Riassunto storia dalla prima guerra mondiale alla grande depressione

Riassunto storia dalla prima guerra mondiale alla grande depressione

 

 

 

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Riassunto storia dalla prima guerra mondiale alla grande depressione

Dalla prima guerra mondiale alla grande depressione

 

Capitolo 1: “La prima guerra mondiale”

    • – Sul problema delle origini

 

Lo scoppio della guerra segnò il termine di quell’epoca, durata un secolo, chiamata “la pace dei cento anni”. Una pace fino ad allora assicurata da un sistema euro-centrico, che aveva la periferia nelle zone di influenza e nelle colonie. Sul piano economico vigeva l’autoregolamentazione del mercato; su quello intellettuale l’unità dell’intera comunità scientifica. Questo sistema aveva però il suo rovescio della medaglia all’esterno del vecchio continente: 600'000 morti nella guerra civile americana, 2 milioni nella rivoluzione messicana, 4/5 dei paraguayani uccisi, l’80% della popolazione mondiale sottoposta a quotidiani orrori. La stessa Europa non era immune a macchie: orrori bulgari, razzismi di vario genere ed un crescente sentimento antisemita, infatti, ne caratterizzavano alcune sue parti.
Le cause di un conflitto così sanguinoso come la prima guerra mondiale sono state individuate dagli storici in vari fattori: il riarmo navale tedesco/inglese, la rivalità russo/austriaca nei Balcani, la deviazione da problemi interni (impero austroungarico), le rivalità in campo coloniale. Tutti sono però concordi nell’indicare anche l’imperialismo (per Hobson, “una forma alterata del capitalismo della libera concorrenza”; per Lenin, “la fase suprema del capitalismo” stesso) quale fondamento.
L’opinione pubblica non si avvedeva però di tutti questi problemi e quando, in seguito all’ultimatum austriaco alla Serbia, si capì di essere arrivati al capolinea, ne fu sorpresa ma non preoccupata. Si pensava infatti ad un “blitzkrieg” (“piano Schlieffen” elaborato dai tedeschi: invasione del Belgio e conseguente sopraffazione della Francia, per poi attaccare la Russia). L’opinione pubblica accolse quindi con favore (manifestazioni di giubilo a Londra, Berlino, Parigi e, in seguito, il “maggio radioso” italiano) la partenza dei soldati per il fronte. Molti intellettuali si fecero a loro volta abbagliare dalle luci della guerra ed in alcuni casi finirono addirittura per arruolarsi. Furono pochi quelli rimasti a remare contro, soprattutto perché i vari partiti socialisti europei, i cui leader si sarebbero dovuti radunare pochi giorni dopo l’avvio delle ostilità, rimasero privi di una linea-guida politica unitaria. Gli impegni assunti durante la “Seconda Internazionale” di Stoccarda, furono quasi dovunque disattesi siccome anche i movimenti operai si scoprirono affascinati dallo sfavillare del patriottismo. A tutto questo, si affiancò il fatto che il grande serbatoio militare attingeva soprattutto dalle campagne, dove forte era la presenza dei partiti cattolici, che dovettero attendere fino al 1917 un segnale da parte del Pontefice.

    • – Dalla guerra lampo alla guerra totale

Il 28 giugno 1914, l’attentato di Sarajevo nel quale trovarono la morte l’erede al trono asburgico Francesco Ferdinando e la consorte Sofia, dette all’impero austroungarico (forte dell’appoggio del kaiser tedesco) l’occasione di porre un inaccettabile ultimatum alla Serbia. Il 28 luglio venne così ufficializzata la dichiarazione di guerra; il 30 la Russia dichiara la mobilitazione generale, imitata il 1° agosto dalla Germania. Due giorni più tardi, i tedeschi dichiarano guerra alla Francia e mettono in atto il piano Schlieffen, invadendo il Belgio. Il 4 agosto, preoccupata dal nuovo sbocco tedesco sul mare, anche l’Inghilterra entra nel conflitto. Nel maggio 1915 è la volta dell’Italia, che entra in guerra contro l’Austria (forte della stipula del Patto di Londra, ma violando la Triplice Alleanza).
Dopo i primi successi della Germania, ci si rese ben presto conto che il conflitto sarebbe diventato lungo e sanguinoso. Nella nuova guerra di posizione furono registrati alcuni successi (penetrazione dei russi in Galizia e degli austriaci fino al Piave), ma anche enormi ed inutili massacri (un milione di morti nella battaglia di Verdun tra l’esercito tedesco e quello francese). In una guerra così lunga assumeva sempre più importanza il fronte interno, sottoposto a continui bombardamenti, razionamento del cibo e del carbone e militarizzazione della manodopera. Da questo punto di vista gli imperi centrali erano quelli meno auto-sufficienti e su questo influì negativamente anche il blocco navale imposto dalla Royal Navy inglese. I tedeschi cercarono di porvi rimedio con una battaglia sottomarina, culminata nell’infruttuoso scontro dello Jutland (maggio 1916). Nel marzo 1917, dopo che la guerriglia sottomarina fu rallentata per via dell’erroneo affondamento del piroscafo statunitense Lusitania, il kaiser chiese al Messico di entrare in guerra contro gli USA. Venuta a conoscenza del piano, il presidente americano Wilson ebbe così la possibilità di convincere per l’entrata in guerra un’opinione pubblica fortemente refrattaria.

