Riassunto sociologia economica Profilo storico

Riassunto sociologia economica Profilo storico

 

 

 

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Riassunto sociologia economica Profilo storico

libro di Carlo Trigilia

 

 

Introduzione. Che cosa è la sociologia economica

Il campo di studio della sociologia economica è caratterizzato da un insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali.

DUE DEFINIZIONI DI ECONOMIA

Karl Polanyi (1977) ci suggerisce due definizioni di economia:

  1. possiamo guardare all’economia come all’insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e scambiare beni e servizi (questa definizione non è condivisa da tutti gli economisti);
  2. possiamo guardare ai fenomeni economici come sinonimi di “economizzare”, cioè porre l’accento su attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero avere usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi (è quella che prevale nei testi di economia). Qui i soggetti perseguono razionalmente gli interessi individuali (es. si suppone che ciascun individuo sarà propenso a comprare più quantità di un bene se il prezzo è basso per effetto dei rapporti tra domanda e offerta, e viceversa se il prezzo è alto). Dall’incontro della domanda dei consumatori e dei produttori sul mercato dipenderà la quantità effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo.

Se nelle società primitive le attività economiche si svolgono nell’ambito delle strutture familiari e parentali che regolano le modalità di produzione, nei grandi imperi dell’antichità lo stato assume un ruolo essenziale nella regolazione delle attività economiche. Nelle società capitalistiche, che si basano sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, l’economia si emancipa dai controlli sociali e politici ed i mercati si “autoregolano” e l’allocazione delle risorse e la formazione dei prezzi sono condizionati dai rapporti tra domanda e offerta.

Le definizioni dei fenomeni economici che abbiamo richiamato non devono essere considerate come alternative ma come due modi diversi di guardare all’economia da cui discendono vantaggi e limiti che è bene conoscere.

La seconda definizione è la più diffusa tra gli economisti ed ha consentito un notevole avanzamento delle conoscenze sui meccanismi autoregolativi dell’economia (sull’influenza dei movimenti della domanda e  dell’offerta sulla formazione dei prezzi e sull’allocazione delle risorse). Operando con pochi assunti semplici relativi al comportamento utilitaristico degli attori, e considerando le istituzioni come un dato, l’economia ha  potuto sviluppare modelli teorici a elevata generalizzazione. Su questa base ha anche affinato strumenti previsivi e normativi.

Tuttavia, sul piano più specificamente interpretativo, emergono difficoltà quando occorre misurarsi con contesti in cui il mercato autoregolato ha un ruolo limitato o addirittura nullo (es. contesti precapitalistici) o quando si vuole rispondere a domande del tipo: perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri? perché alcuni paesi si sono industrializzati prima di altri?

In questi casi presenta dei vantaggi la prima definizione la quale si apre maggiormente allo studio dell’interazione tra economia e società ed è quindi più vicina alla prospettiva della sociologia economica ma anche dell’antropologia e della storia economica. Tali discipline hanno un’ottica diversa dall’economia e guardano all’attività  economica  come  un  processo  istituzionalizzato  (non  si  parte  dal  singolo  individuo  isolato  ma   si


considerano le istituzioni che regolano le attività economiche). Per istituzioni si intende un complesso di norme sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni che tendono a garantirne il rispetto da parte dei singoli soggetti. Le sanzioni possono essere:

  1. positive: se incentivano un certo comportamento;
  2. negative: se tendono ad impedire un certo tipo di azioni;
  3. informali: se si basano sulla disapprovazione degli altri;
  4. formali: se stabilite dalla legge (norme giuridiche).

Per il momento è opportuno sottolineare che il concetto di istituzione si riferisce, nel linguaggio sociologico, a un insieme di fenomeni più ampio di quello che viene di solito preso in considerazione dal linguaggio comune (che si riferisce alle istituzioni politiche).

E’ bene non confondere le istituzioni con le organizzazioni che sono invece le collettività concrete che coordinano un insieme di risorse umane e materiali per il raggiungimento di un determinato fine (es. imprese, sindacati, camere di commercio, ecc.).

Mentre a un’organizzazione possono essere imputate delle azioni, ciò non è possibile per le istituzioni.

Guardare alle istituzioni equivale a gettare un ponte tra economia e società; consente di storicizzare i fenomeni economici. Non si parlerà dunque di economia in generale ma per esempio di economia capitalistica, feudale, delle società primitive, ecc.

Il concetto di sistema economico acquisisce un rilievo cruciale in questa prospettiva; esso tende a sottolineare le diverse modalità, nello spazio e nel tempo, attraverso le quali le istituzioni orientano e regolano le attività economiche.

LA SOCIOLOGIA ECONOMICA SECONDO SCHUMPETER E WEBER

La differenza di prospettiva tra l’economia e le altre scienze sociali emerge anche da una famosa definizione di Joseph Schumpeter (1954) che attribuisce alla sociologia economica il compito di spiegare come le persone sono giunte a comportarsi in un certo modo (specificando che le azioni devono essere messe in rapporto con le istituzioni che sono rilevanti per il comportamento economico: stato, proprietà privata, contratti, sindacati, ecc.). La sociologia economica, insieme alla storia e alla statistica, è presentata da questo autore come uno strumento che l’economista teorico dovrebbe padroneggiare.

La definizione di Schumpeter è in sintonia con quello di sociologi dell’economia che non si sofferma soltanto sull’influenza del contesto istituzionale sull’economia, ma anche sul condizionamento inverso (es. valutare come le strutture economiche capitalistiche abbiano favorito una conflittualità sociale e politica che ha, a sua volta, portato  a estendere l’intervento dello stato nell’economica e il ruolo del sindacato e delle relazioni sindacali). La bidirezionalità dell’indagine – dalla società all’economia e dall’economia alla società – consente di mettere a fuoco il cambiamento delle strutture economiche.

Anche per Max Weber una scienza economico-sociale è sostanzialmente una scienza dei rapporti di interdipendenza tra fenomeni economici e sociali. Per Weber, mentre l’economia si concentra soprattutto sulla formazione del mercato e dei prezzi nella moderna economia di scambio, la sociologia economica si preoccupa principalmente di mettere in luce i fenomeni economicamente rilevanti (l’influenza esercitata da istituzioni non economiche,  come  quelle  religiose  o  politiche,  sul  funzionamento  dell’economia)  e  quelli    economicamente


condizionati (mettono in evidenza come gli orientamenti politici, o religiosi, ecc., siano influenzati da fattori economici).

Weber si confronta esplicitamente con Marx in quanto non può accettare sul piano scientifico un’interpretazione tendente a ricondurre esclusivamente a cause economiche i caratteri di una determinata società.

La formulazione di generalizzazione, che Weber chiama idealtipi, ha specifiche limitazioni spazio-temporali ed è essenzialmente finalizzata al miglioramento della conoscenza storica (in nessun caso deve condurre alla ricerca di leggi generali che pretendano di individuare nessi causali tra aspetti economici e non economici al di là di un contesto storico).

Per Talcott Parsons (1937) invece la finalizzazione delle generalizzazioni teoriche all’indagine storica costituisce  un limite allo sviluppo scientifico della sociologia che va superato.

Tuttavia, i tentativi operati in direzione di modelli teorici a elevata generalizzazione non hanno dato, in generale, risultati soddisfacenti.

SOCIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIA ECONOMICA

Possiamo meglio mettere a fuoco in che cosa differiscano le prospettive analitiche di queste discipline considerandone:

    1. l’oggetto di studio privilegiato;
    2. gli strumenti utilizzati;
    3. il grado di generalizzazione teorica.

Antropologia economica

  1. le società primitive;
  2. l’osservazione partecipante;
  3. è scarso (generalmente si parla di reciprocità come categoria per interpretare le forme istituzionali di organizzazione economica delle società primitive).

Storia economica

  1. il passato;
  2. analisi documentaria;
  3. l’elaborazione e la discussione di generalizzazioni teoriche esplicite è molto più limitata e spesso considerata con diffidenza.

Sociologia economica

  1. società contemporanee;
  2. analisi documentaria e indagine empirica basata su interviste o su raccolta diretta di informazioni trattabili anche quantitativamente;
  3. si punta maggiormente a elaborare generalizzazioni teoriche sui rapporti tra fenomeni economici e non economici (nella pratica di ricerca prevale la formulazione di modelli teorici limitati a particolari contesti spazio-temporali).

LO STATUS SCIENTIFICO DELLA DISCIPLINA

Dalla discussione precedente emerge un’immagine della sociologia economica che si colloca in una posizione intermedia tra l’ottica generalizzante dell’economia e quella più individualizzante della storia.

La concezione monista positivista dell’attività scientifica incontra dei problemi se viene applicata ai fenomeni sociali.

Secondo tale concezione non esistono differenze qualitative tra scienze fisiche e naturali e scienze sociali:

  1. esiste un solo metodo scientifico che si basa sulla formulazione di ipotesi e sulla verifica empirica;
  2. l’attività conoscitiva è diretta all’elaborazione di spiegazioni causali dei fenomeni;
  3. l’attività scientifica attraverso l’accumulazione delle conoscenze, tende a formulare leggi generali;
  4. la differenza di oggetto tra scienze fisiche e naturali e scienze sociali comporta solo specifici problemi tecnici per queste ultime.

Raymond Boudon (1984) attraverso l’uso di alcuni esempi smentisce le affermazioni dei punti c) e d).

La teoria economica prevede che se il prezzo di un prodotto sale, la domanda di quel prodotto scende. Ma non è sempre così perché bisogna supporre che il secondo bene abbia le stesse caratteristiche del primo e che sia conosciuto dal consumatore altrimenti lo stesso potrebbe scegliere di spendere di più ma continuare a comprare il primo bene. Nella scelta individuale intervengono sempre dei margini di incertezza che ostacolano la formulazione di previsioni generali.

Altro esempio può essere quello della formulazione di una legge del tipo: se peggiorano le condizioni economiche, aumenta la violenza collettiva (rivolte, agitazioni, scioperi). Gli studi storici ed empirici non confermano questa connessione, almeno nella sua pretesa generalità. Per esempio occorrono dei leader che organizzino la protesta i quali valuteranno l’esistenza di libertà di manifestazione oppure la forza degli apparati repressivi, ecc.

Questi semplici esempi ci mostrano la difficoltà di formulare leggi del tipo “se A, allora B” nello studio dei fenomeni sociali.

Anche la concezione dualista storicista (in base alla quale solo le scienze della natura possono stabilire nessi causali generali ed ogni fenomeno sociale ha invece un carattere distinto e non è possibile alcuna generalizzazione di tipo teorico) non si addice alla sociologia economica.

Lo status scientifico della sociologia economica, e delle scienze sociali in genere, può essere fondato su una concezione diversa dal monismo e dal dualismo. L’applicazione del metodo scientifico non richiede necessariamente la formulazione di leggi generali. Le scienze sociali possono invece aspirare alla formulazione di modelli. Mentre le legge ha una pretesa di applicabilità generale, i modelli sono ricostruzioni ideali di situazioni particolari, definite da specifiche condizioni che ne limitano la validità nello spazio e nel tempo.

L’individualismo metodologico cerca di spiegare i fenomeni sociali partendo dalle motivazioni individuali e si contrappone all’olismo metodologico (es. si studia l’influenza del livello complessivo di istruzione sullo sviluppo economico, ma non si tiene adeguatamente conto delle motivazioni degli attori).

Per trattare la società come la natura occorre in tutti i casi sbarazzarsi degli attori e ridurli a stereotipati esecutori delle costrizioni del sistema.

 

 

 

IL PLURALISMO INTERPRETATIVO: SCIENZA E VALORI


La linea di frattura tra individualismo e olismo metodologico attraversa la storia delle scienze sociali alimentando il

pluralismo interpretativo (cioè la coesistenza di diversi modelli interpretativi in concorrenza tra loro).

I due problemi principali sono dunque la complessità dell’oggetto di indagine (le condizioni che influenzano l’azione dell’uomo sono molteplici e variano nello spazio e nel tempo) ed il margine di discrezionalità del ricercatore che fa parte della società che studia ed ha quindi le sue preferenze ed i suoi criteri di orientamento che lo guidano in un senso piuttosto che in un altro.


PARTE PRIMA

DALL’ECONOMIA ALLA SOCIOLOGIA ECONOMICA

CAPITOLO 1

ECONOMIA E ISTITUZIONI NELLA FORMAZIONE DELL’ECONOMIA CLASSICA

L’economia come disciplina nasce nel corso del 1700 quando le attività economiche si emancipano da controlli e vincoli sociali e sono regolate dal mercato.

Karl Polanyi (1968) ci aiuterà a comprendere il rapporto tra economia e sociologia economica.

Polanyi si è valso dei contributi dell’antropologia e della storia nello studio delle economie primitive. In questi contesti le attività economiche sono incorporate in un sistema di istituzioni non economiche con la conseguenza che la produzione e lo scambio dei beni legati all’agricoltura, all’allevamento, alla pesca e all’artigianato possono essere organizzati sulla base di due principi:

  • reciprocità: si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di solidarietà condivisi nei riguardi degli altri membri del gruppo parentale o della tribù. Tali obblighi sono di solito legati alle prescrizioni di una religione prevalente. Non è il guadagno individuale che incentiva il comportamento economico dei singoli;
  • redistribuzione: al principio della reciprocità può affiancarsi quello della redistribuzione (es. le norme sociali prevalenti possono prescrivere che al capo del villaggio o della tribù vengano consegnati determinati prodotti. Questi verranno immagazzinati, conservati e successivamente redistribuiti in occasioni cerimoniali particolari.  Il comportamento economico non è più soltanto definito da obblighi sociali condivisi, ma da specifiche regole formali fatte valere dal potere politico, pur se di solito legittimate in termini religiosi (es. grandi imperi burocratici come quello romano, egiziano).

Secondo Polanyi, non è possibile un’indagine sull’economia che prescinda dallo studio delle strutture politiche in cui le attività economiche sono incorporate.

Nel contesto europeo, a partire dal Medioevo si viene costituendo uno spazio crescente e autonomo del mercato come strumento di organizzazione dell’attività economica, a spese delle altre due forme di integrazione (reciprocità e redistribuzione). Non bisogna comunque identificare tutti i tipi di scambio con lo scambio di mercato, ve ne sono tre tipi:

  • scambio di doni: tipico della reciprocità;
  • scambio amministrato: caratterizzato da transazioni rigorosamente controllate dal potere politico (economie arcaiche dei grandi imperi);
  • scambio di mercato: in senso stretto.

Nel corso dell’Ottocento, i mercati autoregolati (che determinano i prezzi attraverso il gioco tra domanda e offerta) diventano lo strumento primario da cui dipende la produzione e distribuzione di beni e servizi nei paesi più sviluppati. L’ordinamento politico si limita a garantire dall’esterno i diritti di proprietà e la libera contrattazione. È in questo quadro che si può sviluppare un’indagine economica autonoma basata sulle leggi del mercato. Polanyi sottolinea che solo l’emancipazione e l’autonomizzazione delle attività economiche dai condizionamenti sociali e politici rende possibile l’economia come scienza.


Ma occorre evitare di sovrastimare il ruolo dello scambio di mercato nell’economia anche in quei contesti dove esso è particolarmente sviluppato. Nel capitalismo ottocentesco il predominio del mercato concorrenziale non è stato mai totale. Nelle società contemporanee, per reagire agli effetti destabilizzanti del mercato, queste società hanno teso a reincorporare in parte l’economia cercando di sviluppare nuove forme di regolamentazione politica e sociale delle attività economiche.

In tutti questi casi si apre uno spazio che può essere ricoperto da quella che Polanyi definiva un’analisi istituzionale dell’economia e che noi possiamo considerare come lo spazio della sociologia economica. Essa ha il compito di chiarire il posto delle economie nelle società ovvero si sforzerà di mostrare come le attività economiche siano collegate alle strutture sociali.

Ma questa separazione non era originariamente così netta: l’economia classica, soprattutto nella versione di Adam Smith, aveva una sua sociologia economica. Ed è da qui che dobbiamo partire.

LA FORMAZIONE DELL’ECONOMIA POLITICA

È solo nella seconda metà del ‘700, con i fisiocratici e con l’opera di Adam Smith, che l’idea di una sfera economica come sistema autonomo di parti tra loro interagenti giunge a maturazione. Diventa anche più netta la distinzione tra analisi scientifica del funzionamento dell’economia e proposte di politica economica (suggerimenti al potere politico per interventi di regolazione).

Cercheremo di mettere in evidenza come la formazione dell’economia politica si accompagni a una riflessione esplicita e consapevole sui rapporti tra economia e società. vi è dunque una sociologia economica che precede quella poi sviluppatasi all’interno della tradizione sociologica, e in un certo senso ne costituisce il presupposto. Il confronto con l’economia politica sarà infatti una componente essenziale della prospettiva sociologica.

I mercantilisti

Nel 1600 si diffonde una pratica di economia politica, cioè di analisi dei caratteri e dei problemi delle attività economiche strettamente finalizzata agli obiettivi di rafforzamento dei nascenti stati nazionali. Con il pensiero mercantilista si fa strada invece una valutazione più autonoma e scientifica dei fenomeni economici, soprattutto da due punti di vista tra loro collegati (il comportamento economico viene visto come sostanzialmente guidato dall’interesse personale in termini di guadagno; viene riconosciuto il ruolo dello scambio di mercato nel senso prima chiarito, cioè l’influenza della domanda e dell’offerta nella formazione dei prezzi). Nel ‘600 i commerci avvengono ormai tra gli stati nazionali e ne condizionano la potenza politica. Le monarchie europee erano interessate a promuovere l’attività commerciale e la penetrazione coloniale per rafforzarsi nella competizione internazionale. L’obiettivo primario era quello di garantire un afflusso di moneta metallica (oro, argento). Erano favorite le importazioni di materie prime a buon mercato, mentre si sosteneva la produzione nazionale di manufatti con dazi protettivi nei riguardi della concorrenza estera. Il protezionismo, tipico in generale di questa esperienza storica, riflette una situazione di limitata emancipazione dell’attività economica.

Gli uomini che cominciano a osservare con spirito positivo le vicende economiche sono essenzialmente degli uomini pratici, che non vendono dalle università, e si pongono un obiettivo concreto: come migliorare l’economia nazionale. Il modello di analisi che si propongono è di tipo macroeconomico (essi verranno rivalutati da Keynes). I mercantilisti puntano molto sulla ricchezza nazionale identificata con la moneta metallica disponibile (oro, argento) per cui tendono a mantenere la bilancia commerciale in attivo con la politica protezionistica.


I mercantilisti hanno un orientamento di tipo induttivo e concreto (in sintonia con l’empirismo della tradizione culturale inglese) a differenza dei fisiocratici, deduttivi ed in sintonia con il razionalismo dominante nel contesto intellettuale francese.

I fisiocratici

Rispetto ai mercantilisti essi formano una vera scuola scientifica in senso moderno. Il periodo di maggior influenza della corrente fisiocratica si colloca intorno alla metà del ‘700. François Quesnay è il fondatore della scuola.

Il clima intellettuale in cui maturano le idee dei fisiocratici è quello della Francia negli anni che precedono la Rivoluzione. Essi sono preoccupati per la situazione economica e finanziaria del paese. Le crescenti spese militari, e quelle per il mantenimento della corte di Versailles, avevano portato ad una maggiore pressione fiscale sull’agricoltura. I fisiocratici sostengono un progetto di riforma dell’agricoltura e sviluppano una critica severa nei confronti delle politiche mercantilistiche. Occorreva liberare l’agricoltura da vecchi vincoli di origine feudale, liberalizzare il commercio cerealicolo, razionalizzare il sistema fiscale con un’imposta unica. Ma il tutto doveva avvenire senza intaccare i diritti di proprietà dell’aristocrazia e il ruolo della monarchia.

