientamenti delle funzioni di ricerca e sviluppo sono marcatamente differenziati da quelli delle altre funzioni, in termini di allocazione di attenzione all’innovazione e di adozione di norme comportamentali che includano una propensione alla novità e al cambiamento come elementi positivi.
Un altro attributo rilevante dei profili culturali aziendali è l’orientamento al lungo piuttosto che al breve termine. Le attività complesse e Incerte tipicamente producono risultati valutabili nel lungo termine fattività di direzione, di ricerca, di formazione e non possono essere efficacemente governate da culture orientate al breve, interessate a risultati immediati. Una cultura orientata al lungo termine sarà preferibile, per esempio, nel governo di divisioni di sviluppo di nuove combinazioni prodotto/mercato, nelle imprese ad elevata intensità di ricerca, nelle funzioni di gestione del personale. Una cultura funzionale o aziendale orientata  al  breve  termine  può  essere  efficace  invece  nella  regolazione  di  attività  di  produzione   con
tecnologie note e processi standard o di vendita di prodotti di largo consumo.
Un attributo molto di fondo del contenuto di una cultura organizzativa è l’allocazione dell’attenzione all’interno o all’esterno. Dove accadono le cose più importanti? Dove si verificano cambiamenti? Dove vale la pena di guardare, sorvegliare, analizzare, decidere; e dove si può governare il cammino innestando un pilota automatico? Questi sono esèmpi di domande cui si risponde spesso inconsapevolmente. Le imprese  o le unità organizzative orientate all’esterno ottengono migliori risultati in ambienti dinamici e turbolenti e nelle attività “di confine” verso altre imprese, altre unità e consumatori. Al contrario, culture orientate all’interno sono congruenti ad attività che si possono e si vogliono condurle in modo protetto e isolato da disturbi e varianze.
L’atteggiamento attivo o passivo nei confronti di ciò che è percepito come l’ambiente è un’altra caratteristica importante degli stili cognitivi ed emotivi individuali e collettivi. Con riferimento alle imprese ci è per esempio empiricamente rilevata come significativa una differenziazione tra imprese dallo stile predittivo (vuoi in termini di ricerca di opportunità che di tentativo di controllare l’ambiente) e imprese  dallo stile reattivo, orientate all’imitazione e/o alla risposta a condizioni ambientali percepite come non modificabili. Anche in base ad analisi di storia dei settori si è sostenuto che le impostazioni culturali e strategiche del primo tipo siano più efficaci in settori più complessi e dinamici.
Infine, una dimensione classica dello stile cognitivo ed emotivo individuale e collettivo, analizzata nelle sue proprietà di efficacia nel coordinamento delle attività è l’orientamento ai compiti, contrapposto all’orientamento alle persone.
È stato ipotizzato che una cultura bilanciata, che lasci spazio e rafforzi entrambi gli orientamenti sia particolarmente efficace in attività complesse e innovative. Infatti, oltre a richiedere la mobilitazione di rilevanti risorse cognitive e di analisi, le attività molto destrutturate e complesse implicano  spesso,  e devono implicare, un tasso non trascurabile di interazione e conflittualità interpersonale. Questi risultati complessivamente mostrano come la differenziazione tra culture e tra sottoculture economiche  possa essere efficace ed efficiente, nella misura in cui il contenuto e il grado di incertezza delle attività condotte nei vari sistemi sono differenziati, sia pur all’interno di un quadro di linguaggi e conoscenze comuni che permettano la comunicazione e l’apprendimento reciproco
L’importanza delle differenze culturali e delle proprietà funzionali dell’adattamento culturale di diverse unità organizzative al proprio sottoambiente di riferimento è emersa con anche maggior forza negli studi sul management delle imprese multinazionali. La nota ricerca condotta, da Gert Hofstede sui problemi che la grande multinazionale americana per antonomasia, l’IBM, incontrava nel coordinamento su scala globale ha fornito un punto di partenza e di riferimento importante innanzitutto identificando alcune delle dimensioni più importanti di differenziazione delle culture organizzative nei diversi paesi.
La ricerca partì da una domanda che potrebbe essere oggi così riformulata: quanto è possibile e
auspicabile applicare le stesse regole, procedure, programmi (il sistema regolativo della casa madre) ad imprese sparse in tutto il mondo e radicate in sistemi di regole e norme, e istituzioni assai diverse? Lo  studio si concentrò sui valori collegati al lavoro, poiché essi, con le parole di Hofstede, “sono l’elemento più stabile della programmazione della mente” e perché riflettono gli strati più profondi e meno modificabili delle culture. L’analisi statistica mostrò l’esistenza di differenze significative tra i valori nelle sussidiarie nazionali legate a quattro fattori o “dimensioni” della cultura nazionale:
•  Il grado di individualismo o di collettivismo - le persone si occupano solo dell’interesse individuale proprio e della propria famiglia e considerano tale comportamento legittimo; oppure le persone si identificano con gruppi più ampi - gruppi di lavoro, clan, intere imprese, comunità locali - cui rimangono fedeli per periodi di tempo molto lunghi;
•  Il gado di accettazione della distanza di potere - come un aspetto legittimo della vita associata e dell’azione collettiva (grado di ineguaglianza nel controllo di risorse, nella possibilità di prendere decisioni, nella possibilità di comandare altri);
•  Il grado di avversione all’incertezza - la misura in cui le persone non tollerano di non prevedere gli eventi futuri, di vivere in situazioni poco chiare e definite, non sapere esattamente quali sono i propri compiti e di doversi adattare o arrangiare;
•  La mascolinità o femminilità della cultura intesa come assunzione sia da parte degli uomini sia delle donne di valori “maschili” (come il denaro, la forza, l’assertività, le grandi dimensioni, la subordinazione delle esigenze affettive e relazionali ai risultati produttivi) piuttosto che  “femminili”  (cooperazione piuttosto che competizione, attenzione alle relazioni e all’equilibrio psicologico individuale, simpatia per le piccole dimensioni).
Due ipotesi guida si sono confrontate negli anni ‘70 e ‘80 negli studi organizzativi; e in particolare negli studi europei particolarmente sensibili al problema della varietà di contesti istituzionali e culturali presenti nel vecchio continente.

•  l’ipotesi culture-bounded asserisce, in generale, che la diversità nei sistemi di base di norme e regole di convivenza e di collaborazione economica rende diverse le soluzioni organizzative efficaci nella regolazione anche dello stesso tipo di attività economiche. Questa legge può essere tuttavia formulata in modo più o meno deterministico. In una versione più deterministica, l’ipotesi culture-bounded implica una tesi di sostanziale intrasferibilità del know-how organizzativo delle soluzioni organizzative elaborate in una cultura ad un’altra; una tesi di sostanziate incomunicabilità tra paradigmi organizzativi maturati entro diverse culture di sfondo. Per esempio essa condurrebbe a risposte drasticamente negative a domande del tipo seguente: si possono trapiantare i circoli di qualità dalla Nippon-Steel all’Italsider di Taranto?  Tuttavia,
nonostante le molte difficoltà sperimentate in pratica, la risposta negativa sembra aver avuto conferme empiriche solo laddove il trasferimento di know-how o la replicazione delle soluzioni organizzative sia stata intesa in modo rigido.
Infine, vi sono alcuni campi nei quali la sedimentazione culturale di convenzioni che poi appaiono come un vincolo esterno e oggettivato alla configurazione di altri aspetti dell’organizzazione è maggiore che in altri. Per esempio, è sicuramente difficile condurre efficacemente una negoziazione sindacale in modo culture-free, mentre è assai meno difficile disegnare un sistema efficace di incentivi a provvigione per venditori che sia compatibile con un vasto spettro di possibili culture.
Si può ora proporre uno schema valutativo dell’efficacia ed efficienza delle culture come modalità di coordinamento. La coraggiosa nozione di cultura efficiente è stata proposta da studiosi delle culture organizzative in una prospettiva economica. Una valutazione della cultura in termini di efficienza  economica sembra difficile e suona riduttiva data la complessità ed elusività della materia.
Il coordinamento culturale è efficiente se è in grado di orientare l’azione verso risultati desiderati  cioè di realizzare miglioramenti paretiani, laddove altri meccanismi non lo sono o lo sono a maggior costo. Ouchi e Wilkins hanno ipotizzato che il coordinamento culturale sia superiore sia allo scambio basato sul prezzo sia all’autorità quando la complessità informativa implica scarsa osservabilità delle prestazioni, sia dal lato dei comportamenti sia dal lato dei risultati.
Il coordinamento culturale si presenta, quindi come una modalità di allineamento di obiettivi e comportamenti particolarmente interessante o addirittura indispensabile perché la cooperazione e lo scambio economico possa aver luogo in attività estremamente complesse.
Il ruolo dell’omogeneità culturale e l’importanza della creazione di una cultura comune sono stati infatti massimamente sottolineati, per esempio, per il successo delle cooperazioni tra imprese nel campo della ricerca e dell’innovazione e per la possibilità stessa che abbiano luogo transazioni di servizi complessi e difficilmente valutabili da coloro che li acquistano. Tali esempi illustrano come una base di norme condivise possa coordinare efficacemente interdipendenze di diverso tipo: sia create dallo scambio, sia  dalla cooperazione, sia persino le relazioni competitive tra attori che offrono lo stesso tipo di prodotti o servizi.
La tesi che la cultura sia un meccanismo di coordinamento efficace ed efficiente in condizioni di forte incertezza,  si  imbatte  tuttavia  in un  paradosso.  Per quei  sistemi  di  attività  che  sono  coordinati  grazie
all’interiorizzazione di valori e norme comuni, attraverso processi intensi di socializzazione reciproca tra gli attori o addirittura attraverso la trasmissione ereditaria di una specifica cultura organizzativa in date regioni o settori, ci si può chiedere da dove possa venire il cambiamento e se il cambiamento sia del tutto possibile proprio in quelle attività complesse dove esso è spesso altamente desiderabile.
La risoluzione del paradosso, la possibilità di pensare a qualcosa come una “cultura flessibile” risiede in parte nel particolare contenuto di una cultura organizzativa, in parte nel suo grado di generalità. In una cultura flessibile prevalgono norme di tipo generale e costituzionale. Queste norme svolgono soprattutto una funzione di riduzione dell’incertezza conoscitiva piuttosto che di risparmio dei costi informativi di decisioni prese caso per caso. Esse rispondono all’impossibilità di verificare criticamente ogni tipo di conoscenza e di assunto e alla necessità di framing dei problemi. Spesso pertanto le norme a questo livello di generalità contengono elementi convenzionali, cioè possono essere configurate in molti modi ugualmente efficienti , come nel caso dei linguaggi.
Quanto più invece è intenso l’uso di regole di basso livello di generalità, tanto più l’azione sarà condizionata e vincolata. Questi tipi di regole hanno proprietà di riduzione dei costi di decisione e della complessità computazionale piuttosto che dell’incertezza conoscitiva o epistemica. La possibilità di applicarle efficacemente dipende da quella di stabilizzare e ripetere le azioni nelle stesse condizioni. Non è infatti difficile, anzi è proverbiale, incontrare situazioni in cui la sedimentazione di routine, comportamenti consolidati e pratiche abitudinarie rende l’azione troppo inerziale, rigida e permanentemente obsoleta in  un mondo che cambia desolantemente più in fretta.
I sistemi di azione stabili, esplicitamente descritti in documenti privati o tutelati dal diritto, aventi una forma definita di divisione del lavoro e di coordinamento furono definiti organizzazioni formali. Si riteneva che il loro carattere formale distinguesse in modo utile e significativo, per esempio un’associazione sindacale da un movimento sociale, una società di persone da un gruppo informale di collaboratori, un insieme di reparti di produzione coordinati all’interno di un’impresa da un distretto industriale. In base all’analisi delle norme sociali e delle regole culturali condotta nel primo paragrafo, si può subito notare come la differenza tra questi sistemi non risiede nel fatto che l’azione coordinata informalmente sia necessariamente povera di regole. La differenza risiede nel grado di esplicitazione delle conoscenze codificate nelle regole e nella loro incorporazione in documenti accessibili e controllabili da diversi soggetti. Questa operazione comporta una fissazione e una accettazione, valida per un certo periodo di tempo, di alcuni tratti dei modelli di azione e interazione. Gli attori potranno agire e coordinarsi prendendo   decisioni
caso per caso o discrezionali solo negli “spazi” non predefiniti dalle convenzioni stipulate o accettate e oggettivate nei documenti regolativi. L’analisi delle proprietà della formalizzazione può essere dunque utilmente organizzata prendendo in considerazione diversi tipi di documenti.
Una demarcazione di fondo, concettualmente rilevante, va tracciata tra documenti che precisano e prevedono gli impegni reciproci e le modalità di azione economica interdipendente di due o più attori secondo fattispecie previste e tutelate dal sistema legale esterno (tipicamente, i contratti) e documenti che riflettono patti interni al sistema di attori e che traggono legittimità e garanzie di attuazione all’interno di quel sistema (per esempio, i mansionari, gli organigrammi e le procedure). Illustriamo qui di seguito i principali tipi di documenti a garanzia “esterna” (in breve “documenti esterni”) e a garanzia “interna” (in breve “documenti interni”) e le loro proprietà
La nozione di    contratto nel diritto e nelle teorie economiche dei contratti, include qualsiasi accordo
con conseguenze patrimoniali per le parti volto a costituire o modificare un rapporto di obbligazione reciproca. In generale, l’insorgere di obblighi reciproci di rilevanza giuridica in conseguenza ad un accordo non implica che esso sia formale, cioè che il contratto sia formalizzato in un documento. Per esempio, i contratti derivanti da scambi di beni o servizi in cui il passaggio di proprietà di una risorsa o l’erogazione di un servizio sia facilmente identificabile spesso non sono formalizzati; una consumazione al ristorante, il self- service in un supermercato, generano obblighi di pagamento dei corrispettivo, sono tutelati dal sistema legale esterno, ma non sono formalizzati. Tuttavia, è utile ricordare che il diritto, se chiamato ad intervenire, e in mancanza di regole e accordi espliciti, fa riferimento a ciò che per prassi, consuetudine e convenzione ci si poteva aspettare come comportamento “normale” della controparte in un dato contesto. Pertanto, un contratto, a differenza di uno scambio tout court, fa sempre riferimento ad un sistema di regole, informali o formali.
Ci occupiamo qui dei contratti formali, che istituiscono e incorporano regole di scambio e  convenzioni di relazione esplicite.
■  Un contratto istantaneo definisce un’allocazione delle risorse in termini puramente “sostantivi” o “distributivi”, cioè quali e quante risorse vengono trasferite tra soggetti. Esso non regola aspetti di  processo, pertanto il contenuto “procedurale” del contratto è basso.
■  Un contratto contingente è un contratto più complesso che riconosce che la relazione non è istantanea, ma si svolge in un tempo in cui le condizioni possono variare, o che il valore delle risorse scambiate o I messe in comune non è noto a priori ma potrà essere conosciuto solo in un tempo successivo. Per quanto complesso, un contratto contingente così definito verte prevalentemente sull’allocazione   delle
risorse (do ut des) non su comportamenti da tenere (facto ut facias), su aspetti sostantivi e non procedurali.
Quanto più la materia regolata nel contratto è ampia e composta da una varietà di item e quanto più numerose sono le possibili contingenze imprevedibili a priori tanto più un contratto completo dovrebbe espandersi in una serie di clausole, condizioni, descrizioni di comportamenti e attività, descrizioni di procedure di soluzione dei conflitti, descrizioni di diritti di controllo e di ispezione reciproca. Pertanto, l’incertezza - intesa come variabilità, imprevedibilità e numero delle “eccezioni” da regolare - mette in crisi i contratti obbligativi esterni come meccanismo di ordinamento. Una possibile risposta a questi  limiti  è quella di integrarli con meccanismi extra-contrattuali; in particolare con norme e convenzioni che possono essere accettate come quadro di riferimento, o con un ordinamento negoziato tra le parti non formalizzato e non difendibile in termini legali. Questa combinazione tra regole formali incorporate in contratti e norme socialmente accettate è stata definita “contratto relazionale”.
Un’altra possibile risposta all’incompletezza dei documenti esterni è l’istituzione di “contratti interni” che li completino e li integrino. La regolazione interna può essere vista come “continuazione” del sistema di regolazione esterno, e la gerarchia interna può essere vista come corte d’appello preposta alla tutela del sistema legale interno. L’organizzazione interna all’impresa in effetti di solito amplia l’area di comportamenti regolati da job description, procedure, programmi e regole e rispetto a quella già regolata dai contratti “esterni”.
Ma, ci si può chiedere, perché le difficoltà di prevedere circostanze incerte dovrebbe essere minore all’interno che non all’esterno dell’impresa? Infatti, non lo è. L’impiego delle regole e della formalizzazione, anche all’interno dell’impresa è efficace ed efficiente solo nella misura in cui le attività sono abbastanza stabili, prevedibili, non complesse e la regolazione tramite contratti e patti formali entra in crisi in attività incerte, sia all’interno sia all’esterno dell’impresa.
Un sistema di azione economica è tanto più formalizzato quanto più le sue attività sono previste e
regolate in organigrammi, mansionari, procedure, programmi. Il fatto che le regole di un sistema siano formalizzate non fa loro perdere l’ordinamento logico già analizzato per le norme e le convenzioni sociali e culturali. North ha osservato che la distinzione tra “constitutional law, statutory law and common law” può essere utile per comprendere la struttura stratificata delle istituzioni in generale, e le diverse proprietà delle istituzioni di diverso livello.
Nei “sistemi legali interni” delle imprese o di altri attori economici collettivi, il livello “costituzionale” della regolazione è rappresentato da atti di fondazione e statuti, da organigrammi e descrizioni di responsabilità che sanciscono l’allocazione di base dei diritti di decisione, controllo e proprietà.
Organigrammi e dichiarazioni di “missione” specificano soltanto le regole fondamentali di corrispondenza fra attori e diritti, hanno una funzione costituente e un limitato potere regolativo delle modalità di conduzione delle attività. Questa caratteristica della regolazione di fondo appare del tutto funzionale e necessaria in questa prospettiva. Normalmente, tuttavia, gli organigrammi sono corredati e affiancati da mansionari, cioè da descrizioni delle attività assegnate ad ogni posizione di lavoro entro i vari organi e delle modalità secondo cui devono essere svolte. Rispetto alle indicazioni di quadro fornite dall’organigramma, il mansionario costituisce quindi uno strumento di coordinamento più dettagliato e più incisivo. Nella prospettiva di analisi e progettazione della regolazione interna qui delineata, ha senso chiedersi in che misura e in quale grado di dettaglio queste regole di livello più operativo debbano essere fissate.
Secondo una configurazione ricorrente il mansionario include: la collocazione dell’organo nella divisione verticale del lavoro (da quale altro organo dipende); il contenuto delle attività assegnate, gli obiettivi e le responsabilità, che definiscono le attività assegnate all’organo; i metodi di lavoro e le procedure che regolano le attività. Come nel caso delle norme culturali, non c’è una risposta universale alla domanda su quale grado di specificità e dettaglio delle regole sia corretto in questo caso, l’attività di preventivazione era travagliata da problemi di errori di fatturazione e di inefficienza operativa derivanti proprio dall’eccesso di specificazione di regole ex ante, dal tentativo di prevedere tutte le possibili circostanze, di prescrivere cosa fare in ciascuna di esse, e di tenere traccia di tutto. La natura delle attività avrebbe invece richiesto un adattamento caso per caso e in tempo reale alle frequenti variazioni nelle richieste dei clienti. In tali circostanze, l’uso prevalente del sistema formale - legale  costituito  dai mansionari e dalle procedure porta spesso all’inflazione di clausole e “cavilli”, casistiche e possibili provvedimenti che paralizzano l’azione senza riuscire’ comunque ad essere esaustivi. Quanto più variabili sono le attività, tanto più i contratti e i documenti interni diventano incompleti. L’idea che tutto sia controllabile solo perché si svolge all’interno di un’impresa è più un esempio di “illusione del controllo” che non un’ipotesi fondata.
Il punto è che le proprietà delle regole formali, come di quelle sociali, differiscono in funzione del livello di generalità, specialmente per quanto riguarda il governo dell’incertezza. Infatti, il grado di dettagli delle procedure e dei programmi varia in funzione, per esempio, del livello delle decisioni che esse predefiniscono.
In conclusione, anche i sistemi legali - formali, come i sistemi culturali, possono essere utilmente pensati come costrutti stratificati. Quanto più bassa è l’intensità di procedure e programmi, tanto più flessibile è il sistema di regolazione. Una formalizzazione che si focalizza solo sulle regole del gioco di fondo e sull’attribuzione formale di attività e degli obiettivi e responsabilità ad esse relative (formalizzazione della
struttura) è meno rigida e deterministica di una formalizzazione che si estenda pervasivamente al livello delle procedure e dei programmi (formalizzazione dei processi).
Un uso molto esteso e dettagliato delle regole è possibile ed efficace solo se le attività regolate sono prevedibili, abbastanza stabili, o governate da un modello di variazione noto e compreso; abbastanza ripetute o ripetibili nel tempo o tra soggetti, in modo che seguire la regola sia efficace (non bisogna cambiarla in funzione delle circostanze) ed efficiente (eviti la ripetizione di decisioni caso per caso). Si può dire quindi che il grado di formalizzazione è correlato positivamente, ih condizioni di efficacia ed efficienza, al grado di prevedibilità e ripetitività delle attività.
Rimane da chiedersi quali siano le condizioni che spingono alla formalizzazione di regole come forma di governo dei comportamenti distinta da quelle informali Si possono identificare almeno quattro grani fattori.
Una prima ragione per formalizzare è l’esigenza di equità di trattamento nei casi di molteplici contratti (“esternamente” e “internamente” garantiti) della stessa specie. Per esempio, un ospedale che non abbia regole esplicite per l’accettazione dei pazienti, o un’università che non abbia sistemi formali e trasparenti di ammissione, sarebbero sospettabili di opportunismo. Più in generale il fatto che gli attori assegnino valenze positive all’equità o giustizia delle procedure con cui sono regolate le loro relazioni con altri attori, spinge alla trasparenza e alla formalizzazione delle regole.
La formalizzazione rende i sistemi di azione più leggibili, più trasparenti, dotati di maggior accountability, di maggior capacità di ricostruire le proprie azioni e di giustificarle nei confronti di terzi. Perciò, per esempio, le imprese sono obbligate a produrre una serie documenti formali (come i bilanci). Alcuni tipi di imprese devono rispondere a tale requisito più di altre: per esempio, le banche e le compagnie di assicurazione sono imprese particolarmente formalizzate, e ciò è almeno in parte efficace anziché patolo- gico per via delle particolari esigenze di controllo e registrazione delle transazioni riguardanti il patrimonio dei clienti. Sia nei confronti dell’autorità interna, sia nei confronti dell’autorità dei tribunali, accordi e impegni espliciti e formalizzati facilitano la valutazione del grado di rispetto ovvero di inadempienza. Esisterà sempre un problema di scoperta dei comportamenti effettivamente tenuti dalle parti, ma i comportamenti attesi almeno saranno chiari. Nel caso di accordi e impegni informali, anche lo “spirito del contratto” va indagato e ricostruito in caso di conflitto. Tanto maggiore è il potenziale di conflitto e l’entità delle conseguenze, quindi, derivanti dalla natura delle attività e degli impegni presi, tanto maggiore sarà   la
convenienza a formalizzare.
Un vantaggio molto importante della formalizzazione è la capacità di estensione della memoria offerta dai documenti e dai supporti formali. Laddove uno stato di “incertezza” dell’attore sia dovuto principalmente alla mole di informazioni da trattare (piuttosto che a imprevedibilità o difficoltà interpretativa) la codificazione delle informazioni permette un immagazzinamento e una velocità di trattamento altrimenti irrealizzabile. I vantaggi della formalizzazione nel gestire la complessità computazionale cioè un elevato numero di elementi possono spiegare perché, a parità di altre condizioni, il grado di formalizzazione delle attività è positivamente correlato al numero di attori e di materie da coordinare, cioè alle dimensioni del sistema di azione.