    • – La svolta del 1917

 

La routine dettata dalla guerra di trincea aveva un limite. Nel 1917 vi furono varie manifestazioni di malcontento in tutti i paesi belligeranti, unitamente a diversi ammutinamenti che si registrarono tra le fila francesi e tedesche. I governi dei vari stati reagirono in modo decisamente duro (Cadorna spiegò la disfatta di Caporetto come “uno sciopero militare fomentato da rossi e clericali”) al fenomeno. L’anello più debole dell’intera catena era comunque la Russia, dove la frustrazione dell’esercito raggiunse l’apice quando la guarnigione di Pietrogrado fraternizzò con gli operai in sciopero (rivoluzione di febbraio), costringendo lo zar alle dimissioni. Il governo che si insediò successivamente mostrò appieno le sue incapacità ed aiutò in questo modo la presa di potere dei soviet (soprattutto quelli di Mosca e Pietrogrado), che divennero autentici organi di contropotere (non emanavano soltanto critiche e stimoli, ma anche ordini e disposizioni). Quando poi, in aprile, il ministro degli esteri Miljukov ribadì agli alleati l’intenzione di proseguire nel conflitto con i medesimi obiettivi di quando questo era stato iniziato, la crisi di governo fu inevitabile. Gli alleati perdevano così un prezioso aiuto militare, ma guadagnavano moltissimo in termini di immagine: l’affermarsi di un governo democratico in Russia, poneva l’intera guerra nei termini di uno scontro tra la democrazia globale e l’autarchia/prepotenza degli stati rivali. Questo fu un ulteriore stimolo per Wilson, che poté varare un imponente piano di aiuti economici, prima di spedire il proprio contingente militare, operativo in Francia nella primavera del 1918. La prima guerra mondiale, non si poneva più nei termini di “chi” avrebbe vinto, ma bensì di “quando”. Gli imperi centrali se ne resero conto e cercarono le prime vere soluzioni di pace. A spuntarla, però, furono ancora una volta gli intransigenti e le alte gerarchi militari, che di fatto bloccarono qualsiasi trattativa. Intanto, la situazione russa precipitava: il soviet di Pietrogrado dichiarò la creazione di un “governo dei soviet”. Uno dei primissimi atti del neonato governo rivoluzionario consistette nell’ambiguo appello rivolto “ai popoli ed ai governi”, che dava adito ad una negoziazione della pace o, al tempo stesso, ad una mobilitazione di massa del proletariato europeo. Svanita anche in Germania la seconda ipotesi, il gruppo dirigente scelse la soluzione di Lenin per una negoziazione incondizionata della pace con la Germania (trattato di Brest-Litovsk).

    • – I trattati di pace

 

Il trattato di Brest-Litovsk consentì alla Germania di concentrare tutte le sue truppe sul fronte occidentale; qui, dopo alcune vittorie, si scatenò la controffensiva alleata (forte di un milione di soldati USA), che nel luglio 1918 schiacciò le forze tedesche. Dopo un vuoto di potere dovuto alla fuga del kaiser, l’11 novembre il nuovo governo repubblicano tedesco firmò la resta, imitando quanto fatto pochi giorni prima dall’Austria (divenuta a sua volta repubblica). La conferenza di pace di Parigi durò un anno e mezzo e sfociò in diversi trattati. Il problema maggiore fu quello di trovare un compromesso tra la visione internazionalista di Wilson (discorso dei “14 punti”: sistema capitalista mondiale e creazione della Società della Nazioni) e gli egoismi dei singoli stati. Il trattato di Versailles sancì la nascita della SdN ed il principio all’autodeterminazione dei popoli (applicato, tuttavia, solo in Europa), la creazione di otto nuovi stati e la generazione di un “cordone sanitario” per tutelare l’occidente dalle influenze della rivoluzione russa. Le condizioni furono durissime nei confronti della Germania, ritenuta la responsabile della guerra e lasciò alle sue spalle un’Europa ancora più incandescente di quella che aveva acceso la guerra, non solo per l’umiliazione imposta ai tedeschi, ma anche per via dei nuovi stati, creati a tavolino senza tener conto delle differenze etniche presenti al loro interno.