Vediamo meglio come si è sviluppata questa operazione. Fisiocrazia significa “governo della natura”. I fisiocratici partono infatti dall’assunto che esistono leggi naturali della società simili a quelle che governano il mondo fisico. Esiste un “ordine sociale naturale” che può essere conosciuto per mezzo della ragione. Quanto più la società si organizzerà in modo confacente a queste leggi, con l’aiuto della scienza, tanto più potrà aumentare sia il benessere individuale che quello collettivo. Non è il commercio e l’afflusso di moneta a creare ricchezza, e nemmeno la manifattura, ma solo l’agricoltura ha la virtù di dare, con i suoi raccolti, un reddito aggiuntivo rispetto alle risorse  in essa investite.

Questo è il punto su cui si concentreranno  maggiormente le critiche successive, a partire da quella di Smith.  Mentre verrà apprezzato, rispetto al mercantilismo, lo spostamento di ottica dall’analisi degli aspetti monetari a quelli “reali” della produzione della ricchezza nazionale, si considererà ingiustificato il ruolo attribuito all’agricoltura a scapito di quello dell’industria.

Se si esclude il ruolo particolare attribuito all’agricoltura, sono dunque presenti, e più o meno sviluppati, nella fisiocrazia una serie di elementi che confluiranno nel patrimonio dell’economia classica:

  • l’idea di leggi naturali dell’economia studiabili autonomamente;
  • l’identificazione del comportamento economico come motivato sulla base del guadagno;
  • le positive conseguenze, economiche e sociali, attribuite al libero perseguimento dell’interesse individuale attraverso il mercato;
  • un ruolo delle istituzioni politiche che, a differenza di quanto ipotizzavano i mercantilisti, deve limitarsi a garantire il diritto di proprietà e la sicurezza dei traffici.

LA “GRANDE SINTESI” DI ADAM SMITH

Per i fisiocratici, il libero perseguimento dell’interesse individuale è in grado di conciliare “naturalmente”, per mezzo del mercato, benessere individuale e collettivo.

Per Smith non è così (nonostante uno stereotipo diffuso ne abbia fatto il paladino del laissez-faire, ma tale espressione non gli appartiene), la ricerca dell’interesse individuale e il funzionamento del mercato possono favorire il benessere collettivo solo se sono controllati da precise regole istituzionali (socioculturali, giuridiche, politico-organizzative). Lo studio di tali vincoli istituzionali è parte integrante, per Smith, dell’indagine sulle


“cause della ricchezza delle nazioni”. Economia e sociologia economica sono pertanto strettamente collegate nella sua opera.

Adam Smith (1723 – 1790) nasce e si forma in Scozia e per più di dieci anni insegna filosofia morale nell’Università di Glasgow.

Pubblica La teoria dei sentimenti morali (1759).

Dopo un viaggio in Francia, nel quale ebbe contatti con esponenti dell’illuminismo e con i fisiocratici, torna in Scozia e scrive Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776).

Nel contesto scozzese (influenzato dal filosofo Hume) nasce una prima concezione sociologica dell’azione umana come un’azione istituzionalizzata e cioè influenzata dai valori e dalle norme che prevalgono storicamente in una determinata società (distaccandosi dall’uomo naturalmente egoista di Hobbes e anche dall’uomo naturalmente guidato dalla ragione di Locke e dei fisiocratici).

I fondamenti sociali dell’azione economica

Il perseguimento dell’interesse individuale è per Smith una molla importante del comportamento umano ma tende a essere regolata da norme condivise dai membri della società (il termine simpatia che usa Smith si avvicina a quello che oggi possiamo chiamare processo di socializzazione).

Il comportamento economico non può essere per Smith spiegato con una naturale tendenza alla ricerca della ricchezza ma è influenzato dalle norme sociali (il guadagno individuale non deve essere considerato un fine in sé, come un obiettivo naturale dell’uomo, ma piuttosto uno strumento per ottenere approvazione sociale). Il desiderio di migliorare le proprie condizioni appare come un dato permanente del comportamento umano, ma esso è alimentato dal bisogno di approvazione sociale.

Che l’azione economica motivata dalla ricerca del massimo guadagno abbia origini non economiche è anche confermato dall’analisi dello sviluppo capitalistico nelle campagne che Smith proporrà nel libro III della Ricchezza delle nazioni: le grandi proprietà terriere di origine feudale non erano condotte in modo efficiente in quanto non vi erano gli stimoli al miglioramento produttivo (il grande proprietario bada più agli ornamenti che soddisfano la sua fantasia che ad un profitto di cui non ha bisogno; non ci si può inoltre aspettare un interesse al miglioramento produttivo della terra da parte dei lavoratori ridotti a servi della gleba).

Diversa è la situazione nelle città che nel periodo medievale hanno visto consolidarsi le libertà comunali: quando  gli uomini sono sicuri di godere i frutti delle loro attività, cercano naturalmente di migliorare la loro condizione (crescono dunque le attività commerciali e manifatturiere cittadine).

Iniziano così a diffondersi i beni di lusso che spingono i grandi proprietari terrieri a procurarseli e quindi ad introdurre cambiamenti rilevanti nell’organizzazione produttiva delle campagne.

Secondo la teoria dei quattro stadi di Smith vi sono quattro stadi dello sviluppo storico che si succedono nel tempo e che sono caratterizzate da un tipo di organizzazione economica prevalente:

  • caccia
  • pastorizia
  • agricoltura
  • commercio

Ne consegue che le istituzioni che governano la società cambiano storicamente; l’azione economica è socialmente determinata e storicamente variabile.


Smith è quindi molto lontano sia dal razionalismo astratto dei fisiocratici che dall’utilitarismo individualistico che attribuisce al singolo una naturale propensione a massimizzare il proprio interesse.

C’è chi vede una contraddizione tra la teoria dell’azione presente nella prima opera di Smith e quella di tipo utilitaristico che sarebbe invece al centro della Ricchezza. Ciò è dovuto al fatto che nel primo lavoro egli mette a punto una teoria del comportamento individuale come socialmente condizionato e nella seconda invece esplora le conseguenze economiche che discendono dal diffondersi dei nuovi comportamenti.

Produzione dei beni e distribuzione dei redditi in una “società commerciale”

In una società commerciale l’attività economica non è più regolata in maniera prevalente dalla reciprocità e dalla redistribuzione ma dallo scambio di mercato.

Ma in che modo la cura del proprio interesse in un contesto di libero mercato porta a risultati ordinati e prevedibili dal punto di vista economico?

Come risposta possiamo esaminare due aspetti:

  • la determinazione della quantità di beni prodotti: se si suppone che vi sono molti venditori, che le informazioni circolino liberamente, che le risorse di capitale e di lavoro possano essere spostate da un impiego all’altro, allora la quantità di beni prodotti tenderà a corrispondere alla domanda effettiva esistente per tali beni. Smith distingue tra prezzo di mercato (riflette le oscillazioni di breve periodo della domanda e dell’offerta) e prezzo naturale (si afferma nel lungo periodo e riflette il costo di produzione).
  • la determinazione dei redditi distribuiti ai partecipanti all’attività economica: si suppone l’esistenza di un prezzo definito dal mercato per salari, profitti e rendite:
    • salario: vi sono dei meccanismi che spingono il prezzo di mercato verso un prezzo naturale che tende a coincidere con il salario di sussistenza (teoria dei salari di sussistenza di Malthus). Gli operai spingono per ottenere salari sempre più alti mentre i datori di lavoro per diminuirli. Prevalgono questi ultimi perché sono riescono più facilmente a coalizzarsi essendo in numero minore e resistendo più a lungo. Se i salari scendono al di sotto del livello di sussistenza interviene un meccanismo demografico che porta attraverso il calo delle nascite allo ristabilimento dell’equilibrio. Smith fa un uso molto cauto di questa teoria dicendo che vale soprattutto per gli strati sociali inferiori. Egli ritiene in generale che i salari sono destinati a crescere per effetto dello sviluppo economico, che fa aumentare la domanda di lavoro;
    • profitto: anche i profitti sono determinati dal rapporto tra domanda e offerta del mercato (il mercato degli impieghi di capitale);
    • rendita:

Perché possa avvenire tutto questo occorre che il quadro istituzionale della società si modifichi diventando una società capitalistica in cui:

  • vi è una classe di lavoratori salariati le cui condizioni di vita dipendono dalla vendita del loro lavoro sul mercato;
  • si affermi una classe di capitalisti che abbiano le risorse per avviare il processo produttivo e le cui condizioni di vita dipendono dal profitto conseguito con l’investimento del capitale;
  • che i proprietari terrieri traggano a loro volta il sostentamento dalla possibilità di affittare la terra ai capitalisti agrari che la coltivano pagando loro una rendita.

In un contesto capitalistico, il prezzo naturale delle merci viene determinato da un calcolo dei costi di produzione che oltre al salario del lavoro deve includere anche il profitto e la rendita.

Lo sviluppo economico e le istituzioni

Perché le istituzioni del capitalismo possono assicurare efficienza economica e consenso?

La concorrenza determina un’allocazione efficiente delle risorse all’interno di una determinata attività, perché spinge i prezzi ad avvicinarsi ai costi di produzione e perché spinge capitale e lavoro a spostarsi verso gli impieghi più vantaggiosi, riducendo così le differenze di rendimento.

Gli economisti sono stati comprensibilmente affascinati dalle capacità ordinatrici di questa “macchina” per cui ogni singolo soggetto “mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni ………… perseguendo il suo interesse egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quanto intende effettivamente perseguirlo”.

Smith oltre all’efficienza statica del mercato e cioè alla ripartizione efficiente di risorse date in cui le istituzioni sono un dato, era interessato anche all’efficienza dinamica e cioè alla creazione di nuove risorse in cui le istituzioni diventano una variabile.

Il mercato può avere una funzione dinamica, può sostenere lo sviluppo economico, se è regolato da istituzioni appropriate.

Per Smith è particolarmente importante la divisione del lavoro perché aumenta la produttività cioè la quantità di lavoro che lo stesso numero di persone può svolgere (perché accresce l’abilità di ogni singolo operaio; perché si risparmia tempo a non passare da un lavoro all’altro; perché si facilita l’invenzione di macchine che riducono il tempo di lavoro).

La divisione del lavoro varia con l’entità degli investimenti (+ investimenti ""' + concorrenza ""' + specializzazione produttiva).

Per comprendere il ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico possiamo ricordare due temi toccati nella

Ricchezza:

  • i vantaggi del capitalismo concorrenziale su quello monopolistico nelle manifatture e nel commercio: Smith critica le politiche protezionistiche e di incentivazione del mercantilismo e pensa che, una volta eliminate le barriere istituzionali dovute a politiche economiche errate, la società civile sia spontaneamente in grado di produrre un’imprenditorialità diffusa, tale da alimentare mercati concorrenziali. Supponiamo che sia diffusa una situazione di capitalismo concorrenziale: perché per Smith questa è superiore ad una situazione di monopolio? Perché:
    • nel monopolio non vi è una efficiente allocazione delle risorse per cui il consumatore ha a disposizione quantitativi inferiori di merce ad un prezzo più alto;
    • con la concorrenza si abbassano i tassi di profitto con conseguente stimolazione dell’imprenditorialità del singolo capitalista per far crescere la produttività introducendo innovazioni tecnologiche (quindi impegno diretto del capitalista e contrarietà al modello impersonale delle società per azioni);
    • Smith considerava negativamente l’organizzazione sindacale (per i rischi di distorsione del mercato del lavoro) e riteneva opportuna, per migliorare la produttività, una politica unilaterale di alti salari da parte degli imprenditori. Salari più alti rendono gli operai più attivi e svelti e, come dimostra l’esperienza nordamericana, incoraggiano gli operai ad impegnarsi per diventare proprietari egli stessi;

  • il ruolo dello Stato nello sviluppo economico: abbiamo già visto che per Smith per il formarsi ed il riprodursi del capitalismo concorrenziale sia necessario che lo stato:
    • assicuri la libertà commerciale;
    • garantisca la proprietà privata;
    • limiti il suo intervento nell’economia rinunciando alle pratiche mercantilistiche;
    • assicuri la difesa nazionale;
    • garantisca l’amministrazione della giustizia;
    • provveda ad opere pubbliche necessarie per l’attività economica e l’istruzione.

È importante sottolineare che Smith si preoccupava, non solo di quello che lo stato non avrebbe dovuto fare per sostenere l’economia, ma anche di ciò che avrebbe dovuto fare, e del modo migliore di farlo. Per Smith l’efficienza delle istituzioni pubbliche è dipendente dalla capacità di organizzare l’attività di chi vi lavora sulla base di meccanismi di responsabilizzazione che leghino il più strettamente possibile remunerazione e impegno professionale (remunerare adeguatamente giudici e insegnanti universitari per contrastare i rischi di scarso rendimento e di corruzione). Il modo in cui Smith si occupa delle istituzioni pubbliche conferma ulteriormente che egli non può essere genericamente considerato come un alfiere del laissez faire.

A questo punto possiamo tornare alla domanda posta all’inizio di questo paragrafo. Perché queste istituzioni sono  in grado di conciliare efficienza economica e consenso?

Per due motivi:

  • perché producono più sviluppo e con lo sviluppo aumenta il benessere di tutte le classi sociali (diffusione di prodotti a basso prezzo e quindi fruibili anche dalle classi più povere);
  • perché il mercato concorrenziale riduce le disuguaglianze (porta a bassi profitti e alti salari) e fa dipendere maggiormente dall’impegno individuale nel lavoro. Il desiderio di migliorare la propria condizione produce beneficio collettivo e concilia sviluppo economico e consenso.

Smith credeva nella capacità diffusiva dello sviluppo ritenendo che i benefici del mercato concorrenziale si sarebbero imposti ad aree territoriali sempre più vaste. Così, ciascun paese avrebbe potuto importare ciò che era prodotto dagli altri a costi minori, specializzandosi a sua volta in quelle produzioni in cui poteva essere più competitivo. Sviluppo e mercato concorrenziale avrebbero ridotto non solo le disuguaglianze sociali, ma anche quelle territoriali.

Ne risulta una sorta di paradosso:

  • da un lato, Smith contribuisce a mettere in luce l’importanza delle istituzioni, e della loro autonomia e variabilità, per lo sviluppo economico;
  • dall’altro, tende poi a sottovalutare, in prospettiva, la loro capacità di resistenza a lasciarsi plasmare dalla logica del capitalismo concorrenziale.

Finisce così per immaginare un progresso lineare, continuo, omogeneizzante (così come vedremo in Marshall). Questa immagine della società capitalistica in cui l’economia favorisce un’elevata capacità di integrazione sociale sarebbe stata sottoposta a dure sfide a anche a smentite severe da parte della storia.


CAPITOLO 2

LA SVOLTA ECONOMICISTA E I SUOI CRITICI: STORICISMO E MARXISMO

LA “SCIENZA TRISTE”

Con Malthus e Ricardo l’attenzione verte sui limiti naturali allo sviluppo economico. Si tratta di vincoli che riguardano la tendenza alla crescita della popolazione, a fronte di una disponibilità ridotta e decrescente delle risorse che la terra può dare. In questo quadro le possibilità di aumentare la ricchezza prodotta sono molto più contenute di quanto non apparisse a Smith.

Questo orientamento dell’analisi economica (che portò più tardi Carlyle a parlare di scienza triste) matura in un contesto, quello inglese, in cui si sviluppava la rivoluzione industriale ed il ruolo del mercato come strumento di regolazione dell’attività economica si è ormai esteso e consolidato ma con conseguenze sociali pesanti (abbandono delle campagne, urbanizzazione, condizioni di vita e di lavoro precarie e dure per una massa crescente di uomini, donne e bambini).

È in questo quadro che Thomas Malthus (1766-1834), un ecclesiastico, concepisce il suo Saggio sul principio di popolazione (1798): l’assunto fondamentale di questo lavoro è la costante tendenza che hanno tutti gli esseri  viventi a moltiplicarsi più di quanto lo permettano i mezzi di sussistenza di cui possono disporre. Di qui la minaccia permanente di una sovrappopolazione. Un argine essenziale contro questa minaccia è costituito dalla legge ferrea del salario:

  • un aumento del salario porta i lavoratori, per una forza incontrollabile della natura, a moltiplicarsi;
  • ne consegue una maggiore offerta di braccia e quindi più concorrenza sul mercato del lavoro;
  • i salari sono così spinti nuovamente al livello di sussistenza;
  • la popolazione eccedente si ridurrà naturalmente per la mancanza dei mezzi di sostentamento.

Le istituzioni non possono alterare le leggi dell’economia che hanno una forza naturale, devono solo adeguarvisi. La società con le sue istituzioni non deve intralciare il funzionamento autonomo dell’economia. Per Malthus, lo scopo del suo lavoro non è tanto di proporre disegni di miglioramento, quanto il mostrare la necessità di rassegnarsi a quel modo di miglioramento che la natura ci prescrive.

David Ricardo (1772 – 1823), ex agente di cambio ritiratosi precocemente per dedicarsi agli studi, condivide la vena pessimistica di Malthus ma è ancorato a più rigorose argomentazioni sul piano economico. Con Ricardo, il pensiero economico assume in pieno quelle caratteristiche di rigore analitico-deduttivo e di astrazione che ne avrebbero più connotato a fondo gli sviluppi successivi. Per Ricardo il problema fondamentale dell’economia politica è la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del reddito tra i proprietari terrieri, i capitalisti ed i lavoratori.

Per Smith la rendita, non incide sui profitti del capitalista e quindi sul tasso di accumulazione, ma è un residuo (equivale a quello che resta del valore del prodotto una volta detratti profitti e salari necessari per la produzione).

Per Ricardo la rendita condiziona il livello dei profitti e dei salari e quindi il tasso di accumulazione e la crescita della ricchezza. Occorreva eliminare ogni forma di protezionismo agricolo basata su dazi alle importazioni (con questa sua posizione rigidamente liberista entrava in polemica con Malthus che nel conflitto di interesse tra proprietari e capitalisti aveva invece preso una posizione favorevole ai primi).


Malthus era giunto alla conclusione che fosse presente nell’economia capitalistica una tendenza alla sovrapproduzione: le merci prodotti rischiavano di non essere tutte vendute per mancanza di una corrispondente domanda effettiva da parte dei consumatori.

Questa ipotesi andava contro a quanto era stato sostenuto da Smith e che era poi stata codificata dall’economista francese J.B. Say (1767 – 1832). Secondo la legge di Say ogni offerta di beni genera sempre  una  domanda adeguata a soddisfarla (Ricardo restava fedele alla legge di Say che prevalse a lungo sul piano teorico e politico).

La discussione con Malthus contribuisce comunque a mettere in evidenza come il conflitto tra proprietari terrieri e capitalisti influenzasse significativamente lo sviluppo economico. Ma vi è anche un secondo conflitto di interessi che i due economisti, come del resto Smith, fanno emergere attraverso la loro analisi: quello tra imprenditori capitalisti e lavoratori. In questo caso entrambi richiamano la legge ferrea che tende a mantenere i salari a livello  di sussistenza e non prendono in considerazione la possibilità che i lavoratori si organizzino per mutare le proprie condizioni economiche.