Se questi sono i vantaggi, le forze che in positivo rendono efficace, efficiente o equa la formalizzazione, il principale svantaggio e limite applicativo è costituito dall’invarianza nel tempo e nello spazio delle situazioni che vengono previste e omologate dalle regole.
Nella maggior parte dei casi la scelta dei modelli di progettazione organizzativa, viene concepita come scelta di un modello di divisione del lavoro e di coordinamento efficace ed efficiente per gestire delle attività e relazioni tra attività. Tuttavia si trascura l’opportunità di vagliare in primo luogo se e in che misura le attività correnti siano esse stesse configurate in modo diseconomico rispetto alle risorse da cui derivano  e alle relazioni di interdipendenza che le legano. Se questo fosse il caso, considerare le attività come “date” genererebbe alti costi di organizzazione comunque siano divise e coordinate. Alcune tecniche e pratiche attualmente di successo in campo organizzativo, si sono in effetti caratterizzate proprio per il fatto di proporre procedure di revisione delle attività “necessarie” per produrre output di valore, attraverso un riesame critico delle varie componenti dei processi di trasformazione che possono condurre a tale output (come il business process reengineering).
L’analisi e la progettazione delle forme di governo di attività economiche può pertanto utilmente codefinire sistemi di attività e sistemi di “governance”. Domande chiave in tale direzione sono: il sistema di attività considerato può essere migliorato (esteso, ridotto, ricombinato). Si possono generare economicamente nuove attività con le risorse già disponibili? Quali diverse configurazioni di attività si otterrebbero , ricombinando le risorse in modo diverso?
Una prospettiva che fornisce vari elementi per rispondere a queste domande è nota come  “resource based view” dell’impresa e dell’organizzazione. Gli attori economici sono visti come possessori di risorse e competenze che possono generare fasci potenziali di attività e servizi. Questa prospettiva, oggi in grande sviluppo, è di solito applicata al livello di analisi dell’intera impresa ed orientata alla formulazione delle strategie aziendali. Alcune implicazioni organizzative di tale filone di studi saranno qui coniugate con i contributi dell’economia dell’organizzazione per rispondere alla domanda: da dove vengono le attività e le interdipendenze di un sistema di azione economico? cosa significa valutare l’efficacia e l’efficienza di configurazioni di attività?
L’intuizione fondamentale sulla base della quale Penrose spiega l’origine degli incentivi alla crescita e alla differenziazione delle attività economiche svolte da un attore nel tempo, non è tanto o solo l’analisi dell’attore economico impresa come “insieme di risorse”, quanto la distinzione tra il livello delle risorse come potenziale di azione e il livello delle attività come selezione e attivazione di alcuni processi e servizi tra i vari possibili. Le risorse, osserva Penrose normalmente sono strutturate come entità “discrete”, come
“bundles” di servizi possibili, più ampi rispetto al particolare uso che può aver originato un fabbisogno per quella risorsa: vi possono essere molti modi di impiegare una macchina o uno strumento tecnico - tra quelli più flessibili si può pensare a un martello o a una fresa - così come le competenze ed energie di una  persona possono fornire molti diversi servizi.
Questa distinzione conduce ad un’altra distinzione organizzativamente importante, tra risorse più specializzate e capaci di fornire un insieme ristretto di attività, e risorse più flessibili e polivalenti. Diverse potenzialità e sentieri di evoluzione e crescita delle attività possono derivare da opzioni di riduzione dei costi e di creazione di valore basate sulla specializzazione delle risorse su singole attività (economie di specializzazione e scala): oppure basate sulla piena utilizzazione della gamma di capacità delle risorse su molte attività (economie di raggio d’azione o “economies of scope”); oppure basate sulla complementarità tra risorse diverse applicabili ad una singola attività. Queste dimensioni o variabili saranno definite e illustrate nel loro effetto sulle soluzioni organizzative efficienti nei successivi paragrafi.
Inoltre, la nozione di “impresa come insieme di risorse” rende evidente un’altra importante distinzione, quella tra le risorse e l’attore economico che “ha accesso” a tali risorse. Anche a questo riguardo, non solo una singola persona fisica o giuridica o un’unità organizzativa può “possedere” molte e diverse risorse, ma la natura e l’intensità di tale possesso o controllo di risorse può e deve essere chiarito in termini di insiemi di diritti di cui un attore è titolare rispetto alle risorse. La definizione delle unità organizzative può quindi essere formulata come problema di allocazione di insiemi di diritti ad attori, includendo diritti d’uso, di decisione, di monitoraggio, di appropriazione dei risultati economici residuali derivanti dall’impiego economico e di trasferimento ad altri soggetti dei diritti precedenti.
Il concetto di risorsa ha acquisito importanza nell’analisi organizzativa come potenziale di azione e di generazione di valore accumulabile e relativamente indipendente dagli specifici impieghi e come forme  di capitale. Una prima distinzione tra tipi di risorse può peraltro essere fondata teoricamente proprio sul diverso tipo di relazione da un lato con gli impieghi e dall’altro con gli attori: tali relazioni sono diverse a seconda che si tratti di risorse umane, tecniche o finanziarie.
Le risorse umane possono essere definite primariamente come insiemi di conoscenze e competenze. Esse non sono qui identificate con le persone, che sono gli attori che possiedono tali risorse. Le risorse umane sono tuttavia in buona parte fisicamente incorporate nelle persone, nel senso che sono difficilmente disgiungibili dagli attori che le possiedono di diritto o spesso anche solo di fatto, poiché è particolarmente difficile definire in modo completo i diritti di proprietà su tale tipo di risorse. Sono perciò spesso difficilmente trasferibili in quanto risorse, mentre ciò che viene trasferito sono più frequentemente le attività o i servizi di lavoro erogabili in base alle risorse umane. Pertanto, l’analisi e la progettazione delle relazioni di lavoro deve avvalersi di alcune ipotesi peculiari rispetto a quelle applicate ad altri tipi di risorse.
Le risorse tecniche sono intese, complementarmente, come strumenti che incorporano e concretizzano conoscenze e competenze rendendole relativamente indipendenti dai loro ideatori e produttori, capaci di produrre attività e servizi dei quali gli stessi produttori non sarebbero mai direttamente capaci. Se la tecnologia è concepita primariamente come forma di conoscenza, si possono applicare anche alle risorse tecniche, alcune dimensioni di analisi pertinenti alle conoscenze e competenze in generale si può parlare di tecnologie più o meno specifiche ad un uso o utilizzatore, più o meno specializzate, più o meno complesse, nello stesso senso in cui questi concetti si applicano alle risorse umane. Le tecnologie adottate concorreranno quindi a loro volta a determinare il grado di specificità, specializzazione e complessità dell’intervento umano complementare, come hanno sottolineato le molte tipologie del “grado di meccanizzazione” e di “complessità della tecnologia” disponibili nella letteratura organizzativa. Queste tipologie saranno utilizzate nella parte terza in relazione agli aspetti dell’organizzazione da esse più direttamente influenzati. Tuttavia, come la distinzione tra risorse e attività aiuta a comprendere, ogni data configurazione di risorse tecniche è compatibile con varie configurazioni di attività e quindi, a maggior ragione, con varie configurazioni organizzative. Pertanto, la tecnologia limita la varietà di soluzioni organizzative fattibili, ma essa non è sufficiente a predire la soluzione migliore.
Le risorse finanziarie sono quelle più indipendenti da specifici usi o specifici attori. Pertanto, sotto questo aspetto, sono il tipo di risorse più facilmente trasferibili. Tuttavia l’allocazione di risorse finanziarie  ai migliori impieghi necessita di informazioni che possono non essere facilmente disponibili e accessibili e ciò può creare fabbisogni di meccanismi di coordinamento e decisione complessi. In tal modo anche la relazione tra risorse finanziarie e loro possibili usi può contribuire a spiegare l’aggregazione e la crescita delle attività svolte da un attore economico in particolare dell’impresa.
Le variabili sinora introdotte attengono al livello delle risorse e delle attività e alle loro relazioni. L’organizzazione di tali relazioni non dipende solo dalle loro caratteristiche, ma anche dall’intensità degli scambi di informazioni richiesti dal loro coordinamento. Per esempio, diversi sistemi di organizzazione risultano efficaci a seconda che si tratti di processi di trasformazione in cui vi sono trasferimenti unidirezionali di risorse materiali e pochi scambi di informazioni oppure molti scambi anche reciproci. Pertanto, nell’analisi e nel disegno organizzativo la variabile della complessità informativa ha altrettanto rilievo delle variabili di economie di scala, specializzazione e “scope”. Tali variabili, considerate congiuntamente, hanno implicazioni per la progettazione non solo dei meccanismi di coordinamento ma anche dei diritti degli attori su tali risorse e attività, e quindi per la riconfigurazione degli attori stessi. Gli attori in questo senso possono essere pensati come “variabile dipendente” o output del disegno organizzativo. D’altro lato, le loro preferenze e interessi governano la ricerca e la scelta delle soluzioni orga- nizzative come “variabile indipendente”. In particolare, il grado e il tipo di conflitto fra gli interessi degli
attori interviene come variabile di estrema importanza in diversi momenti. In primo luogo, se vi sono poche divergenze di obiettivi e pochi incentivi ad agire in modo difforme dagli eventuali accordi presi, il problema del coordinamento è più facile da risolvere che non altrimenti. In secondo luogo, è probabile che  divergenze tra interessi e preferenze esistano non solo riguardo a quali azioni intraprendere ma anche riguardo a quali fra le varie soluzioni organizzative fattibili ed efficienti sia la migliore.
Adam  Smith  descrisse  in  modo  vivido  i  vantaggi  della  divisione  del  lavoro  fra  diversi  attori, o
specializzazione, documentando l’aumento della produttività che si può ottenere tramite la specializzazione degli operatori su attività sempre più focalizzate, fino al punto di non essere più tecnicamente divisibili.
Il grande motore delle economie di specializzazione è l’apprendimento. La focalizzazione su un attività basata su una singola tecnica e la sua ripetizione producono allenamento e destrezza; portano a scoprire tutti i trucchi del mestiere che permettono di ottenere risultati migliori e in minor tempo; permettono di costruire un repertorio di procedure di lavoro efficaci ed efficienti per risolvere ogni problema produttivo economizzando le attività di presa di decisione.
Le economie di specializzazione possono essere “dinamiche” - portare alla scoperta di nuovi modi di fare le cose e di nuove cose cui si può applicare la stessa tecnica - piuttosto che statiche - diventare sempre più efficienti nello stesso processo e per lo stesso output. Quanto più difficili sono le attività quanto più lungo il ciclo di apprendimento necessario per svolgerle, tanto maggiore l’importanza dell’esperienza e  della specializzazione. Un’elevata divisione del lavoro e specializzazione non implica necessariamente l’”impoverimento” o la “dequalificazione”, spesso associata negli approcci “tayloristi” alla produzione industriale di massa. Elevata specializzazione e elevata qualificazione, nelle economie moderne,  sono spesso associate. Le economie generate dalla divisione del lavoro non derivano solo da un processo di apprendimento di tecniche rilevanti, ma anche dall’apprendimento e dallo sviluppo di tratti culturali, di orientamenti cognitivi ed emotivi adatti allo svolgimento dell’attività. Per esempio, la divisione del lavoro fra chi si occupa di produzione e chi si occupa di vendite in impresa non risponde solo alla diversità di tecniche che caratterizzano i due tipi di attività inoltre, le attività di produzione richiedono e generano di solito un’allocazione dell’attenzione, un interesse, addirittura una passione per i dettagli, per i dati, per l’ingegnosità e l’ottimalità delle soluzioni; un orientamento ai risultati in tempi brevi; un atteggiamento di avversione al rischio e di assorbimento e elusione dell’incertezza. Le attività commerciali invece  richiedono
e ingenerano di solito uno spiccato orientamento alle persone e alle relazioni, tolleranza e accettazione delle diversità di mentalità e della pluralità di soluzioni; orientamento ai risultati di medio termine; un atteggiamento meno avverso al rischio e capacità di affrontare e gestire l’incertezza. Non solo questi orientamenti specializzati sono efficienti nello svolgimento delle singole attività divise. Essi, una volta formati, possono produrre diseconomie di varietà. Infatti, se le tecniche possedute da una persona o da un gruppo possono anche essere molteplici (sia pur limitatamente), più difficilmente un attore riuscirà a possedere più di una mentalità.
Infine, economie di specializzazione non si manifestano solo grazie alla divisione del lavoro e alla focalizzazione su una tecnica da parte delle risorse rimane ma anche grazie  alla  specializzazione delle risorse tecnologiche. Anche le macchine, oltre al lavoro umano, possono essere specializzate.
Sia per le risorse umane sia per quelle tecniche, il grande limite della specializzazione è la mancanza di flessibilità, o capacità di adattamento a richieste ed esigenze mutevoli. La flessibilità implica infatti l’opposto della specializzazione: il generalismo, la ridondanza di competenze rispetto all’attività correntemente svolta; la polivalenza delle risorse.
Inoltre, la sola presenza di economie di specializzazione non dovrebbe portare automaticamente ad adottare effettivamente torme di organizzazione basate sulla massima divisione del lavoro anche per un altro importante motivo: l’incidenza delle altre variabili chiave sul grado e il tipo di divisione del lavoro efficace ed efficiente. Tra di esse, l’interdipendenza tra attività caratterizzate da diversa specializzazione è spesso la più importante variabile rivale. Quanto più le attività sono specializzate e interdipendenti, tanto maggiore sarà l’investimento necessario per coordinarle.
Uno dei fattori tradizionalmente considerati più importanti per la spiegazione della crescita delle
principali unità di azione economica, le imprese, sono le economie di scala. E definita economia di scala la diminuzione dei costi unitari di produzione di beni o servizi al crescere della scala in cui sono impiegati i fattori di produzione. La presenza di economie di scala è quindi considerata un fattore di espansione dei confini delle unità produttive.
Ha senso parlare di economie di scala sia con riferimento a processi di produzione fisica o “materiale”, sia a processi di trasformazione di simboli e di produzione di servizi “immateriali”. Per  esempio, se il costo di fornitura di un servizio di assicurazione decresce qualora la compagnia accorpi i rischi di molti assicurati, si può dire che esistono economie di scala.
Oppure ancora, si può parlare di economie di scala anche a livello “micro” e con riferimento alle risorse umane, e non solo tecniche. I minori costi ottenuti saturando la capacità di una persona con  capacità specialistiche in una data attività, supponiamo un ingegnere del software, piuttosto che lasciando la risorsa parzialmente inutilizzata perché il volume di attività non è sufficiente, sono una variante di economie di scala.
Sebbene si possa parlare di economie di scala amministrativa, o di economie di scala nella fornitura di servizi e di economie di scala nell’utilizzo del know-how, di solito l’entità delle economie di scala è più pronunciata nei processi di trasformazione ad alta intensità di capitale , che non in quelli ad alta intensità di lavoro, nell’industria manifatturiera ed estrattiva che non in molte attività di servizio, nei servizi di commercializzazione, distribuzione e trasporto che non nei servizi alle persone, nella produzione di beni e servizi standard (come elettrodomestici o depositi bancari) che non di beni o servizi non standardizzabili (come i gioielli o la consulenza di direzione).
Le risorse sono spesso disponibili in entità discrete. Ciò implica che esse non possono ampliarsi o ridursi in modo continuo, che possono esistere “discontinuità” nelle risorse, sia tecniche sia umane. Per esempio, un impianto per la fusione dell’acciaio ha dimensioni minime efficienti piuttosto elevate  e  richiede un volume di produzione rilevante per essere pienamente utilizzato. Inoltre, se si considera il legame tra la fase della fusione e la fase della laminazione nella lavorazione dell’acciaio, notiamo che esse sono “tecnicamente inseparabili”, almeno fino a quando non sarà tecnicamente possibile trasportare l’acciaio fuso. In questo caso l’inseparabilità tecnica è dovuta alla mancanza di conoscenza su come effettuare la separazione. In altri casi, la separazione sarebbe tecnicamente possibile, tuttavia i costi di produzione sarebbero molto più elevati. Quanto maggiori sono i costi o le difficoltà tecniche di divisione delle attività e di creazione di scorte, tanto maggiore sarà la spinta ad integrare le attività.
Questa osservazione permette di precisare che le economie di scala possono presentarsi a diversi livelli: in particolare, possono essere specifiche di una fase o manifestarsi su un insieme di più fasi. Tale distinzione importante dal punto di vista organizzativo. Infatti, qualora vi siano economie di scala su un insieme di fasi, si genera una spinta all’integrazione di più fasi in un’unica unità economico-organizzativa, o quanto meno ad uno stretto coordinamento tramite programmazione. Invece, se le economie di scala sono interne a una fase o attività, esse generano spinte all’espansione di quella attività come attività specializzata, in modo che essa possa raggiungere alti volumi grazie al fatto di poter servire molte altre unità. Pertanto, economie di scala specifiche di una singola attività o fase favoriscono la divisione del lavoro fra unità organizzative piuttosto che favorire l’integrazione. È il caso, per esempio, illustrato da Mariotti e Cainarca nelle loro ricerche sull’industria tessile. Al contrario che nell’industria petrolifera, nell’industria tessile  vi  è  un’alta  disintegrazione  verticale  tra  imprese.   Filatura  e  cardatura,        confezionamento  e
distribuzione sono attività non solo tecnicamente separabili ma caratterizzate da economie di scala al loro interno. Gli output di ogni fase sono stoccabili. Ogni attività tende a essere svolta non solo da diversi operatori specializzati ma spesso persino da imprese diverse che acquistano da e vendono ad altre imprese sia a monte sia a valle.
Inoltre, come ogni economia generata dalla tecnica e ogni valore generato dalle competenze, le economie di scala potranno essere effettivamente realizzate come tali solo se le condizioni economiche esterne lo permettono. Nel caso delle economie di scala, è necessario che le dimensioni del mercato (nel senso di ampiezza della domanda) siano tali da poter assorbire gli output di una produzione su vasta scala.
Può accadere che i costi unitari di produzione diminuiscano allorché più tipi di beni o servizi siano
prodotti congiuntamente utilizzando le stesse risorse - impianti, know-how, risorse umane con una data qualificazione. Questo tipo di economie nei costi unitari di produzione sono definite economie di “scope” o raggio d’azione. Se vi sono economie di scope, la somma dei costi unitari di produzione di un bene P1 (se esso è l’unico output delle risorse impiegate) più quelli di bene P2 (pure prodotto separatamente) è. maggiore della somma dei costi di produzione dei due beni prodotti congiuntamente (utilizzando le stesse risorse). La presenza di economie di scope è dunque considerata uno dei fattori in grado di spiegare la diversificazione della produzione di una unità economico-organizzativa. Come accade per le economie di specializzazione e scala, non tutti i tipi di attività presentano economie di scope. Quali sono le fonti di  queste sinergie produttive? Quando si verificano?
Come per le economie di specializzazione, l’apprendimento è fondamentale nella generazione di economie di scope. Tuttavia, nei primo caso si tratta di un apprendimento di mezzi e metodi sempre  migliori per svolgere un tipo dato di attività. Nel caso delle economie di scope, invece, si tratta di apprendere o scoprire o inventare quali altre attività potrebbero essere sinergiche con quelle già condotte.
L’opportunità di impiegare determinate risorse nella produzione di più di un bene sorge spesso dal fatto che le risorse tecniche e umane che si devono approntare per lo svolgimento di un’attività, o che si sono comunque accumulate nei tempo su quell’attività, risultano eccedere i fabbisogni di quell’attività ed essere utilizzabili oltre i limiti di quell’attività.

Un altro esempio frequente di come le economie di scope possano guidare la diversificazione è quello di attività intraprese come attività ausiliarie o di servizio ad un’attività principale, in cui le competenze acquisite e le risorse accumulate si rivelano sufficienti a rendere quell’attività un’area di  affari
autonoma. Per esempio, I’IBM, in ausilio alla sua attività di costruzione di computer, sfruttando la propria competenza elettronica, per gestire le filiali disperse in tutto il mondo ha sviluppato un network di telecomunicazione che collega praticamente tutti i paesi del mondo, il cui affitto ad altre imprese come canale di comunicazione è diventato di per sé una linea di prodotto ad altissima redditività.
Questa considerazione porta ad individuare una seconda caratteristica delle risorse tecniche e umane che possono presentare opportunità di economie di scope. Le economie di scope non escludono la presenza di economie di specializzazione nelle singole attività. Anzi, normalmente è proprio l’apprendimento in un’attività a permettere l’accumulazione di risorse e competenze applicabili ad altre attività. Tuttavia è importante che la tecnologia, il know-how, le competenze delle persone abbiano alcune componenti relativamente universali, flessibili, di base, potenzialmente comuni a più attività. Tali componenti degli strumenti o delle conoscenze possono tipicamente esser state scoperte e messe a punto nel percorso di apprendimento e specializzazione in un’attività.
Le risorse con molteplici potenzialità di applicazione si possono definire risorse “di base” o “core competences” nel caso esse siano di proprietà di un singolo attore, tipicamente l’impresa.
Si deve infine notare che anche per le economie di scope, come per le economie di specializzazione e scala, non è sufficiente che si producano fenomeni di riduzione dei costi per motivi tecnici perché questi si trasformino in economie effettivamente realizzabili da chi svolge le attività. Un limite specifico alle economie di scope, in quanto economie legate all’innovazione, è l’appropriabilità delle risorse comuni o di base. Per esempio, il possesso del know-how relativo alla riduzione dell’attrito nei meccanismi ruotanti poteva essere un fattore di spiegazione dell’ingresso in nuove attività basate su di esso per le imprese del diciannovesimo secolo, non lo sarebbe più oggi. Il motivo è che tali conoscenze si sono diffuse, sono diventate un bene pubblico. In effetti, qualora fosse difficile mantenere la proprietà di tecniche sviluppate in un’attività e suscettibili di altre applicazioni, l’unità economico-organizzativa che le ha sviluppate non sarebbe più efficace ed efficiente di altre unità (imitatrici) nello sviluppo delle nuove applicazioni. Fanno ormai parte della drammaturgia imprenditoriale e manageriale le “tragedie” delle imprese che  svilupparono tecniche di elevata utilità e versatilità ma di facile imitabilità (come la fotoriproduzione uscita dai laboratori 3M) e che vengono sorpassate in sede di sviluppo e commercializzazione dalle applicazioni di altre imprese (nel caso specifico, le fotocopiatrici Rank Xerox).
Ma nemmeno l’appropriabilità delle conoscenze e delle risorse è sufficiente di per sé a spiegare l’espansione efficiente di un attore economico su più attività direttamente possedute e svolte. Le risorse non devono nemmeno essere facilmente trasferibili ad altri attori. Infatti, nel caso di risorse come la terra, un network informatico, conoscenze brevettabili o persino una rete di contatti (per esempio, un indirizzario) l’uso  parziale  di capacità inutilizzata della  risorsa può  esser venduto. Solo  se  le  risorse sono
difficilmente trasferibili le economie di scope possono effettivamente portare all’espansione per diversificazione delle unità economico-organizzative.
Questa variabile è stata messa particolarmente in luce per comprendere la grande espansione    del
fenomeno delle alleanze tra imprese con competenze diverse orientate alla ricerca, sviluppo e realizzazione di nuovi prodotti basati su tali risorse complementari. Tuttavia, la complementarità tra competenze è altrettanto fondamentale e del tutto analoga negli effetti all’interno dell’impresa. Per esempio è noto da tempo che l’innovazione di prodotto può e deve essere sostenuta dall’applicazione complementare delle competenze delle principali diverse funzioni aziendali - la ricerca e sviluppo, la produzione, le vendite - realizzata in apposite strutture di lavoro di gruppo.