Capitolo 2: “Gli Stati Uniti degli anni ‘20”

Nel corso della prima guerra mondiale, le perdite degli USA furono relativamente limitate (100'000 uomini, pari allo 0,2% della popolazione attiva maschile). Esse furono però pesanti a livello psicologico per l’opinione pubblica, soprattutto quando ci si rese conto che la guerra aveva lasciato alle sue spalle un mondo ancora più pericoloso di quello precedente. Il rapido scorrere degli eventi fece sprofondare la popolazione in una crisi di identità che si sfogò in una sorta di “ritorno alle origini” e di rifiuto di tutto ciò che non era “americano al 100%”. In quest’ottica è da inquadrarsi anche la “red scare”, cioè la psicosi di un complotto rivoluzionario sullo stile russo, alimentata dai vari movimenti di sciopero e di protesta che stavano sorgendo nel paese. Il processo statunitense di “ritorno alle origini” passò inevitabilmente per un’ondata di odio razzista nei confronti di tutti gli immigrati, classificati come impenitenti bevitori (i “wets”, cioè gli umidi), a cui rispose una campagna puritana culminata nel “Volstead Act” e nel divieto di commercializzare bevande con una gradazione alcolica superiore allo 0,5%. La questione razzista del paese era accentuata dal processo di industrializzazione, che fece giungere nelle città numerose masse di immigrati, generando numerose situazioni di latente conflittualità. Sebbene nel nord del paese questo problema si risolse assai rapidamente, esso rimase ben radicato nel sud e sulla costa del Pacifico. Il culmine venne raggiunto con la ricostituzione del Ku-Klux-Klan (KKK), che nel 1915 toccò una punta di 4 milioni di iscritti e che mise in atto violente azioni a danno di neri, ebrei, cattolici ed intellettuali anti-razzisti. Da questo clima di disgregazione uscì in ginocchio il partito democratico di Wilson, che dell’eterogeneità del proprio elettorato faceva una dei suoi cavalli di battaglia. Complice un attacco di trombosi, il presidente non riuscì a far ratificare il trattato di Versailles (dove i membri si sarebbero dovuti impegnare ad aiutarsi militarmente in caso di aggressione) e ciò si tradusse in una forte caduta del prestigio di cui egli godeva. Gli ultimi mesi della presidenza Wilson furono un lento calvario, durante il quale l’unica azione degna di nota intrapresa dal governo fu l’entrata in vigore del XIX° emendamento, che estendeva il diritto di voto alle donne. Le nuove elezioni del 1920 diedero la vittoria al repubblicano Harding, che diede vita ad un governo simile a quello di un’impresa, affidando i ruoli chiave a personalità prelevate dal mondo dell’economia (tra le quali, la cosiddetta “banda dell’Ohio”). Alla morte improvvisa di Harding subentrò il suo vice Coolidge, riconfermato alle successive elezioni del 1924. Per tutti gli anni ’20 si assistette dunque ad un incontrastato dominio repubblicano, complice la nascita del partito progressista di La Follette, che nel ’24 strappò ben 5 milioni di voti ai democratici. In politica estera, l’amministrazione repubblicana provvide ad estromettersi dalla SdN e stroncare il tentativo wilsoniano di riavvicinamento alla Russia (missione Bullit), nonostante ad essa vennero fatti avere numerosi aiuti economico/militari. Si rinunciava così a quel progetto di “leadership internazionale” teorizzato dall’ex presidente democratico, per chiudersi invece in un vero e proprio isolazionismo.

Nel corso della guerra, gli Stati Uniti potevano vantare una macchina economica particolarmente ben funzionante, con una bilancia dei pagamenti in forte attivo (9 milioni di dollari in crediti dall’Europa) ed un bassissimo livello di disoccupazione. L’opinione pubblica chiedeva a gran voce l’immediato pagamento dei crediti esteri, ma Wilson si rendeva conto di come i paesi europei avrebbero potuto pagare i loro debiti soltanto se fossero stati messi in condizione di poterlo fare. Egli tentò quindi di incentivare le importazioni statunitensi, aprendo alle imprese del vecchio continente le porte del mercato interno del suo paese. Una politica economica del tutto contraria a quella che fu successivamente avviata dall’amministrazione repubblicana, che per porre rimedio alla recessione del 1921 decise di aumentare i dazi doganali sui prodotti agricoli ed industriali, invitando al tempo le stesso le banche a concedere prestiti all’estero, in modo da agevolare le esportazioni USA. Contemporaneamente, un forte giro di vite strinse il fenomeno immigrazione.
Nel suo complesso, l’amministrazione repubblicana (sotto Harding e Coolidge) non si distinse tanto per quello che fece, quanto per ciò che lasciò fare in linea agli ideali liberisti che la animavano. Se gli affari erano affari, infatti, essi erano da affidare nelle mani di coloro che in mezzo ad essi sguazzavano quotidianamente, imprenditori in primis. Nasceva così negli Stati Uniti la figura del manager, vero e proprio “ingegnere sociale” al servizio della comunità. Contemporaneamente si diffondeva in tutto il paese una vera e propria cultura del consumo, aiutata dalla figura di Henry Ford, il primo imprenditore ad applicare sistematicamente nei suoi stabilimenti le teorie tayloriste sull’organizzazione scientifica del lavoro (scientific management), introdurre la catena di montaggio e la standardizzazione del prodotto. Ciò gli consentì di aumentare il livello dei salari, diminuendo del 75% i costi di produzione. Sotto la sua spinta, nacquero numerose infrastrutture e si sviluppò l’industria petrolifera texana.