Gli economisti classici sono di solito accomunati per avere una visione simile dell’indagine economica pur con alcune differenze. Tutti questi autori assegnano all’analisi economica l’obiettivo di studiare lo sviluppo, i meccanismi che regolano la crescita della ricchezza e le possibilità di aumentarla nel tempo. Nel perseguire queste finalità essi considerano le modalità di distribuzione del reddito tra le classi sociali come un elemento cruciale da cui dipende lo sviluppo economico.

Vi sono però delle differenze essenziali che forse devono essere messe più in luce.

Per i tre autori lo sviluppo economico è funzione dell’incremento del capitale investito. Ma da che cosa di pende tale crescita?

Per Malthus e Ricardo essa dipende dall’aumento dei profitti (un saggio di profitto più elevato consente di avere  più risorse da investire e dà anche più incentivi a farlo). Ma mentre per Ricardo è necessario limitare con un rigido liberismo la rendita agricola per Malthus è vero il contrario. Entrambi gli autori, sostengono che i salari sono controllati dalla pressione demografica che li spinge verso il basso ed inoltre vedono nel lungo periodo dei limiti naturali allo sviluppo economico, determinati dal combinarsi della pressione demografica e della limitatezza delle terre disponibili (sottovalutano fortemente il ruolo del progresso tecnico).

Anche per Smith il capitale investito dipende dalla crescita complessiva dei profitti (non da un elevato saggio di profitto bensì da un basso saggio di profitto) e da un alto saggio del salario. Bassi saggi di profitto e alti saggi salariali stimolano la crescita della produttività favorendo la divisione del lavoro. Ciò crea un maggiore volume complessivo di profitti e quindi maggiore ricchezza, a parità di lavoro, che può essere reinvestita in nuove attività. Per Smith il progresso tecnico deve essere dunque incorporato nella spiegazione dello sviluppo economico: questo lo porta ad essere più ottimista di Malthus e Ricardo.

Smith chiama in causa anche il ruolo di fattori non economici e cioè delle istituzioni che devono mantenere un quadro concorrenziale e  promuovere l’istruzione.

Altra differenza.

Per Smith gli attori economici sono dei soggetti che interpretano la situazione in cui operano e perseguono il loro interesse secondo norme di condotta influenzate dal contesto sociale in cui agiscono (vi è quindi una variabilità di comportamento che è funzione delle istituzioni). Per Smith quindi il problema dello sviluppo porta a un’integrazione tra economia e sociologia economica.


Non è così per Malthus e Ricardo che vedono l’attore economico come un soggetto che non interpreta con relativa autonomia la situazione, ma come un mero calcolatore la cui azione è ricostruibile a partire dalla situazione in cui si trova (essenzialmente la situazione di classe: es. la legge ferrea dei salari). A questo non è più necessario occuparsi delle istituzioni per vederne gli effetti sui fenomeni economici. Economia e sociologia economica possono separarsi. Questo comporta una maggiore precisione analitica e una più elevata possibilità di generalizzazione, ma a costo di una perdita di aderenza alla realtà storico-empirica su cui si appunteranno le critiche che ora considereremo.

 

Con l’estendersi dello sviluppo capitalistico, nel corso dell’800, il rapporto tra economia e società appare più problematico. Le vecchie economie tradizionali e artigianali sono minacciate dalla concorrenza della produzione industriale. Lo sviluppo economico e la diffusione del mercato determinano così nuove differenziazioni territoriali che non accennano a colmarsi. La trasformazione delle campagne e la crescita della classe operaia si  accompagnano a condizioni di vita e di lavoro estremamente disagiate per masse crescenti di popolazioni (si profila la nascente questione sociale.

In questo contesto, la sistemazione teorica dell’economia classica appare inadeguata e viene imputata ad essa un’incapacità a spiegare i fenomeni concreti e a fornire una guida valida per l’intervento.

Possiamo individuare due tipi di critiche:

  • lo storicismo tedesco: che si concentra sulle differenze territoriali dello sviluppo economico e sulle modalità  per colmarle;
  • la critica di Marx: mette in discussione l’interpretazione dei rapporti tra le classi sociali nello sviluppo capitalistico.

LO STORICISMO TEDESCO

Nei primi decenni dell’800 diversi autori, riconducibili alla scuola storica tedesca di economia politica, si sono posti il problema delle differenze di sviluppo economico tra i vari stati nazionali. Essi hanno criticato l’astrattezza degli schemi teorici dell’economia classica per l’incapacità di rendere conto di questa questione. La soluzione doveva essere cercata in un’indagine che restasse più aderente alla realtà concreta e che quindi si servisse del metodo storico piuttosto che di quello analitico-deduttivo. L’indagine storica doveva chiarire come aspetti culturali, sociali, politici si combinassero con variabili economiche dando luogo a specifiche forme di organizzazione dell’economia. Gli storicisti arrivarono a mettere in discussione l’orientamento rigidamente liberista dell’economia classica legittimando forme di politica economica più interventiste, specie in termini di protezionismo doganale.

Gli storicisti tedeschi hanno in genere proposto classificazioni di diversi stadi di sviluppo dell’economia, risultanti dalla combinazione di fattori economici e istituzionali:

  • Friederich List (1789 – 1846), un precursore della scuola storica, assume come unità di analisi l’economia nazionale. La prosperità di una nazione è grande non in rapporto all’accumulazione della ricchezza, ma in rapporto allo sviluppo delle forze produttive. Critica l’economia classica per non tener adeguatamente conto del ruolo delle istituzioni che condizionano l’evoluzione nel tempo delle diverse economie. Elabora una classificazione basata su 5 stadi di sviluppo (primitivo, pastorale, agricolo, agricolo-manifatturiero e commerciale). List sostiene che la marcata differenza tra i vari paesi in termini di industrializzazione richiedeva politiche   di   protezione   dell’industria   nazionale.   Un   orientamento   rigidamente   liberista   poteva essere

conveniente per l’Inghilterra, le cui industrie erano più sviluppate; ma gli altri paesi, per vincere la concorrenza inglese, dovevano sostenere le loro industrie fino a quando non fossero diventate competitive e solo a quel punto un quadro di libero commercio avrebbe effettivamente contribuito allo sviluppo di tutto. Per le sue idee List fu imprigionato ed esiliato ma la sua ricetta, pochi anni dopo, fu seguita dalla maggior parte dei paesi avviatisi verso l’industrializzazione;

  • Altri autori (Roscher, Knies, Hildebrand, Scholler, Bucher) hanno ripreso e sviluppato l’impostazione di List in vari modi.

Bisogna dire che nel complesso la critica dello storicismo porta a un difetto opposto rispetto a quello imputato all’economia classica: il rifiuto del metodo deduttivo a favore di quello storico conduce all’accumulo di materiale empirico, a volte anche di interesse, ma la cui interpretazione appare problematica.

Sull’indeterminatezza teorica che caratterizza lo storicismo insisterà, con la sua nota critica, Weber (1903 – 1906). LA CRITICA DI MARX

Marx critica gli economisti classici per l’incapacità di rendere adeguatamente conto del conflitto tra capitalisti e lavoratori che caratterizza l’economia capitalistica ed avrebbe portato ad una società socialista. Egli sottolinea l’esistenza di vincoli sociali legati alle istituzioni fondamentali dell’economia capitalistica, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione e il lavoro salariato come strumenti che regolano la produzione dei beni e la distribuzione dei redditi.

Alla visione armonica di Smith per cui l’economia capitalistica in regime liberista avrebbe favorito insieme la crescita della ricchezza e la cooperazione tra le classi sociali, Marx (influenzato dall’idealismo di Hegel) contrappone una visione dialettica per la quale il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi sociali che porta a un intensificazione del conflitto, che a sua volta determina il superamento delle vecchie forme di organizzazione economica.

Lo storicismo insiste sulle differenze nazionali che si accompagnano allo sviluppo economico, Marx su quelle di classe. Mentre lo storicismo resta legato alla visione idealista dello sviluppo storico, in cui l’evoluzione culturale condiziona l’organizzazione economica, Marx ribalta il rapporto tra aspetti culturali ed economico-sociali, sono questi ultimi il vero motore dello sviluppo storico. Mentre gli storicisti si propongono di mostrare una generica interconnessione tra i diversi aspetti della realtà sociale, Marx vuole invece formulare una teoria generale dello sviluppo storico, all’interno della quale la sua attenzione di concentra sulla società capitalistica e sulle sue trasformazioni, sulle sue leggi di movimento (nella prefazione al Capitale scrive: fine ultimo di quest’opera e svelare la legge economica del movimento della società moderna).

Gli ingredienti intellettuali

Karl Marx (1818 – 1883) si forma all’Università di Berlino in un ambiente influenzato dalla filosofia hegeliana, la sua formazione iniziale è filosofica e giuridica e solo più tardi si è accostato allo studio dell’economia politica.

Tra il 1843 e il 1845 durante la sua permanenza a Parigi si accosta al pensiero riformista e socialista francese e alla tematica del conflitto di classe (Saint-Simon, Fourier, ecc.). Qui conosce Friedrich Engels (1820-1895) con il quale avvia una collaborazione e un’amicizia che sarebbe durata tutta la vita (con Engels scrisse nel 1846 L’ideologia tedesca rimasta inedita fino al 1937).

Lo studio dell’economia politica classica inglese lo svolgerà sistematicamente a Londra, a partire dal 1850, e darà vita a due scritti:


  • Per la critica dell’economia politica (1859);
  • Il Capitale (il primo volume pubblicato nel 1867; gli altri due furono pubblicati postumi a cura di Engels nel 1885 e nel 1894).

Nel pensiero di Marx troviamo una miscela complessa tra idealismo tedesco, socialismo francese ed economia classica inglese in cui non è possibile separare l’economia dalla sociologia ed entrambe da una teoria generale dello sviluppo storico. Marx vuole gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e aspetti istituzionali sono strettamente collegati e non sono separabili (Marx e Engels si impegnano anche sul campo politico come organizzatori del movimento dei lavoratori).

Egli resta fedele alla visione dialettica dell’idealismo hegeliano in cui la storia appare un continuo divenire attraverso stadi diversi. Il motore del cambiamento deve essere cercato nei fattori economico-sociali, cioè nel modo in cui gli uomini organizzano la produzione e permettono quindi alla società di mantenersi nel tempo. Le  condizioni economico-sociali prevalenti (i modi di produzione) generano nel tempo le forze sociali (le classi) che li metteranno in discussione portando a forme di organizzazione economica e sociale diverse. L’obiettivo del socialismo poteva essere concepito come un passaggio storico iscritto nelle leggi di movimento della società capitalistica. Per questo Marx si considerava come fondatore di un socialismo scientifico, contrapposto alle utopie dei precedenti pensatori socialisti. La teoria della storia basata sul materialismo dialettico apriva la strada al socialismo scientifico. Ma la visione totalizzante in cui “un unico schema spiega tutto” impegnerà lungamente il dibattito teorico e politico con interpretazioni fortemente divergenti.

La teoria dello sviluppo storico

Per Marx non è possibile separare analisi economica e contesto istituzionale. Egli critica i classici perché non ritenevano che lo sviluppo dovesse portare inevitabilmente al conflitto di classe e che tale conflitto dovesse a sua volta generare un superamento dell’economia capitalistica. Per Smith, lo sviluppo capitalistico avrebbe favorito la cooperazione e l’integrazione sociale. Per Malthus e Ricardo, vincoli naturali legati alla dinamica demografica e alla scarsa disponibilità di terra avrebbero in sostanza contribuito a mantenere la classe operaia a livello di sussistenza, impedendole di organizzarsi efficacemente per cambiare le proprie condizioni.

Marx, insistendo sul ruolo delle istituzioni, si pone due obiettivi:

  • storicizzare l’analisi economica, individuando sia forme di organizzazione corrispondenti a società diverse (a stadi differenti dello sviluppo storico), sia meccanismi di passaggio da uno stadio all’altro;
  • mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica e il mutamento che esso imprime all’intera società.

Non è per Marx possibile studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la produzione è sempre un processo sociale e non solo economico.

Da questa premessa discendono una serie di conseguenze tra loro collegate:

  • i rapporti sociali entro i quali gli individui producono (rapporti sociali di produzione) costituiscono per Marx l’elemento essenziale dal quale bisogna partire nell’indagine su ogni forma di società. essi fondano la divisione in classi nel senso che i membri di una determinata società si dividono a seconda del modo in cui partecipano alla produzione. Marx insiste in tutta la sua opera sul fatto che la società capitalistica non può essere concepita secondo il modello individualistico-utilitaristico dell’economia classica (individui isolati con pari opportunità che si scambiano beni e servizi cercando di massimizzare il loro interesse). Gli attori che scambiano sul

mercato non hanno pari opportunità e non sono su un piano di uguaglianza. Coloro che dispongono solo della propria capacità di lavoro sono costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte da chi controlla i mezzi di produzione, cioè dai capitalisti. Ma vediamo meglio in che modo;

  • i rapporti di produzione (che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, cioè l’insieme dei mezzi materiali di produzione) costituiscono la struttura della società. Questa struttura economica condiziona a sua volta l’organizzazione sociale e politica, l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo culturale, religioso e artistico; che insieme rappresentano la sovrastruttura della società. Per Marx ci può essere un certo ordine sociale in cui la classe dominante svolge un ruolo economico di sostegno allo sviluppo delle forze produttive e non si fonda sulla coercizione (es. i valori della classe che controlla i mezzi di produzione riescono a imporsi e sono condivisi anche dalla classe dominata; il potere culturale, sociale e politico, derivante dal controllo dei mezzi di produzione, non incontra ostacoli e viene accettato dalle classi subalterne);
  • l’ordine sociale e la società, caratterizzata da un determinato modo di produzione, sono però destinati a cambiare. Ciò avviene quando si forma una nuova classe sociale emergente che lotta contro la vecchia classe e contro i vecchi rapporti di produzione che costituiscono ora un vincolo per le forze produttive. Nel corso del conflitto viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Si diffondono nuove idee che criticano il vecchio ordine e la classe in esso dominante. Le stesse istituzioni politiche non riescono più a difendere adeguatamente la classe dominante e i preesistenti rapporti di produzione. Alla fine del processo un nuovo modo di produzione si afferma;
  • Marx non rinnega mai il ruolo attivo nel processo storico della coscienza di classe e dell’azione politica, ma resta profondamente convinto che questi fattori possono esplicarsi pienamente solo quando si hanno le condizioni economiche favorevoli;
  • sulla base dello schema teorico precedente, vengono individuate quattro tipi di società:
    • antica: si basa sul modo di produzione basato sulla schiavitù;
    • feudale: ………. servitù della gleba;
    • borghese: ……… lavoro salariato;
    • asiatica: ………. in cui vi è subordinazione dei lavoratori agricoli allo stato;

La crescita delle forze produttive, stimolata dalla borghesia, porterà alla formazione di una nuova classe, quella operaia, che cambierà il modo di produzione capitalistico e introdurrà il socialismo.

Questa teoria dello sviluppo storico ha esercitato un grande fascino per la sua apparente semplicità ma nel momento in cui si tenta di applicare lo schema a spiegazioni storiche emergono notevoli difficoltà.

Vediamo ora quali conseguenze ha l’applicazione della teoria dello sviluppo storico applicata alla società capitalistica e alla sua evoluzione, aspetto sul quale si concentra tutta l’opera matura di Marx.

Lo sviluppo capitalistico

Abbiamo visto come Marx rivendichi, nei riguardi dell’economia classica, la storicità delle forme di organizzazione economica. Egli vuole anche dimostrare che lo sviluppo capitalistico crea, nel corso della sua evoluzione, le condizioni economiche per il rafforzamento della classe operaia.

Per comprendere questo processo si può partire dall’interrogativo iniziale al quale cerca di rispondere Marx: quali sono le origini del profitto?


In un’economia capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, non ci può essere produzione  di beni se non c’è profitto per i detentori del capitale. Nello stesso tempo però il valore di scambio delle merci riflette la quantità di lavoro in esse incorporata (egli riprende la teoria del valore-lavoro di Ricardo). La forza  lavoro può essere paragonata ad una qualsiasi merce che viene acquistata ad un certo valore che è il salario e che viene fissato ad un livello necessario ad assicurare la sopravvivenza e la riproduzione dei lavoratori stessi e delle loro famiglie. Ma la forza lavoro acquistata dal capitalista e utilizzata nel processo produttivo crea più valore di quello necessario ad acquistarla (del salario); tale differenza viene definita pluslavoro e cioè plusvalore (esso dà la misura del tasso di sfruttamento della forza lavoro). D’altra parte, il progresso tecnico, nella misura in cui accresce la produttività del lavoro, si risolve in un aumento del plusvalore prodotto. A questo punto è chiara per Marx l’origine del profitto nel plusvalore.

Marx distingue tra capitale variabile (le anticipazioni salariali) e capitale costante (impianti e materie prime necessari per il processo produttivo) e sostiene che il capitale costante non crea valore aggiuntivo ma soltanto il capitale variabile ha questa capacità. Per composizione organica si intende il rapporto tra il capitale costante ed il capitale variabile; al crescere di tale rapporto diminuirà quindi il tasso di profitto. In una situazione di concorrenza i singoli capitalisti-imprenditori hanno però l’interesse ad introdurre nuove macchine e quindi ad aumentare il capitale fisso a spese del lavoro. Anche gli altri imprenditori gradualmente introdurranno le stesse innovazioni provocando:

  • aumento della disoccupazione (che Marx chiama l’esercito industriale di riserva) e peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia: quando aumenta la domanda di lavoro l’esercito si riduce e i salari aumentano; ciò determina una diminuzione del saggio di profitto e quindi un successivo calo della domanda di lavoro e un abbassamento del salario. Un eventuale crescita dei salari costituisce peraltro un ulteriore incentivo alla sostituzione di lavoro con macchinario che nel tempo significa ingrossamento dell’esercito industriale. Per Marx dunque la disoccupazione non è dovuta alla pressione demografica ma al funzionamento stesso dell’accumulazione capitalistica. L’accresciuta disoccupazione provoca un progressivo immiserimento dei lavoratori le cui condizioni di vita peggiorano. Anche le condizioni lavorative peggiorano (alienazione dei lavoratori ridotti a insignificante appendice della macchina);
  • caduta tendenziale del saggio di profitto che riduce lo stimolo alla produzione: la spinta alla meccanizzazione, se inizialmente favorisce il singolo capitalista a spese degli altri, più tardi, quando le innovazioni si diffondono, determina un abbassamento del saggio di profitto per il maggior peso del capitale costante rispetto a quello variabile e quindi al minor plusvalore.

Occorre tuttavia chiarire che i fattori economici, le “contraddizioni” del modo di produzione, non portano automaticamente alla sua crisi e al suo superamento. Essi costituiscono piuttosto le premesse che determinano la progressiva trasformazione della classe operaia da aggregato di individui in concorrenza tra loro sul mercato del lavoro a gruppo sociale coeso, ad attore storico. Solamente quando questo processo si compie, e la classe operaia si organizza politicamente, si determina la trasformazione del vecchio modo di produzione.

Il circolo vizioso della sociologia economica di Marx

La sociologia economica di Marx sfocia in un circolo vizioso: la crisi economica dipende dal conflitto di classe, ma questo rimanda alla crisi economica.