Quale che sia il livello di analisi prescelto - relazioni tra imprese, una intera impresa, un  sottosistema di un’impresa - la ricerca di complementarità tra risorse potrebbe essere sistematizzata e operazionalizzata attraverso strumenti di analisi delle relazioni tra risorse come matrici risorse/risorse o risorse/attività. La matrice aiuta a porsi in modo sistematico le seguenti domande: quali sono le principali
risorse e competenze presenti in un sistema di azione? Quali sono le attività che attualmente utilizzano ciascun tipo di risorsa? Quali combinazioni e complementarità tra risorse sono attualmente sfruttate? Quali nuove attività potrebbero utilizzare più compiutamente le risorse  esistenti singolarmente prese o in combinazione? Quali  nuove risorse se sviluppate o acquisite, e applicate congiuntamente    a    quelle    esistenti,  potrebbero
generare output di valore diversi da quelli già esistenti o produrli a minor costo? Inoltre, la matrice offre un quadro sintetico anche delle variabili precedentemente illustrate leggibili nelle celle disposte  sulla diagonale, in cui sono elencate le attività che possono essere svolte con l’uso di ogni risorsa o aggregando risorse della stessa specie. Le celle situate fuori della diagonale ospitano le attività che possono essere generate con l’uso combinato di risorse diverse
L’economia dell’organizzazione ha sottolineato l’impatto della specificità e dell’insostituibilità  delle
risorse sulle soluzioni organizzative efficienti. Tra le fonti “difendibili” di insostituibilità (o monopolio) vi sono il possesso concentrato in alcuni attori di risorse naturali ambite e rare (come il talento sportivo); il rapporto tra dimensioni della domanda e dimensione minima efficiente delle imprese; l’innovazione e la differenziazione del proprio output da quello di potenziali concorrenti; la specificità ad un uso o ad un utilizzatore delle risorse investite in una relazione. Tutte queste forme di insostituibilità delle risorse danno luogo sia a vari tipi di “rendite” - ritorni economici superiori a quelli necessari per attrarre la risorsa in un dato impiego o attività - sia a vari tipi di “costi di transizione” - costi di ricerca di partner, di negoziazione delle condizioni di scambio o di cooperazione, di con-trollo che gli accordi siano rispettati. Pertanto le relazioni caratterizzate da insostituibilità non possono essere governate solo da meccanismi di prezzo e di uscita. Quali altri meccanismi siano efficaci dipende tuttavia da altri elementi, come il grado di incertezza, nonché dal tipo di rendita. Per esempio, nel caso di scarsa sostituibilità dovuta alle dimensioni del mercato, si ricorre in genere all’intervento regolativo pubblico, per contenere i costi di transazione per i consumatori, dovuti a possibili lievitazioni di prezzi e decadimenti di qualità. Nel caso invece di insostituibilità dovuta ad innovazione e ad investimenti specifici, le rendite hanno una funzione di ricompensa senza la quale gli investimenti non sarebbero effettuati e riflettono un maggior valore per gli acquirenti.
La specificità di una risorsa ad una relazione economica è particolarmente importante e diffusa come fonte di insostituibilità perché è spesso generata dai processi di scambio e cooperazione stessi. Si pensi alle conoscenze reciproche che si possono sviluppare tra attori che effettuino scambi o cooperino ripetutamente: conoscenze dei linguaggi, dell’affidabilità, delle procedure amministrative, dei tempi di azione. Pertanto, se certe risorse, o certe risorse e certe attività, sono legate da specificità, il loro “incontro” in relazioni di scambio o di cooperazione genera maggior valore rispetto ad altre combinazioni.
Quando le rendite sono create da relazioni specifiche, esiste il problema di come dividerle tra le parti che concorrono alla loro formazione. Normalmente tale problema è risolvibile tramite negoziazione. Il valore che ogni parte deriverebbe dal miglior impiego alternativo delle proprie risorse fornisce “prezzi di riserva” che delimitano la zona di accordo. La parte divisibile del surplus è di solito definita “quasi-rendita”:  il suffisso “quasi” si riferisce al fatto che la rendita è diminuita del costo di ricerca e trasferimento delle risorse ai potenziali impieghi alternativi. Le parti possono negoziare prezzi e altre condizioni in modo da espandere il più possibile il valore totale della quasi-rendita e dividerlo secondo qualche criterio di equità.
Da parte degli economisti organizzativi si è tuttavia notato che gli investimenti specifici possono essere asimmetrici nel caso in cui una parte si vincoli unilateralmente ad un’altra. In tal caso essa si esporrebbe ad un rischio di espropriazione di tutta la quasi-rendita creata dallo scambio o azione comune da parte dell’altra. Per esempio, un franchisee che sostenga unilateralmente investimenti specifici per accedere ad una catena di distribuzione, non ha comunque convenienza a lasciare la catena finché il suo
corrispettivo non scende fino al livello di ricompensa derivante dal miglior impiego alternativo delle sue risorse. Il franchisor, sapendolo, può comprimere i payoffs del franchisee fino a quel livello.
Il  concetto di  incertezza  utilizzato nella teoria  dell’organizzazione è distintivamente più ampio   di
quello utilizzato nella teoria delle decisioni classica, da cui ha preso le mosse e le distanze. La distinzione classica in teoria delle decisioni corre fra situazioni di “certezza”, “rischio”, e “incertezza”: nella prima si possono prevedere i risultati delle combinazioni tra i possibili “stati del mondo” e le possibili azioni di un decisore con probabilità uno; nella seconda quei risultati si possono prevedere assegnando loro delle probabilità (minori di uno); nella terza non è neppure possibile valutare le probabilità. In tutti e tre i casi   si
suppone tuttavia che il decisore sia in grado di elencare le possibili azioni (alternative) e i possibili “stati del mondo” che possono influire sulle loro conseguenze.
Figura 5 - Principali implicazioni organizzative della complessità informativa
Il “costrutto” di incertezza normalmente utilizzato in organizzazione include quello di incertezza    della    teoria    classica
delle decisioni, ma è decisamente più ampio. E un concetto complesso, che include diverse componenti con effetti diversi sull’organizzazione efficace ed efficiente. Si possono distinguere almeno sei componenti principali utilizzate negli studi e ricerche organizzative. Per sottolineare questo allargamento del concetto e della definizione di incertezza utilizzeremo il termine complessità informativa. La figura 5 mostra le principali componenti del concetto di complessità informativa, illustrate nel seguito.
Per introdurre l’argomento, si considerino alcune attività universitarie: quali fonti di complessità sono presenti nella preparazione di un esame universitario? Se si dovesse effettuare un  progetto  sul campo, anziché solo studiare un libro, in che senso l’attività sarebbe più complessa? Perché programmare l’orario dei corsi è complesso? Perché le decisioni di assunzione di nuovi docenti sono complesse?
L’incertezza non riguarda solo la possibilità di assegnare probabilità ad una serie di eventi ma anche l’incapacità di prevedere quali possano essere questi eventi. Quali sono i possibili “stati del mondo” o situazioni contingenti del contesto in cui intraprendere un’azione di vendita? Ad esempio, le recenti mosse competitive dei concorrenti, le esigenze contingenti dei clienti, i prezzi delle materie prime, il livello qualitativo ottenuto nella produzione, ecc.
La variabilità in tali fattori, anche se identificati, contribuisce al livello di incertezza. La variabilità può essere generata dai fattori variabili del contesto in cui si svolge un’attività e che possono influenzarne il risultato; dalla natura più o meno stabile degli oggetti o “materiali” sottoposti a trasformazione e dei processi di trasformazione; dal tasso di cambiamento e volatilità delle esigenze dei consumatori. Per esempio, un’attività di registrazione di dati contabili è un’attività stabile, mentre un’attività di marketing di un nuovo prodotto è un’attività il cui esito dipende da molte contingenze al di fuori del controllo degli  attori e potenzialmente variabili (come le reazioni dei concorrenti e dei consumatori).
Un’altra componente dell’incertezza è costituita dalla natura delle conoscenze sulle azioni “correte” o migliori da compiere per ottenere certi effetti. La natura dei materiali o dei processi di trasformazione può richiedere processi di soluzione di problemi, produzione di nuove conoscenze, ricerca di soluzioni nuove in misura minore o maggiore. Per esempio, le attività di definizione e realizzazione di una commessa aerospaziale sono molto più incerte, sotto questo aspetto, che non le attività di definizione e realizzazione  di una commessa di impiantistica tradizionale. Analogamente, un’attività di cura psichiatrica è un’attività di trasformazione del “materiale umano” a più alta intensità di ricerca che non l’insegnamento di una lingua straniera a persone adulte.
La mancanza di conoscenze complete a priori e la necessità di produrre conoscenza durante i processi di decisione e azione può riguardare anche i fini o preferenze degli attori. Vi possono essere campi di attività nuovi per l’attore o nuovi in assoluto in cui obiettivi rilevanti vanno appresi agendo in modo sperimentale e incrementale. Per esempio, quali sono le conseguenze rilevanti e quindi gli obiettivi raggiungibili di un programma inedito di intelligenza artificiale applicato alla gestione dei titoli? Si può partire da una percezione di riduzione nei costi/tempi di decisione per scoprirne in seguito molti altri effetti positivi e negativi: per esempio, effetti sulla qualificazione delle persone, sulla flessibilità delle decisioni di fronte a eventi/occasioni impreviste, sulla vulnerabilità del sistema nei confronti di guasti tecnici.
Un’ulteriore componente dell’incertezza attiene alle capacità di valutazione ex post delle azioni economiche e delle loro conseguenze. In altri termini, con riferimento agli elementi fondamentali dei processi decisionali, l’incertezza si può manifestare non solo a livello di informazioni, di alternative e di obiettivi, ma anche a livello di valutazione delle azioni una volta compiute. Può essere difficile osservare e misurare, sia in termini tecnici sia di valore, le risorse, le azioni, i risultati, tutti questi elementi.
Un’ultima componente della complessità informativa è quella ripetutamente evocata da Simon attraverso l’esempio del gioco degli scacchi. Le regole del gioco non sono variabili e il suo albero decisionale non è infinito: in teoria, si potrebbero sviluppare e valutare tutte le alternative (combinazioni di sequenze  di mosse rilevanti). La complessità informativa del gioco deriva dal numero terribilmente elevato di informazioni e alternative che andrebbero tenute simultaneamente presenti. Quanto maggiore è il numero
di elementi, e di loro possibili combinazioni, di un’attività - attori coinvolti, mosse possibili, materie rilevanti
- tanto più essa è computazionalmente complessa. Per esempio, un’attività di vendita di un bene  industriale (per esempio, una turbina) è di solito più complessa della vendita di un bene di consumo (per esempio, un armadio). Infatti, anche a parità di altre condizioni (per esempio, supponendo che entrambi i beni siano standard), la vendita della turbina tocca molte più materie di scambio che non, per esempio, l’entità dello sconto e dei tempi di consegna.
La presenza di incertezza a tutti questi livelli ha grandi implicazioni organizzative. Per esempio, né i prezzi né il voto potrebbero governare molte delle condizioni di incertezza illustrate in questo paragrafo. L’autorità, così come il controllo di gruppo, sono messe in crisi dalla non osservabilità delle azioni; e la relazione di agenzia è inefficace laddove i risultati dipendono debolmente dalle azioni per via di una forte incidenza di incertezza da fattori esogeni. La possibilità di governare l’azione collettiva tramite norme e regole è legata a condizioni di scarsa variabilità. La possibilità di dividere il lavoro orizzontalmente e verticalmente è legato alla chiarezza degli obiettivi o output cercati e delle relazioni causa-effetto per produrli.
Inoltre, come l’insostituibilità, anche l’incertezza può generare situazioni asimmetriche, e tale condizione ha le sue specifiche implicazioni organizzative. Utilizzando le definizioni in uso al riguardo nell’economia dell’informazione (entrambe derivate dallo studio dei problemi e dei contratti assicurativi) se una parte ha molte informazioni sul valore di un bene o servizio oggetto di un possibile scambio, mentre la controparte ha accesso a poche informazioni, la parte informata può permettersi di accettare l’affare solo se il “valore vero” è inferiore al prezzo (se essa è venditrice) o superiore (se essa è acquirente), si parla in tal caso di adverse selection. Dopo che uno scambio ha avuto luogo, se una parte è incerta sulle azioni intraprese dall’altra (inosservabilità), ma l’agente sa quali azioni sono più convenienti per sé, quest’ultimo ha incentivi ad intraprendere tali azioni anche se era stato pattuito diversamente (moral hazard). Le asimmetrie informative possono ostacolare la realizzazione di eventi di scambio e cooperazione creatori di valore, a meno che le decisioni non siano governate anche da meccanismi regolativi come le norme, le convenzioni, e le garanzie di terze parti.
Infine, bisogna notare che le “condizioni di incertezza” - come quelle di insostituibilità - non sono un “dato” ma possono essere modificate o persino scelte dagli attori, soprattutto attraverso la scelta delle attività. Per esempio, una scelta strategica di grande impatto sull’incertezza delle attività che un dato insieme di attori economici si trova a svolgere è quella di competere differenziando e innovando piuttosto che di competere sui costi relativamente a un bene/servizio definito. Per esempio, quale grado di  incertezza avranno le attività di un’impresa che produce biscotti? Dipende. La tecnica di produzione è nota  e il prodotto è semplice, tuttavia vi sono imprese che hanno saputo vedere o inventarsi    attività innovative
soprattutto nell’area commerciale in un settore che appariva maturo, creando un sotto-ambiente incerto. Lo stesso e accaduto nelle attività del settore tessile - abbigliamento dove le case di moda hanno trasformato attività stabili e cicliche con poche rare variazioni, in attività ad altissima incertezza e volatilità.
Una    variabile    utilizzatissima    nei    modelli    economici    e    organizzativi    di    progettazione  è
l’interdipendenza. In effetti, l’esigenza di coordinare de attività economiche nasce dal fatto che molte di esse sono interdipendenti. Il possesso diffuso di informazioni e risorse e la divisione del lavoro generano fabbisogno di scambio e cooperazione, cioè interdipendenza tra diverse attività e attori che le svolgono. Per quanto si tratti di un predittore particolarmente sintetico e “vicino” alle soluzioni organizzative efficaci, l’interdipendenza è da considerarsi una variabile intermedia, che dipende a sua volta da variabili già esaminate. Si possono distinguere quattro tipi fondamentali di interdipendenza.
Una prima distinzione fondamentale fra tipi di interdipendenza attiene al tipo di legame che si può instaurare tra risorse e/o tra attività. Beni e servizi possono essere scambiati, istituendo relazioni di scambio, o condivisi, istituendo relazioni di cooperazione. Chiameremo la prima interdipendenza transazionale: essa si riferisce al trasferimento di beni o servizi attraverso un’interfaccia tecnicamente separabile. In altri termini, l’attività A genera un output che viene trasferito come input ad un’attività B. Tuttavia, notiamo che si tratta di un tipo relativamente semplice o unidirezionale di interdipendenza del tipo A → B. Essa viene normalmente definita interdipendenza, sequenziale. Thompson ipotizzò che l’interdipendenza sequenziale fosse regolabile efficientemente tramite meccanismi di programmazione, assumendo implicitamente che i trasferimenti fossero soggetti a vincoli di tempo, e di luogo e che i flussi e  il livello di utilizzazione delle risorse ai diversi stadi dovessero essere bilanciati. Senza questi assunti supplementari, si può osservare che le interdipendenze sequenziali possono essere regolate efficacemente anche da scorte e da prezzi, esterni o interni.
Secondo l’analisi iniziale di Thompson, la relazione può essere anche simmetrica: l’output di A è input per B, e l’output di B è input per A (la relazione è del tipo A ↔ B). L’esempio portato era quello del rapporto tra manutenzione e produzione. Tuttavia, ci si può chiedere se e perché trasferimenti di beni e servizi in due direzioni dovrebbero porre problemi di coordinamento qualitativamente diversi da trasferimenti unidirezionali. La regolazione potrebbe per esempio avvenire attraverso programmi più complicati. In effetti è ciò che avviene nella regolazione di molte attività di manutenzione, sempre che esse possano essere previste, anticipate e quindi programmate. Nell’esempio della manutenzione, si tratta della manutenzione preventiva svolta sulla base di analisi statistiche sulle tipologie di guasti e i tassi di usura e di
rottura dei componenti. Ciò che complica e rende qualitativamente diversi i meccanismi di coordinamento efficaci ed efficienti non è di per sé la bidirezionalità ma la non predicibilità delle relazioni e la necessità di risolvere problemi nuovi, dunque le caratteristiche di complessità informativa della relazione. Per esempio, nel caso di guasti imprevisti e dalle cause difficilmente interpretabili si crea fabbisogno di comunicazione e soluzione congiunta di problemi fra produzione e manutenzione. Saranno dunque efficaci meccanismi di coordinamento che permettono tali interazioni, come le relazioni laterali, i ruoli di collegamento e i gruppi di lavoro. Le condizioni di efficacia di tali meccanismi sono di solito definite di interdipendenza reciproca: tuttavia il significato di questo termine, se si vuole predire correttamente l’uso di quei meccanismi, è quello di interdipendenza transazionale complicata dalla presenza di complessità informativa. Esempi economicamente importanti di relazioni di interdipendenza reciproca sono anche tutte le transazioni in cui un output è prodotto da A “su misura”, “su specifica” o commessa di B, anziché indipendentemente da tali informazioni: A fornisce l’output per B  solo se B  fornisce le indicazioni in input per A.
Vi sono forme di interdipendenza che non implicano trasferimenti di beni o  servizi  tra attori/attività, bensì implicano unione di sforzi, allineamento di comportamenti, azione comune. Si  potrebbe perciò definirla in generale “interdipendenza cooperativa”. Si deve sempre a  Thompson  una prima descrizione di questi tipi di interdipendenza: egli chiamò “pooled interdependence” l’interdipendenza generata dalla costituzione e uso di risorse comuni. Per esempio, l’uso degli stessi edifici, impianti, risorse segretariali o servizi di marketing, o dello stesso marchio o know-how da parte di più attività/attori genera interdipendenza da risorse comuni. L’analisi delle situazioni di interdipendenza per “aggregazione” o “pooling”, può essere arricchita considerando non solo l’aggregazione di risorse ma anche l’aggregazione di attività. Per esempio, una semplice somma di sforzi grazie alla quale si può svolgere un’attività altrimenti sovradimensionata. Di nuovo, il coordinamento di tali interdipendenze derivanti da economie di scala e specializzazione può non essere problematico finché non è complicato da una qualche forma di  complessità informativa. Esso si può avvalere di procedure di lavoro, di osservazione e controllo reciproco tra gli attori, e/o di meccanismi che governano l’accesso alle risorse in modo simile ai prezzi - come le code o le tariffe di utilizzo. Esigenze di coordinamento e controllo un po’ più complesse si creano invece se i contributi e le azioni non sono osservabili, per esigenze logistiche o per dimensioni della squadra, cosicché  si possono produrre incentivi all’uso improprio delle risorse comuni o riduzioni inosservate delle attività e dei contributi. L’uso di relazioni di autorità o di agenzia è stato infatti collegato a tali situazioni, e se vi sono vincoli di tempo e priorità anche la programmazione è opportuna.
Situazioni di interdipendenza cooperativa più compiesse, si possono avere se le parti devono definire le azioni da compiere aggiustandole una rispetto all’altra, sulla base di informazioni derivate dallo svolgimento di ogni altra azione, componendole come pezzi di un mosaico in un’azione comune. Utilizzando
un altro termine di Thompson possiamo definire questo tipo di relazione “interdipendenza-intensiva”. Per illustrarla egli portò come esempio l’équipe di specialisti medici in un intervento chirurgico. Esempi economici di interdipendenza intensiva, sono le interdipendenze tra produzione, marketing e ricerca in un’attività di definizione di un nuovo prodotto; o le interdipendenze tra case madri nella creazione e gestione di una joint venture. Le implicazioni organizzative di questo tipo di interdipendenza sono l’aggregazione delle risorse e attività in unità integrate entro le quali si possa realizzare l’aggiustamento reciproco, e il disegno di schemi di incentivo in grado di “allineare gli obiettivi” degli attori.
Il grado di contrapposizione o conflitto tra gli interessi tra attori che posseggono diverse risorse e
svolgono diverse attività; piuttosto che il grado di complementarità o addirittura identità di interessi è una variabile di progettazione organizzativa molto importante ma sorprendentemente trascurata. Quando è stata considerata, è stata trattata tipicamente come un “assunto” anziché una variabile. Per esempio, i modelli di economia dell’organizzazione tendono ad “assumere” (o sospettare) la presenza di conflitto, mentre in organizzazione si è spesso “assunta” la presenza di “fini comuni”.
Nella teoria economica dell’organizzazione si è sostenuto che più che il conflitto tra interessi di per sé sia il “potenziale di opportunismo” che da esso può derivare ad influenzare gli assetti organizzativi efficienti. Un comportamento opportunistico è un comportamento che tradisce lo spirito di un accordo di cooperazione o di scambio attraverso “promesse non credute da chi le fa”, azioni che accrescono unilateralmente i propri benefici e danneggiano altri che non sono in condizioni di scoprirle o di reagire, free-riding, inganni e bluff.
Per esempio, la cooperazione tra imprese oligopolistiche che producono lo stesso tipo di prodotto (per esempio, petrolio) sulla definizione dei prezzi è una relazione ad alto potenziale di opportunismo.  Esiste un interesse comune all’allineamento delle azioni (senza il quale non si avrebbe cooperazione del tutto). Tuttavia, esistono anche significativi incentivi al non rispetto unilaterale degli accordi e al free-riding, che conferiscono al gioco una struttura del tipo “dilemma del prigioniero”. Le imprese hanno un interesse comune a mantenere alto il livello dei prezzi generale, ma ogni singola impresa ha interesse ad abbassare il proprio prezzo sotto quello delle altre per guadagnare quote di mercato. Pertanto è difficile che il coordinamento tra “conspiring oligopolists” possa sostenersi senza particolari garanzie e tutele reciproche nei confronti del free-riding. Al contrario, la cooperazione tra imprese che operano in attività complementari, per esempio prodotto con domanda correlata positivamente anziché negativamente, può essere molto agevole, anche in materia dei prezzi, e sostenersi da sola perfino in modo tacito.
Oppure si considerino le relazioni di cooperazione nel campo della ricerca e sviluppo. Anche in questo caso si osserva un’ampia varietà di accordi, che possono andare da contratti associativi altamente formalizzati, tutelati e istitutivi di relazioni di autorità per la risoluzione dei conflitti (come la costituzione di una società in joint venture); fino ad accordi di cooperazione informale. La variabile che può  meglio spiegare queste differenze non è il grado di incertezza o il tipo di interdipendenza, che sono simili, bensì il grado di conflitto e il potenziale di opportunismo insito nel gioco. Per esempio, vi sono alcuni tipi di know- how e competenze che, attraverso la messa in comune, lo scambio e il confronto aumentano di valore per entrambe le parti anziché rappresentare una cessione o diminuzione di risorse che richiede un  corrispettivo. E spesso il caso di conoscenze di base e di attività di ricerca pre-competitiva e non ancora applicata. Al contrario, la messa in comune di conoscenze distintive possedute da diversi attori, critiche per la loro stessa esistenza come attori economici, e non facilmente tutelabili in termini proprietari tramite brevetti, espone le parti a elevati rischi di opportunismo. Si pensi a due imprese che vedano l’opportunità di associare da un lato un insieme di contatti e di relazioni con clienti e istituzioni locali in un certo paese, dall’altro un know-how tecnico su particolari processi di trasformazione chimica. Una volta conferite o comunicate, tali risorse possono essere espropriate reciprocamente e la relazione di cooperazione può trasformarsi in estrema competizione per la sopravvivenza. Perciò, questo tipo di relazioni sono spesso pesantemente tutelate dalla “mano” di un governo molto “visibile”.
Un’analoga distinzione vale per le interdipendenze transazionali. Si consideri la relazione tra un’attività di produzione e una di vendita di impianti su commessa. Si supponga che l’attività di produzione sia orientata alla riduzione dei costi e quindi alla standardizzazione dei processi e dell’output. Si supponga che invece l’attività commerciale massimizzi le probabilità di vendita cercando di negoziare su misura l’impianto il più possibile con il committente. Le due attività hanno interessi conflittuali; e se lo stadio commerciale compensa in forma monetaria lo stadio produttivo per il trasferimento dei beni o servizi, essi hanno interessi contrapposti anche sul prezzo di trasferimento. Se il gioco fosse effettivamente così distributivo, esso potrebbe generare un elevato potenziale di opportunismo permettendo alle parti di sfruttare le variazioni nelle circostanze in cui si svolge lo scambio a proprio vantaggio. Tuttavia, ciò non si verifica necessariamente: dipende dal tipo di variazioni che si possono manifestare. Per esempio, la variazione incerta o imprevedibile nell’accordo di trasferimento tra le due parti che si manifesta potrebbe essere favorevole a entrambe. Per esempio, un committente richiede uno slittamento nelle consegne per suoi problemi di completamento di lavori di ristrutturazione dei capannoni in cui dovrebbe essere collocato l’impianto; il fornitore è in ritardo con la consegna e gradisce il rinvio. Questa variazione genera risorse maggiori, più comode, in eccesso per tutti; e come tale non è soggetta ad essere usata opportunisticamente. La variabilità e l’instabilità che si risolva in un aumento delle dimensioni della torta  cui  attingono  attori/attività  interdipendenti,  rende  i  giochi  meno  conflittuali  e  abbassa  gli      incentivi
all’opportunismo.

Inoltre, il rischio effettivo di opportunismo in una relazione dipende anche dalla misura in cui gli attori adottano un modello di comportamento calcolativo e dalla longevità o ripetitività e frequenza attesa dalla relazione. Relazioni ripetute e longeve, interazioni frequenti tra le parti e una forte istituzionalizzazione capace di regolare molti comportamenti in modo “normativo” anziché “calcolativo” dovrebbero calmierare il potenziale di opportunismo.
La possibilità di esercitare effettivamente azioni opportunistiche e di sfruttamento dei partner contrattuali dipende poi dal grado di sostituibilità di entrambe le parti, cioè da quanto le minacce di uscita dalla relazione sono credibili. Il potenziale di opportunismo può quindi diventare alto se è difficile stringere contratti completi se gli interessi sono in conflitto anziché convergenti, e infine se gli attori non si possono facilmente sostituire. Né l’insostituibilità di per sé, né l’incertezza di per sé, né il conflitto tra interessi di per sé darebbe luogo a elevato potenziale di opportunismo: il loro connubio fo può generare.
A parità di condizioni, quanto maggiore è il conflitto tra interessi e il potenziale di opportunismo, tanto più gli assetti organizzativi efficaci faranno uso di meccanismi forti di risoluzione dei conflitti come la creazione di sistemi di regole formali interne a integrazione dei contratti, l’autorità arbitrale, al limite l’unificazione o la condivisione dei diritti di proprietà.
La rilevanza della variabile del conflitto tra interessi per la progettazione organizzativa non si ferma qui. La differenziazione tra interessi ed obiettivi non è solo diffusa ma spesso efficace. E può essere governata e persino protetta attraverso la separazione tra attività. La presenza di conflitto tra interessi ed obiettivi che governano o dovrebbero governare due o più attività può avere come soluzione efficiente la separazione tra le attività. Si può parlare in questo caso di incompatibilità, e si può osservare che essa è un criterio di progettazione organizzativa in effetti molto applicato,  anche  nell’attività  economica,  per  quanto sia stato alquanto trascurato nei modelli più diffusi di progettazione. Si ritiene che vi sia incompatibilità tra molte cariche pubbliche e private, tra attività di controllore e di controllato, tra attività a fini di servizio sociale e a fini di lucro (da cui discende l’adozione delle forme di associazione non a fine di lucro per certe attività) tra attività di gestione patrimoniale nell’interesse dei depositanti (e in funzione del loro grado di avversione al rischio) o nell’interesse dell’intermediario finanziario (da cui discende la separazione tra banche di deposito e di investimento). Nel caso in cui il conflitto d’interesse si configuri come incompatibilità, esso normalmente implica che sia efficace un’allocazione delle attività ad  attori distinti e talora addirittura non comunicanti.
Diverse persone, o organi, o imprese possono ordinare secondo preferenza in modo diverso le soluzioni organizzative stesse. Ciò significa che vi può essere conflitto stille forme organizzative da adottare e che le modalità di soluzione di tali conflitti influenzano le soluzioni effettivamente adottate. Quando si desiderino risolvere creativamente sia tali divergenze, sia problemi organizzativi nuovi, poco strutturati e non “standard”, è opportuno adottare un approccio euristico e negoziale alla progettazione. Procedure atte alla ricerca di soluzioni organizzative sono presentate nel primo paragrafo di ogni capitolo della parte terza. Procedure eque di ottimizzazione congiunta delle soluzioni organizzative sono sviluppate nella parte conclusiva di ogni capitolo. Esse seguono lo schema generale rappresentato in figura 6. Infatti, se una “soluzione” o “forma” organizzativa implica una particolare allocazione di diritti su risorse e attività ad  attori diversi, è lecito aspettarsi che, tra le varie soluzioni Pareto-efficienti che si possono individuare, gli attori preferiscano soluzioni che garantiscono loro maggiori diritti e risorse piuttosto che meno, e che pertanto debbano mettersi d’accordo su quale soluzione ritengano equa per arrivare a definire un assetto organizzativo. Per esempio, più imprese possono essere d’accordo sull’opportunità di associarsi per realizzare  un  progetto  complesso  come  un  tratto  di  metropolitana,  cogliendo  economie  di  scala  e di
complementarità nelle competenze. D’altra  parte, accade che una o più imprese, di solito quelle che realizzano la parte più “grossa” in termini di fatturato dei lavori come quelle costruttrici, preferiscano un accordo di sub-contracting che garantisce loro una quota maggiore di utili “spremendo” i subappaltatori; mentre questi ultimi, spesso anche se non sempre, preferiscano un accordo più paritario come un consorzio, in cui possono accedere agli utili direttamente. Non vi è una singola   soluzione   efficiente.   Vi   sono   varie  soluzioni
superiori, e una scelta tra di esse non può che avvalersi di un qualche criterio di divisione dei benefici, come un criterio di equità.
Le risorse incorporate nelle persone, o “risorse umane”, possono essere impiegate nell’erogazione di servizi di lavoro in modi molto diversi fra loro. Le persone, nella nostra trattazione, non sono  concepite come “risorse”, ma come attori, titolari di preferenze e diritti, che posseggono risorse e stipulano accordi sul loro uso.
L’impiego delle risorse umane è regolato da qualche forma di accordo o contratto, più o meno complesso. Gli esempi sopra citati ne evocano la varietà. Questo capitolo esplora: a) quali sono i diversi meccanismi che governano le risorse umane, qui raggruppati in tre grandi classi: la valutazione, la ricompensa e la mobilita sviluppo; b) quali sono le diverse forme di contratto di lavoro come combinazioni  o configurazioni di tali meccanismi, e quali sono le condizioni nelle quali esse possono essere considerate efficaci, efficienti ed eque. La trattazione allarga l’approccio usuale di “gestione delle risorse umane” integrandolo con i contributi dell’economia dell’organizzazione, e riguarda sia l’organizzazione “interna” sia quella “esterna” delle risorse umane e dei servizi di lavoro.
Quali criteri possono essere usati nel decidere gli aumenti retributivi alle persone? I tipici criteri che vengono individuati e usati sono i seguenti.
•  La valutazione della prestazione, da parte del superiore o dei pari, in base ai risultati o ai comportamenti.
•  La valutazione della professionalità e delle competenze, nelle sue dimensioni di livello di qualificazione e complessità, e di relativa sostituibilità.
•  La valutazione della posizione, nelle sue dimensioni di costo e di valore per chi la ricopre e per il sistema di azione (difficoltà o piacevolezza dei compiti, nocività, responsabilità e discrezionalità).
•  La valutazione delle preferenze e dei bisogni relativi ai beni allocati, nel caso specifico la remunerazione monetaria.
Le pur esigue e semplici informazioni sulla performance delle varie persone date nell’esercizio sono sufficienti ad aprire un ventaglio abbastanza ricco di possibili modalità di valutazione e a mostrare la possibilità di conflitto tra criteri che premiano fattori diversi (i risultati, i comportamenti, il tipo di lavoro svolto, la situazione personale, il livello retributivo di partenza). Il peso relativo dei diversi criteri può naturalmente variare in diversi sistemi, e ciò contribuisce a configurare sistemi di valutazione di tipo differente.
Le principali forme di valutazione considerate nella letteratura di “gestione delle risorse umane”  sono la valutazione delle posizioni, delle competenze, delle prestazioni, dei potenziale. Queste forme di valutazione si possono collocare nei diversi stadi della catena causale (e dei giudizi di attribuzione causale) che porta dalle risorse e competenze ai comportamenti di lavoro, ai risultati presenti e futuri.
Normalmente la valutazione dei risultati e dei comportamenti è definita globalmente valutazione della prestazione. Il principale problema di progettazione di questo meccanismo è la scelta fra valutazione dei comportamenti, che costituiscono gli input dei processi produttivi, o dei risultati che ne costituiscono l’output. Lo schema proposto mette in luce il problema conoscitivo e di attribuzione causale sottostante alla scelta tra valutazione dei risultati, dei comportamenti, o a monte, delle competenze e della professionalità.
Il problema consiste nel fatto che quanto più ci si allontana dalle caratteristiche e dagli attributi degli attori (le competenze) e ci si sposta verso i risultati, tanto meno ciò che viene valutato può essere attribuito in modo deterministico all’attore che viene valutato, specialmente in attività soggette a incertezza.
La funzione principale della valutazione della prestazione è quella di rilevare e misurare il valore dei contributi forniti da date risorse, ed eventualmente di costituire una base di informazioni cui legare ricompense (monetarie e non monetarie) in funzione dei contributi. Poiché la valutazione della prestazione è un problema di indagine e misurazione empirica di un concetto complesso (la “prestazione”), di cui è spesso difficile trovare indicatori validi e completi, essa è difficile e soggetta a distorsioni, come si vedrà.
Un tipo alternativo di valutazione, che può integrare o sostituire la valutazione della prestazione, è la valutazione della posizione. Anche da un punto di vista storico, infatti, la valutazione della posizione si è affermata, anche con la collaborazione dei sindacati dei lavoratori, come un meccanismo per rendere meno arbitraria e più trasparente la valutazione e come modalità per sistematizzare i giudizi e le regole di equità riguardanti la relazione tra contributi e ricompense, che sarebbero comunque informalmente applicati, come per esempio: “paga uguale a uguale lavoro”, “pari opportunità” di accesso a posizioni se si  possiedono dati requisiti, ecc. In particolare, la valutazione del contributo che le attività attribuite a una posizione di lavoro forniscono, indipendentemente dalla particolare persona che occupa la posizione e dalle sue risorse, sono considerate una base equa ed efficiente per costruire una struttura di salari per una struttura di posizioni di lavoro. Una giustificazione di questa tesi è che la valutazione della posizione può esser vista come una misura del contributo medio atteso, in termini di competenze e responsabilità, da un insieme di. attivita; essa può perciò fungere da variabile sostitutiva (in qualche modo una variabile “proxy”) rispetto ad una più circostanziata e specifica valutazione delle prestazioni effettive degli attori che potrebbero assumerle. Pertanto essa è particolarmente utile quando la prestazione effettiva e singolare sia difficilmente osservabile e misurabile.
Un’altra importante funzione della valutazione delle posizioni è la sua capacità di tener conto di aspetti importanti delle attività e dei risultati che non dipendono dalle azioni ma dal contesto e dalla natura
della mansione. Se la valutazione non considerasse anche aspetti di posizione, questi fattori contestuali non si rifletterebbero in appropriate ricompense e molte posizioni risulterebbero poco attraenti. Per esempio, l’assunzione di responsabilità e di rischio possono essere attributi delle posizioni, e non solo delle persone o delle prestazioni, ed essere indipendenti dalle risorse di competenza possedute e richieste nelle mansioni. Ricompense che non tenessero conto delle caratteristiche della posizione, oltre che della prestazione e delle competenze, non sarebbero né eque dal punto di vista distributivo, né efficienti nell’attrarre e motivare i contributi necessari.
Tuttavia, le competenze e le responsabilità di un attore non possono essere adeguatamente desunte solo dalla posizione occupata, se non in sistemi di ruoli altamente prescritti e formalizzati. Non tutti i capi reparto, anche di una stessa impresa, posseggono le stesse competenze e assumono le stesse responsabilità. E questo è tanto più vero quanto più le posizioni prevedono un’elevata discrezionalità, anche su come interpretare i propri compiti. Una valutazione basata sulle competenze, se intesa come ricerca e valutazione delle risorse degli attori e non come semplice componente della valutazione di ciò che è richiesto da una mansione, è una risposta a tale problema.
Infine, una valutazione ancorata e orientata solamente a posizioni esistenti, risorse esistenti e prestazioni osservate sarebbe tuttavia un sistema molto statico e orientato al passato. Non genererebbe informazioni molto rilevanti anche solo per il governo della mobilità in senso classico (assunzioni e promozioni) in una struttura data; ancor meno per il governo dello sviluppo di nuove competenze e nuove attività. Lo sviluppo di strumenti di analisi e valutazione del potenziale ha rappresentato una risposta a questo problema. Il “potenziale” è una grandezza congetturata e attesa, non osservata come la prestazione o la professionalità. Si tratta di stimare le possibili variazioni e sviluppi futuri nelle competenze e nelle prestazioni degli attori in nuove posizioni. Perciò la valutazione del potenziale è in generale più fallibile e soggettiva, basandosi su ipotesi e giudizi sotto incertezza su possibili nessi causali futuri tra risorse e  attività.
La  valutazione  della  prestazione  è  la modalità di più  generalizzata applicazione nelle  più    diverse
configurazioni contrattuali. E necessario valutare le prestazioni passate e attese per acquistare un servizio  di lavoro sul mercato esterno, per allocare le ricompense all’interno delle imprese, per costituire un gruppo di lavoro, per assumere personale.
Poiché la valutazione è in primo luogo un processo di acquisizione di conoscenze e informazioni, la scelta tra comportamenti o risultati come aspetto principale della prestazione da valutare è anzitutto condizionata all’osservabilità e misurabilità degli input piuttosto che degli output. Molti comportamenti economici  non  sono  direttamente  osservabili  e  valutabili  sia  per  ragioni  tecnico-operative  sia  per
asimmetria nelle informazioni e nelle competenze. Molti tipi di risultato possono essere difficili da giudicare e valorizzare, perché si manifestano nel lungo periodo, o perché sono multidimensionali o perché le informazioni sono difficilmente accessibili (si pensi alla valutazione dei risultati di attività di formazione).
Tuttavia, la scelta fra valutazione sui comportamenti o sui risultati non dovrebbe dipendere solo da quali dei due elementi è più osservabile. Un’altra variabile importante per la progettazione dei sistemi di valutazione è la conoscenza delle relazioni causa-effetto. Infatti, i risultati possono essere osservabili ma  può esser difficile attribuirli causalmente a certe azioni; e i comportamenti possono essere osservabili ma la loro relazione con le conseguenze può non esser chiara. In generale, il vantaggio della valutazione sui comportamenti è la maggior correlazione di questo aspetto della prestazione con le risorse che lo hanno generato; mentre il vantaggio della valutazione sui risultati è la maggior correlazione con gli obiettivi finali dei sistema secondo cui una prestazione viene giudicata.
Da un lato, quindi, il giudizio di valore su un comportamento richiede che sia noto o dato il legame causale che collega il comportamento a risultati desiderati. Per esempio, si possono valutare attività di produzione di lattine di birra o di tondini di ferro in base ai comportamenti perché è noto quali comportamenti e processi produrranno buoni risultati.
Dall’altro lato, la valutazione sul risultato implica che sia noto (e non troppo alto) il grado in cui il risultato dipende dalle azioni da fattori fuori controllo piuttosto che dall’attore. Se i risultati sono  osservabili e misurabili, essi possono essere utilizzati come indicatori di prestazione nella misura in cui possono essere attribuiti causalmente o “imputati” alle risorse che si stanno valutando. Per esempio, nelle attività di vendita il risultato è tipicamente ben osservabile e misurabile come fatturato, quota di mercato, qualità del parco clienti; mentre i comportamenti che ad esso conducono sono poco osservabili e spesso anche poco noti e standardizzabili. Questa situazione non dovrebbe condurre ad una valutazione esclusiva sui risultati tuttavia, a meno che il livello di incertezza ambientale e di dipendenza dei risultati dalle azioni di altri non permettano di attribuire i risultati osservati agli sforzi e alle azioni dei venditori in questione. I sistemi di valutazione per risultati possono tener conto della presenza di queste due variabili nel modo seguente.
Se le difficoltà sono dovute a un’elevata varianza dei risultati dovuta a fattori esogeni (incertezza ambientale), o al fatto che essi sono osservabili solo nel medio-lungo termine, si può estendere l’orizzonte temporale della valutazione, valutando serie temporali estese di prestazioni che depurino dall’influenza di fluttuazioni casuali o valutando ad intervalli di tempo lunghi.
Se le difficoltà derivano dall’ interdipendenza con altri attori i possibili rimedi sono diversi:
•  Combinare la valutazione sui risultati con alcuni parametri di valutazione dei comportamenti, per gli  aspetti in cui sono osservabili e specificabili (per esempio, nel caso di attività di marketing, il rispetto  dei tempi programmati per le campagne promozionali in modo da non cannibalizzare prodotti correlati,
il rispetto di zone territoriali, l’uso di specifiche tecniche di presentazione, informazione e assistenza al cliente se l’attività di vendita è specifica ad un determinato marchio o produttore);
•  Ampliare il ventaglio dei parametri di valutazione dei risultati considerati, in modo che l’indicatore composito di performance sia più specifico e quindi più attribuibile ad un particolare attore (per esem- pio, introducendo parametri qualitativi come la soddisfazione espressa dai clienti o dai fornitori);
•  Valutare i risultati collettivi degli attori interdipendenti (attraverso indicatori di prestazione di gruppo o addirittura d’impresa).
L’interdipendenza a livello di comportamenti crea ulteriori problemi. Si supponga che alcune attività siano collegate in serie con altre a monte e a valle (come diverse operazioni di lavoro su una tecnologia a ciclo continuo, per esempio, la laminazione dell’acciaio) o in parallelo su uno stesso oggetto di trasformazione (per esempio, l’applicazione di diverse competenze tecniche alla manutenzione di un impianto complesso). L’obiettivo principale spesso non è la massimizzazione di risultati produttivi bensì l’ottimizzazione di un processo composito attraverso contributi adeguati nella qualità, nella quantità e nei tempi. In tal caso il controllo sul rispetto dei programmi e le modalità di produzione (cioè una valutazione sui comportamenti), sarà una componente necessaria del sistema di valutazione.
Pertanto si può concludere affermando che le condizioni di interdipendenza i sistemi di valutazione più efficaci saranno misti e compositi, piuttosto che unilateralmente basati sulla valutazione degli input o degli output.
Per tutte le unità, non è difficile osservare o misurare i risultati, in termini di costi o ricavi o profitti. Per alcune non è difficile neppure valutare i comportamenti. Il problema è difficile perché quasi nessuna unità ha piena discrezionalità sui “propri” risultati, i quali dipendono in buona misura dai comportamenti di altri. Queste interdipendenze sono tanto maggiori quanto meno le diverse unità godono del diritto e della discrezionalità di rivolgersi direttamente a partner esterni sul mercato, in modo da assomigliare a quasi- imprese indipendenti. In base a quanto sopra discusso, alcuni correttivi dei parametri di valutazione che aiuterebbero a gestire questa situazione di interdipendenza potrebbero essere:
•  agganciare la valutazione di ognuno a quella di altri, istituendo parametri comuni;
•  inserire i risultati globali di concessionaria tra i parametri di valutazione di ogni unità; ampliare il range dei parametri di valutazione inserendo anche parametri qualitativi;
•  allungare l’orizzonte temporale della valutazione.
Si possono dare infine attività in cui né gli input né gli output sono osservabili e misurabili a costi ragionevoli. In questa circostanza, per definizione è difficile valutare la prestazione. Altre forme di valutazione, però, più direttamente centrate sulle risorse (competenze) anziché sui servizi che ne derivano possono soccorrere. O ancora, si vedrà, possono soccorrere soluzioni organizzative che, anziché basate    su
valutazioni ex post delle risorse o dei servizi di attori, forniscano motivazioni ex ante agli attori stessi ad agire in certe direzioni.
Una buona architettura del sistema di valutazione secondo i criteri esposti non ne garantisce tuttavia un buon funzionamento, qualora non se ne considerino gli aspetti di processo e la strumentazione tecnica. Specialmente nei casi in cui i parametri di valutazione non sono “oggettivi”, devono essere stimati o richiedono il giudizio di un valu-tatore, il processo può essere soggetto a forti distorsioni. Nel caso più frequente in pratica, per esempio, la valutazione su parametri di giudizio qualitativo viene  effettuata tramite questionari rivolti al valutatore (in genere il superiore, ma potrebbe trattarsi di utenti di un servizio che valutano i fornitori) sulla performance di altri attori (in genere un subordinato, ma potrebbe trattarsi di un delegato o rappresentante, o di una persona che ha partecipato ad un progetto o attività comune).
Come in ogni processo di ricerca basato su questionari, ci si dovrebbe preoccupare della validità delle misure di prestazione (si è misurato ciò che si voleva misurare? o gli indicatori e gli strumenti di misura rilevano in realtà altro dalla prestazione?), e dell’affidabilità delle scale come strumento di misura (registrano lo stesso valore se la prestazione ha avuto in effetti lo stesso valore, forniscono gli stessi risultati se usate da diversi soggetti o in diversi momenti?).
In aggiunta, le risposte ai questionari di valutazione sono soggette a ulteriori e specifiche distorsioni dovute a distorsioni cognitive e a potenziali conflitti tra interessi, particolarmente forti se alla valutazione sono agganciate ricompense di varia natura. Nella ricerca specialistica sui processi di valutazione, l’inventario di distorsioni, include errori di “rappresentatività” (come l’influenza di stereotipi e pregiudizi su categorie di persone, il valutare il ruolo o posizione anziché l’effettiva prestazione); di “disponibilità” (dare maggior peso a eventi emotivamente carichi, alla familiarità interpersonale); di “ancoraggio” (il procedere incrementalmente rispetto a giudizi precedenti, il dare giudizi simili su tutti i parametri di valutazione); di “azzardo morale” (giudizi deliberatamente distorti per non danneggiare o al contrario per penalizzare il valutato).
Con riferimento particolare alla gestione dei possibili conflitti di interesse sottostante i processi di valutazione, invece, è lo studio sulla giustizia procedurale (capitolo 3) che ha dato i contributi più utili. Poiché di giudizio si tratta, l’essenziale è che la procedura giudiziaria risponda ai canoni di trasparenza ed equità che tale attività richiede, riassunti dagli esperti di organizational justice.
In conclusione a questi elementi sui processi cognitivi e sociali di valutazione, si deve sottolineare come l’elemento forse più importante per un processo di valutazione efficace ed equo è proprio la sensibilità alla distinzione tra la persona e le sue risorse e attività: sistemi professionali di valutazione sono sistemi di giudizio sulle risorse e i servizi, non sulle persone. La capacità di “scindere le persone dai problemi” è un elemento essenziale in tutti i processi sociali efficaci nell’azione economica, ma nella valutazione forse più che in ogni altro.
Le posizioni o mansioni (job) sono insiemi di diritti di azione all’interno di un sistema. In quanto   tali,
esse possono essere assunte da attori. La valutazione della posizione intende valorizzare in modo comparato i contributi relativi di questi aggregati di responsabilità e attività, indipendentemente dalle competenze e dalla prestazione degli specifici attori che possono esserne titolari.