Nella sua indagine sullo sviluppo capitalistico M. sostiene che non è possibile separare l’analisi dei fenomeni economici dai rapporti tra le classi sociali e dalle istituzioni su cui si fondano. Tale prospettiva ha come punti di forza la capacità di rendere conto degli aspetti dinamici dell’economia (spinta alla meccanizzazione e processo di concentrazione) e degli effetti di destabilizzazione sociale e di conflittualità che si accompagnavano allo sviluppo capitalistico (aspetti che non trovavano posto adeguato negli schemi degli economisti classici).

Due erano però i limiti:

  • la sottovalutazione delle capacità di riproduzione dell’economia capitalistica: l’ipotesi marxista della caduta del saggio di profitto non tiene conto del progresso tecnico che può far aumentare la produttività del lavoro e  quindi i profitti. Tali profitti possono essere reinvestiti in nuovi macchinari che assorbiranno la manodopera espulsa dalla prima meccanizzazione. Il progresso tecnico può anche comportare un abbassamento dei prezzi dei nuovi macchinari prodotti, il che, nella stessa prospettiva di Marx, non farebbe aumentare la composizione organica e non farebbe calare il profitto;
  • la sopravvalutazione del conflitto di classe e delle sue conseguenze rivoluzionarie per l’economia e la società: gli economisti consideravano le classi come semplici aggregati funzionali che tendevano a massimizzare il proprio profitto (capitalisti ""' profitto, proprietari ""' rendita e lavoratori ""' salario) mentre per Marx le classi potevano essere gruppi sociali consapevoli e quindi passare da aggregati funzionali ad attori storici (passaggio dalla “classe in sé” alla “classe per sé”), questo grazie alla concentrazione nelle grandi fabbriche e nelle  grandi città industriali con conseguente facilità di comunicazione, omogeneizzazione delle condizioni di vita e di lavoro, organizzazione sindacale e politica e lotta contro i capitalisti. Marx resta convinto che la dinamica economica dello sviluppo capitalistico avrebbe creato una progressiva polarizzazione tra due classi sociali fondamentali, capitalisti e lavoratori, una crescita della coscienza e dell’organizzazione della classe operaia e una conflittualità dirompente. Ma la storia ha smentito Marx: la capacità di riprodursi dell’economia capitalistica, la sua capacità di creare e distribuire ricchezza, di assicurare mobilità sociale, non hanno portato alla polarizzazione prevista da Marx. Nello stesso tempo, le specificità culturali e politico-istituzionali dei vari paesi hanno attenuato il conflitto accogliendo le domande economiche, sociali e politiche formulate dalle sue organizzazioni di rappresentanza. Vediamo quindi anche la smentita di una sottovalutazione del ruolo dello Stato il cui intervento viene paradossalmente stimolato proprio dalla crescita del movimento operaio che Marx aveva ben previsto (esiti rivoluzionari si sono avuti in paesi come la Russia e la Cina dove le forze produttive erano più arretrate).

La critica marziana conduce ad una teoria troppo rigida in cui si riduce drasticamente il ruolo delle istituzioni non economiche.

Marx voleva trovare leggi generali della società (simili a quelle naturali) ed era inoltre convinto della necessità della rivoluzione.

Il tentativo di sviluppare una teoria a elevata generalizzazione che servisse anche a fondare scientificamente l’azione politica compromette la sociologia economica di Marx. Il suo contributo resta però fondamentale per lo sviluppo di un’analisi istituzionale dell’economia. Egli ha il merito di aver riconosciuto i condizionamenti sociali dell’azione economica (come vedremo con Smith ed altri classici) e quello di aver attirato l’attenzione su una variabile cruciale che collega economia e società: le classi sociali.


Ma la sociologia economica successiva svilupperò un orientamento più sensibile alla interdipendenza tra fenomeni economici e sociali, e riconoscerà maggiore autonomia alle istituzioni culturali e politiche nell’influenzare il conflitto di classe e l’organizzazione economica. Quindi un approccio meno volto alla formulazione di leggi generali, più induttivo, più sensibile alla variabilità storica dei fenomeni.


CAPITOLO 3 ECONOMIA NEOCLASSICA E SOCIOLOGIA ECONOMICA

Abbiamo visto come per i classici, in particolare per Smith, l’analisi dell’economia fosse ancora poco differenziata da quella delle istituzioni che ne regolano il funzionamento. In questo capitolo seguiremo il percorso che, con la “rivoluzione marginalista”, porta l’economia neoclassica ad assumere una prospettiva più generale e astorica. Lo studio dei rapporti tra istituzioni e attività economica viene così assunto dalla sociologia economica come  disciplina autonoma.

  1. LA RIVOLUZIONE MARGINALISTA

Smith considerava naturale studiare la formazione dei prezzi dei beni sulla base del rapporto tra domanda e offerta di mercato occupandosi, nello stesso tempo, del ruolo dello stato e di quello dell’organizzazione d’impresa nello sviluppo economico.

I suoi successori, come Ricardo, avviarono quella che abbiamo definito una svolta economicista (analisi economica e analisi delle istituzioni si separano più nettamente).

Sia Marx che gli storicisti riportano l’attenzione sul ruolo delle istituzioni e sottolineano l’esigenza di storicizzare l’indagine economica (ma vanno incontro a problemi e difficoltà non indifferenti dal punto di vista analitico).

Negli ultimi decenni dell’ottocento con la rivoluzione marginalista l’economia neoclassica si separa in modo più netto e rigoroso dallo studio delle istituzioni assumendo una prospettiva più generale e astorica.

Lo studio dei rapporti tra istituzioni e attività economica si autonomizza e si specializza e diventa il fulcro di una prospettiva analitica e disciplinare più precisa e definita: quella della sociologia economica.

Tre autori, lavorando in modo indipendente, raggiunsero conclusioni simili, anche se attraverso processi diversi:

  1. l’inglese Stanley Jevons (1835 – 1882);
  2. l’austriaco Carl Menger (1840 – 1921);
  3. il francese Leon Walras (1834 – 1910).

La nuova spiegazione del valore

Il punto di partenza della critica marginalista riguarda l’insoddisfazione per la teoria del valore.

I classici ancorano la spiegazione del valore alla sfera della produzione. Ricardo e Marx davano poi un peso essenziale al lavoro come causa del valore.

I marginalisti sostengono che per affrontare correttamente il problema del valore occorre partire dalla domanda e non dall’offerta dei beni. I prezzi riflettono il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai diversi prodotti. La soddisfazione (utilità) tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva (marginale) dello stesso bene. Ciò significa che l’utilità marginale per i consumatori è decrescente. Il prezzo è allora determinato da ciò che i consumatori saranno disposti a pagare per l’ultima unità aggiuntiva di quel bene stesso. Se il prezzo fosse superiore all’utilità marginale, una parte del bene in questione non sarebbe venduta e, in una situazione di concorrenza perfetta, il prezzo offerto dai venditori scenderebbe fino a uguagliare l’utilità marginale. In letteratura è noto il paradosso dell’acqua e dei diamanti: ci si chiede perché i diamanti costano molto più cari dell’acqua pur essendo meno utili. Questo dipende dalla loro disponibilità totale che è ridotta rispetto all’acqua (se siamo in mezzo al deserto un bicchiere d’acqua costerebbe più caro che un diamante).

I marginalisti hanno esteso il calcolo marginale all’intero meccanismo economico (alla produzione dei beni ed alla distribuzione dei redditi).


Tali ipotesi sul comportamento economico dei soggetti valgono soltanto in condizioni di mercato concorrenziale perfetto cioè:

  1. quando i soggetti conoscono tutte le informazioni necessari ad assumere le decisioni più conformi ai loro obiettivi (perfetta conoscenza dei mercati);
  2. quando vi è piena mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro) nella ricerca delle opportunità più remunerative;
  3. quando vi sono un grande numero di venditori e di acquirenti per lo stesso tipo di bene (i prodotti devono avere le stesse caratteristiche qualitativa). In questo modo nessun soggetto è in grado di influire individualmente sui prezzi (escluse quindi situazioni di monopolio o oligopolio).

Consumo, produzione e distribuzione

Il principio di utilità marginale suggerisce che il consumatore massimizzerà la sua soddisfazione soggettiva (cioè la sua utilità complessiva) distribuendo il reddito tra i vari beni in modo coerente rispetto alle sue preferenze di consumo. Le scelte dei consumatori costituiscono per i marginalisti il dato di partenza di tutto il meccanismo economico. Ciascun produttore cercherà di massimizzare il profitto (rendere massima la differenza tra valore della produzione venduta e costi totali). Egli cercherà di combinare i fattori produttivi (capitale, lavoro) nel modo più efficiente che consiste nello stabilire il proprio livello di produzione in modo che il costo marginale (cioè il costo dell’ultima unità prodotta) sia uguale al prezzo di mercato. In questo modo il complesso delle imprese finisce per offrire una quantità pari a quella domandata dai consumatori ai prezzi più bassi possibili che sono costituiti dal costo marginale. Ma come si raggiunge questo risultato?

Il mercato concorrenziale determina il prezzo di equilibrio, cioè il prezzo al quale l’utilità marginale dei consumatori (quello che essi sono disposti a pagare per l’ultima unità di bene) uguaglia il costo marginale dei produttori (il costo dell’ultima unità che questi hanno interesse a offrire). Spieghiamo meglio: se il prezzo di un bene è inferiore ai costi complessivi di produzione, l’offerta di quel bene da parte delle singole imprese diminuirà, e nel lungo periodo cesserà, fino a quando il prezzo a sua volta non salirà. Le imprese usciranno progressivamente dalla produzione, a partire da quelle meno efficienti nel combinare i fattori produttivi. Al contrario, se il prezzo di mercato è superiore ai costi medi, ciò spingerà col tempo nuove imprese a entrare nella produzione dello steso bene, aumenterà la quantità prodotta e quindi il prezzo scenderà fino al livello pari ai costi di produzione. In questa situazione, per effetto della concorrenza, le imprese cercheranno di massimizzare il profitto portando la produzione al  livello in cui il costo marginale (dell’ultima unità prodotta) è uguale al prezzo di mercato.

Un ulteriore passo nell’applicazione dell’analisi marginale fu la sua estensione allo studio della distribuzione. Per i classici la distribuzione del reddito si basava sui prezzi naturali, cioè sui prezzi di produzione (es. i salari sono agganciati al costo della sussistenza per i lavoratori). Per i marginalisti anche i redditi derivano invece, indirettamente, dalla domanda dei consumatori. Questa spinge a produrre certi beni che richiedono il contributo specifico di vari fattori produttivi (capitale, lavoro, terra, imprenditorialità). Il reddito che riceveranno tali fattori sarà commisurato al contributo che essi danno alla produzione.

L’equilibrio economico generale

Walras si è dedicato alla dimostrazione dell’equilibrio economico generale cioè del fatto che i diversi mercati  (dei prodotti e dei fattori produttivi) sono interdipendenti tra loro e che condizioni di concorrenza perfetta determinano il raggiungimento simultaneo di una situazione di equilibrio in tutti i mercati. La dimostrazione,


effettuata con strumenti matematici, che esistono dei prezzi compatibili con l’equilibrio generale è importante perché mostra l’efficienza allocativa del mercato in modo più rigoroso di quanto non avessero fatto i classici.

Lo storico Braudel (1977) aveva però sottolineato il fatto che tale risultato si ha soltanto in condizioni ideali molto restrittive (vedi fine par. 1.1) ed inoltre che l’efficienza allocativa del mercato non significa che esso sia equo (le persone non sono dotate dello stesso potere di acquisto, alcune sono molto povere e non per colpa loro, altre sono molto ricche grazie alla fortuna o all’eredità anziché per merito della loro abilità o intelligenza).

Lo spazio analitico dell’economia neoclassica

La domanda fondamentale a cui cercano di rispondere i marginalisti è: “data una popolazione con i propri bisogni e le proprie capacità di produzione, in possesso di determinate terre e di altre fonti di produzione, trovare il modo di impiegare il lavoro al fine di massimizzare l’utilità del prodotto”.

Ci si allontana dall’originaria prospettiva dell’economia classica perché:

  1. l’analisi statica si afferma a scapito di quella dinamica: la preoccupazione primaria non è più lo sviluppo economico ma l’allocazione efficiente di risorse. Smith, Malthus e Ricardo volevano tutti indagare la crescita economica all’interno di un contesto caratterizzato dalle istituzioni economiche capitalistiche  (proprietà  privata dei mezzi di produzione e lavoro salariato). Gli storicisti e Marx criticarono con esiti diversi questa prospettiva, ma solo perché ritenevano che gli economisti non storicizzassero abbastanza nello spazio e nel tempo la loro analisi. I neoclassici quindi abbandonano la prospettiva dinamica e non si propongono più di descrivere-interpretare una forma di organizzazione storica determinata, ma vogliono ora esplorare, in generale, quale sarebbe il modo più efficiente di allocare le risorse, date certe condizioni;
  2. l’economia diventa una teoria della scelta con un orientamento analitico-deduttivo. Si postulano determinati obiettivi da parte degli attori (massimizzazione di utilità) e condizioni che ne vincolano l’azione (mercato di concorrenza perfetta) e se ne deducono determinati risultati (equilibrio economico;
  3. l’economia si svincola dal riferimento a variabili istituzionali: l’unità di analisi è costituita da individui isolati che sviluppano i propri fini indipendentemente gli uni dagli altri e cercano di massimizzare le risorse di cui dispongono in condizioni di concorrenza perfetta. Questo implica che i fattori istituzionali (valori condivisi in una certa società) che possono influenzare l’individuo non vengono presi in considerazione dalla prospettiva economica che lo considera influenzato esclusivamente dal calcolo razionale.

I neoclassici non prendono in considerazione dunque i fattori di natura istituzionale che influenzano il comportamento. Menger spiega che introducendo variabili istituzionali non è possibile mantenere quel livello di regolarità e prevedibilità a priori nel comportamento degli attori che è compatibile con la determinazione dei prezzi di equilibrio e con la dimostrazione dell’equilibrio economico generale. La rottura con i classici porta l’economia a ritirarsi dal terreno istituzionale per adeguarsi ai canoni di generalizzazione teorica e precisione analitica delle scienze più consolidate, quelle della natura.

Ma sappiamo che sul piano storico è difficile incontrare situazioni che soddisfino pienamente queste condizioni; si determina dunque uno scarto tra validità analitica e applicabilità empirica del modello, sul quale si appunteranno tradizionalmente le critiche all’economia neoclassica.

Vediamo ora in che modo ad esse viene data risposta.

  1. DUE DIFESE DELL’ECONOMIA NEOCLASSICA

Possiamo individuare due risposte tipiche, dal versante dell’economia, alla critica di scarso realismo:


  1. la via analitica, percorsa maggiormente da economisti dell’Europa continentale (Menger e Pareto), che difende le tre caratteristiche già ricordate nel quadro analitico neoclassico (staticità, normatività, esclusione delle istituzioni);
  2. la via empirica, predominante nel mondo anglosassone (Marshall) si pone in maggiore continuità con la tradizione classica mantenendo all’interno del quadro analitico il riferimento a fattori istituzionali.

La via analitica: Menger e Pareto

L’austriaco Menger (1882) ribatterà alle critiche che le proposizioni della teoria economica sono astrazioni analitiche, e come tali non possono essere verificate direttamente sul piano empirico.

Menger distingue l’ambito dell’economia politica tra:

  1. approccio storico: volto alla spiegazione dei fenomeni individuali;
  2. approccio dell’economia teorica: che ha l’obiettivo di individuare e spiegare le regolarità del comportamento economico che può avere due orientamenti:
    1. orientamento alla ricerca esatta (o economia pura): per Menger utilizzare il metodo empirico per determinare la validità delle proposizioni dell’economia esatta è un’incongruenza metodologica in quanto le leggi economiche sono valide per un mondo economico concepito in astratto che esclude gli elementi non economici;
    2. orientamento empirico-realistico: esso deve tener conto di come i vari motivi si combinino tra loro dando luogo a forme specifiche di comportamento economico che variano nello spazio e nel tempo.

Per Menger entrambi gli orientamenti sono importanti e contribuiscono alla spiegazione e al controllo dei fenomeni economici (così come è importante affiancare la chimica e la fisica alla fisiologia).

Considerazioni simili sono sviluppare dall’italiano Vilfredo Pareto (1848 – 1923) che era stato attratto dall’applicazione dell’analisi matematica allo studio dell’equilibrio economico. egli è stato ancor più noto per il successivo lavoro sociologico, sfociato nel Trattato di sociologia generale (1916).

In effetti, Pareto, avendo lavorato nel campo dell’economia, si era convinto che questa disciplina poteva offrire un contributo molto limitato alla comprensione del comportamento umano concreto (es. nonostante dimostrasse i vantaggi delle politiche non protezionistiche, queste venivano molto spesso perseguite). Per trovare risposte soddisfacenti a questi interrogativi bisognava ricorrere alla sociologia. Nello stesso tempo, però, da questo non se ne poteva affatto dedurre l’inutilità dell’economia pura (cioè dell’approccio neoclassico) che difese sostanzialmente come fece Menger.

L’economia pura dà conoscenze estremamente importanti purché non si confondano con la spiegazione dei fenomeni concreti. Questo obiettivo richiede invece l’integrazione della teoria economica con quella sociologica. L’economia studia quella parte dei fenomeni concreti che è determinata dalla massimizzazione dell’utilità (le cosiddette azioni logiche, cioè quelle in cui non vi è divergenza tra il comportamento effettivo del soggetto e quelle norme di comportamento efficiente illustrate dall’economia pura).

Nella realtà però i fenomeni concreti sono molto influenzati dalle azioni non-logiche, cioè quelle influenzate da fattori di natura psicologica e istituzionale che sono il campo di studio della sociologia.

Fin qui dunque Pareto presenta una difesa dell’economia dall’accusa di scarso realismo sostanzialmente analoga a quella di Menger: l’economia pura è una disciplina analitica astratta le cui proposizioni hanno un valore normativo.


Entrambi rimandano al contributo di altre discipline per lo studio dei fenomeni concreti, nei quali il comportamento economico è variamente influenzato da fattori di natura istituzionale.

Mentre Menger guarda ad uno studio di orientamento empirico-realistico per Pareto lo studio dei fenomeni  concreti richiede lo sviluppo preliminare di una sociologia generale che abbia lo stesso carattere analitico dell’economia. Pareto stesso si impegna su questo terreno, e non a caso il suo contributo specifico alla sociologia economia è molto limitato. Per l’italiano il modo migliore di procedere della conoscenza scientifica è infatti quello di individuare e separare analiticamente i diversi elementi (che influiscono sull’azione) e di studiarli isolatamente. Soltanto in un secondo tempo si possono mettere insieme le diverse parti per “aver la teoria del fenomeno complesso”. In questa prospettiva, l’economia è già molto avanti nello studio delle componenti logiche dell’azione, mentre parecchia strada resta ancora da fare per la teoria delle componenti non-logiche che è l’oggetto della sociologia.

La via empirica: Marshall

Alfred Marshall (1842 – 1924) è l’economista che ha forse maggiormente influito sulla pratica effettiva della disciplina nel contesto anglosassone, tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento.

Nonostante abbia contribuito direttamente allo sviluppo dell’analisi marginalista, la sua posizione teorica mantiene legami stretti con la tradizione dell’economia classica filtrata attraverso la sistematizzazione fattane da Mill (1806- 1873).

La risposta di Marshall si articola a due livelli:

  1. il primo si muove all’interno dell’approccio basato sull’utilità marginale (si muove nello schema neoclassico ponendo l’enfasi non sul problema dell’equilibrio economico generale ma sullo studio degli equilibri parziali: es. il comportamento dell’impresa concorrenziale in condizioni di mercato date, nell’ambito di un singolo settore);
  2. nel secondo mette in discussione i presupposti dello schema neoclassico reintroducendo i fattori istituzionali. Per Marshall, come per Parsons, la scelta dei fini e dei mezzi è influenzata da valori condivisi. I fini che gli uomini vogliono perseguire (in termini di consumi da soddisfare) non sono determinati biologicamente come per gli animali. Solo nella fase primitiva il condizionamento biologico gioca un ruolo essenziale ma successivamente sono le nuove attività (forme di organizzazione economica costituite dallo sviluppo della libera attività produttiva e della libera iniziativa) che determinano l’emergenza di nuovi bisogni, e non viceversa. I bisogni variano nel tempo e sono socialmente condizionati.

Un punto di contrasto essenziale con l’impostazione neoclassica più radicale è la prospettiva dinamica con cui Marshall torna a parlare di sviluppo economico. la legge di sostituzione è per Marshall il motore dello sviluppo economico: consiste nella continua combinazione dei fattori produttivi operata dagli imprenditori alla ricerca di maggiore efficienza. Il principio di sostituzione si può considerare niente altro che un’applicazione speciale e limitata della legge di sopravvivenza dei più adatti. Tale visione è fortemente influenzata dalla biologia (Herbert Spencer). Marshall è convinto che lo sviluppo economico favorirà la razionalizzazione dei comportamenti e accrescerà le possibilità di cooperazione collettiva. Marshall traccia con decisione una via empirica di difesa dell’economia neoclassica che lo porta a incorporare le istituzioni nel quadro analitico e ad avvicinarsi a una sociologia di tipo evoluzionistico. In questa prospettiva l’economia diventa uno strumento per la comprensione complessiva della società.


A differenza di quel che avviene con la via analitica, la posizione di Marshall lascia dunque meno spazio autonomo alla sociologia. Egli è sospinto verso una sociologia evoluzionistica sul modello di quella di Spencer, ma la sua economia si pone come diretta concorrente con tale prospettiva. In lui, come nei classici, la sociologia economica resta dunque ancora all’interno dell’economia.

  1. LA SOCIOLOGIA PRIMA DELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo, la sociologia economica si emancipa dall’economia e acquista un suo profilo specifico nell’ambito della sociologia (avviene soprattutto in Germania con Sombart e Weber).

E’ importante capire le origini della tradizione economica e quelle della tradizione sociologica.

Raymond Aron (1965) ha proposto di distinguere tra:

  1. un modo di pensare sociologico: riflessioni sul comportamento dell’uomo in relazione agli altri uomini, e sulle forme di organizzazione della società che ne risultano, fanno naturalmente parte di tutta la storia del pensiero, ma una specifica prospettiva sociologica si fa strada solo tra il XVIII e il XIX secolo. ciò significa che il comportamento dell’uomo in società, e le strutture stabili cui dà luogo, non siano più spiegabili con fattori religiosi o politici ma sociali (istituzioni, norme di comportamento, che derivano dall’azione umana e che una volta affermatesi contribuiscono a orientare il comportamento fino a quando non ne vengono modificate). Aron considera Montesquieu un precursore di questo modo di pensare (1750). Perché si possa affermare il modo di pensare sociologico è necessario che la società appaia governata da leggi impersonali che si impongono ai singoli individui (e non dal governo religioso e politico); questo si verifica con lo sviluppo del capitalismo e l’estendersi del mercato come meccanismo di regolazione delle attività economiche. In questo senso si può dire che l’economia apra la strada alla sociologia. Importante è anche il rapido cambiamento della società occidentale (indipendenza americana, rivoluzione francese);
  2. un’intenzione scientifica rivolta allo studio della società. Il metodo scientifico che si era fatto strada nello  studio dei fenomeni naturali accompagnandosi al nuovo modo di pensare sociologico, porta all’emergere dell’intenzione scientifica sistematica nello studio della società. Con Comte e Spencer si afferma, nel corso dell’Ottocento, la sociologia come disciplina autonoma che intende applicare il metodo delle scienze naturali allo studio della società. La sociologia come scienza autonoma nasce dunque con una forte connotazione positivista e con il fine di ricavare leggi generali di funzionamento della società che abbiano una validità oggettiva.

Herbert Spencer (1820 – 1903) cerca di conciliare una spiegazione individualistica del comportamento umano con l’idea dei condizionamenti sociali dell’azione, tipica della prospettiva sociologica. L’orientamento individualistico era molto radicato nel contesto anglosassone; l’economia stessa si era sviluppata nell’alveo della filosofia individualistica inglese. Egli sostiene che effettivamente nella moderna società industriale i rapporti sociali si basano sulla cooperazione volontaria e non su quella coatta (del potere religioso o politico). Per Spencer il comportamento è socialmente condizionato (idee e sentimenti sono influenzati dalle esigenze funzionali della società). la società deve essere considerata come un organismo costituito da parti tra loro interdipendenti (in analogia con il corpo umano). Come ogni organismo vivente, la società tende a crescere di dimensioni e ciò spinge alla formazione di strutture separate e specializzate per l’assolvimento più efficiente dei compiti necessari alla sua sopravvivenza nell’ambiente.


La visione organicista mantiene un carattere sintetico e generalizzante che scoraggia l’autonomia della sociologia economica. Essa tratta infatti la società come un sistema e cerca di mettere soprattutto in evidenza gli elementi comuni a tutte le società e alla loro evoluzione.

È in un clima di sfiducia e di delusione nei riguardi delle promesse dell’illuminismo che emerge in Francia la sociologia come scienza autonoma. Nell’opera di Auguste Comte (1798 – 1857) che viene espressa per la prima volta la necessità di uno studio scientifico della società che egli chiama sociologia (intesa come parte complementare della filosofia naturale che si riferisce allo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie ai fenomeni sociali). Occorre applicare allo studio della società la stesso metodo positivo delle scienze della natura, e ricercare le leggi generali che ne spiegano l’ordine (statica sociale) e il cambiamento (dinamica sociale). Solo nella fase storica più recente è possibile porsi questo obiettivo, perché le conoscenze umane seguono una legge di sviluppo basate su tre stadi: teologico, metafisico e positivo. A ciascuno stadio dell’evoluzione intellettuale corrisponde una determinata forma di organizzazione sociale. La sociologia si sviluppa più tardi di altre scienze per la maggiore complessità del suo oggetto. La sociologia condivide con la biologia una visione organicistica: così come non si può comprendere la funzione di un determinato organo isolandolo dal corpo umano nel suo complesso, non è possibile analizzare la religione, l’economia o la politica se non partendo dai caratteri generali della società in cui tali attività si esplicano, e dal suo stadio di sviluppo storico.

Anche per Comte, prima ancora che per Spencer, il positivismo si accompagna a una visione organicistica della società. Gli effetti per l’emancipazione della sociologia economica sono altrettanto negativi. La sociologia comtiana non lascia spazio ad un’indagine specifica e autonoma sui rapporti tra economia e società. il suo fuoco è sull’insieme: su ciò che accomuna più che su quello che separa le diverse società. Inoltre, a differenza di Spencer, l’organicismo di Comte è anti-individualistico. Per Spencer idee e sentimenti sono selezionati dalle esigenze funzionali mentre per Comte la società si basa sul sentimento della solidarietà comune, su un sistema di valori condiviso. Per Comte è il consenso che tiene insieme la società, ma esso è minacciato dalla divisione del lavoro e dallo sviluppo economico e deve pertanto essere sostenuto e garantito con opportune misure politiche di controllo dell’economia di mercato e di riduzione delle disuguaglianze.

Nonostante queste differenze, la prospettiva organicista, da entrambi condivisa, tende in definitiva a scoraggiare la sociologia economica.

  1. PERCHE’ LA SOCIOLOGIA ECONOMICA NASCE IN GERMANIA

Il contesto tedesco appare molto diverso da quello inglese e francese. Esso è fortemente influenzato dalla filosofia idealistica, che da un lato orienta la tradizione economica nella direzione dello storicismo, e dall’altro allontana la sociologia da positivismo e dall’organicismo anglofrancese. Abbiamo già visto (cap. 2 par. 2) come l’economia sia stata influenzata dall’eredità culturale di Kant e di Hegel, e dei suoi seguaci, che enfatizzano il ruolo dei valori (dello spirito) nello sviluppo economico, e criticano il pensiero economico classico per le sue pretese teoriche generalizzanti. D’altro canto è possibile che la forza dell’orientamento storicistico in economia abbia contribuito a rendere più radicale la critica neoclassica, e soprattutto a orientarla decisamente verso la via analitica. Abbiamo visto come Menger, esponente in primo piano della scuola austriaca, abbia dovuto fare i conti con lo storicismo (nel cosiddetto dibattito sul metodo) che lo aveva contrapposto a Schmoller, esponente della giovane scuola storica di economia.


I risultato di queste vicende è che l’economia teorica neoclassica non include al suo interno problemi di sociologia economica (come accade con Marshall) ma assume una connotazione radicalmente analitica.

Nello stesso tempo tali problemi sono ampiamente trattati dalla scuola storica di economia (Roscher, Knies, Schmoller) per la quale l’economia va compresa con riferimento alle istituzioni in cui è inserita. Richiede descrizioni empiriche dettagliate delle economie nazionali e non consente generalizzazioni teoriche più ampie.

L’influenza dello storicismo è particolarmente importante per l’emergere di una prospettiva analitica autonoma di sociologia economica (Weber e Sombart). Il passaggio dallo storicismo alla sociologia economica richiede che vengano affrontati e superati due problemi:

  1. da un lato, il descrittivismo empirico e l’indeterminazione teorica;
  2. dall’altro, il ricorso a concetti ambigui e non verificabili (es. lo “spirito del popolo” come differenza tra le diverse economie nazionali).

E’ a Max Weber (1864 – 1920) che dobbiamo guardare per trovare una risposta al superamento di tali limiti. Agli inizi del ‘900 sviluppa i fondamenti metodologici della sociologia economica misurandosi sistematicamente con due interlocutori: lo storicismo economico e la critica filosofica della conoscenza sociologica.

Nel 1872 fu fondata un’associazione per lo studio delle politiche sociali nella quale Schmoller era la figura di spicco. Essa esprimeva l’egemonia dello storicismo nell’indagine economico-sociale e promuoveva ricerche e discussioni sulle conseguenze sociali dello sviluppo economico. Tra i collaboratori più giovani vi furono Weber e Sombart (Il capitalismo moderno, 1902), quest’ultimo meno direttamente impegnato sul versante metodologico ma condivideva sostanzialmente le posizioni di Weber. L’opera di Sombart e quella di Georg Simmel (Filosofia del denaro, 1900) influenzerà il lavoro di Weber sul capitalismo occidentale (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-1905). L’opera di Sombart può considerarsi la prima opera sistematica di una sociologia economica più autonoma e consapevole. Il saggio di Weber su Roscher e Knies (1903) e quello su L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) costituiscono le basi metodologiche della  sociologia economica.

La riflessione metodologica di Weber

Seguendo alcuni aspetti essenziali possiamo valutare in che modo avvenga il passaggio dallo storicismo alla sociologia economica. Il primo passo fu la critica del modo di procedere dello storicismo. Gli storicisti si opponevano agli schemi generalizzanti dell’economia classica e neoclassica, in nome delle particolarità istituzionali delle diverse economie nazionali, ma finivano con lo spiegare tali particolarità ricorrendo a strumenti teorici ambigui (es. “spirito del popolo”, ecc.).

Se gli economisti della scuola storica avevano criticato l’economia classica e neoclassica, gli esponenti prestigiosi della storiografia tedesca avevano criticato la pretesa della sociologia positivista anglofrancese di formulare leggi generali della società. Ma Weber difende le posizioni storiciste dei filosofi a lui contemporanei di formazione idealistica, come Dilthey, e dei neokantiani Windelband e Rickert. È con questi che egli si misura per sviluppare in positivo la sua posizione teorica.

La critica della sociologia positivista aveva insistito maggiormente su due aspetti:

  1. l’uomo è libero di plasmare la storia. Come essere consapevole egli forgia le istituzioni sociali e le modifica continuamente con l’evoluzione culturale. Non è quindi possibile operare delle generalizzazioni, né   prevedere

il corso dell’azione umana, perché questa non ha i caratteri di regolarità e uniformità che caratterizzano i fenomeni naturali;

  1. se non si può spiegare un determinato fenomeno sociale facendo riferimento a qualche legge generale, l’unica opportunità di conoscenza non si basa su spiegazioni causali (quelle che la sociologia positivista pretende di offrire) bensì sulla capacità di comprensione di un determinato contesto storico visto nella sua particolarità.

Weber risponde a queste critiche: lo studio dei fenomeni sociali non si differenzia da quello dei fenomeni naturali per le caratteristiche del suo oggetto, come aveva sostenuto Dilthey con al sua distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Per Weber lo studioso della società, così come quello della natura, opera con concetti, con generalizzazioni e astrazioni, perché ciò è indispensabile a qualsiasi conoscenza. Lo storico che pretende di descrivere una determinata realtà empirica usa inevitabilmente degli schemi teorici di spiegazione, spesso impliciti, che sono poco rigorosi o discutibili, come nel caso dello storicismo economico.

Weber riconosce che le scienze sociali non hanno l’obiettivo di formulare leggi generali ma di spiegare fenomeni storici visti nella loro individualità e da questo punto di vista la sua posizione è vicina a quella di Windelband e Rickert che avevano distinto tra scienze della natura di tipo nomotetico, volte alla formulazione di leggi generali, e scienze sociali di tipo idiografico, che mirano alla spiegazione di fenomeni storici particolari.

Come è possibile studiare scientificamente i fenomeni sociali nella loro individualità storica? Per Weber ciò richiede due condizioni essenziali:

 

  1. bisogna fare riferimento alle motivazioni dei soggetti agenti: è vero che gli uomini agiscono in base a motivazioni mutevoli ma ciò non implica che tali motivazioni siano talmente eterogenee da non fondare alcuna regolarità di comportamento significativa. La comprensione non è alternativa rispetto alla spiegazione causale e alla verifica empirica, ma anzi deve essere coniugata con esse. Il punto di vista dello studioso riflette inevitabilmente i suoi valori (Weber si richiama al concetto di Rickert di relazione ai valori che utilizza però in modo diverso) e lo orienta nel formulare ipotesi di spiegazione delle motivazioni degli attori e delle conseguenze che ne discendono. La validità di queste ipotesi deve però essere verificata dalla ricerca (verifica empirica) per garantire la validità intersoggettiva della spiegazione. Non si pretende di indicare la totalità delle cause che hanno determinato un certo fenomeno storico, ma solo di mettere in evidenza alcune condizioni di quel fenomeno, ritenute particolarmente significative alla luce del punto di vista adottato dallo studioso. Punti di vista diversi possono portare a ipotesi e spiegazioni diverse. La verifica empirica stabilisce la minore o maggiore attendibilità della spiegazione e a sua volta contribuisce a riorientare le ipotesi dello studioso;
  2. bisogna studiare le uniformità di comportamento derivanti da motivazioni simili: se vogliamo stabilire in che misura, per esempio, lo sviluppo capitalistico di un paese è stato influenzato dalle idee religiose, dobbiamo avere una teoria più generale dei rapporti tra idee religiose e sviluppo economico. dobbiamo sapere in che misura alcune idee religiose determinano certe uniformità di comportamento con conseguenze per le attività economiche. Ciò consente di valutare il ruolo del fattore causale religione in una determinata situazione storica, anche attraverso la comparazione tra casi diversi di sviluppo. Lo studio delle uniformità di comportamento, delle loro origini e delle loro conseguenze è proprio della sociologia. Essa studia i tipi di agire sociale (analizza regolarità di comportamento socialmente determinate, prodotte cioè dal fatto che l’azione individuale tiene conto del comportamento di altri individui con cui si interagisce e delle loro reazioni. La sociologia comprendente mira a ricostruire il senso oggettivo, cioè le motivazioni che spingono gli attori a comportarsi  in

un certo modo sulla base di aspettative condivise relative al comportamento altrui. L’agire si concretizza in relazioni sociali più o meno stabili e prevedibili che possono essere fondate su uniformità di comportamento di fatto, come nel caso di usi (es. una moda) o di costumi (consuetudini di lunga durata), o ancora di usi condizionati da una situazione di interessi (perseguimento razionale del proprio interesse, come nei rapporti di mercato). Le relazioni sociali sono maggiormente prevedibili quando riguardano uniformità di comportamento che si basano su convenzioni la cui inosservanza comporta qualche forma di disapprovazione sociale (es. rapporti familiari) o su ordinamenti giuridici, dotati di sanzioni coercitive (es. leggi dello stato). Le  motivazioni che spingono gli individui a uniformarsi ai vari tipi di norme di comportamento sono diverse e spesso si combinano tra loro ma dal punto di vista analitico si possono individuare alcune determinanti fondamentali: azione razionale rispetto a uno scopo (si valutano i mezzi più efficaci per raggiungere uno scopo dato), azione razionale rispetto al valore (motivata dalla credenza in certi principi, es. etici o religiosi), affettive (legami familiari) o tradizionali (quando ci si rifà ad abitudini acquisite e indiscusse). Questi tipi molto generali e astratti di motivazioni sono uno strumento di lavoro della sociologia. I tipi ideali di Weber sono costruiti mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, mediante la connessione di una quantità  di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti. I tipi ideali sono desunti dalla realtà empirica, ma non vi corrispondono mai completamente. Esso compie una funzione essenziale per la spiegazione causale e quindi per la conoscenza storica. Possono essere di natura diversa: quelli più astratti (relativi alle determinanti dell’azione sociale in generale), altri volti alla ricostruzione di grandi fenomeni storici nella loro individualità (es. feudalesimo, capitalismo, concetto di stato, di chiesa, ecc.).

Si può ora chiarire meglio il rapporto tra sociologia e storia. La prima è orientata allo studio delle uniformità di comportamento e alle loro connessioni causali, mentre la seconda è volta alla spiegazione di singoli fenomeni. Ciò non vuol dire che il fine della sociologia sia la determinazione di leggi generali della società, universali e necessarie ma deve servire invece a rendere intelligibile la storia stessa.

L’emancipazione della sociologia economica

Una “scienza sociale generale” dovrebbe essere enciclopedica e occuparsi simultaneamente di tutte le istituzioni che influenzano l’azione (di essa dovrebbe far parte la filologia, la storia della chiesa, il diritto, ecc.) ma per Weber invece la sociologia generale può darsi solo come chiarificazione concettuale e metodologica di sociologie  applicate allo studio storico di aspetti particolari del comportamento umano. Esse possono mettere a fuoco la molteplicità delle motivazioni dell’azione in un settore specifico dell’attività umana. Ed è attraverso il contributo di questi studi particolari che si può aspettare una miglior conoscenza di un fenomeno storico nella sua totalità, per esempio il capitalismo occidentale.