Il primo problema da risolvere per valutare le posizioni è disporre di descrizioni accurate e comparabili di quali siano le posizioni o mansioni in un citato sistema. Può sembrare semplice ma l’attività di job description può richiedere un’opera di ricerca organizzativa estesa e sistematica, basata su un repertorio di tecniche d’indagine (interviste, questionari e osservazioni sul campo) alquanto specialistiche.
Il secondo problema da risolvere è l’individuazione dei parametri di valutazione. Teoricamente, la domanda pertinente potrebbe essere: quali aspetti della mansione sono maggiormente correlati al valore creato da quelle attività, indipendentemente dal particolare titolare della posizione? Come già osservato, sono importanti e vanno distinte almeno due componenti principali: le competenze e le capacità “richieste” da un lato, e le responsabilità e i rischi implicati dall’altro.
I metodi più diffusi di job evaluation si basano su correlazioni empiriche tra la presenza di certe dimensioni o fattori e i livelli retributivi generalmente osservati. Su questa base si costruiscono “scale” di punteggi per cui una posizione otterrà maggior punteggio (è stimata di maggior valore) quanto maggiormente tali fattori o parametri sono in essa presenti. Il metodo che ha avuto maggior diffusione e influenza (“metodo Hay” dalla società di consulenza che lo ha messo a punto), per esempio ha individuato nelle competenze richieste per ricoprire la posizione, nell’intensità delle attività di soluzione di problemi per assolvere i compiti, e nel livello di responsabilità i tre fattori o parametri principali. Essi sono a loro volta operazionalizzati in scale di misura che intendono rilevare variazioni di valore in modo sensibile, su campi di variazione molto ampi (dell’ordine delle centinaia di “punti”).
Dopo un periodo di notevole diffusione, questo approccio è stato soggetto a varie critiche. Al di là del particolare contenuto dei parametri, facilmente emendabile con l’aggiunta di ulteriori parametri, vi sono limiti più di fondo. Per esempio, il sistema di valori standard da assegnare a contenuti tipo delle posizioni, espresso dalle scale di punteggi, trascura le differenze di valore che attività simili o addirittura identiche possono avere in diversi sistemi (dovute alla specificità delle mansioni al sistema). In  secondo  luogo, qualora la costruzione delle scale di valorizzazione si basi sull’analisi statistica di correlazione tra i vari tipi di posizioni e le retribuzioni mediamente offerte sul mercato, si crea un problema di circolarità dovuta all’utilizzazione come input dei livelli retributivi osservati, mentre i livelli retributivi sono ciò che il metodo doveva consentire di progettare. Tuttavia, la valutazione delle posizioni basata sul valore loro   riconosciuto
mediamente sul mercato può essere comunque utile per stabilire un limite inferiore alla retribuzione per una posizione genericamente definita. Infatti esso costituisce un buon indicatore di ciò che un attore con i requisiti necessari per quella posizione potrebbe ottenere in un analogo impiego alternativo, senza considerazione delle eventuali quasi-rendite e dell’eventuale criticità particolare di quei contributi per il particolare sistema che effettua la valutazione. Infatti, in pratica, si osserva che salari e stipendi sono in parte determinati sulla base di una valutazione delle posizioni e del loro valore medio e in parte negoziate  in base all’entità particolare del surplus creato da particolari contributi in specifici contesti.
La valutazione delle risorse umane come insiemi di competenze potrebbe costituire un’alternativa
alla valutazione delle posizioni, applicabile in sistemi di attività dinamiche o complesse, in cui il contenuto delle mansioni dipende in larga misura dalle competenze degli attori piuttosto che viceversa.
Tuttavia, le tecniche più note e diffuse offrono un approccio “standardizzato” a tale problema, applicabile se le competenze sono codificabili e sono comuni a molte posizioni. Infatti, obiettivo centrale dell’approccio di management delle risorse umane all’analisi delle competenze è scoprire a quali mix di competenze si possano collegare performance superiori in una data attività. I metodi di analisi delle competenze prevedono l’uso di tecniche di osservazione e di intervista strutturata che permettano di rilevare quali conoscenze, comportamenti e procedure d’azione abbiano utilizzato gli operatori che hanno raggiunto i migliori risultati. Questi elementi sono utilizzati per costruire un modello di competenza che possa poi essere replicato e diffuso e rispetto al quale misurare il livello di competenza raggiunto dal titolare di una posizione, cui commisurare anche componenti della retribuzione. In questa versione, il processo di apprendimento ipotizzato è di tipo imitativo, adatto ad essere applicato ad un insieme abbastanza vasto di attività simili e stabili.
Con la consapevolezza che quello descritto non è l’unico modello di apprendimento possibile, si può sviluppare una versione di apprendimento e diffusione di pratiche superiori più adatta ad  attività  complesse e differenziate. Anziché semplicemente “clonare” modelli di competenze, si possono costruire modelli causali dei risultati ottenuti, precisando le condizioni in cui certe competenze e azioni producono certi effetti e tenendo conto dei fattori esogeni e casuali. In questo modo si possono costruire modelli causali generatori di nuovi profili di competenze anziché trasferire tout court modelli già osservati.
Tale approccio “generativo” alla valutazione delle competenze può comportare, se applicato all’interno di imprese, l’attivazione di mercati interni delle competenze e dei loro possibili impieghi, anziché interventi di diffusione pianificata delle stesse.
La valutazione del potenziale è volta ad apprezzare le capacità di sviluppo e di prestazione futura
delle risorse umane in attività nuove rispetto agli impieghi passati. Essa costituisce un input informativo fondamentale per la progettazione dei sistemi di selezione e di carriera.
La difficoltà di effettuare valutazioni del potenziale affidabili e precise aumenta in funzione del grado di complessità e di specificità del lavoro. Infatti, se i contenuti e le caratteristiche dei compiti che si dovranno svolgere sono note a priori e la relazione causale tra competenze e risultati è chiara, è possibile utilizzare predittori abbastanza validi ed affidabili di performance futura. Per esempio, i sistemi di ammissione all’università sono costruiti sulla base di ipotesi testate su grandi numeri di soggetti nel tempo sul tipo di capacità che producono risultati superiori in dati programmi di studio; le capacità rilevanti sono misurabili direttamente attraverso test psico-attitudinali e/o segnalate dalle performance passate in attività analoghe. Pertanto la valutazione del potenziale per accedere ad attività abbastanza note e non troppo dissimili da attività passate svolte dai soggetti valutati potrà avvalersi efficacemente di indicatori oggettivi come il possesso di titoli e qualifiche, le misure della performance passata, i test di misurazione delle capacità. Ne sono esempi i processi di prima assunzione nelle banche, o i piani di promozione all’interno di una stessa area funzionale di una stessa impresa.
Ci si deve invece aspettare che la valutazione del potenziale debba divenire più soggettiva e basata  su complesse “certificazioni” e giudizi quando il lavoro è intrinsecamente complesso e difficile, le competenze sono poco misurabili e le attività che si dovranno svolgere sono diverse dal passato, nuove, specifiche alla nuova situazione di lavoro (nuova impresa, nuovo gruppo di lavoro, nuovi mercati). In queste circostanze, acquisteranno maggior importanza come modalità di valutazione del potenziale i giudizi informati sulle competenze e le altre risorse delle persone. Essi sono in genere effettuati sulla base dell’osservazione diretta di comportamenti (in situazioni reali o “simulate”) o di interviste e colloqui diretti (in profondità) da parte di figure che possano a vario titolo essere qualificate come “esperte”: collaboratori, supervisori o partner passati, esperti dell’analisi e della certificazione di particolari classi di competenze.
Il passaggio dalla valutazione alla ricompensa implica l’aggiunta di un livello di analisi pertinente agli attori e alle loro preferenze e non solo alle loro risorse e prestazioni. Sarebbe inefficiente prospettare un consistente aumento retributivo ad un attore che assegna ad esso scarsa utilità, mentre ambirebbe a una diversa gestione del tempo di lavoro o ad attività di tipo diverso, a parità di risultati della valutazione della posizione  e  della  prestazione.  Le  persone  possono  attribuire  un  valore  di  ricompensa  sia  a      risorse
monetarie o monetizzabili, sia a fattori non monetari come le possibilità di sviluppo professionale e di carriera e i contenuti del lavoro.
Secondo una primaria distinzione tra sistemi di ricompensa, la ricompensa monetaria può essere
commisurata alla mansione e al tempo di lavoro (in tal caso è chiamata anche retribuzione “fissa”), e/o contingente alla prestazione (e definita anche retribuzione “variabile” o “incentivo”). L’efficienza e l’efficacia di uno schema di retribuzione legata alla posizione riposa su più premesse, le più importanti delle quali sono: che la parte che conferisce lavoro sia avversa al rischio; e che la parte che retribuisce il lavoro possa osservare i comportamenti (o inferirli con certezza dai risultati) e conosca quali sono le azioni migliori da intraprendere. In altri termini, una ricompensa legata alla posizione e al tempo di lavoro si giustifica come parte di una relazione di autorità basata sullo scambio o di una relazione di agenzia in condizioni di osservabilità di comportamenti, ovvero della costituzione di una relazione di “lavoro dipendente” classica.
La spiegazione o la determinazione dei livelli appropriati delle retribuzioni di posizione dovrebbe tener conto di almeno una delle seguenti variabili. Il livello della retribuzione fissa dovrebbe essere almeno tale da trattenere il contributo (motivare e partecipare) e da compensare il tipo e livello desiderato di comportamento (motivare a produrre). Si prenda in considerazione la situazione più generale in cui il lavoratore dipendente non sia indifferente rispetto alle azioni alternative ma le ordini secondo preferenza.
Il livellò retributivo efficiente sarà quello che soddisfa le seguenti relazioni:
•  l’utilità della ricompensa meno la disutilità dello sforzo per l’agente è una quantità non negativa;
•  tale utilità netta è uguale o superiore all’utilità netta ottenibile dall’agente nel miglior impiego alternativo delle proprie risorse;
•  soddisfatti tali obiettivi dell’agente, il livello migliore di sforzo o l’azione ottimale da richiedere da parte del principale è quella per cui la differenza tra guadagni attesi e costo richiesto per ottenerli è più ampia.
E probabile che nella maggior parte delle situazioni questo tipo di calcolo sia affrontato in modo molto più euristico, per la difficoltà delle valutazioni e previsioni richieste. Per esempio, è assai improbabile che il lavoratore sappia comparare la disutilità dei propri sforzi con l’utilità delle ricompense, e in generale sappia fare un bilancio contributi - incentivi, poiché essi sono due grandezze fortemente disomogenee e la disutilità dei contributi è difficilmente monetizzabile. È empiricamente noto infatti che le persone giudicano le ricompense monetarie offerte in base alla comparazione con le ricompense ricevute da lavoratori simili  in attività simili e non al proprio “costo dello sforzo”; cioè più in base a un criterio di equità che non in base a un criterio di efficienza.
Inoltre, i criteri di cui sopra stabilirebbero gli stipendi vicino al livello delle alternative d’impiego disponibili sul mercato, o comunque non forniscono elementi per capire se una data mansione in una data impresa non debba ricevere ricompense superiori a tale livello minimo dato da offerte alternative.  Pertanto, ai criteri sopra esposti, andrebbe aggiunta un’analisi delle quasi-rendite generate.
Nel contesto delle relazioni di lavoro, si definisce rendita “la porzione di ricompensa che il lavoratore riceve in eccesso rispetto al minimo necessario per essere indotto ad accettare un particolare posto di lavoro”. Si definisce invece quasi-rendita “la porzione di ricompensa che il lavoratore riceve in eccesso rispetto al minimo necessario per indurlo a non lasciare un particolare posto di lavoro”. Le rendite e le quasi-rendite derivano quindi in ogni caso dalla presenza di alcuni elementi di monopolio o di difficile sostituibilità delle risorse umane.
Come si è già osservato, alcune fonti di monopolio sono il possesso di risorse molto scarse come, nel caso del lavoro, di talenti rari. Per esempio, le ricompense di grandi cantanti lirici includono forti compo- nenti di rendita derivanti dal possesso di risorse utili (creatrici di valore realizzabile sul mercato) e scarse. Una diversa fonte di monopolio è la specificità. Un lavoratore con competenze specifiche rispetto ad un’impresa può godere di una rendita effettiva che può includere il maggior valore apportato a quell’impresa rispetto a lavoratori alternativi, meno i costi di ricerca e cambiamento del posto di lavoro. Pertanto ci si può attendere che il livello retributivo di una mansione in un dato sistema includa parte delle quasi-rendite che quelle posizioni contribuiscono a creare.
Ci si può a questo punto chiedere perché la negoziazione dei salari e degli stipendi, spesso assistita  dai sindacati sia un fenomeno così diffuso, e non limitato al lavoro specifico all’impresa o scarsamente controllabile. Alcune delle ragioni di efficienza organizzativa sono le seguenti.
Se vi sono significative asimmetrie informative (per esempio, il valore degli impieghi alternativi per il lavoratore è noto al datore di lavoro, ma il valore dei lavoratori alternativi per l’impresa non è chiaro al lavoratore) o asimmetrie nella sostituibilità delle risorse (il conferente lavoro è più sostituibile del datore) allora, in luogo di forme di integrazione verticale non praticabili nel caso delle risorse umane, forme di integrazione orizzontale tra i conferenti lavoro come l’istituzione di sindacati è razionale come modalità di organizzazione capace di ridurre il potenziale di opportunismo delle controparti e di gestire sistemi e procedure eque.
La negoziazione centralizzata dei contratti di lavoro ha costi di transazione molto elevati, tanto più  alti quanto più alto è il numero dei contratti -negoziati da un solo agente centrale. Pertanto l’unificazione delle richieste e l’interazione con una sola controparte rende il processo molto più efficiente specialmente se le posizioni sono simili e standardizzate.
In negoziazioni potenzialmente molto conflittuali come quelle tra lavoratori e datori di lavoro, la longevità delle relazioni con una stessa controparte facilita gli accordi anche se i singoli lavoratori non avessero relazioni di lunga durata con l’impresa, i sindacati dei lavoratori possono averla.

Il valore assegnato ad un accordo, specialmente nel caso dei contratti di lavoro, e la sua accettabilità non dipende solo dal punto di accordo (efficienza ed equità sostantiva) ma anche dall’equità procedurale attraverso cui è stato raggiunto. La rappresentanza sindacale degli interessi è una delle principali voice- giving procedures nelle imprese.
Gli “incentivi” e la “retribuzione variabile” sono componenti della retribuzione determinate da regole
di corrispondenza tra prestazione e compenso. Essi consentono di compensare ed incentivare adeguata- mente i contributi che abbiano le seguenti caratteristiche: i lavoratori hanno discrezionalità sulle azioni; tali azioni non possono essere facilmente osservate e valutate; i risultati delle azioni di lavoro sono misurabili e attribuibili causalmente alle azioni con una discreta probabilità; l’erogazione dei servizi di lavoro richiede tempo, non si esaurisce in una singola transazione. Tali fattori rendono poco efficaci sia sistemi di regolazione basati sulla ricompensa “fissa” e l’autorità, sia degli scambi istantanei di servizi regolati solo dal prezzo.
Il problema di fondo della retribuzione in funzione dei risultati è che essa trasferisce il rischio da un attore tendenzialmente più capace di sopportarlo (il principale o la proprietà d’impresa che ha investimenti più diversificati e maggiore ricchezza totale) all’agente che, per ragioni opposte, si suppone sia tipicamente avverso al rischio. Sarà dunque necessario un trade-off tra maggiori incentivi a produrre e maggiori costi dovuti a indennizzi. Nello schema di base che segue per effettuare questa valutazione, si suppone che gli agenti valutino le possibili azioni da compiere in funzione dei loro costi e benefici, e che i costi siano costituiti dall’erogazione di “sforzo” lavorativo, mentre i benefici siano rappresentati dalla ricompensa monetaria. L’intensità ottimale degli incentivi variabili legati ai risultati, o trasferimenti ottimali del rischio, dovrebbe quindi essere una funzione delle seguenti variabili:
•  il valore prodotto da sforzi addizionali;
•  l’incidenza         di variabili    esogene    (non      dipendenti dall’agente) sui risultati finali;
•  il grado di avversione al rischio dell’agente;
•  il tasso a cui cresce il costo marginale dello sforzo per l’agente.
La struttura fondamentale dell’argomentazione è riassumibile nel trade-off tra le due funzioni rappresentate  in
Figura 7 - Intensità ottimale degli incentivi
figura 7. Il beneficio marginale degli sforzi di lavoro, al netto dei costi di tali sforzi, è una funzione che decresce al crescere dell’incentivo (poiché i costi marginali dell’intensità di lavoro crescono mentre gli effetti marginali sui risultati decrescono). Il costo marginale dell’incentivo è invece una funzione che cresce al crescere dell’entità del trasferimento di rischio al lavoratore, tanto più quanto più il lavoratore è avverso al rischio e quanto maggiore è la varianza dei risultati dovuti a fattori esogeni.
Questo modello di base può essere esteso e qualificato sotto vari aspetti. In primo luogo, sia la forma sia i contenuti delle utilità degli agenti possono essere differenti. Molti tipi di lavoratori, e spesso i manager, non percepiscono il lavoro come costo (o solo come costo), derivano vari benefici intrinseci dall’attività lavorativa, e includono tra i benefici più ambiti ricompense di tipo non monetario. Questo può rendere il livello ottimale di incentivo più basso.
Inoltre, con riferimento al processo decisionale, un simile approccio alla progettazione della ricompensa variabile richiede molte informazioni e capacità previsive e calcolative. Nella prassi aziendale sono pertanto diffusi approcci più euristici, basati su livelli di aspirazione e target di performance da raggiungere, specialmente per attività complesse e poco strutturate come quelle direttive e ad alta discrezionalità.
Alcune principali forme di retribuzione variabile riscontrate nella pratica e le relative condizioni applicative sono brevemente illustrate qui di seguito.
•  Forme di retribuzione variabile. Tra i sistemi applicati a livelli direttivi, quello più diffuso è generalmente definito Management by Objectives (MBO) La direzione per obiettivi è un sistema che parte dalla previsione di risultati da raggiungere e impiega tali obiettivi come criteri per valutare il livello di performance raggiunta dai diversi responsabili. Il sistema si basa su uno stretto collegamento tra il sistema di programmazione e controllo, il sistema di valutazione delle prestazioni e il sistema di incentivazione monetaria. Se gestito in modo partecipativo, è importante che la partecipazione riguardi non solo l’entità ma anche le formule di ricompensa variabile. Se la consultazione si limitasse al livello degli obiettivi da raggiungere i manager, godendo di informazioni esclusive sugli obiettivi di fatto raggiungibili, possono  avere incentivi a ridurre i target. Invece, il processo di definizione congiunta di obiettivi e regole di ricompensa può esser visto come il risultato di una proposta da parte dell’impresa di un “menù di contratti” e di una scelta da parte del manager del tipo di contratto sotto il quale sa di poter conseguire i migliori risultati: se sa di poter raggiungere obiettivi elevati sceglierà il contratto più rischioso, viceversa, quello più conservativo.
Una forma di retribuzione variabile tradizionalmente utilizzata per posizioni esecutive è il cottimo. Il cottimo stabilisce ricompense in funzione delle unità prodotte e incentiva il contributo individuale dell’operaio nella saturazione dei tempi di lavoro e nell’utilizzo efficiente d’elle risorse lasciati alla sua discrezionalità. Questa forma di incentivazione ha trovato ampia applicazione nelle imprese nello   sviluppo
industriale di tipo taylorista, come incentivo ad adottare i modelli di comportamento più veloci e produttivi, studiati e misurati per ogni singolo compito, in sistemi tecnici non altamente automatizzati, dove i ritmi e le sequenze erano determinate in buona parte dagli operatori. La crisi di questa torma di incentivazione è riconducibile in parte alla crisi più generale di quelle forme di organizzazione del lavoro, in parte a circoli viziosi interni al sistema. Questi ultimi sono derivati dall’incentivo per il datore di lavoro, ad ogni  incremento di produttività (risparmio di tempi e maggiore quantità prodotta), ad innalzare il livello degli standard di produzione. Il miglioramento nella produttività, ottenuto dall’incentivo del cottimo, diventa quindi il nuovo standard, così da generare un’escalation degli sforzi necessari per ottenere i premi. L’incorporazione del tempo libero attraverso la revisione continua degli standard, attenua l’efficacia dell’incentivazione e disincentiva il contributo dei lavoratori alla ricerca delle micro-innovazioni che  possono migliorare la produttività.
Una forma di retribuzione variabile più complessa e adeguata a tali circostanze è il gain sharing, che è una forma di retribuzione variabile di gruppo e di partecipazione ai guadagni che si originano dalla prestazione di un gruppo o unità.
Le due forme di retribuzione variabile appena analizzate, il cottimo e il gain sharing hanno come base di riferimento i risultati individuali e di gruppo. Sono anche fattibili e in crescente diffusione forme di partecipazione agli utili (profit sharing), cioè forme di retribuzione variabile legata ai risultati economici di un’impresa nel suo insieme. Vi sono diverse ragioni e condizioni di efficienza del profit sharing come forma collettiva di partecipazione agli utili, esse portano a ipotizzare che l’uso del profit sharing è tanto più indicato quanto più:
•  il gruppo è di ridotte dimensioni, poiché questo riduce gli incentivi al free-riding e rende l’entità dei premi pro capite più incisiva;
•  le responsabilità e l’incidenza delle azioni sui risultati sono rilevanti;
•  la partecipazione riguarda i profitti e non anche le perdite, che potrebbero essere non assorbibili dai soggetti e portare a comportamenti troppo avversi al rischio;
•  è possibile accordarsi su procedure eque e trasparenti di definizione e misurazione dei “profitti” da distribuire.
L’insieme  delle   componenti   delle   retribuzioni   legate   alle   posizioni   e  alle   prestazioni   si  può
rappresentare con funzioni del tipo illustrato in figura 8, anche chiamate curve retributive, che ne sintetizzano l’andamento in un sistema di ruoli di lavoro.
Se sull’asse delle ascisse sono riportati i punteggi di valutazione delle posizioni, l’incidenza relativa delle retribuzioni dipendenti dalla prestazione (o da altri fattori non di posizione) è rappresentata dalla dispersione delle retribuzioni attorno alla curva. L’ampiezza delle variazioni può essere diversa per posizioni di diverso valore - per esempio, può aumentare con esso - o all’interno di diversi sottosistemi -per esempio, può essere minore nelle unità di staff rispetto a quelle di line; con ciò sintetizzando un altro elemento di politica retributiva.
Le diverse forme assunte dalla curva, soprattutto se poste in relazione agli andamenti  di curve di “rendimento” o valore del contributo fornito, e in relazione a quelle praticate in imprese o sistemi comparabili, danno altre informazioni sulla politica retributiva seguita e consentono di correggerla. Per esempio, una curva del tipo b in figura esprime una politica di aumenti retributivi che rispondono lentamente agli aumenti di competenza e responsabilità richiesti dai contenuti della posizione. Questa politica provoca un “effetto di ostaggio”,    poiché
le risorse umane devono anticipare investimenti in competenze per accedere alle ricompense in un  secondo tempo. Pertanto, questa impostazione è equa ed efficiente se il sistema per parte sua investe nella formazione di tali competenze e se le parti sono adeguatamente protette dallo scioglimento del contratto  di lavoro.
Al contrario, curve retributive che rispondono più elasticamente alla crescita di esperienza e di responsabilità, sono compatibili con sistemi a maggior mobilità. Inoltre, le curve retributive di singole imprese possono essere util- mente confrontate con le curve medie di settore o con quelle di imprese di riferimento, soprattutto per diagnosticare le modifiche eventualmente necessarie per trattenere le risorse umane  ai diversi livelli.