Si inverte quindi il rapporto tra studio della totalità e studio delle parti. Per i sociologi positivisti, la società è un organismo regolato da un unico principio di coordinamento (i valori condivisi per Comte, il principio della selezione dei più adatti per Spencer) mentre per Weber la società è un tessuto di relazioni sociali le cui  motivazioni individuali sono molteplici e si combinano diversamente nello spazio e nel tempo. Bisogna dunque guardare alle parti per arrivare all’insieme. Per Weber e Sombart, che si erano formati nell’ambito della storia economica, è la diversità che bisogna cercare di spiegare. Essi studiano l’economia con una visione sociologica


perché percepivano il ruolo cruciale che assumeva lo sviluppo economico capitalistico nel cambiamento della società.

Il duplice rifiuto, di una sociologia generale di tipo organicistico, e dello storicismo, apre lo spazio per l’emancipazione della sociologia economica. La “scienza economico-sociale” o “sociologia dell’economia” ha l’obiettivo di studiare l’interazione reciproca tra fenomeni economici e socioculturali. Al suo centro vi sono pertanto i:

  1. fenomeni economicamente rilevanti: quei fattori non economici come le istituzioni religiose o politiche, viste nella loro influenza sul comportamento economico;
  2. fenomeni economicamente condizionati: le istituzioni economiche viste nella loro influenza sulle altre istituzioni sociali.

Questa distinzione permette di chiarire il rapporto tra il suo pensiero e quello di Marx. La concezione materialistica della storia deve essere rifiutata come deduzione di tutti i fenomeni culturali … in quanto in ultima istanza economicamente condizionati. Weber accetta il contributo di Marx nel comprendere la grande influenza dei fattori economici sul processo storico (i fenomeni economicamente condizionati) ma ciò non deve essere interpretato come legge generale e necessaria della società. Weber ritiene che solo con contributi parziali e orientati a uno specifico problema si possano ricostruire le complesse e cangianti motivazioni dell’azione umana, e che dunque le scienze sociali, e non una sociologia generale, possano contribuire meglio alla conoscenza della realtà. Le scienze sociali particolari si occupano tutte della società, ma si distinguono per il punto di vista che assumono (questo è anche il caso della sociologia economica).

Sia Weber che Sombart individuano nella sociologia economica una strada intermedia tra lo storicismo e l’economia teorica neoclassica. Ritengono che la teoria economica analitica abbia uno spazio legittimo, che non deve essere però confuso con la sua validità empirica. Weber sottolinea che le proposizioni dell’economia teorica classica e neoclassica sono dei tipi ideali, delle costruzioni analitiche che partono dal presupposto che il comportamento economico sia esclusivamente determinato dal perseguimento razionale degli interessi individuali (azione razionale rispetto allo scopo). Esse sono utili, come tutte le costruzioni idealtipiche, per misurare e comparare il comportamento effettivo ma Weber ribadisce che solo molto raramente il comportamento economico concreto è influenzato da tali motivazioni.

Per questo motivo Weber e Sombart intendono avviare uno studio teorico dell’economia nel suo contesto socioculturale che superi i difetti dello storicismo. La scienza economico-sociale di Weber e la scienza sociale della vita economica di Sombart sono orientate a superare la contrapposizione tra scuola astratto-teorica e empirico- storica. Da qui il loro interesse per il fenomeno del capitalismo occidentale, per le sue origini, il suo funzionamento, le sue prospettive. Nel perseguire questo obiettivo essi hanno dato un contributo decisivo alla definizione dello spazio analitico della sociologia economica.


PARTE SECONDA

I CLASSICI E LA SOCIOLOGIA DEL CAPITALISMO

 

 

CAPITOLO 4

ORIGINI E SVILUPPI DEL CAPITALISMO: SIMMEL E SOMBART

In questo capitolo e nel successivo prenderemo in considerazione le risposte che la sociologia economica ha fornito alla questione delle origini, dei caratteri e dell’evoluzione del capitalismo. Ne vedremo una prima formulazione in Simmel e quindi gli apporti più specifici e articolati di Sombart e di Weber, i due autori che più contribuirono all’affermazione della sociologia economica agli inizi del ‘900. Al di là delle differenze tra questi studiosi, emergono alcuni elementi comuni: l’insistenza sulle condizioni culturali e istituzionali che influenzano il capitalismo, e l’attenzione per il ruolo dell’imprenditorialità.

  1. IL CAPITALISMO COME PROBLEMA

L’economia classica voleva studiare le leggi di funzionamento dell’economia tenendo conto del quadro  istituzionale capitalistico (proprietà privata dei mezzi di produzione, lavoro salariato, ruolo del mercato, ruolo dello stato) ma non ne indagava però le origini (ad eccezione di Smith) né si poneva i problema delle spinte verso il cambiamento istituzionale che il funzionamento stesso dell’economia capitalistica avrebbe potuto determinare.

Marx e gli storicisti tedeschi avanzarono con forza l’esigenza di storicizzare il quadro istituzionale e cercarono di rispondere al problema delle origini e dell’evoluzione del capitalismo. Oltre all’influenza dell’idealismo tedesco,  gli sviluppi stessi dell’economia (il suo diverso grado di maturazione a livello territoriale, l’instabilità sociale e il conflitto di classe) spingevano a mettere in discussione la visione dell’economia classica.

La rivoluzione marginalista separava nettamente il contesto istituzionale dando un carattere normativo ed astorico all’indagine economica che diventava una teoria della scelta razionale di allocazione di risorse scarse.

È in questo quadro che si apre lo spazio analitico per una sociologia economica autonoma che ha come fuoco l’interazione tra economia e istituzioni. Vengono riprese le domande sulle origini e sull’evoluzione del capitalismo come fenomeno storico, ma ad esse viene data una risposta diversa da quella di Marx e degli storicisti.

Rispetto a Marx viene relativizzata l’influenza dei fenomeni economici sulle istituzioni e viene messo in evidenza anche il rapporto di causalità inverso: fattori culturali e politico-istituzionali appaiono di particolare rilievo per spiegare le origini dell’economia capitalistica. Tuttavia il passaggio dal capitalismo al socialismo resta una questione storica aperta e dagli esiti non scontati ed inoltre i caratteri dell’economia socialista vengono visti in chiave di una maggiore burocratizzazione, piuttosto che in termini di autogoverno dei produttori (come diceva Marx).

Gli storicisti influenzano molto la sociologia economica tedesca. Sombart, Weber e Simmel si sono formati a tale scuola ma l’influenza delle variabili istituzionali sull’economia, tipica degli storicisti, in loro si coniuga con una maggiore consapevolezza teorica. I fondatori della sociologia economica si distaccano dai loro maestri perché ritengono sia possibile uno studio scientifico dei rapporti tra economia e società: uno studio che non è rivolto alla formazione di leggi generali della società come quelle ricercate dalla sociologia organicista e positivista, ma che si concretizzi in modelli analitici di fenomeni storici come il capitalismo; ovvero in forme di generalizzazione  limitate nello spazio e nel tempo che si fondano sui risultati dell’indagine storica e servono a loro volta a orientarla.


Da questo quadro discende dunque l’interesse delle sociologia economica per il capitalismo come problema di ricerca.

  1. LA “FILOSOFIA DEL DENARO” DI SIMMEL

Sembra che la Filosofia del denaro (1900) di Georg Simmel (1858 – 1918) sia stato il primo libro letto da Weber dopo la grave crisi psichica che lo aveva afflitto negli anni a cavallo del secolo. Nell’opera di Simmel sono già presenti un orientamento metodologico e una serie di temi di ricerca che caratterizzeranno anche i lavoro  successivo di Weber e di Sombart. Nel 1909 i tre, insieme a Tonnies, fondarono la Società Tedesca di Sociologia, da cui però Simmel uscirà nel 1913 in quanto i suoi interessi si orienteranno prevalentemente verso la filosofia.

Filosofia e sociologia economica

La Filosofia del denaro anticipa la maggior parte dei temi che costituiscono il pensiero di Simmel e che solo in parte sono riconducibili alla prospettiva sociologica. Sarebbe una forzatura considerarla un’opera di sociologia economica ma sarebbe comunque errato considerarla soltanto un’opera di filosofia. L’obiettivo di Simmel è quello di chiarire la genesi e i caratteri della società moderna, e di valutare il senso, il significato ultimo che essa assume per la vita degli uomini. La società non è per lui un sistema, un organismo costituito da varie parti tra loro funzionalmente collegate (come invece dicevano i positivisti) ma è piuttosto formata da un insieme di istituzioni che nascono dall’interazione tra gli uomini e una volta consolidatesi ne condizionano il comportamento. Simmel chiama tali istituzioni forme pure e la sociologia deve studiare le origini e i caratteri di tali forme ovvero dei modelli di comportamento istituzionalizzati.

Il denaro è una di queste istituzioni che condiziona sempre più profondamente le relazioni tra gli uomini nella società moderna. Per Simmel chiarire le origini e le conseguenze dell’uso del denaro, ovvero dell’economia monetaria, è essenziale per comprendere la società moderna. Per lui il capitalismo è una conseguenza  dell’economia monetaria (Weber noterà che tende ad identificare troppo l’economia monetaria e il capitalismo). Ciononostante, l’indagine sulle cause non economiche dell’economia monetaria e sulle sue conseguenze sociali ha importanti e evidenti elementi comuni con la sociologia del capitalismo sviluppata da Sombart e da Weber.

Dal punto di vista sostantivo emergono quattro aspetti simili che meritano di essere segnalati:

  1. l’insistenza sui presupposti culturali e istituzionali dell’economia monetaria e quindi del capitalismo;
  2. il riconoscimento di alcuni soggetti (stranieri, ebrei) che in virtù della loro condizione sociale di marginalità esercitano un ruolo primario per la diffusione dell’economia monetaria;
  3. l’immagine delle conseguenze sociali dell’economia monetaria in termini di crescente spersonalizzazione e razionalizzazione delle relazioni sociali e degli ambiti di vita;
  4. l’immagine del socialismo, in contrasto con quella di Marx, come ulteriore sviluppo della razionalizzazione in direzione di una più accentuata burocratizzazione economica e politica.

Simmel nella prefazione e successivamente Weber affermano che: “ad ogni interpretazione di una formazione ideale mediante fattori economici deve associarsi l’esigenza di spiegare questi, a loro volta, ricorrendo a fattori profondi di natura ideale, mentre per questi è di nuovo necessario scoprire la sottostruttura economica, e così via all’infinito”.

Le condizioni non economiche del denaro

Anche se il ragionamento di Simmel procede in modo non sistematico, possiamo dire che il capitalismo come sistema economico presuppone l’accumulazione privata del capitale e a sua volta il denaro deve diffondersi come


strumento degli scambi e deve allargarsi la cerchia dei soggetti coinvolti nell’economia monetaria. Ma affinché il denaro possa svolgere la sua funzione di propulsore delle attività economiche è necessaria una condizione non economica fondamentale: occorre che cresca la fiducia nel denaro come aspettativa che il suo impiego possa sempre disporre di una contropartita in beni concreti.

L’accumulazione del capitale presuppone dunque un’accumulazione di fiducia e questa condizione culturale è a sua volta sostenuta da fattori istituzionali: la legittimazione e l’efficacia del potere politico e le garanzie fornite dall’ordinamento giuridico. In questo senso il denaro diventa un’istituzione pubblica.

Tuttavia, è da notare che tra l’economia monetaria da un lato e lo stato centralizzato e il sistema giuridico, dall’altro, si stabilisce un rapporto di interdipendenza. La prima cresce grazie ai secondi che la garantiscono, ma questi a loro volta si rafforzano in relazione agli effetti indotti dalla diffusione del denaro come mezzo di scambio. Simmel sottolinea come l’economia monetaria sia stata un potente fattore di dissoluzione dell’economia naturale basata sull’autoconsumo. Lo stato moderno deve controllare la moneta e può fare questo attraverso lo sviluppo della tassazione che consentiva il mantenimento di una burocrazie e di un esercito sottoposti al potere centrale. Questo contribuisce all’indebolimento del vecchio ordinamento feudale rafforzando l’economia monetaria e garantendo quindi lo sviluppo degli scambi.

Ma quali soggetti sono i protagonisti della diffusione del denaro e degli scambi?

Sono soprattutto gli individui e i gruppi sociali esclusi dal pieno godimento dei diritti vigenti in una determinata società a dedicarsi più facilmente all’accumulazione di denaro come strumento per il conseguimento di posizioni sociali che non possono raggiungere con i mezzi tradizionali. D’altra parte, nei riguardi di questi soggetti non valgono le sanzioni sociali e giuridiche che spesso allontanano dall’uso del denaro i membri di una società tradizionale (es. ostilità della chiesa medievale nei riguardi dell’usura).

Gli esempi principali di questa condizione di marginalità sociale che alimenta lo sviluppo di attività commerciali e finanziarie sono gli  stranieri e gli ebrei.

Stranieri e gruppi sociali esclusi introducono il fenomeno del denaro e dell’economia monetaria nella società tradizionale preparando le condizioni per lo sviluppo del capitalismo.

Ma è da notare che Simmel non si pone il problema specifico delle origini dell’imprenditorialità capitalistica (che affronteranno Sombart e Weber) ma è interessato a mettere in evidenza le condizioni che consentono l’esercizio di tale attività, ovvero l’accumulazione del capitale da un lato e la dissoluzione dell’economia naturale dall’altro.

Le conseguenze dell’economia monetaria

L’interesse prevalente di Simmel sembra però andare verso l’analisi delle conseguenze dell’economia monetaria sulle relazioni sociali e sullo stile di vita. Egli mette in luce l’ambivalenza del fenomeno che presenta sia aspetti positivi che negativi.

Anzitutto il denaro favorisce la crescita della libertà individuale rendendo sostituibili i rapporti sociali nella sfera dello scambio come in quella della produzione. Nella sfera dello scambio è possibile scegliere tra fornitori diversi e questo spersonalizza le relazioni tra chi compra e chi vende e aumenta l’indipendenza reciproca di entrambi. È anche possibile scegliere tra più oggetti diversi rompendo così la ritualità delle forme di consumo tradizionali.

Lo stesso avviene nella sfera della produzione, dove al rapporto di dipendenza totale del servo della gleba nei riguardi del signore, o dell’apprendista nei riguardi del maestro delle corporazioni medievali, subentra uno  specifico e determinato contratto di lavoro, che spersonalizza il rapporto, lo lega al perseguimento di un obiettivo


limitato che non include la sfera extralavorativa, e soprattutto lo rende sostituibile da una parte e dall’altra. Ma, se nell’economia naturale del Medioevo vi era l’obbligo di protezione sociale dei subalterni da parte dei signori, in questa nuova situazione invece le condizioni di remunerazione peggiorano, ma è il prezzo della libertà (il  lavoratore paga con l’insicurezza del salario il prezzo della libertà). Secondo Simmel, la divisione del lavoro e la conseguente gerarchia organizzativa sono un requisito indispensabile per lo sviluppo economico.

L’economia monetaria, e il capitalismo che ad essa è legato, contribuiscono dunque ad ampliare la libertà individuale ed al formarsi della dimensione della personalità individuale.

Simmel condivide molti elementi dell’ottimismo liberale tipico dell’economia politica e anche della sociologia positivista inglese e francese, che aveva studiato in gioventù, ma questa influenza si combina con quella che discende da un certo pessimismo culturale tedesco che trova espressione nel pensiero di Nietzsche, al quale Simmel si avvicinerà sempre più negli ultimi anni della sua vita. Da qui discende l’insistenza sul tema degli aspetti costrittivi del denaro come istituzione che, una volta consolidatasi, condiziona profondamente le relazioni sociali.

Il denaro aumenta la libertà individuale, ma da mezzo per il raggiungimento di determinati scopi tende a trasformarsi in fine esso stesso. L’economia monetaria viene a condizionare sempre più il comportamento individuale con le sue esigenze, ma gli uomini perdono il controllo sui fini ai quali il denaro piega l’organizzazione sociale. La vita quotidiana è caratterizzata da una perdita di qualità dei rapporti sociali, la libertà individuale comporta una spersonalizzazione crescente dei rapporti. Si diffondono la razionalizzazione e il calcolo in tutti gli ambiti di vita. L’uso del tempo e dello spazio vengono sempre più piegati alle esigenze dell’economia monetaria. Gli uomini acquistano maggiore libertà individuale, ma si ritrovano anche più soli e più incapaci di definire le loro mete collettive. Più tardi Simmel, descrivendo la situazione degli abitanti della metropoli, scriverà che “l’individuo è diventato un semplice ingranaggio in un’enorme organizzazione di cose e di poteri che strappano dalle sue mani ogni progresso, ogni spiritualità”.

Capitalismo e socialismo

Simmel non vede nel socialismo una soluzione per queste conseguenze dell’economia monetaria che permeano sempre più la società moderna. L’eventuale successo del socialismo accentuerebbe quelle caratteristiche costrittive che la razionalizzazione e la calcolabilità dei rapporti sociali impongono agli uomini: la centralizzazione assoluta dei mezzi di produzione nelle mani della “società” significa inevitabilmente un socialismo di stato, ben lontano da quegli ideali di nuova solidarietà che pure il socialismo vorrebbe realizzare. Si è spesso insistito sul pessimismo storico di questa posizione di Simmel. Egli non credeva nella ricetta del socialismo. La separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e la proprietà privata erano per lui un requisito dello sviluppo economico. Anche se non fu mai coinvolto, a differenza di Weber, in problemi di politica attiva, Simmel auspicava un cambiamento del capitalismo soprattutto in due direzioni:

  • le istituzioni dell’economia capitalistica avrebbero potuto trovare maggiore legittimazione quanto più si fossero fondate su motivi tecnico-funzionali, cioè sulla valorizzazione delle competenze e dei meriti nel selezionare i soggetti chiamati a ruoli sovraordinati e subordinati, e non avessero invece alimentato stabili e ingiustificate disuguaglianze sociali (questa posizione è vicina a quella di Durkheim ed è anche compatibile con un socialismo che non si ponga come alternativa alla proprietà privata e al mercato);
  • la legittimazione del capitalismo può essere rafforzata dalla capacità di ridurre quella che egli chiama “l’umana tragedia della concorrenza” in due modi: attraverso uno sviluppo tecnico finalizzato a mettere a disposizione

nuove risorse della natura per ridurre la concorrenza tra gli uomini per l’acquisizione di beni scarsi  ed attraverso la crescita di beni collettivi la cui fruibilità da parte di alcuni non vada a scapito di altri.

  • “IL CAPITALISMO MODERNO” DI SOMBART

Simmel ricorse alla sociologia della vita economica con l’intento più ampio di tipo filosofico della ricerca sulla condizione dell’uomo nella società moderna mentre Sombart (1863 – 1941) ha invece l’obiettivo della costruzione consapevole di una sociologia economica.

Nella sua opera Il capitalismo moderno (ed. 1902, 1916, 1927) egli sottolinea come la sua prospettiva di analisi si pone come compito l’inserimento della vita economica stessa nel grande contesto dell’esistenza sociale dell’uomo. Ma per svolgere questo compito egli ritiene necessario che venga superata la contrapposizione tra economia  politica neoclassica (scuola astratto-teorica) e storicismo (scuola empirico-storica). La nuova “scienza sociale della vita economica” ha l’obiettivo teorico di contribuire alla spiegazione scientifica dei fenomeni economici in un quadro storico ben definito. Essa si distingue sia dall’economia politica (che adotta una teoria dell’azione utilitaristica sviluppando modelli analitici astratti del funzionamento dell’economia) che dagli storicisti (che sviluppano una spiegazione dei fenomeni economici che tiene molto più in conto i fattori culturali e istituzionali ma essendo ostili alle generalizzazioni teoriche).