I processi di mobilità e sviluppo delle risorse umane possono essere utilmente visti come processi di incontro e co-evoluzione tra persone e impieghi o mansioni (job). Le configurazioni efficaci, efficienti ed eque di questi processi, e dei sistemi che li governano, dipendono dalle caratteristiche delle risorse e degli impieghi. Due caratteristiche sono particolarmente importanti: la specificità delle risorse rispetto agli impieghi, e la complessità informativa delle mansioni. Tutti i sistemi che afferiscono alla mobilità (ricerca e selezione, formazione, carriera, uscita) sono qui considerati congiuntamente nelle loro interrelazioni e nelle loro dimensioni sia interne sia esterne alle singole imprese.
La ricerca di personale è un processo decisionale dai confini in linea di principio indefiniti nel numero
di alternative. Inoltre le conseguenze cercate e i parametri di valutazione delle alternative riguardano prestazioni future in combinazioni non ancora sperimentate fra risorse e impieghi. Pertanto, è ragionevole attendersi che essi siano governati prevalentemente da processi decisionali euristici, in cui la sperimentazione e i tentativi/errori non siano una patologia ma permettano di scoprire combinazioni efficaci. D’altra parte, proprio per il loro carattere euristico, i processi di ricerca e selezione delle risorse umane possono essere molto migliorati da tecniche atte a limitare le distorsioni tipiche delle valutazioni sotto incertezza, da metodi che riducano la complessità della ricerca e il grado di incertezza. Tuttavia, il grado di strutturazione del problema varia sensibilmente a seconda del grado di specificità e di complessità delle  competenze e  delle attività.
•  Ricerca. Un primo dilemma che si pone nell’impostare un processo di ricerca di risorse è dove indirizzare l’attenzione, dove è più probabile trovare alternative di successo a minor costo. Gli economisti dell’organizzazione a tale riguardo hanno illustrato l’importanza della distinzione tra processi di ricerca e riallocazione delle risorse umane svolti all’interno dei confini delle imprese piuttosto che attraverso il mercato esterno del lavoro. Un mercato interno del lavoro si può definire come un sistema di impieghi  finito e definito ad accesso riservato ai membri del sistema.
Il termine mercato interno evoca l’idea che i processi di riallocazione delle risorse che avvengono in un sistema chiuso, possano tuttavia essere regolati da meccanismi di tipo mercatistico. Il mercato interno del lavoro è un sistema di competizione tra candidati interni per le posizioni offerte nel sistema, regolato da un meccanismo di prezzi negoziati solo debolmente collegato al sistema esterno. Tra le ragioni per cui sorgono questi mercati del lavoro protetti, si suppone che la seguente sia fondamentale: se si ricercano risorse specifiche agli impieghi, allora la ricerca all’interno sarà più efficace ed efficiente della ricerca all’esterno (a parità di altre condizioni). Questa proposizione è basata sull’ipotesi che competenze di lavoro
specifiche agli impieghi che una particolare impresa può farne non si possano che formare all’interno dell’impresa stessa attraverso l’esperienza diretta e per affiancamento delle peculiarità dei contenuti e  degli strumenti di lavoro, nonché delle relazioni sociali e delle consuetudini, che caratterizzano l’impresa. Si suppone altresì che sia più facile valutare i candidati interni, per la disponibilità di informazioni dirette sulle prestazioni passate, specialmente se esse non sono facilmente codificabili e quantificabili. Pertanto, anche la complessità del lavoro è un fattore di formazione di mercati interni. Sia la specificità dei contributi di lavoro a diversi sotto-sistemi aziendali, sia il diverso grado di complessità del lavoro in essi, contribuiscono a spiegare perché in realtà spesso emergano più mercati interni del lavoro nello stesso sistema, governati da meccanismi parzialmente diversi e con limitata mobilità trasversale.
Se l’uso del mercato esterno del lavoro è in generale più costoso di quello del mercato interno per contributi specifici e complessi, il secondo non è esente da costi, che in alcune circostanze possono anche tornare a superare quelli del primo. Tra i costi della ricerca e selezione interna sono di solito sottolineati la perdita dei vantaggi informativi all’aumentare del numero delle relazioni di lavoro dipendente; il costo dei servizi di gestione interna del personale; la scarsa flessibilità nel dimensionamento dell’organico totale; le barriere interne alla flessibilità del personale nelle nuove e diverse funzioni, l’escalation delle retribuzioni.
Un costo meno considerato ma spesso anche più importante del ricorso esclusivo о prevalente al mercato interno è la possibile diminuzione delle fonti di innovazione, la maggior inerzia organizzativa e il rischio di obsolescenza delle competenze, non importa quanto specifiche; ciò consegue dalla stabilità di lungo periodo delle persone, dall’omogeneizzazione e dalla routinizzazione della cultura organizzativa e del know-how, e dalla mancanza di varietà negli input conoscitivi.
•  Selezione. Nel processo decisionale di scelta reciproca tra persone e impieghi, mentre la ricerca rappresenta il momento di aumento della varietà degli input, la selezione rappresenta il momento di eliminazione di ipotesi che porta ad individuare quelle accettabili. Questo processo di valutazione è caratterizzato da notevole incertezza da entrambe le parti. Nella maggior parte dei casi il datore di lavoro al momento della selezione, non ha informazioni certe sulle capacità produttive e professionali del potenziale candidato, nemmeno nel caso in cui stia utilizzando il mercato interno del lavoro. D’altra parte neppure il candidato possiede tutte le informazioni sulle attività da svolgere. Entrambe le parti corrono un rischio di selezione avversa. Entrambe confrontano il trade-off informativo tra investire ex ante nella ricerca  e l’analisi di informazioni oppure affidarsi all’apprendimento ex post in base all’esperienza.
Gli strumenti strutturati di valutazione della prestazione e del potenziale servono a ridurre parzialmente l’incertezza dovuta alla mancanza di informazioni ex ante. Nel caso di lavoro complesso e specifico, qualora manchino predittori affidabili di performance su singole attività, sarebbe meglio focalizzare la valutazione ex ante sulle competenze e la professionalità, e dar peso, nella selezione per
specifici incarichi e impieghi, ai processi di valutazione ex post e al mercato interno del lavoro, come meccanismo di apprendimento di quali siano gli incontri di maggior valore tra risorse e impieghi o attività.
Indipendentemente dal tipo di lavoro considerato, vi sono molti motivi per cui i sistemi di ricerca e selezione dovrebbero essere strutturati e trasparenti. Infatti, è probabile che colloqui di selezione condotti in modo intuitivo e discorsivo siano soggetti a forti e sistematiche distorsioni cognitive; se così è, la codificazione del processo degli esperti stessi in un sistema diagnostico replicabile e depersonalizzato dovrebbe migliorare la qualità decisionale.
La comunicazione e l’applicazione trasparente dei criteri di accesso alla valutazione e alla selezione è un principio di equità procedurale apprezzato dai candidati e per alcuni aspetti protetto dalle leggi sulle eguali opportunità. Un processo decisionale basato su metodi di ricerca e raccolta di dati di cui si possa controllare la validità e l’affidabilità, fornisce conoscenze migliori e più comparabili, e permette economie  di scala se le attività di selezione sono frequenti.
Inoltre, la dichiarazione chiara e precisa da parte dell’impresa delle regole e delle procedure amministrative che regolano il mercato interno del lavoro attiva un importante meccanismo di autoselezione dei candidati. Per esempio, se si comunica in modo chiaro che lo spirito di un contratto di lavoro include la disponibilità a cambiare luogo di residenza, ad accettare ricompense legate ai risultati, a studiare per acquisire nuove conoscenze, gli elementi informativi contenuti in tale proposta dovrebbero attrarre candidati con risorse e preferenze congruenti anziché divergenti.
La formazione ha una rilevanza fondamentale nella generazione, sviluppo e mantenimento delle
competenze individuali e collettive; è, per l’impresa, possibile fonte di competenze distintive e di vantaggio competitivo ed è, per le persone, una possibile forma di ricompensa sotto forma di risorse conoscitive che rimarranno in suo possesso.
Per esempio, utilizzando la distinzione tra specificità rispetto agli usi (attività) o rispetto  all’utilizzatore (ad esempio una particolare impresa), si può notare che le imprese sono interessate ad investire in formazione specifica all’impresa e non in capacità indifferenziate che possono essere fornite da istituzioni di formazione esterne, a beneficio di tutte le imprese o di tutte le imprese di un settore. Tuttavia, le imprese sono spesso - e sempre più spesso - interessate ad investire nella formazione di know-how polivalente e non specifico rispetto agli usi, in conoscenze di base che possono generare economie di scope e supportare processi di apprendimento e diversificazione.
Inoltre, analizzando il tipo di sistema a cui le competenze sono specifiche si può individuare il livello a cui gli interventi di formazione sono più appropriati. Per esempio, se le competenze e le professionalità
sono specifiche a insiemi di imprese connesse (quali settori, nicchie, distretti) esse possono formarsi più  efficacemente attraverso la circolazione delle persone e gli scambi di conoscenze tra più imprese, per esempio con il supporto di strutture associative.
Infine, la complessità e l’innovatività delle conoscenze e competenze che devono essere trasferite o generate in un processo di formazione, in genere richiede contesti di apprendimento caratterizzati da va- rietà negli input; realizzabili attraverso l’esposizione a esperienze ditteronziate e a nuove idee. Per  esempio, la recente diffusione di esperienze di learning by networking nelle multinazionali e nelle imprese professionali risponde all’esigenza di attivare processi di apprendimento non solo imitativi e basati sul trasferimento di conoscenze già esistenti, ma anche generativi e basati sull’integrazione tra conoscenze diverse e la soluzione congiunta di problemi nuovi.
Gli strumenti più diffusi di formazione (formazione d’aula, formazione strutturata a distanza) e di knowledge management sono efficaci per conoscenze strutturabili e con molti possibili utilizzatori. Strumenti basati su una comunicazione diretta, reciproca, poco codificata in schemi precostituiti (forum reali o virtuali, squadre di lavoro, joint venture tra persone con competenze complementari) dovrebbero essere superiori nel governo dello scambio e della condivisione di conoscenze complesse, tacite, specifiche.
Quanto ai contenuti della formazione, e ai processi di progettazione di specifici interventi, qualche forma di “analisi dei bisogni” è entrata a far parte abbastanza presto del repertorio delle tecniche di management in questo campo. Dal lato del sistema, l’analisi dei fabbisogni si aggancia all’evoluzione attesa e desiderata delle attività e delle competenze. Importante a questo riguardo, come per la selezione, è capire in riferimento a quale sistema di azione si sta formando - una mansione, una carriera, un’impresa, una professione. Dal lato dell’attore, l’analisi delle aspettative e delle preferenze dei destinatari si è rivelata cruciale. La formazione implica infatti una disponibilità alla ricezione della comunicazione e al cambiamento della struttura delle conoscenze, delle capacità o perfino dei valori, non presente nell’individuo adulto  senza convinzione, interesse e accettazione.
I sistemi di carriera regolano il cambiamento orizzontale e verticale di posizione, permettendo di
collegare gli aumenti retributivi alle promozioni a livelli di competenza e responsabilità superiori. Se considerati nella dimensione interna alle imprese, tali sistemi contribuiscono alla longevizzazione dei rapporto di lavoro, attraverso la richiesta di contributi che saranno ricompensati in un tempo differito. Le prospettive di carriera introducono quindi un elemento seriale nell’equità percepita nel rapporto tra contributi e incentivi, un equilibrio da ricercarsi nel lungo termine  e  non per  ogni singola    transazione.  Le
carriere, come meccanismo del mercato interno del lavoro, sono solo parzialmente isolate dalla competizione esterna per le posizioni di lavoro.
I lavoratori che realizzano prestazioni particolarmente elevate in una attività possono rendersi visibili e attraenti per datori di lavoro alternativi; i quali, per attrarli, dovranno offrire ricompense superiori a quelle correntemente ricevute. Le offerte esterne creano incentivi per il datore di lavoro corrente ad utilizzare ricompense variabili in risposta alla prestazione elevata o a promuovere il lavoratore. La promozione è spesso un’alternativa attraente rispetto alla retribuzione variabile. Pertanto, la ricompensa tramite promozione ha un contenuto di apprendimento organizzativo che la ricompensa monetaria non possiede.
I criteri in base ai quali può essere governata la mobilità non si riducono alla sola prestazione. La pratica di affiancare altri criteri, soprattutto l’anzianità e la valutazione del potenziale può essere spiegata  in base a proprietà complementari di efficienza ed equità possedute da tali criteri alternativi.
Le promozioni interne si possono basare su criteri di anzianità (seniority system), aziendale e/o professionale. Tale criterio ha una certa relazione, per quanto non deterministica, con la crescita di esperienza e di competenza. Come forma di ricompensa differita e basata sul tempo, ha la proprietà di disincentivare il turnover, premiando la stabilità della relazione di lavoro. Per il suo carattere oggettivo e non discrezionale, è applicabile in modo equo ed efficiente. Infine, e in sintesi, il seniority system standardizza o routinizza il mercato interno del lavoro, sostituendo decisioni automatiche a decisioni caso per caso. Per questo suo carattere automatico, è un sistema che permette di ridurre i costi di influenza; le persone sono incentivate a dedicare tempo ed eventualmente a manipolare informazioni allo scopo di influenzare le decisioni dei valutatori, laddove le promozioni siano effettuate secondo parametri più soggettivi.
La promozione in base al merito, cioè, in seguito a ripetute valutazioni positive della prestazione, può inoltre generare altri tipi di distorsioni, che possono essere ridotte grazie all’uso di altri meccanismi.
Può accadere che la persona migliore nelle prestazioni al proprio livello non sia il miglior candidato per la posizione a livello più elevato. In altri termini, non sempre il miglior operaio può essere il miglior capo stabilimento, o il miglior product manager può essere il miglior direttore marketing. La promozione in base alla prestazione nel ruolo precedentemente ricoperto può far avverare il cosiddetto “principio di Peter”, secondo il quale le persone sono promosse fino al loro livello di incompetenza, e per la quale molte  imprese perdono o sottoutilizzano persone con talenti e competenze rilevanti.
Tra i possibili correttivi, figurano il disegno di sentieri di carriera multipli e la valutazione del potenziale.
In primo luogo, si possono moltiplicare i possibili sentieri di carriera, anche all’interno di una stessa impresa. Per esempio si usa oggi distinguere tra carriere di tipo professionale (per esempio, posizioni con
responsabilità di ricerca, di docenza, di diagnosi e intervento medico) e di tipo manageriale o amministrativo (per esempio, controllo di progetti, vendita di interventi, controllo di gestione). Tra i vantaggi dello sdoppiamento (dual ladder career) o moltiplicazione dei sentieri di carriera, vi sono la capacità di favorire sinergie tra risorse umane e compiti (per esempio evitando che persone con forti competenze tecnico-professionali come ricercatori e scienziati, che preferiscano continuare ad investire professionalmente su queste competenze, debbano ad un certo punto della loro vita professionale accorpare competenze di gestione del personale, pianificazione, organizzazione, ecc., per poter fare carriera).
In secondo luogo, la carriera basata sul merito può e dovrebbe essere alimentata dalla valutazione  del potenziale: in questo caso si promuove la persona non solo o non tanto con la migliore prestazione al proprio livello, ma con la prestazione potenzialmente migliore al livello superiore.
Un parziale correttivo potrebbe esser costituito dall’istituzione di “tornei interni” su specifiche attività per accedere a date posizioni. Essi hanno il vantaggio di non richiedere una misurazione in valore assoluto delle performance, ma solo un posizionamento relativo. Anche se le “gare” e i “tornei” possono semplificare la valutazione, essi hanno tuttavia svantaggi in termini di clima, e di possibile demotivazione e sotto-utilizzazione di coloro che “perdono”, pur avendo avuto buone prestazioni.
Tra i correttivi che si possono prospettare, vi sono i seguenti. Un primo tipo di soluzione sono ricompense variabili contingenti solo a risultati positivi, anziché anche negativi. Le stock options offerte ai manager possono essere interpretate come occasioni di partecipazione a risultati variabili e positivi dell’azienda. Poiché si tratta di diritti di acquisto di azioni ad un prezzo prespecificato, i dirigenti possono:
a) adoperarsi per far crescere il valore delle azioni; b) acquistarle quando il loro valore è superiore a  quello pagato. In effetti, questo tipo di soluzione potrebbe essere avvalorata dalle ricerche cognitive e comportamentali che hanno mostrato come i manager percepiscano e definiscano il “rischio” come possibilità di perdite elevate e non come varianza generale (positiva e negativa) delle conseguenze (come si assume nella definizione economico-finanziaria.
Un secondo tipo di soluzione, più radicale, utile soprattutto nei casi in cui le difficoltà di misurazione delle prestazioni siano particolarmente severe, è quella di ridurre la distanza tra le figure e gli interessi del “principale” e degli “agenti” attraverso una condivisione maggiore dei diritti di proprietà. In questa configurazione dei sistemi di carriera, particolarmente diffusa nelle imprese di servizi professionali, quali gli studi associati di consulenza, le agenzie di pubblicità, le società di revisione, e nelle realtà in cui si lavora su progetti a lungo termine, “fare carriera” significa soprattutto “diventare partner”.
Dal punto di vista dell’efficienza, un processo di promozione basato su criteri poco chiari ed espliciti è estremamente  costoso  in  termini  di  costi  d’influenza  e  di  negoziazione.  La  qualità  delle  decisioni    di
promozione prese senza supporti strutturati è inoltre sicuramente minata da distorsioni di disponibilità, rappresentatività e ancoraggio.
D’altra parte, bisogna notare che, sia nelle decisioni di promozione sia di retribuzione, è probabile  che la struttura del gioco sia spesso molto competitiva; sia perché si tratta di dividere risorse scarse, sia perché le persone hanno una certa tendenza a sopravvalutare i propri contributi rispetto a quelli degli altri  e quindi a non ritenere equa la quota ricevuta anche laddove sia stata ben disegnata. Pertanto, è probabile che le regole e le procedure, per quanto chiare ed eque, non siano sufficienti a governare tali processi e che comunque sia inevitabile una componente di giudizio discrezionale da parte di autorità di tipo arbitrale.
Se questi sono i tratti dei principali processi di governo delle relazioni di lavoro, e in particolare della mobilità e dello sviluppo, ne segue che, anche nei casi in cui essi siano regolati all’interno di imprese, posso- no esserlo da meccanismi di “pianificazione” solo in misura limitata. I sistemi di “man power planning” hanno avuto notevole attenzione e una certa diffusione nei periodo di maggior sviluppo e successo di approcci “integrati”, “sistemici” e “strategici” al management nelle sue varie aree (il cui periodo d’oro è collocabile negli anni 70). In questo quadro, si cercava di prevedere soprattutto l’evoluzione dell’organico, i flussi in uscita e in entrata tra le diverse posizioni o famiglie professionali e attraverso i confini dell’impresa.
E possibile tuttavia individuare alcuni tipi di strumenti utili in un ambito più limitato: di  breve periodo, applicato a sistemi di dimensioni e complessità non elevate, per i quali si possano definire e quantificare i molteplici input informativi richiesti. Infatti, un sistema di pianificazione delle risorse umane implica una stima del fabbisogno di competenze e di persone per svolgere definite attività.  Pertanto richiede informazioni e stime almeno sui seguenti elementi, relativamente a classi di posizioni  organizzative:
•  il tipo di competenze richieste;
•  una quantificazione del “tempo-uomo” richiesto;
•  le modalità di reperimento delle risorse (mercato del lavoro interno o esterno; canali; tempi; costi);
•  gli interventi di formazione richiesti;
•  tassi di uscita “normali” (turn over);
•  la disponibilità dei potenziali candidati.
Su tali basi è quindi possibile calcolare o simulare il fabbisogno (o la ridondanza) di “organico” e i livelli di crescita (o ridimensionamento) sostenibili.
I sistemi di governo della relazione di lavoro illustrati possono combinarsi in vari modi, dando luogo a diversi tipi o forme di contratto di lavoro. Alcune caratteristiche delle risorse, delle attività e delle   relazioni
di lavoro si sono rivelate particolarmente utili per spiegare e prevedere quali configurazioni dei sistemi di organizzazione delle risorse umane sono efficaci, efficienti ed eque: in particolare la specificità dei  contributi di lavoro rispetto alle altre risorse tecniche e umane con cui si combinano nei processi di trasformazione; la complessità informativa delle attività e delle relazioni, in particolare Y osservabilità delle prestazioni di lavoro e la conoscenza delle sue cause. Pertanto, ci si può attendere che forme diverse di contratto di lavoro siano correlate a tali dimensioni. La tabella propone una tipologia di contratti di lavoro
basata su tali dimensioni.
In generale, i contratti possono essere completi o incompleti, in ragione soprattutto della quantità di circostanze imprevedibili che dovrebbero regolare (incertezza). Essi possono incorporare, attraverso clausole complesse e procedurali, regole e sistemi di gestione delle interdipendenze e risoluzione dei conflitti di vario tipo, incluse le regole  e     l’autorità     (contratti   obbligativi)
senza perciò configurare necessariamente una relazione di lavoro dipendente interna a tempo indeterminato. In presenza di componenti significative di incertezza, sia nel prevedere i possibili cambiamenti di circostanze, sia in termini di difficoltà nella valutazione delle prestazioni, i contratti diventano fortemente incompleti nella loro parte scritta e formalizzata, e sono integrati da accordi e aspettative di “buona fede” e di comportamenti conformi alle norme di buona condotta prevalenti in una certa attività, dalla reputazione e dal controllo sociale (contratti relazionali). In situazioni di massima specificità, insostituibilità e criticità dei contributi di lavoro e per il sistema organizzato, combinata con radicali difficoltà di valutazione sia delle prestazioni che delle posizioni, logiche contrattuali centrate sullo scambio, la valutazione e il corrispettivo, possono non essere efficaci. Logiche contrattuali centrate sull’associazione (contratti associativi) possono esserlo, incentivando direttamente le persone a  comportarsi efficientemente con riguardo ai propri interessi. Allineamento degli obiettivi e motivazione intrinseca possono essere sostenuti dalla condivisione dei diritti di proprietà nelle loro varie componenti (diritti residuali di ricompensa, decisione e controllo), nonché da un ispessimento del coordinamento tramite valori e obiettivi di fondo condivisi. Per esempio, nelle attività “brain intensive” e “personality intensive”, i contratti regolativi delle relazioni di lavoro, sono di solito contratti associativi o di società tra i possessori di tali risorse.
Oltre che sulla dimensione obbligativo/relazionale, i contratti possono essere ordinati secondo una dimensione interno/esterno. Tale caratteristica è particolarmente legata alla specificità delle risorse umane al sistema in cui sono impiegate e alle economie di scala e di specializzazione.
Se consideriamo per semplicità solo alcune possibili configurazioni delle variabili  esplicative, l’efficacia comparata delle relative forme contrattuali può essere spiegata come segue.
Se le competenze di lavoro non sono specifiche al sistema utilizzatore o la frequenza delle transazioni di lavoro è bassa, i contratti tenderanno ad essere esterni e/o di breve termine:
•  completi e contingenti alla valutazione delle prestazioni (risultati o comportamenti) se i risultati o i comportamenti sono osservabili e l’incertezza è bassa (come nel caso di lavoro manuale stagionale di raccolta di prodotti agricoli, o del lavoro “interinale”);
•  relazionali, se i risultati sono osservabili ma soggetti a incertezza ambientale (come nel caso di servizi di un’agenzia di pubblicità acquisiti sul “mercato”);
•  associativi, se né i comportamenti né i risultati sono specificabili ex ante o ben controllabili ex post e l’incertezza è elevata (come nel caso di attività di direzione d’impresa “a contratto”).