Sombart si pone il seguente interrogativo: “quali sono i fenomeni economici che conducono alla nascita del capitalismo moderno che sono comuni a tutti i popoli europei?

Solo l’accertamento di questi nessi generali può consentire un’indagine storica più proficua sulle particolarità dei singoli capitalismi nazionali che interessano gli storici. La sociologia economica è quindi collegata alla storia, perché si serve delle sue indagini per formulare generalizzazioni teoriche, che a loro volta possono poi orientare la ricerca storica e la verifica empirica. Ma tutto ciò richiede appunto che le generalizzazioni teoriche siano storicamente delimitate. In questo senso per Sombart non c’è storia senza teoria.

Per mettere a fuoco in che modo la società influenza con le sue istituzioni il comportamento economico  è necessario però apprestare degli strumenti analitici adeguati.

Elementi di sociologia economica

Per Sombart l’economia è l’attività umana volta alla ricerca dei mezzi di sussistenza. L’uomo deve provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni con prodotti che ricava dalla natura attraverso il lavoro. i suoi bisogni variano nel tempo e accanto a quelli relativi alla sopravvivenza fisica si aggiungono nel corso dello sviluppo storico nuovi bisogni culturali. Ma in ogni caso, per far fronte a queste esigenze, è sempre necessario produrre dei beni e dei servizi che vengono distribuiti e consumati secondo alcune regole condivise. Questa attività economica è stata sempre esercitata dagli uomini anche se in forme diverse da tempo a tempo e da luogo a luogo.

Questa è una concezione dell’economia diversa rispetto a quella adottata dall’economia neoclassica (l’economia come allocazione di risorse scarse applicabili a usi alternativi da parte di soggetti orientati a massimizzare le loro utilità) che non può spiegare le economia primitive o quelle precapitalistiche.

La definizione di Sombart permette invece di cogliere meglio i tratti differenti nello spazio e nel tempo che caratterizzano il comportamento economico e l’organizzazione delle attività volte alla sussistenza dell’uomo.

A questo proposito è necessario guardare a tre aspetti:

  • la mentalità economica o spirito economico = l’insieme dei valori e delle norme che orientano il comportamento degli individui che partecipano all’attività economica, cioè i soggetti economici;

  • l’organizzazione economica = il complesso di norme formali ed informali che nell’ambito di una determinata società regolano l’esercizio delle attività economiche da parte dei soggetti;
  • la tecnica = le conoscenze tecniche e i procedimenti utilizzati dai soggetti per produrre beni e servizi e soddisfare i loro bisogni.

Questi tre aspetti variano nello spazio e nel tempo e consentono di individuare un sistema economico. il concetto di sistema economico consente di gettare un ponte tra economia e società; permette di valutare in che modo la società influenza storicamente l’organizzazione economica attraverso le motivazioni dei soggetti, le istituzioni regolative e quelle che riguardano la produzione e l’uso delle conoscenze scientifiche e tecnologiche. Nel concetto di sistema economico si riassume per Sombart il carattere tipicamente storico della vita economica.

Vediamo come le tre dimensioni possono aiutarci a distinguere tra l’economia precapitalistica e quella capitalistica.

 

 

Precapitalistica

Capitalistica

Spirito economico

Soddisfacimento dei bisogni naturali  e culturali

Fabbisogno di tipo acquisitivo cioè ricerca di maggiori guadagni monetari

 

Spirito tradizionalistico  (obbedienza a regole tramandate)

Spirito razionalistico (ricerca sistematica di mezzi più adeguati allo scopo)

 

Mentalità di tipo solidaristico

Mentalità di tipo individualistico

Organizzazione

Carattere vincolato dell’attività economica (es. ordinamento corporativo nella società medievale)

Ampia sfera di libertà economica riconosciuta giuridicamente (proprietà privata o pubblica dei mezzi di produzione)

 

Orientamento della produzione al consumo

Orientamento allo scambio attraverso il mercato

 

Piccola impresa familiare

Grandi imprese con forza lavoro salariata

Tecnica

Basata su conoscenze tramandate e accettate passivamente

Basata sulla conoscenza scientifica

 

Si può così arrivare ad una definizione dell’economia capitalistica: sistema economico caratterizzato da una mentalità acquisitiva, razionalistica e individualistica, che si esercita nell’ambito di un’organizzazione economica libera, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e su aziende che producono beni per il mercato utilizzando lavoro salariato.

Per ogni sistema si possono inoltre individuare tre periodi: gli albori, la maturità e il tramonto. Nel primo periodo un sistema convive con altri. Per Sombart il capitalismo ha le seguenti tre fasi: primo capitalismo fino alla fine del 1700; capitalismo maturo fino alla fine della prima guerra mondiale; tramonto a causa dell’emergere di elementi di maggiore organizzazione, che portano ad un’attenuazione degli originari caratteri capitalistici dell’economia.

Le origini del capitalismo

Come si passa da un sistema economico a un altro?

Sombart cerca di rispondere con chiarezza prendendo le distanze da Marx e dallo storicismo ma il suo schema non si riferisce al mutamento economico in generale bensì alla nascita del primo capitalismo e alla sua evoluzione verso il capitalismo maturo.


Non é possibile analizzare lo sviluppo capitalistico ricorrendo al generico concetto di cultura di un popolo, come facevano gli storicisti, senza prendere in considerazione le motivazioni specifiche che guidano i soggetti economici, in particolare gli imprenditori.

Le forze motrici dello sviluppo vanno cercate in quei soggetti che all’interno del vecchio sistema precapitalistico si fanno portatori di una nuova mentalità economica e introducono quindi dei cambiamenti nel modo in cui vengono combinati i fattori produttivi e viene organizzata l’economia. Sono gli imprenditori le forze motrici del cambiamento. Il loro comportamento è certo influenzato dalle istituzioni vigenti in una determinata società (stato, ordinamento giuridico, religione, cultura prevalente, conoscenze scientifiche e tecniche), tuttavia una volta che sotto l’influsso di questi fattori si forma un nuovo spirito economico, essi introducono importanti innovazioni.

Dapprima esse sono limitate ma quando esse si diffondono riescono a cambiare le istituzioni. Ma come si forma l’imprenditorialità?

Dobbiamo definire meglio le caratteristiche dello spirito economico capitalistico e verificare quali condizioni  sociali favoriscano la diffusione di un’imprenditorialità animata da tale spirito.

  • Lo spirito capitalistico

Per Sombart lo spirito capitalistico è quello stato d’animo risultante dalla fusione tra lo spirito imprenditoriale e lo spirito borghese. Lo spirito d’intrapresa è aspirazione al potere intesa come volontà di affermazione e di riconoscimento sociale che spinge gli uomini a rompere la tradizione e a cercare nuove strade. Esso permea l’uomo occidentale. Certo le sue origini sono legate alla storia religiosa dell’Occidente, al cristianesimo, ma subisce una progressiva laicizzazione. Questo processo si manifesta prima nella sfera politica, con la costruzione dello stato moderno, poi nella sfera economica (la ricerca di guadagno non è più limitata, come in passato, alla conquista, all’avventura, alla ricerca di metalli preziosi, ma si esercita in modo sistematico). A questo punto si forma una prima componente di imprenditorialità che si può definire politica (principi, funzionari dello stato, signori  fondiari). Affinché si possa compiere pienamente il sistema economico capitalistico è necessario che lo spirito di intrapresa si fonda con quello borghese. Per Sombart le origini di questi tratti culturali sono strettamente collegati alla matrice religiosa cristiana (cattolica, protestante ma anche ebraica) e prendono forma soprattutto nelle città europee dove si sviluppano i mercanti e gli artigiani. In questo ambiente si forma l’imprenditorialità borghese, fatta di tutti quelli che vengono dal basso, che si affiancherà dapprima all’imprenditorialità di origine politica e poi si affermerà fino a dominare l’organizzazione della vita economica nel corso dell’Ottocento, nell’epoca del capitalismo maturo.

  • La formazione dell’imprenditorialità

L’imprenditorialità borghese costituisce dunque la componente in cui si esplica più pienamente l’imprenditorialità capitalistica. Ma non basta per Sombart la componente cristiana e l’ambiente urbano per spiegare le condizioni della sua formazione. Accanto a questi fattori occorre considerare quali gruppi sociali abbiano contribuito ad alimentare maggiormente l’imprenditorialità borghese:

  • gli eretici sono coloro che non appartengono alla chiesa di stato e che finiscono per avere formalmente o di  fatto uno status di semicittadini. Essendo esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica, gli eretici non  potevano che estrinsecare tutta la loro forza vitale nell’economia. Soltanto questa offriva loro la possibilità di procurarsi quella posizione di rilievo nella comunità che lo stato negava loro;

  • gli stranieri sono coloro che sono più intraprendenti perché scelgono di partire per mete incerte, inoltre trovandosi in un nuovo paese sono più portati a rompere con le vecchie abitudini ed infine le loro possibilità di mobilità sociale sono molto limitate in settori diversi dall’attività economica (per loro non c’è né passato né presente per cui rimane soltanto il guadagno futuro);
  • gli ebrei hanno dato un contributo particolarmente rilevante allo sviluppo capitalistico, specie attraverso l’imprenditorialità commerciale e creditizia. Essi sono stranieri nei vari paesi del mondo e cercano di  mantenere legami internazionali nell’ambito della comunità ebraica.
  • Il modello dello sviluppo capitalistico

La mentalità capitalistica si afferma in stretta interdipendenza con un complesso di fattori istituzionali che contribuiscono alla sua formazione e ne sono a loro volta condizionati. Per Sombart gli imprenditori sono l’elemento catalizzante, coloro che hanno fatto scoccare la scintilla dello sviluppo capitalistico.

Per Sombart lo stato da un contributo cruciale. Lo stato moderno esprime originariamente lo spirito di intrapresa occidentale e stimola lo sviluppo tecnico che è essenziale per aumentare l’efficienza militare e quindi il suo rafforzamento. Esso cerca di accrescere la disponibilità di metalli preziosi che aumentano le risorse della finanza pubblica e quindi la potenza militare.

Lo stato dà un contributo decisivo all’imprenditorialità con il mercantilismo e l’imprenditorialità politica, ma decisivo è l’incontro tra spirito di intrapresa e spirito borghese, che si manifesta nell’imprenditorialità dal basso,  più specificamente capitalistica. Lo spirito borghese ha un’origine indipendente dallo stato. Si forma infatti sotto l’influenza culturale della religione cristiana e nell’ambiente particolare delle città europee, segnate dall’esperienza dei comuni. Lo stato inoltre contribuisce a creare quelle condizioni di esclusione dalla cittadinanza che rendono eretici, stranieri ed ebrei più sensibili di altri gruppi sociali alla formazione della mentalità capitalistica, in particolare dello spirito borghese.

Una volta che l’imprenditorialità borghese ha fatto scoccare la scintilla dello sviluppo capitalistico, si determina un vasto processo di dissolvimento degli antichi ordinamenti economici (delle forme tradizionali di economia agricola, del lavoro a domicilio nelle campagne e dell’artigianato). Si determina così un processo di proletarizzazione del lavoro agricolo che libera forza lavoro per la nascente industria moderna.

Nel tempo lo sviluppo capitalistico contribuisce al mutamento dell’ordinamento giuridico e delle politiche statali. Nella fase di passaggio dall’economia precapitalistica a quella del primo capitalismo il mercantilismo e la regolazione politica giocano un ruolo rilevante. Nella fase successiva, con l’affermarsi dell’imprenditorialità capitalistica, aumentano le spinte per un orientamento più liberista dello stato in economia e per il riconoscimento di un’ampia sfera di libertà economica in cui si possono ora muovere le imprese. La sicurezza del processo economico si accresce grazie all’azione repressiva dello stato per i traffici illeciti e per l’introduzione di un sistema monetario che facilita gli scambi.  Si afferma così nel XIX secolo il capitalismo maturo.

Il capitalismo maturo

La fase di piena maturità del capitalismo si conclude con la prima guerra mondiale ed i cambiamenti che avvengono al suo interno sono tutti da ricollegare al processo di crescente razionalizzazione che investe la vita economica.

Possiamo valutare gli effetti della razionalizzazione considerando le diverse componenti del sistema economico.

  • Lo spirito capitalistico

La mentalità imprenditoriale è caratterizzata da una trasformazione ideologica che porta alla secolarizzazione dello spirito capitalistico. La fede è ormai soltanto una questione della domenica mattina, al suo posto si afferma un concetto moderno borghese-capitalistico del dovere che porta a valutare l’impegno nel lavoro e il rendimento come fonte primaria del benessere economico e del riconoscimento sociale.

Si ha inoltre una maggiore specializzazione della funzione imprenditoriale che consente di delegare a altri dipendenti una serie di compiti prima poco differenziati, e permette quindi all’imprenditore di concentrare il suo impegno in alcune funzioni di direzione strategica. Si assiste ad una deconcretizzazione dell’attività imprenditoriale (per le origini del capitalismo erano più importanti le componenti normative mentre adesso prevalgono quelle cognitive, esempio conoscere come muoversi nel mercato finanziario).

Si afferma pure una democratizzazione dell’imprenditorialità in quanto è più facile accedere al ruolo di imprenditore da tutti i gruppi sociali.

Vanno considerati anche alcuni stimoli negativi che spingono a un maggior impegno per far fronte a nuovi ostacoli che sono l’inasprimento della concorrenza sul mercato dei beni ed il rafforzamento del movimento operaio che condiziona il mercato del lavoro.

Sombart sottolinea i positivi contributi che ne possono discendere dal punto di vista dinamico per lo sviluppo economico. Con le rivendicazioni sindacali e politiche del movimento operaio, non solo migliora l’integrazione sociale dei lavoratori, ma gli imprenditori sono spinti a innovare continuamente per aumentare la produttività e compensare così i maggior costi del lavoro.

Vi è poi un potente stimolo positivo che deriva dall’evoluzione della tecnica che genera continue occasioni per modificare le condizioni di concorrenza perché consente di produrre nuovi beni o di produrre a costi più bassi.

  • L’organizzazione del sistema economico

Il rafforzamento dell’imprenditorialità capitalistica spinge sia indirettamente, sul piano politico, che direttamente su quello economico, verso una maggiore razionalizzazione dei meccanismi regolativi, in modo da aumentare le possibilità di profitto delle imprese:

  • razionalizzazione dell’ordinamento giuridico e intervento dello stato in campo economico: si tratta del passaggio dalla fase mercantilista a quella liberale sostenuto dalla borghesia imprenditoriale in crescita. Avviene la separazione tra diritto pubblico e privato, protezione giurisdizionale dei contratti, introduzione di un sistema monetario razionale;
  • razionalizzazione del lavoro: abbiamo già visto come lo sviluppo capitalistico, disgregando l’organizzazione economica tradizionale delle campagne e quella dell’artigianato urbano, crei un’offerta di lavoro crescente, che attraverso le migrazioni e l’urbanizzazione alimenta le imprese industriali. Sombart crede che l’esodo verso le città sia favorito anche per l’attrazione per la libertà individuale e per lo stile di vita urbano che la grande città offre. Occorreva però adattare i lavoratori dal punto di vista culturale e professionale (cioè delle competenze tecniche) al lavoro di fabbrica. Sombart riteneva (in dissenso con Weber) che la religione protestante abbia influenzato maggiormente gli operai rispetto agli imprenditori nell’alimentare in loro l’impegno nel lavoro e la disciplina. Bisogna dire che si trattava di una fascia ristretta di operai presenti in pochi paesi e che l’influenza delle idee religiose, nel tempo, si era ridotta sia per i lavoratori che per gli imprenditori. Siccome la disponibilità di operai qualificati era limitata e rendeva più elevato il costo del lavoro si decise di mutare radicalmente l’intero processo lavorativo adattando la maggior parte delle operazioni e delle mansioni alla

capacità della grande massa. Si avvia la decomposizione del lavoro cioè la scomposizione di mansioni complesse in compiti più elementari che vengono assegnati ad operai non qualificati. Si arriva alla catena di montaggio ed alla subordinazione del lavoratore alla macchina (come aveva già denunciato Marx). Tutto ciò venne praticato sotto il nome di taylorismo;

  • razionalizzazione dell’azienda: formulazione di una serie di prescrizioni, regole di carattere generale, alle quali le imprese tendono a conformarsi per adeguare la loro struttura all’obiettivo di una maggiore redditività. Avviene una spersonalizzazione dell’azienda in quanto l’azienda tende a organizzarsi come una burocrazia, con una precisa gerarchia dei ruoli e con precise procedure di rapporto tra i vari livelli e le diverse competenze dell’azienda. Un altro aspetto è costituito dalla condensazione aziendale cioè la crescente concentrazione di macchine e uomini all’interno dell’azienda per aumentare la capacità di produzione (sfruttamento intensivo degli strumenti, economie di scala, produzione di beni di massa);
  • razionalizzazione del consumo: lo sviluppo economico porta ad una uniformazione dei bisogni dovuta all’aumento delle comunicazioni, alla crescita della popolazione urbana che migliora le proprie possibilità di consumo, all’affermazione dei grossi centri di consumo unitari (esercito, ospedali, manicomi, prigioni, grandi aziende, ecc.). Ma la tendenza all’uniformità dei bisogni è anche dovuta allo strumento della moda che viene stimolato dalle grandi aziende. La moda, prima limitata a gruppi sociali ristretti della classe alta, tende a generalizzarsi e a diffondersi più rapidamente nelle nuove condizioni di vita legate all’urbanesimo. L’industria, influenzando l’andamento della moda, può accelerare il ritmo di introduzione di nuovi prodotti (sfruttando anche le nuove opportunità offerte dalla tecnica) creando un mercato di massa. Si producono beni di qualità inferiore che imitano i modelli d’élite imposti dalla moda e richiesti ora da un largo pubblico di consumatori. Con la maggiore uniformazione dei bisogni e la crescita di un mercato di massa standardizzato la razionalizzazione capitalistica dell’economia si estende e si consolida. Le grandi aziende burocratizzate dominano la scena del capitalismo maturo. Questo sistema economico raggiunge il culmine del suo sviluppo.

Il futuro del capitalismo

Per Sombart, nella razionalizzazione che si afferma nel capitalismo maturo sono però già insiti alcuni germi che porteranno al declino di questo sistema economico. Essi cominciano a manifestarsi nel periodo successivo alla prima guerra mondiale che Sombart chiama tardo capitalismo.

Per Sombart lo sviluppo tecnico e l’aumento del capitale fisso non comportano una caduta del saggio di profitto e una crescente disoccupazione, come per Marx. L’introduzione di nuove tecniche aumenta la produttività e, se i salari non crescono più di quest’ultima, consente di aumentare i profitti e di destinarli a nuovi investimenti che possono compensare e assorbire la disoccupazione creata dalla maggiore meccanizzazione. La disoccupazione è dunque per Sombart di tipo congiunturale, è generata dalla continua ristrutturazione produttiva, ma non è destinata a crescere strutturalmente fino ad alimentare un processo sociale di tipo rivoluzionario. Inoltre, proprio per far fronte al problema sociale della disoccupazione, è più in generale alle istanze di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli strati sociali inferiori si affermano in misura crescente sistemi economici che si fondano sull’economia di piano. Questi implicano un ritorno a un maggior intervento dello stato nell’economica, un  maggior peso del settore cooperativo e forme più estese di regolazione politica dell’economia, sia dirette (attraverso l’intervento pubblico e la legislazione), sia indirette (attraverso un ruolo più rilevante della contrattazione sindacale delle condizioni di lavoro). si va insomma verso un capitalismo stabilizzato e regolato. Per Sombart le differenze


tra questo tipo di sistema economico e un socialismo tecnicizzato e razionalizzato sono molto ridotte. Egli, come Simmel, Weber e Schumpeter, ritiene che il processo prevalente sia quello della razionalizzazione e della burocratizzazione. Il socialismo potrebbe solo accentuare queste tendenze, piuttosto che sopprimerle secondo l’ideale dell’autogoverno dei produttori e del deperimento delle strutture statali.