Se le competenze di lavoro sono specifiche o le transazioni sono frequenti, i contratti di lavoro tenderanno ad essere a orizzonte temporale lungo o indeterminato e/o interni:
•  se l’incertezza è bassa (le condizioni d’impiego sono prevedibili) i contratti potranno essere di tipo obbligativo, legati ai comportamenti previsti e al tempo di lavoro (se questi sono osservabili), o legati ai risultati (se sono questi ultimi ad essere osservabili); ne sono esempi, nel primo caso, i contatti “tipici” di lavoro dipendente in regime di autorità (come il lavoro operaio e impiegatizio dipendente), nel secondo caso i contratti di concessione di svolgimento di attività ad agenti (come nel caso degli agenti assicurativi e dei concessionari delle case automobilistiche) ;
•  se l’incertezza è elevata, i contratti saranno relazionali anziché obbligativi, e poiché per definizione i comportamenti efficaci non potranno essere ben previsti e valutati in condizioni di incertezza, essi incorporeranno sistemi di ricompensa legati ai risultati (come nel caso di venditori diretti di beni industriali complessi);
•  se l’incertezza è elevata e né i comportamenti né i risultati sono osservabili o attribuibili causalmente a particolari azioni degli attori, allora le relazioni di lavoro saranno regolate efficacemente da contratti associativi interni, che prevedano una condivisione più o meno estesa di diritti di proprietà (come nel caso delle partnership professionali).
Argomento centrale di questo capitolo è la “divisione del lavoro” e il coordinamento tra “attività divise”, cioè insiemi di attività di cui individui o gruppi possono essere responsabili. In italiano si usano i termini “mansione” o “posizione. Nel corso del capitolo questi termini saranno usati come sinonimi di insiemi di attività di lavoro, non necessariamente formalizzati. Questo livello di analisi è solitamente  definito “microstrutturale”, in contrapposizione al livello “macrostrutturale”, costituito da ulteriori aggregazioni delle posizioni di lavoro in unità organizzative più ampie. Questa problematica  microstrutturale è talvolta definita tout court problematica di organizzazione del lavoro, intendendo il termine nel senso di “lavoro umano”, lavoro di persone analizzato al livello di ciò che fa e ha diritto di fare  la singola persona. Una “soluzione” o “forma” di organizzazione del lavoro sarà qui definita come una configurazione o distribuzione particolare di diritti non solo di azione, ma anche di controllo, di decisione e  di proprietà.
Quello della progettazione delle mansioni è probabilmente il più antico tema di organizzazione. Infatti, larga parte degli studi organizzativi sul lavoro e le mansioni sono scaturiti dai problemi posti dalla grande diffusione, nella regolazione dei sistemi di lavoro industriali dell’organizzazione del lavoro di tipo “taylorista”. In particolare, fra i problemi affrontati dai primi studi vi furono i cali di attenzione e rendimento legati alla fatica e alla monotonia; i fenomeni di rifiuto e disaffezione verso il lavoro causati alla mancanza di senso del proprio contributo; la cattiva qualità dell’ambiente di lavoro e della vita di lavoro in generale; l’opposizione sindacale che fin dai suoi albori il modello taylorista aveva suscitato.
Una prima fase di studi e progetti di riorganizzazione del lavoro fu tuttavia caratterizzata da difficoltà e anche insuccessi. Fra i limiti di tali interventi, collocabili fra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 vi era un approccio che fu poi accusato di “universalismo”, orientato a diffondere una “nuova filosofia manageriale” supposta valida per tutte le stagioni, con scarsa considerazione delle differenti esigenze tecniche dei settori e delle imprese. Inoltre, può darsi che i tempi non fossero maturi, mentre successivamente le condizioni tecnico-economiche che dapprima avevano favorito la diffusione dei modelli di organizzazione del lavoro “tayloristi” in molti settori mutarono. Infine, la ricerca e l’intervento sull’organizzazione del lavoro, aveva puntato inizialmente proprio su quelle industrie di produzione di massa, come la meccanica, dove i processi
di trasformazione e i compiti potevano essere divisi e rigidamente programmati con profitto.
Una serie di studi particolarmente istruttivi si orientarono ad un certo punto non tanto alle situazioni dove i modelli tayloristi erano applicati, ma a quelle dove non erano in realtà mai penetrati, scoprendo che alcune tecnologie e alcuni settori erano risultati piuttosto impermeabili e inadatti a principi organizzativi di massima divisione del lavoro verticale e orizzontale, e di massima formalizzazione e programmazione, come la siderurgia, la chimica e molte lavorazioni a processo continuo.
Inoltre, anche in settori a tecnologia divisibile e a processo standardizzabile, gli anni ‘60 videro l’affermarsi di condizioni di incertezza originate dal cambiamento nelle caratteristiche della domanda, della concorrenza e delle strategie competitive. Tale complesso di fattori portava verso condizioni - come si diceva allora - di “ambiente turbolento”. Anche in settori come quello automobilistico o elettrodomestico, l’aumento del numero di concorrenti e del potere d’acquisto e delle esigenze dei consumatori, e l’accelerazione dell’innovazione di processo e di prodotto generavano esigenze produttive in contrasto con un’elevata standardizzazione e specializzazione delle risorse tecniche e umane.

Infine, alcuni di questi studi ed altri misero in luce come lo sviluppo dell’automazione potesse aumentare gli spazi, peraltro sempre esistiti in una certa misura, di scelta organizzativa tra una varietà di modi efficaci di organizzare il lavoro anche in presenza delle stesse condizioni tecnologiche e di mercato, rafforzando una proprietà che fu chiamata di equifinalità dei sistemi di organizzazione.
Sul versante delle condizioni sociali, la fine degli anni ‘60 pure segnò un mutamento con  implicazioni rilevanti per l’organizzazione del lavoro, poiché la chiarezza, l’omogeneità e il peso degli interessi dei lavoratori in materia aumentò stabilmente, sorretto dalla diffusione e dalla legittimazione  delle organizzazioni sindacali, e con esso aumentò il numero di decisioni in materia regolate tramite negoziazione anziché tramite autorità.
Più in generale fu riconosciuto che le soluzioni microstrutturali possono avere un impatto particolarmente forte e spesso sistematico (omogeneo, prevedibile) sugli interessi primari delle persone. Dal punto di vista teorico e metodologico, questa consapevolezza portò ad includere, nella maggior parte dei modelli di progettazione delle mansioni moderni, una rilevazione esplicita delle preferenze di chi deve assumere una mansione sul profilo della mansione stessa.
L’errore di base che si potrebbe compiere in un’analisi delle mansioni è partire dalle mansioni    così
come esse già sono, o considerarle in modo isolato da quelle confinanti sia orizzontalmente sia verticalmente. Per esempio, se interessa comprendere come potrebbe essere efficacemente organizzato il lavoro di una segretaria, bisognerà andare oltre le attività correntemente assegnatele, individuare con quali altre attività esse sono interdipendenti (anche se assegnate a colleghi e superiori), comprendere quali  criteri di aggregazione delle attività in una mansione sono correntemente impiegati e quali potrebbero esserlo.
Pertanto, i due livelli iniziali di analisi sono l’uno sovraordinato, l’altro sotto-ordinato rispetto a quello delle mansioni da riprogettare. Si tratta del “sistema primario di lavoro” e delle  “operazioni  unitarie”.
Un sistema primario di lavoro è un insieme di attività interdipendenti che portano ad un risultato identificabile, tipicamente un’unità di prodotto o servizio. Potenzialmente, se un sistema di attività fosse in grado di autoregolarsi, un’efficace ed efficiente organizzazione di quel sistema dovrebbe utilizzare questa sua capacità, in tal modo si ridurrebbero i costi di coordinamento e controllo e nel contempo si aumenterebbe la soddisfazione dell’interesse primario o bisogno di senso di identità delle persone.  Il sistema di attività sottoposto ad analisi dovrebbe tipicamente includere almeno i seguenti due tipi di attività collegate: le attività operative interdipendenti che concorrono alla realizzazione di un output identificabile (per esempio tutte le attività di montaggio che portano dai componenti ad un’auto finita; o tutte le attività amministrative che portano da una richiesta di servizio bancario da parte di un cliente alla sua evasione); le attività di supporto, manutenzione, controllo e regolazione del processo operativo (per esempio, la manutenzione se si sta analizzando un processo produttivo; le attività di controllo degli operatori su un processo automatizzato; le attività di decisione e programmazione sul tipo e la sequenza di attività operative).
Se il sistema primario di lavoro stabilisce, per così dire, un limite esterno o superiore all’eventuale integrazione tra attività, le operazioni unitarie stabiliscono un limite “inferiore”, oltre il quale i compiti non sarebbero ulteriormente divisibili. La figura riporta le operazioni  unitarie elementari  di  un sistema  di lavoro identificate dai ricercatori in uno dei più noti grandi progetti sociotecnici, il progetto Shell.
Una volta definito un sistema di lavoro e le attività di base che lo compongono (o lo dovrebbero
comporre) si possono analizzare gli attributi delle attività e delle loro relazioni che hanno un effetto siste- matico sull’efficacia dei contini e dei meccanismi di coordinamento tra ruoli di lavoro. A livello di microstruttura, le seguenti variabili hanno effetti importanti: le “varianze” nello svolgimento dei compiti e l’intensità delle interdipendenze.
Nell’analisi  delle  mansioni, le  eccezioni, gli  eventi  imprevisti, le  incertezze  che  caratterizzano un
processo di trasformazione sono solitamente chiamati varianze. La varianza è definita come una deviazione rispetto  ad  una  norma  (di  svolgimento  di  un  processo  di  trasformazione)  con  effetti  sull’output   non
Figura 11 - Analisi del sistema di lavoro "sformatura dei blocchi di bitume"
trascurabili e che può essere regolata solo attraverso l’intervento  umano, per cui interessa intraprendere azioni correttive ed esse dipendono dall’organizzazione del lavoro umano.
Per esempio, nel caso Shell, per ogni operazione unitaria si individuano alcune caratteristiche dei materiali o dei processi che possono comportare variazioni  impreviste         nello svolgimento     dell’attività.  La temperatura e altre caratteristiche del bitume come la gradazione e il livello nella cisterna possono presentarsi “fuori  norma”;  se  ciò  accade  e   non
viene intrapreso alcun intervento, l’output sarà sensibilmente influenzato in termini di sprechi di materiali e di blocchi mal formati.
Le operazioni unitarie nell’esempio della formatura dei blocchi di bitume sembrerebbero a prima vista legate da un’interdipendenza sequenziale semplice. Tuttavia, la presenza di un’elevata incertezza o varianza nel processo complica e intensifica l’interdipendenza. Gli effetti di alcune delle varianze che si possono produrre nei primi stadi si faranno sentire in tutte le operazioni successive. L’analisi della trasmissione a valle delle varianze mette in luce come gli operatori a monte necessitino in realtà, come minimo, di input informativi dalle attività a valle sul modo migliore ai regolare gli eventi imprevisti  tenendo
conto delle caratteristiche generali e della situazione corrente delle attività a valle. L’interdipendenza tra
attività potrebbe pertanto definirsi più reciproca che sequenziale. Quindi, ci si può attendere che il tipo di coordinamento efficace sia basato sul mutuo aggiustamento tra le attività oltre che sulla programmazione.
In generale, e a parità di altre condizioni, quanto più elevate sono le varianze e complesse le interdipendenze tra operazioni unitarie, tanto meno è efficace ed efficiente dividerle in mansioni specializzate assegnate a diversi operatori.
L’organizzazione iniziale presente nel reparto della Shell fornisce un esempio di una soluzione inefficace sulla quale si cercava di intervenire. Il lavoro era diviso in quattro diverse mansioni, affidate a persone diverse con una formazione e una qualifica professionale diversa: l’addetto alle cisterne, il filler, l’estrattore dei separatori e l’addetto alle operazioni finali di imballaggio e carico dei materiali. Non erano previste modalità di regolazione delle varianze ex ante; gli operatori a valle rimediavano quanto e come potevano ai problemi di lavorazione ex post, e buona parte delle varianze si trasformava in difetti nell’output.
Un ulteriore fattore che può aumentare l’interdipendenza tra attività è la specificità delle conoscenze necessarie allo svolgimento di un’attività rispetto ad un’altra. Pertanto, a parità di altre condizioni, ci si può attendere che compiti legati da forti specificità possano essere efficientemente aggregati nella stessa mansione individuale, o almeno assegnati a persone che fanno parte dello stesso gruppo di lavoro. Per esempio, se la professionalità di un operatore tecnico è fortemente specifica rispetto alle caratteristiche del parco macchine che usa (e quindi alle attività di manutenzione o di allocazione delle macchine alle diverse lavorazioni) le attività di produzione, manutenzione e programmazione possono efficacemente ed efficientemente essere svolte dallo stesso operatore.
Varianze e interdipendenze fra attività elementari giocano tipicamente a favore    dell’aggregazione
dei  compiti  in mansioni  ampie, sia  orizzontalmente  sia  verticalmente.  Le economie di  specializzazione e
scala possono tuttavia spesso, anche se non sempre, pesare in senso opposto. Osserviamo  la fig. 12. La situazione definita di “massima specializzazione” indica la presenza di importanti economie di apprendimento e specializzazione    nei    singoli    compiti    e     la
Figura 12 - Matrice di differenziazione delle competenze
saturazione delle capacità di singole persone per  realizzare  quelle  attività.  Per  esempio,  è
efficiente ed efficace che i compiti di taglio, sutura e anestetizzazione in un’operazione chirurgica siano svolti da persone diverse con una mansione specialistica: sia perché richiedono sentieri di apprendimento e un tipo di allenamento pratico differente, sia perché le operazioni devono essere svolte, controllate nei loro effetti e regolate nelle loro varianze, in parallelo.
Una situazione di “massima polivalenza” può derivare sia dalla facilità e dalle “basse barriere all’entrata” nei diversi compiti, sia dalla presenza di economie di scope tra diverse attività. Per esempio, chi abbia acquisito competenze nel compito (per esempio, la stesura di un programma di calcolatore per l’automazione di una procedura) può essere il miglior candidato per l’utilizzo del know-how acquisito in altri compiti (per esempio, programmazione per altri progetti di automazione).
Lo stesso tipo di analisi è rilevante anche per la dimensione verticale della microstruttura, cioè per le scelte di aggregazione verticale tra attività operative e attività di decisione, controllo e regolazione ad esse relative. Per esempio, le attività operative di lavorazione tradizionale (manuale) al tornio, non  creavano barriere all’aggregazione di compiti di decisione sulle sequenze di lavorazione e di riattrezzaggio e manutenzione della macchina. Anzi, le conoscenze sullo stato di usura e sulle prestazioni della macchina e dei materiali generavano molte delle competenze rilevanti per la programmazione del lavoro e la regolazione delle varianze. Differentemente, nel caso di macchine a controllo numerico (per esempio, torni automatici) e ancora più di impianti complessi automatizzati, le attività operative di sorveglianza e alimentazione del processo richiedono competenze piuttosto basse e generiche, mentre le attività di programmazione e di regolazione delle varianze (possibili guasti e funzionamenti anomali) richiedono competenze assai elevate e specialistiche di tipo elettronico ed elettrotecnico. Questi problemi di specia- lizzazione spiegano perché talvolta l’automazione ha l’effetto di “polarizzare” le mansioni tra esecutori/controllori e progettisti/decisori nell’organizzazione.
Per altri tipi di attività si troverà, al contrario, che sarebbe assolutamente inefficace e inefficiente separare le attività operative da quelle di decisione e controllo: perché le attività operative e quelle di con- trollo si basano sulle stesse competenze; perché le attività operative sono ad alta varianza e non possono essere programmate a priori; perché le attività operative sono poco ispezionabili dall’esterno e l’accertamento della qualità comporta quasi una riesecuzione del lavoro.
Con riguardo all’aggregazione verticale delle attività si potrebbe obiettare che problemi di  conflitto
di interesse la potrebbero sconsigliare. Tipicamente, le decisioni autonome sulle azioni da intraprendere da parte  di  un agente,  potrebbero portare a riduzioni  di sforzo e al  perseguimento di obiettivi particolari    e
l’autocontrollo sulle proprie azioni potrebbe portare a distorsioni e indulgenze pro domo sua. In altri termini, a differenza dell’aggregazione orizzontale di compiti con diversa specializzazione, l’aggregazione verticale di attività di esecuzione, decisione e controllo può comportare conseguenze importanti per i sistemi di incentivazione agli attori.
Gli studi di teoria dell’agenzia si sono particolarmente concentrati su relazioni di lavoro in cui significativi diritti di decisione e regolazione sulle attività sono assegnati all’agente che le svolge. Essi hanno mostrato che il grado di osservabilità dei comportamenti degli agenti è una dimensione di analisi importante per il job design. Nel caso di azioni osservabili, l’allocazione ad un agente di diritti di azione e decisione sulle attività è compatibile con un’allocazione separata ad un “principale” dei diritti di controllo tramite supervisione diretta o investimenti in sistemi di monitoraggio (per esempio, nel caso di un operaio “di mestiere” ad alta qualificazione professionalità e discrezionalità, come un capo laminatore).  Se  le attività sono poco osservabili, una riaggregazione dei diritti di azione e decisione/ regolazione delle attività con una quota più o meno ampia di diritti di controllo e di ricompensa residuale può risolvere il problema (per esempio, nel caso di un responsabile di zona commerciale).
Un corollario delle proposizioni precedenti sulla diversità dei sistemi di organizzazione del lavoro efficaci ed efficienti in attività con alta o bassa osservabilità è che, a parità di altre condizioni, attività con grado di osservabilità molto diverso non dovrebbero essere unite alla stessa mansione. Infatti, tale commistione distorcerebbe il comportamento a vantaggio degli aspetti osservabili e misurabili delle prestazioni a svantaggio degli altri aspetti - a meno che non vengano prese contromisure per sostenere l’orientamento verso questi ultimi.
Altri studi di economia dell’organizzazione hanno sottolineato l’importanza di ulteriori variabili, in particolare:
•  il grado di sostituibilità delle risorse umane;
•  il valore da esse aggiunto rispetto a quello aggiunto da altre risorse;
•  la misura in cui le conoscenze su cui si basano le attività sono state accumulate dagli operatori e sono poco trasferibili;
•  il rischio cui è esposto il capitale umano.
Se sintetizziamo queste dimensioni nel concetto di criticità delle risorse umane rispetto ad altre risorse, a parità di altre circostanze, quanto più critiche sono le risorse umane tanto più forme di organizzazione del lavoro efficienti ed eque dovrebbero riservare loro diritti di proprietà. Infatti, l’uso di contratti associativi tra conferenti di capitale umano, tecnico e finanziario, o di associazioni tra persone e “partnership”, in cui “il lavoro assume il capitale” e non viceversa, sono diffusi in attività ad alta intensità di “capitale umano” (attività educative, di consulenza, sanitarie, ecc.).
Una procedura completa di analisi e progettazione delle mansioni richiede    che siano specificate le
preferenze degli attori sulle stesse. Tali preferenze possono essere “ipotetiche” o effettivamente rilevate. Gli economisti optano in genere per il primo metodo: ”assumere” che le preferenze siano configurate in un dato modo - per esempio, che l’agente misuri lo sforzo come costo e sia avverso al rischio, o che le preferenze siano distribuite in modo casuale e quindi possano essere trascurate.
Questa impostazione ha dei limiti fondamentali. Infatti, essa vincola le soluzioni a configurazioni molto particolari delle preferenze e, soprattutto, non si basa su alcuna evidenza empirica che le persone interessate “voterebbero” come si presume se fosse loro richiesto di esprimersi. Sotto questo aspetto, la tradizione organizzativa “sociotecnica” ha sviluppato un approccio empirico all’analisi delle preferenze.
Possono essere individuati alcuni tratti salienti di tale approccio:
•  le preferenze degli attori di solito non si distribuiscono a caso e dunque dovrebbero influenzare l’organizzazione del lavoro in direzioni identificabili;
•  esse vanno rilevate empiricamente perché la loro configurazione specifica è soggettiva e perché questo comunque migliora l’equità procedurale percepita delle soluzioni organizzative;
•  esse non riguardano solo le azioni da compiere, ma anche le modalità di organizzazione di tali attività.
Nel merito, le principali conclusioni di tali ricerche su quali aspetti delle mansioni siano di solito importanti per i prestatori di lavoro, e in che senso, possono essere esposte come segue.
Varietà. Le persone di solito hanno preferenze definite sulla varietà di attività che la loro posizione lavorativa consente. Ciò non significa, tuttavia, che in tutti i casi maggior varietà sia preferita a minor varietà. Per esempio, è risultato che in caso di attività con basso interesse e scarsa autonomia, l’aggregazione orizzontale di più compiti per aumentare la varietà del lavoro e ridurre la monotonia spesso non è gradita ai lavoratori. Infatti, la varietà in queste situazioni aumenta i livelli di attenzione e fatica su attività comunque poco interessanti, e riduce la possibilità di dedicarsi ad attività compensative mentre si lavora in modo automatico (per esempio, relazioni sociali, pianificazione della vita familiare). Al contrario, la varietà è spesso apprezzata nelle attività ad elevato contenuto discrezionale, per esempio dei manager di linea. Interventi di allargamento, delle mansioni, cioè di aggregazione orizzontale di diverse attività assegnate alla stessa persona, possono essere valutati positivamente anche in situazioni a bassa discrezionalità, dove la monotonia può incidere negativamente sulla salute. Per converso, essi possono essere valutati negativamente da lavoratori con stili cognitivi analitici, impegnati in attività altamente discrezionali in cui sono necessarie concentrazione e specializzazione (come ricercatori o pianificatori).
Autonomia. Il grado di autonomia caratterizza una mansione nella sua dimensione verticale. Esso è infatti costituito dall’estensione delle attività di decisione, pianificazione e controllo attribuite alla  posizione. Il grado di autonomia è espressivo quindi del grado di discrezionalità, autocontrollo e autodeterminazione, del grado di libertà di cui gode un attore in una posizione lavorativa. Per esempio, la mansione di un venditore è di solito caratterizzata da un maggior grado di autonomia rispetto a quella di un operaio di produzione. Sotto l’aspetto della configurazione delle preferenze, si è spesso empiricamente trovato che le persone preferiscono una maggior autonomia ad una minore autonomia. Fattori dinamici come la progressione nei livelli di autonomia assunti nel tempo aiutano a spiegare le eccezioni a tale regolarità. Per esempio, se il differenziale in aumento di responsabilità e autonomia che si prospetta rispetto alla situazione in essere è molto ampio, le persone possono percepire un rischio e uno stress eccessivo, specialmente se il grado di confidenza appreso in un dato campo di attività (autoefficacia) non è ancora elevato.
Identità e identificazione. Il bisogno di identità, di un’immagine di sé e del proprio contributo, è considerato uno dei bisogni di base che nei contesti di lavoro è influenzato dalle possibilità di  identificazione con i prodotti del lavoro o con gruppi di riferimento. La mancanza di significato percepito in ciò che una persona fa è riportato nelle ricerche come un fattore che incide negativamente sulla soddisfazione. Il senso di contribuzione o di identità consentito da una mansione si suppone basato in  primo luogo sulla visibilità, o comunque sulla percezione del contributo fornito ad un risultato finale identificabile. In questa accezione esso può essere aumentato sia dall’identificabilità e dall’immagine dell’output; sia dalla chiarezza della relazione tra il proprio input parziale e l’output (chiarezza dei  feedback). In un’accezione più ampia, un “senso di identità” è possibile anche dove l’identificazione degli output (e con gli output) sia difficile. L’identificazione con un gruppo sociale e professionale che ha una immagine e una funzione definita e apprezzata - un mestiere, un’impresa, una professione - svolge tale funzione. Una posizione di lavoro che appartenga a tali sistemi a forte identità - per esempio un’impresa nota e prestigiosa - è di solito preferita a posizioni con caratteristiche simili, ed anche meglio retribuite, in sistemi che non abbiano tale proprietà.