Il sistema economico capitalistico si indebolisce anzitutto dal suo interno stesso. La mentalità economica vede un attenuarsi dello spirito di intrapresa e delle sue energie vitali e irrazionali a spese della componente costituita dal razionalismo (dallo spirito borghese). Nella grande impresa organizzata scientificamente si ha una tendenza generale alla graduale decadenza della mentalità imprenditoriale.

D’altra parte, l’organizzazione del sistema economico capitalistico è caratterizzata da crescenti restrizioni alla  libera ricerca del massimo profitto. Queste possono essere autoimposte (es. per conseguire maggiore stabilità si formano cartelli, grandi concentrazioni finanziarie, nate per controllare meglio i mercati o le associazioni di rappresentanza degli interessi collettivi) oppure imposte dall’esterno (legislazione sociale e del lavoro, controlli sui prezzi o sulle modalità del processo produttivo, azione dei sindacati per controllare il salario). Tutto questo portava rigidità nel sistema.

Scrivendo alla vigilia della grande crisi degli anni ’30, Sombart intuisce chiaramente il rilievo che la nuova politica economica (quella keynesiana) avrebbe avuto per lo sviluppo capitalistico. Essa mirava infatti a stabilizzare l’economia sostenendo la domanda di beni con la spesa pubblica e con il controllo politico del credito.

L’analisi di Sombart si conclude dunque con una previsione straordinariamente lucida del futuro del capitalismo.


CAPITOLO 5 CAPITALISMO E CIVILTA’ OCCIDENTALE: MAX WEBER

Nella vasta opera di Max Weber la ricerca sulle origini del capitalismo diventa una ricerca sulle origini del razionalismo occidentale. Di solito si insiste suo ruolo del protestantesimo nella ricostruzione che Weber fa del capitalismo. Il suo quadro interpretativo è però più complesso: accanto ai fattori religiosi vanno considerati aspetti come la città occidentale, lo stato, la scienza razionale.

 

Sombart si può considerare un sociologo economico in senso stretto, forse il primo nello sviluppo della disciplina. Ma la personalità scientifica di Weber è più complessa (anche se morì vent’anni prima di Sombart). Sombart aveva intuito che alle origini dello sviluppo capitalistico vi erano condizioni culturali e istituzionali specifiche dell’Occidente (religione, stato, esperienza comunale) ma le aveva lasciate sullo sfondo concentrandosi sulle loro conseguenze per la formazione dell’imprenditorialità e per lo sviluppo economico (concentrandosi sulle trasformazioni del capitalismo nel corso dell’800 e soprattutto nel nuovo secolo).

Weber invece guarda indietro più che avanti perché non vuole lasciare un cono d’ombra su quel complesso di condizioni culturali e istituzionali legate alle origini del capitalismo occidentale. La sua ricerca sulle origini del capitalismo diventa dunque una ricerca sulle origini del razionalismo occidentale. Weber è sensibile per la pluralità delle cause che influenzano i fenomeni sociali e per le interdipendenze che rendono fuorviante qualsiasi analisi unidirezionale dei flussi causali.

  • LE PRIME RICERCHE SULLA SOCIETA’ TEDESCA

Weber nasce nel 1864 da una famiglia della borghesia tedesca ed insegna economia all’Università di Friburgo. Egli si orientò verso un liberalismo più radicale (era contrario al liberalismo tradizionale che portava la borghesia debole a compromessi con le vecchie classi dominanti costituite dall’aristocrazia agraria, gli junker prussiani).

La sua formazione fu influenzata dallo storicismo allora imperante nella cultura e nell’università tedesca e tale coinvolgimento lo portò ad attività di ricerca sulla società tedesca ed in particolare sul lavoro agricolo (per tutta la prima metà degli anni ’90).

Questi studi furono rilevanti perché in essi cominciano a prendere corpo le idee di Weber sulle origini del capitalismo (le basi per il passaggio da un’indagine microsociologica a quella macrosociologica sul capitalismo occidentale).

Weber rimase colpito dalla tendenza dei lavoratori impegnati nelle tenute dei grandi proprietari (junker) a lasciare la condizione di contadini fissi, legati più stabilmente all’azienda, per quella di salariati, o addirittura a emigrare. Questo orientamento non era spiegabile con motivazioni strettamente economiche (i contadini fissi avevano condizioni migliori della manodopera salariata stagionale e coloro che emigravano non venivano in prevalenza dalle aree dove la manodopera era sovrabbondante e i salari più bassi). I lavoratori agricoli volevano piuttosto liberarsi dai pesanti rapporti di dipendenza nei riguardi degli junker, nonostante la perdita di sicurezza economica che ciò comportava nell’immediato.

Studiando la società tedesca Weber fu colpito dal problema delle differenze territoriali dello sviluppo economico: quelle interne alla Germania, ma anche tra la Germania e altri paesi, specie anglosassoni.

Dopo la sua crisi psichica (1897 – 1903) che lo aveva allontanato dall’insegnamento egli si occupa del problema delle  differenze  di  sviluppo  interne  alla  Germania.  Andando  verso  sud-ovest  predomina  la  piccola proprietà


contadina appoderata e le coltivazioni sono più diversificate; andando verso nord-est prevalgono invece le proprietà fondiarie e le coltivazioni estensive di grano, barbabietole, patate. Questa differenza per Weber la si deve alle trasformazioni intervenute all’inizio dell’800 quando furono aboliti gli obblighi feudali e nel sud-ovest la terra finì in gran parte nelle mani dei contadini, mentre nel nord-est rimase ai proprietari fondiari che cominciarono a gestire le tenute con lavoro libero. Ma le origini si possono trovare anche precedentemente, nel Medioevo.

Ma perché i contadini de nord-est non furono in grado di stimolare una trasformazione simile a quella del sud- ovest?

Per Weber determinante fu il ruolo delle città che erano più fitte nel sud-ovest e che educarono il contadino a vendere i prodotti agricoli nei più vicini mercati locali. Non solo questo, la città esercitava un’influenza su un fattore chiave per lo sviluppo: l’imprenditorialità.

Le considerazioni di Weber contengono un’implicazione teorica molto importante. Se si vogliono comprendere le differenze di sviluppo tra varie aree, non ci si può limitare a prendere in esame la dotazione di risorse naturali o il capitale disponibile, trattando come invariante l’attitudine imprenditoriale, ovvero la capacità dei soggetti di combinare efficacemente le risorse. L’attività imprenditoriale in questo caso non è considerata una costante, ma una variabile che dipende dal contesto istituzionale in cui i soggetti sono inseriti.

  • FORMAZIONE DELL’IMPRENDITORIALITA’

Come si formano orientamenti culturali favorevoli alla crescita dell’imprenditorialità?

La tesi di Weber è che occorre guardare all’influenza della religione protestante sulla diffusione di un’etica economica che alimenta a sua volta lo spirito del capitalismo. Essa si sviluppa in due celebri saggi:

  • L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904 – 1905);
  • Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo (1906).

Stranamente nell’Etica Weber non fa un collegamento esplicito tra protestantesimo e città ma abbiamo già visto come il tema della città fosse già all’attenzione di Weber per cui possiamo supporre che con gli studi sul protestantesimo egli voglia chiarire meglio attraverso quali meccanismi culturali e istituzionali il contesto urbano favorisca la formazione delle motivazioni di un’imprenditorialità specificamente capitalistica.

L’interesse per le motivazioni degli attori si comprende anche alla luce della riflessione metodologica che Weber andava facendo negli stesi anni in polemica sia con lo storicismo che con la sociologia positivista e con Marx.  Resta comunque il fatto che la mancata esplicitazione del rapporto tra città, gruppi sociali urbani e protestantesimo nell’Etica e nelle Sette ha favorito interpretazioni riduttive della tesi di Weber sul ruolo delle idee religiose. Ma vediamo come si articola tale tesi.

Lo spirito del capitalismo

Weber considera lo spirito del capitalismo come un tipo ideale (idealtipo) e non lo identifica affatto con l’impulso acquisitivo in quanto sostiene che l’avidità di denaro è sempre esistita ed è presente anche nelle società precapitalistiche; anzi in questi contesti la ricerca del profitto è ancor più spregiudicata perché non vincolata da norme etiche. Ciò non porta però al superamento del tradizionalismo economico.

Per capire meglio le novità introdotte dallo spirito del capitalismo occorre definire sempre in termini idealtipici l’orientamento economico tradizionalistico, che ha due aspetti principali:


  • il profitto non è pienamente giustificato dal punto di vista etico, ma è tollerato, ed è per questo che la sua ricerca avviene prevalentemente nei rapporti con gli estranei alla famiglia e alla comunità locale e con gli stranieri;
  • l’acquisitività si manifesta nel commercio, o nella guerra, nella pirateria e in genere in un “capitalismo d’avventura” ma non investe invece la sfera della produzione, che resta governata da routine tradizionali. Weber critica Sombart per non aver riconosciuto che il carattere tradizionalistico dello spirito economico può essere proprio anche di un’economia già organizzata in forma capitalistica (dove gli imprenditori si accontentano di un livello tradizionale di profitto, mantengono i rapporti con i fornitori, clienti e lavoratori  sulla base di tradizioni consolidate e gli operai lavorano solo per coprire i bisogni tradizionali).

Lo spirito del capitalismo si differenzia per profondi mutamenti che investono entrambe le dimensioni sopra considerate:

  • la ricerca del profitto, invece di essere svincolata da norme etiche o di essere tollerata, così come ispirato dalla Chiesa nel Medioevo, diventa giustificata e sollecitata sul piano etico. L’impegno nel lavoro diventa un dovere etico ed il profitto deve essere reinvestito in attività produttive e non impiegandolo per accrescere il patrimonio familiare o per il solo “godimento spensierato”;
  • l’acquisitività si manifesta ora nell’organizzazione razionale del processo produttivo. Il tradizionalismo prima descritto di alcuni imprenditori e lavoratori viene travolto da una nuova imprenditorialità fortemente motivata a combinare in modo più efficiente i fattori  produttivi; essi vengono dal basso, non dispongono di molto  capitale, ma solo di quantità limitate di denaro, spesso prestate dai parenti.

Proprio per questi motivi Weber conclude che “la ricerca delle forze motrici dell’espansione del capitalismo moderno non è in primo luogo una ricerca sull’origine delle riserve di denaro da impiegare capitalisticamente, ma è soprattutto una ricerca sullo sviluppo dello spirito del capitalismo”. Vediamo come si è formato tale spirito.

L’etica economica del protestantesimo

Per Weber la diffusione dello spirito del capitalismo può essere vista come una conseguenza non intenzionale dell’etica economica del protestantesimo, e in particolare della componente calvinista (si riferisce al protestantesimo ascetico che include quattro correnti principali: calvinismo, metodismo, pietismo e sette battiste).

Più che fare una dimostrazione causale il sociologo tedesco cerca di sottolineare le affinità elettive esistenti tra i  due fenomeni.

Un aspetto fondamentale del credo calvinista è l’idea di predestinazione. Gli uomini sanno soltanto che alcuni si salveranno ed altri saranno condannati. Gli eletti sono predestinati cioè sono stati scelti da Dio al momento della creazione e il loro destino non può essere modificato. Non è possibile cambiarlo con le proprie azioni e non è possibile conquistare la salvezza con mezzi “ecclesiastico-sacramentale” (negano che la grazia possa essere riacquistata con la confessione e la comunione come sostiene la Chiesa cattolica). Nemmeno il pentimento personale può far ottenere la salvezza nell'aldilà.

Il calvinismo determina una tremenda solitudine del credente. Nessuno può aiutarlo ad acquisire la salvezza, nessuna chiesa, nessun prete, nessun sacramento. Sarebbe pertanto plausibile che come reazione si sviluppasse un orientamento improntato al fatalismo e alla passività, data l’impossibilità di modificare il destino individuale. Ma proprio qui si manifesta un paradosso su cui Weber attira l’attenzione: invece del fatalismo perché matura un orientamento all’azione e all’innovazione in campo economico?


Vediamo come il credo calvinista favorisca, come conseguenza non intenzionale, lo spirito del capitalismo:

  • l’idea di predestinazione genera angoscia e bisogno psicologico di rassicurazione ""'
  • al credente si consiglia di comportarsi come se fosse eletto e di impegnarsi in modo rigoroso nel mondo con il proprio lavoro ""'
  • il successo della propria attività professionale finisce allora per essere interpretato come un segno di elezione e ciò spinge ad impegnarsi ancora di più per mantenere e rafforzare tale condizione.

L’etica protestante oltre a considerare la ricerca del profitto come dovere etico condannava il consumo di lusso e dei piaceri con l’ottenimento di un orientamento verso l’attività economica che favorisce la formazione del capitale attraverso la costrizione ascetica al risparmio.

Weber integrò queste considerazioni con altre svolte nel saggio su Le sette protestanti. Negli Stati Uniti vide tracce ancora consistenti dell’influenza delle sette protestanti nella ricca rete associativa. Egli sottolinea la profonda differenza per il comportamento individuale che discende dall’essere membro di una chiesa o di una setta: nel primo caso, corrispondente all’esperienza storica della chiesa cattolica, si è in presenza di un’associazione che amministra la grazia (l’accesso ai beni religiosi garantisce la salvezza con pretese di obbligatorietà per tutti), la  setta invece è un’associazione volontaria che raggruppa coloro che per la loro condotta appaiono qualificati dal punto di vista etico-religioso. Nella chiesa si nasce mentre nella setta si è ammessi. Ma per diventare membri occorre mostrare di essere osservanti di determinate norme ed occorre confermare tali comportamenti nel tempo. Si determina un interesse anche materiale a mantenere un comportamento eticamente qualificato (l’esclusione da una setta è economicamente penalizzante per i singoli perché determina una carenza di fiducia che ostacola, per esempio, la possibilità di ottenere credito).

Weber ha dunque mostrato le affinità elettive tra etica protestante e spirito del capitalismo ed è consapevole di non aver presentato una dimostrazione causale del rapporto tra i due fenomeni perché ciò avrebbe richiesto, per esempio, un tentativo di verificare meglio a livello territoriale la correlazione tra protestantesimo e diffusione del capitalismo, o anche di indagare l’influenza effettiva del credo religioso sul comportamento dei singoli imprenditori. Egli utilizza invece i testi pastorali protestanti per esplorare le somiglianze tra etica protestante e spirito del capitalismo.

Weber sottolinea anche che l’influenza del protestantesimo è rilevante per la fase della genesi del capitalismo ma si attenua successivamente. Dopo che il sistema capitalistico si è affermato e consolidato, i vincoli posti dal mercato agli imprenditori e ai lavoratori orientano, in misura crescente, i comportamenti, stimolando quell’utilitarismo sul quale attira l’attenzione la teoria economica (vedremo più avanti parlando del futuro del capitalismo secondo Weber).

La tesi di Weber sul ruolo del protestantesimo nello sviluppo del capitalismo è stata oggetto di un intenso dibattito. Egli stesso nella Sociologia della religione risponderà alle critiche dicendo che la ricerca sulle origini dello spirito del capitalismo non coincide con quella delle cause dello sviluppo capitalistico, che sono ben più complesse.

Weber allargherà successivamente il quadro delle sue ricerche prendendo in considerazione altri fattori istituzionali che concorrono, insieme allo spirito del capitalismo, a favorire lo sviluppo del sistema economico capitalistico.  Sarà chiarito meglio il rapporto tra protestantesimo e città nella formazione dell’imprenditorialità capitalistica.

  • CARATTERI E ORIGINI DEL CAPITALISMO MODERNO

La definizione del capitalismo moderno


Per capire come Weber definisce il capitalismo moderno dobbiamo ricorrere a due sue opere: Economia e società e

Storia economica.

Facendo riferimento a queste fonti è possibile ricostruire il concetto di capitalismo moderno come forma di organizzazione economica che consente il soddisfacimento dei bisogni attraverso imprese private che producono beni per il mercato sulla base di un calcolo di redditività del capitale da investire (aspettativa di profitto) e che impiegano forza lavoro salariata formalmente libera.

Tre sono gli elementi importanti che distinguono il capitalismo moderno da altri tipi o da altre forme di organizzazione:

  • il soddisfacimento dei bisogni tramite il mercato (e non copertura del fabbisogno di una famiglia o di una comunità locale);
  • la razionalizzazione del calcolo del capitale (tenuta razionale dei conti e separazione giuridica tra impresa e patrimonio familiare dell’imprenditore);
  • l’organizzazione razionale del lavoro salariato formalmente libero (permette di calcolare in anticipo il costo dei prodotti).

Weber come già detto sosteneva che la ricerca del profitto è sempre esistita ma ciò che la distingue nel capitalismo moderno è che tale ricerca non solo avviene attraverso un calcolo più sistematico e razionale di quello realizzabile nelle forme di capitalismo tradizionale, ma soprattutto si concentra nella sfera della produzione per il mercato con forza lavoro salariata.

Per Weber esistono due forme tradizionali di capitalismo:

  • economico: commerciale, creditizio, di borsa;
  • politico: di guerra, di avventura, pirateria

Ma il vero tratto distintivo del capitalismo moderno è il capitalismo industriale: una forma di organizzazione economica che sfrutta opportunità di profitto determinatesi nel mercato dei beni con attività che si localizzano nella sfera della produzione. Weber, in accordo con Marx, sostiene che non ci può essere capitalismo moderno senza classe operaia. Inoltre sostiene che il capitalismo moderno è proprio dell’Occidente.

Nella Storia economica (si basa sulle lezioni tenute a Monaco poco prima della sua morte nel 1920) troviamo una serie di presupposti del capitalismo moderno:

  • l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dell’imprenditore;
  • la libertà di mercato: cioè che non operino vincoli di natura culturale e politica al consumo di determinati beni (libertà mercato per tutti i fattori produttivi: terra, capitale, lavoro);
  • esistenza di forza lavoro libera: consente di anticipare con precisione il costo del lavoro necessario per determinati investimenti;
  • una tecnica razionale: che permetta una produzione per il consumo di massa che è componente essenziale del capitalismo moderno;
  • la commercializzazione dell’economia: cioè la disponibilità di strumenti giuridici come le azioni e i titoli di credito che facilitano la separazione tra patrimonio familiare e patrimonio dell’impresa ed inoltre favoriscono la trasferibilità del capitale;
  • un ordinamento giuridico che riduca i rischi e renda più prevedibili le relazioni tra privati e tra questi e la pubblica amministrazione.

Questi presupposti hanno carattere idealtipico e Weber sa bene che tali condizioni non si sono mai pienamente affermate; ed è questo che limita la validità empirica della teoria economica neoclassica che le considera invece come pienamente operanti ai fini del funzionamento dei suoi modelli analitici. Per Weber sono solo uno strumento per misurare il grado di avvicinamento dell’economia concreta al modello idealtipico dell’economia di mercato capitalistica nel suo stadio iniziale.

 

Fonte: http://www.riassuntisdf.altervista.org/wp-content/uploads/2012/09/sociologia-economica-vol-1.pdf

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