Interazioni sociali. La possibilità di intrattenere relazioni sociali e di soddisfare bisogni di appartenenza, socialità, potere e scambio emotivo e affettivo sul lavoro non è apprezzata in modo  uniforme dalle persone. L’età, lo stile cognitivo, l’interesse e la difficoltà dell’attività dal punto di vista tecnico, la qualità della combinazione fra persone che spesso non si autoselezionano sulla base esclusiva di affinità elettive, sono tutti fattori che possono influire sul grado di orientamento alle relazioni sociali delle persone. Tuttavia, condizioni di impossibilità tecnica di parlare e interagire con altri e di isolamento sono state riscontrate come fattori sistematici di insoddisfazione e stress già nei primi studi sugli effetti della configurazione delle mansioni sulla soddisfazione.
Sviluppo. Una delle caratteristiche di una mansione troppo poco definita è la prospettiva di sviluppo professionale e di assunzione di altre più qualificate o più attraenti mansioni in tempi successivi  che essa apre. La maggior parte dei lavoratori preferisce prospettive di sviluppo più elevate e più chiare a prospettive più limitate e più incerte. Tuttavia, il tipo di sviluppo preferito non è uniforme. Una distinzione classica tra prestatori di lavoro con riguardo alle preferenze sui sentieri di sviluppo è quella tra locals e professionals: le prime sono persone identificate con un sistema organizzativo particolare e orientate alla carriera in quel sistema; e le seconde sono persone identificate con una professione, in cerca di uno sviluppo nelle competenze e nei contenuti del lavoro, con forte propensione alla mobilità. Per esempio, in imprese tradizionali e artigiane, inserite in zone con forte identità locale (come le imprese di alcuni distretti industriali) le persone attribuiscono valenze positive alla tradizione, alla continuità delle relazioni, alla continuazione di un “mestiere”. Pertanto, non è l’evoluzione del contenuto del lavoro che interessa particolarmente. Piuttosto, è spesso desiderato uno sviluppo dei diritti di controllo e proprietà sulla propria attività: l’obiettivo di “mettersi in proprio”.
Autorealizzazione. E stato ampiamente teorizzato ed empiricamente documentato che il lavoro può essere fonte di ricompense intrinseche per chi lo svolge, e non solo un mezzo (e un costo) per conseguire ricompense estrinseche. Tali ricompense intrinseche, e il senso di autorealizzazione che esse procurano, consistono in benefici psicologici in termini di interesse, divertimento, senso di competenza e di utilizzazione piena delle proprie capacità che una persona può derivare dallo svolgimento dell’attività lavorativa. Bisogna osservare che, tra tutte le caratteristiche delle mansioni, si tratta della più volatile e soggettiva. Inoltre, può essere difficile, anche per le persone stesse, valutare a priori l’interesse per un’attività. Pertanto, per questa caratteristica delle mansioni, ancor più che per le altre, non solo le preferenze dovranno essere empiricamente rilevate, ma gli attori dovranno avere il tempo di apprenderle nel corso dell’attività.
Salute, sicurezza e qualità della vita di lavoro. Questo insieme di fattori è maggiormente attinente a condizioni esterne e di contesto della mansione che non alle attività specifiche che la compongono. La ricerca su tali fattori è sempre stata attiva. Si è tuttavia recentemente sottolineata l’opportunità di un collegamento teorico e pratico tra gli approcci di progettazione delle mansioni in senso stretto e  gli approcci ergonomici, ecologici e clinici in “pacchetti di cambiamento più ampi orientati al miglioramento complessivo della qualità della vita di lavoro”. Tale esigenza deriva innanzitutto dall’impatto che il disegno delle mansioni ha sulla sicurezza, sulla salute e sull’ambiente di lavoro. Per esempio, mansioni estremamente divise e poco variate hanno effetti negativi sulla salute psichica; e mansioni non sufficientemente ampie e coordinate aumentano i rischi di errore e di infortunio. In secondo luogo, l’organizzazione del lavoro comunque interfaccia la vita privata e familiare, influisce sulla disponibilità di tempo libero e di energie e sull’equilibrio psicologico con cui la si affronta, ha conseguenze importanti  sulla
possibilità di doppia carriera e sulle pari opportunità fra uomo e donna. Nei programmi di Quality of Working Life, (QWL) si assume questa funzione di “benessere” complessivo della persona come rilevante. Nell’impostazione sociotecnica tradizionale, al contrario, le “preferenze” dei conferenti capitale o del management vengono considerate coincidenti con i “requisiti tecnici” al disegno efficiente delle mansioni, così come possono risultare dall’analisi delle operazioni elementari; delle varianze e interdipendenze e dei requisiti di specializzazione. Infine, la progettazione dell’organizzazione del lavoro si è allargata - in collegamento ad altre discipline collegate alla progettazione della tecnologia (come l’ergonomia e i sistemi informativi) - a considerare la tecnologia stessa come elemento almeno parzialmente riprogettabile congiuntamente e compatibilmente ad aspetti desiderati delle mansioni e non come variabile indipendente data.
La definizione di una soluzione di microstruttura è, sulla base delle precedenti analisi, un  problema
decisionale con molteplici attori ed obiettivi. Già nell’impostazione sociotecnica, che pure concepiva il processo di riorganizzazione come un processo assai pianificato e talvolta risolto a tavolino, sia pure dopo la rilevazione delle preferenze, si parlò sin dall’inizio di “ottimizzazione congiunta” dei requisiti tecnici e dei requisiti sociali.
Operativamente, si è proposto di assegnare un “voto” ad ogni alternativa strutturale individuata,  sia in termini di “soddisfazione” delle persone, sia in termini di “efficienza”. Ogni voto dovrebbe essere una somma di voti ottenuti da ogni soluzione sulle principali dimensioni delle mansioni, come la varietà, l’autonomia, la contribuzione, ecc. Per esempio, si supponga che una particolare soluzione, come la creazione di gruppi autonomi di lavoro, riporti le seguenti valutazioni, su una scala di preferenza da 1 a 5, dei lavoratori coinvolti e dei rappresentanti della direzione rispettivamente: 2 e 3 sulla varietà, 2 e 4 sull’autonomia, 4 e 4 sulla significatività del contributo, 2 e 5 sulla qualità delle prospettive di sviluppo. La soluzione del gruppo di lavoro riceverebbe un punteggio di 26 punti totali, moltiplicando ogni “voto” per il numero di volte che è stato espresso e sommando: [( 5X1)+( 4X 3)+( 3X1)+( 2X3)].
Si considerino, come esempio applicativo di una procedura di ottimizzazione congiunta di questo tipo, le implicazioni che essa avrebbe nella situazione del caso Shell, introdotto all’inizio del capitolo. L’analisi delle varianze e delle interdipendenze mette in luce come una ricomposizione delle attività del ciclo in mansioni più larghe e polivalenti (orizzontalmente) nonché più ricche e autonome (verticalmente) avrebbe avuto soprattutto vantaggi: minori errori, miglior qualità dell’output finale, miglior utilizzazione del personale.  Sul versante della specializzazione, vi  erano tuttavia  due sottoprocessi  diversi: il   riempimento
richiede  competenze  diverse  e  tempi  diversi  rispetto  alla  estrazione  elettromagnetica  delle        griglie.
Pertanto, una soluzione tecnicamente efficiente avrebbe potuto essere un allargamento delle mansioni fino a farle coincidere con i due sottoprocessi, assegnate a due piccoli gruppi distinti. Il coordinamento tra di esse avrebbe potuto essere sostenuto da responsabilità di coordinamento oltre che di leadership tecnica assegnate alla posizione che controlla le maggiori competenze e le varianze chiave (il filler). Quest’ultima soluzione avrebbe potuto assommare i vantaggi di ottemperare ai requisiti tecnici e di non urtare le preferenze dei soggetti. Nel caso specifico, per esempio, i fillers avrebbero potuto non gradire una soluzione in cui avrebbero dovuto diffondere parte delle loro competenze ad altri.
L’approccio ora descritto usa un criterio di equità basato sulla somma di punteggi di intensità di preferenza, e quindi implica una “comparazione interpersonale dell’utilità”. Tale approccio è difficilmente sostenibile quando le preferenze sono espresse da diversi soggetti e spingono in direzioni divergenti. Sia in teoria sia in pratica, infatti, simili problemi sono risolti tramite negoziazione (ed eventualmente voto finale).
Se le soluzioni di organizzazione del lavoro sono negoziate, ci si dovrà attendere che le parti “pesino” le caratteristiche delle mansioni e che trovino scambi efficienti tra queste. Le preferenze dei diversi attori acquistano un peso attraverso il processo negoziale.
Una critica che economisti e teorici dei giochi muoverebbero ad entrambi gli approcci di progettazione congiunta sopra illustrati è che gran parte dei conflitti tra preferenze sulla configurazione delle mansioni potrebbero essere semplicemente risolti tramite “pagamenti collaterali” e indennizzi monetari per l’accettazione di aspetti non graditi delle mansioni. In effetti, in parte questo accade. Gli aspetti retributivi sono infatti di solito negoziati o definiti in stretta connessione con le caratteristiche delle mansioni. E accade anche che mansioni gravose, nocive o rischiose siano indennizzate con emolumenti. Tuttavia, un uso efficace della retribuzione in questa funzione è assai limitato per almeno tre importanti ragioni. In primo luogo, la monetizzazione degli squilibri nella distribuzione di altre risorse desiderate tronca la ricerca di soluzioni superiori dal punto di vista qualitativo (per esempio, soluzioni tecnicamente efficienti ma meno nocive). In secondo luogo, non tutte le caratteristiche dell’organizzazione del lavoro possono essere monetizzate senza interferire con problemi etici e diritti fondamentali della persona (come  la salute). In terzo luogo, lo strumento retributivo è già sovraccarico di funzioni: la retribuzione dovrebbe essere correlata alla discrezionalità e alla responsabilità decisionale; poi dovrebbe (al  contrario) indennizzare le mansioni più povere; poi dovrebbe garantire livelli di qualità della vita sufficienti per tutti; poi dovrebbe essere correlata ai risultati. Poi dovrebbe... Il risultato potrebbe esser quello di  immagazzinare troppi segnali e informazioni nel “prezzo del lavoro”, rischiando di vanificare la leggibilità, l’equità percepita e l’efficacia incentivante di qualunque sistema retributivo.
Dopo aver esaminato i metodi e le variabili di analisi e progettazione della microstruttura in questo paragrafo si illustrano alcune alternative strutturali o soluzioni di organizzazione del lavoro che si sono rivelate fattibili e le cui condizioni di efficacia ed efficienza sono state specificate. Tali soluzioni o alternative comportano diverse combinazioni e configurazioni allocative dei diritti di azione, decisione, controllo, ricompensa e proprietà. Esse sono solo alcune combinazioni fra le molte in astratto possibili.
Nelle  forme  di  organizzazione  del  lavoro  tradizionalmente  definite  “capitalistiche”,  i  diritti    di
proprietà sulle risorse tecniche - materie prime, prodotti intermedi, beni finiti, impianti, attrezzature e know-how - sono allocati ad una singola parte. Questo attore o gruppo di attori proprietari del capitale tecnico “assume” il lavoro di altri secondo vari schemi contrattuali. Principalmente dunque, all’interno di questi assetti, le mansioni sono innanzitutto caratterizzate da prestazioni di lavoro svolte in tutto o in parte “per” (nell’interesse di) e “alle dipendenze da” soggetti diversi dall’agente.
In generale, l’efficacia di tale assetto è legata a contingenze quali: la maggiore criticità e specificità dei conferimenti di capitale rispetto a quelli di lavoro; una maggior avversione al rischio degli agenti e una minore esposizione al rischio del “capitale umano” rispetto a quanto accade per il capitale tecnico e finanziario; una “produzione di squadra” su vasta scala; una discreta controllabilità delle prestazioni di lavoro da parte di soggetti diversi dagli agenti.
Il modello di organizzazione del lavoro caratterizzato da una massima divisione del lavoro fra diversi operatori e da un’allocazione dei compiti di decisione, coordinamento e controllo ad un’autorità o capo gerarchicamente sovraordinato, risponde alle caratteristiche del modello burocratico (specializzazione, accentramento e chiara assegnazione formalizzata dei compiti. Viene spesso affermato, specialmente negli studi organizzativi e sociologici, che il modello “taylorista” è superato, e che viviamo ormai in un’epoca “post-fordista”. Ciò è probabilmente vero per molti tratti culturali e ideologici del taylorismo e  del  fordismo. Tuttavia, se consideriamo gli attributi più tecnicamente organizzativi di una configurazione “a massima specializzazione e programmazione”, è dubbio che essa sia scomparsa o che non sia efficiente in alcuna circostanza. Così come “il taylorismo non si è fermato a Prato” (e in molti altri “luoghi tecnologici”) - cioè non si è diffuso ovunque - in altri si è preservato o è stato riscoperto. Altrettanto dubbia è l’associazione, che spesso viene data per scontata, tra aumento della divisione del lavoro e riduzione dei
contenuti e della ricchezza del lavoro. La specializzazione può anche essere associata all’approfondimento e all’eccellenza delle conoscenze e delle capacità in attività complesse.
Molti interventi di cambiamento organizzativo a livello microstrutturale sono stati orientati a modificare i sistemi di lavoro burocratici in sistemi di lavoro più flessibili e più motivanti. Tre tipi di intervento sulle mansioni sono diventati canonici a tal fine: la rotazione, l’allargamento e l’arricchimento. Tali interventi sono stati orientati, rispettivamente: ad aumentare le conoscenze sull’intero ciclo di lavoro, il senso di contribuzione e la polivalenza delle risorse attraverso assunzione periodica di diverse mansioni da parte dello stesso operatore; ad aumentare la varietà della singola mansione individuale attraverso l’aggregazione di compiti diversi allo stesso livello di contenuto discrezionale; a “caricare verticalmente la mansione” con attività di decisione, controllo e pianificazione così da garantire una migliore regolazione delle varianze, capacità di adattamento locale e da soddisfare maggiormente gli obiettivi di autonomia e autorealizzazione degli agenti.
I modelli arricchiti sono stati introdotti diffusamente ed efficacemente in settori di attività ad alta varianza  e incertezza, elevata interdipendenza tra operazioni unitarie, e requisiti relativamente bassi di specializzazione nelle singole attività; nonché in situazioni di cronici e acuti problemi di conflitto industriale prodotti dall’assetto taylorista. Un’organizzazione del lavoro ricca o arricchita esiste più stabilmente e diffusamente nei settori di attività fortemente esposti a richieste variabili del mercato, alla competizione basata sulla differenziazione e l’innovazione dei prodotti; nelle attività impiegatizie; in molte attività di servizi; in attività in cui il lavoro è qualificato e specifico all’impresa.
Una soluzione più radicale orientata a creare una organizzazione del lavoro flessibile e basata sulla definizione delle posizioni di lavoro con riferimento ad un gruppo, non ad un individuo e su modalità di coordinamento “alternative alla gerarchia”. Il caso dell’organizzazione del lavoro secondo il “modello giapponese” può essere un esempio emblematico del concorrere delle due circostanze e dell’efficienza potenziale della soluzione in settori come quello delle apparecchiature elettroniche.
Si possono individuare tre varianti di organizzazione del lavoro che presentano caratteristiche “reticolari”: il
gruppo autonomo di lavoro; la “matrice” e la rete interna.
Il gruppo autonomo di lavoro è idealmente in grado di risolvere tutti i problemi di regolazione e controllo di varianze e interdipendenze al proprio interno. Dovrebbe essere quindi efficace se le interdipendenze esterne con altri gruppi non sono troppo elevate. Esempio classico ne sono le isole di produzione o di montaggio.  Il  gruppo  tipicamente  è   autonomo  anche  nell’assegnazione  flessibile  di   compiti   ai     suoi
componenti; idealmente anche nella selezione dei componenti.
Un assetto matriciale potrebbe essere più efficace dove le esigenze di specializzazione tecnica all’interno  del gruppo sono molto elevate, come in un gruppo di progettisti o ricercatori. Esso attribuisce ad ogni posizione responsabilità e compiti sia all’interno di una specializzazione tecnica (per esempio, tecnici meccanici, elettronici, idraulici, ecc.) sia con riferimento ad aree applicative, tipi di prodotti, tipi di macchinari o tipi di processi in cui intervenire.
Infine, un assetto più aperto verso altre unità/gruppi potrebbe essere superiore se le interdipendenze e le varianze della produzione possono essere efficacemente risolte solo ricorrendo a competenze e risorse ogni volta differenti. La configurazione organizzativa - chi fa cosa e in connessione con chi - è definita da  decisioni ad hoc anziché stabilmente. A livello di microstruttura, alcune realizzazioni ispirate al just-in-time si avvicinano per esempio a questo modello.
Una diversa “alternativa alla gerarchia” è costituita da un mix di meccanismi di coordinamento in cui prevalgono le norme e la routinizzazione di know-how diffusi. Si pensi ad esempio alla lavorazione di  alta qualità di materiali non standard, come la pelle o il legno. O alla fabbricazione di prodotti artigianali di qualità. Per quanto il know-how, l’esperienza e il “mestiere” possano essere in parte concentrati in uno o più leader, la loro autorità deve essere affiancata da meccanismi di codificazione e trasmissione delle conoscenze, affinché tutti possano agire in modo competente in processi poco prevedibili, che richiedono interventi correttivi e decisioni locali e tempestive. Pertanto, la creazione di norme, regole, abitudini, prassi di lavoro nonché la comunicazione e decisione di gruppo sono meccanismi di coordinamento efficaci, anche se l’attore o gli attori che controllano le competenze critiche e che sono fonte di conoscenze per i collaboratori sono proprietari delle attività.
Le  forme  di  organizzazione  del  lavoro  basate  sul  gruppo  finora  considerate,  lo  sono  in  modo
parziale. Un’alternativa più radicale è costituita da gruppi di lavoratori associati titolari non solo di diritti di azione e decisione ma anche di diritti di proprietà sulle risorse complementari. Nelle forme di organizzazione “collettiva” chi è proprietario delle risorse umane e conferisce lavoro è anche proprietario delle risorse tecniche, finanziarie e commerciali. Assetti concretamente (e giuridicamente) identificati per la conduzione di attività economiche in forma associata sono le cooperative e le società di persone.
Come per ogni altro gruppo di forme, una certa configurazione dei diritti di proprietà è  compatibile
con configurazioni molto variate di divisione del lavoro e di coordinamento. Almeno due configurazioni alternative salienti possono essere confrontate.
•  Gruppi di pari. In una configurazione piena, i membri del gruppo detengono tutti i diritti fondamentali: di proprietà, decisione, controllo, azione e appropriazione dei risultati finali collegati ad una data attività. Il gruppo di pari può strutturarsi secondo una democrazia rappresentativa, anziché diretta, specie se di grande dimensione. Le cariche amministrative sono elettive e assunte a rotazione.
Assetti di tipo cooperativo persistono e sono efficienti sia sotto il profilo produttivo sia sotto il profilo motivazionale in attività in cui i contributi di lavoro sono gli input principali e critici, e in cui l’associazione continuativa tra tali input generi surplus rispetto al loro impiego separato. Nel caso in cui il lavoro sia anche poco osservabile vi sono tuttavia ragioni di efficienza più forti per l’adozione di forme collettive, per la difficoltà di controllare il lavoro e di orientare le persone verso prestazioni superiori se non attraverso un riallineamento istituzionale degli obiettivi.
•  Gruppi federativi. Una forma organizzativa parzialmente collettiva è rappresentata da un gruppo di conferenti di lavoro che possiede in comune alcuni (o tutti i) mezzi fondamentali di produzione, ma in cui ognuno ha diritto alla parte di risultati economici generati dal proprio lavoro. Essa è stata definita “comunalità” ed è qui definita gruppo federativo per evocare la messa in comune di risorse (e della proprietà di cose) e, contemporaneamente, la ritenzione dei diritti di ricompensa residuale e dei diritti di autoregolazione delle proprie attività da parte di ognuno. In questo caso le attività devono essere separabili anche se vi è commensalità nell’utilizzo delle risorse comuni (come i contatti commerciali, gli impianti, un marchio). Per esempio, una società di formazione in cui i partner sono proprietari dei marchio e degli uffici, ma in cui ognuno selezioni ; propri collaboratori, utilizzi un network di contatti parzialmente personale, eroghi un servizio basato su conoscenze parzialmente proprie e non comuni, abbia diritto ai risultati economici dei progetti che conduce, dopo aver devoluto una percentuale alla struttura comune, sarebbe  un esempio di gruppo federativo.
Un’alternativa  possibile per  organizzare il  lavoro potrebbe essere una  forma  “imprenditoriale” in
cui il soggetto che conferisce capitale, conferisce anche lavoro. Si possono dare diverse modalità di coordinamento tra imprenditori e conferenti altre risorse.
•  Lavorazione in conto terzi (“putting out”). Il putting out è stato analizzato da alcuni come forma arcaica e superata di organizzazione in cui i vantaggi di flessibilità sarebbero stati superati dai costi di free- riding, noncuranza, sprechi e intempestività. Per ironia della sorte la conservazione e revitalizzazione del
putting out nel tessile ha costituito uno dei fattori di successo della moda italiana nel mondo. I vantaggi della specializzazione e della flessibilità nelle combinazioni produttive in funzione della domanda rispetto a forme capitalistiche integrate sono stati realizzati soprattutto grazie al coordinamento tramite regole e routine setto-riali/locali molto chiare anche se non molto formali probabilmente assenti nei sistemi di putting out del diciannovesimo secolo.
•  Imprenditori interni. Anziché affidare la produzione sui materiali di proprietà (ed eventualmente attraverso strumenti di proprietà) ad imprenditori esterni da parte di un’impresa committente, si può presentare una situazione in cui un’impresa che non possiede strumenti tecnici e  conoscitivi specifici ad  una data attività possa avvalersi di “imprenditori interni” in grado di svolgerla, fornendo risorse complementari quali capitale finanziario, patrimonio immobiliare o strutture e competenze commerciali e distributive. Pertanto, non tutte le risorse tecniche sono possedute da una sola parte: alcune attrezzature e risorse come gli edifici, gli impianti centrali, i punti di vendita, i marchi commerciali sono posseduti da un’altra. D’altra parte, la trasformazione e la generazione del prodotto e servizio finale è svolta da attori  che forniscono lavoro nonché risorse complementari, quali attrezzi speciali, software, know-how, capitale relazionale. Inoltre essi assumono e gestiscono i propri collaboratori e ricevono ricompense per unità di prodotto secondo schemi negoziati precedentemente, cioè sono anch’essi imprenditori. Per quanto anche questo sistema, definito inside contracting, sia stato analizzato come un reperto archeologico diffuso nelle economie agricole precapitalistiche - per esempio, nelle fattorie la macinatura del grano o la mungitura erano affidate ad imprenditori specialisti che prestavano la loro opera a molte di loro - non è difficile ritrovarne esempi moderni e altamente efficienti, dove le economie di specializzazione e la differenziazione delle conoscenze per condurre un’attività si combinino con la specificità tra le risorse fornite dalle diverse parti e con altre fonti di interdipendenza.
Il quesito organizzativo più comune e centrale che un’impresa si può porre è: la struttura organizzativa è “giusta” o “sbagliata”? Un errore di analisi organizzativa che si potrebbe facilmente commettere nel risolvere questo tipo di problema sarebbe quello di cercar di ridurre i sintomi e le disfunzioni manifeste investendo in “migliori meccanismi di coordinamento” tra unità. In realtà i costi della struttura risultante potrebbero essere particolarmente elevati, qualora vi fossero problemi a monte nella configurazione delle unità e delle loro responsabilità. In effetti, in quel caso si incorrerebbe nel doppio costo di una divisione del lavoro inadeguata e di uno sforzo di coordinamento eccessivo, largamente assorbito dalle necessità di rimediare ai conflitti e alle disfunzioni generate da quella divisione del lavoro. Dunque è opportuno partire da un’analisi dell’efficacia e dell’efficienza della configurazione delle unità organizzative, prima di esaminare i meccanismi di coordinamento.

 

Fonte: http://www.nellospina.it/Univ/Economia%20delle%20Organizzazioni%20-%20Riassunto.pdf

Sito web da visitare: http://www.nellospina.it

Autore del testo: A.Spina

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