Il quadro psicologico di quegli anni (i cosiddetti “roaring twenties”) era comunque particolare. I ricchi e i membri della middle-class si infatuarono alle pratiche psicoanalitiche freudiane, gli emarginati affollavano gli “speak-easy”, locali semi-illegali nei quali si vendevano sottobanco bevande alcoliche e nelle strade era ancora rilevante il problema della violenza criminale (gangsterismo), culminato nella strage di San Valentino del 1929. Attraverso radio e televisione, gli USA riuscivano comunque ad esportare in Europa un’immagine vincente di loro stessi.

Capitolo 3: “L’Unione Sovietica da Lenin a Stalin”

3.1 – La rivoluzione di ottobre (1917)

La Russia di inizio secolo era sostanzialmente un paese arretrato ed erano in molti a sostenere che la rivoluzione socialista non avrebbe potuto aver luogo, se non quando il paese avesse raggiunto un livello di sviluppo e di civiltà almeno pari a quello degli altri paesi europei. Per questo motivo, alla creazione del governo provvisorio di Kerenskji, la maggioranza dei partiti nati dalla divisione del movimento socialdemocratico russo mantenne un atteggiamento di benevola attesa. Tra i pochissimi a non condividere tale orientamento di massima vi erano Lenin e Trockij. Lenin visse in Svizzera come emigrante e, grazie soprattutto alla sua intransigenza, riuscì a farsi un nome nell’ambito dell’Internazionale Socialista. Egli fu profondamente colpito dal “tradimento” della Seconda Internazionale ed il suo rancore si sfogò in massima parte contro i socialdemocratici tedeschi. Al suo arrivo in Russia, Lenin si dichiarò subito contrario ad ogni appoggio al governo provvisorio, ma bensì a favore della creazione di un governo espressione dei soviet, degli operai, dei contadini e dei soldati, che permettesse l’immediati uscita dalla guerra, la confisca delle terre ed il controllo delle banche. Convinto dell’impossibilità di resistere singolarmente di un governo siffatto, Lenin propose una Terza Internazionale che rompesse con quei partiti socialisti europei che avevano appoggiato la guerra e, viceversa, supportasse i movimenti rivoluzionari indigeni. Il problema di fondo era comunque il partito bolscevico, che faceva registrare appena 200'000 iscritti ed era in minoranza nei soviet di Mosca e di Pietrogrado. A luglio, i bolscevichi tentarono di mettersi alla guida di una serie di scioperi e di manifestazioni insurrezionali sorte nel paese, ma furono duramente repressi da Kerenskji (Lenin dovette fuggire in Finlandia, Trockij fu arrestato ed il partito bolscevico disciolto). La svolta avvenne comunque nel mese di agosto, quando il generale controrivoluzionario Kornilov fece marciare le sue truppe verso Pietrogrado, allo scopo di spazzare via il governo provvisorio. Furono proprio i bolscevichi a mettersi a capo della resistenza popolare e respingere il tentativo insurrezionale, aumentando notevolmente la fama di cui godevano presso il popolo. Il governo provvisorio era ormai privo di potere e vi era il timore che le truppe tedesche potessero penetrare fino a Pietrogrado. Il comitato centrale del partito bolscevico decise così che era giunta l’ora del contrattacco: il 25 ottobre 1917 ebbe luogo l’insurrezione, che non incontrò praticamente alcun ostacolo. Il giorno successivo, Lenin convocò un congresso dei soviet russi (boicottato dai partiti rivali del bolscevichi) e nominò un “consiglio dei commissari del popolo”.

3.2 – Il comunismo di guerra

Il giorno dopo essersi impadronito del potere, il consiglio dei commissari del popolo emanò due decreti: uno sulla pace e l’altro sulla ridistribuzione delle terre ai contadini. Quest’ultimo diede il via ad un processo di ridistribuzione dei terreni demaniali, della Chiesa e dei proprietari terrieri a favore dei contadini, comportando un deciso aumento di popolarità del nuovo governo nelle campagne. Per consentire comunque l’approvvigionamento alimentare delle città, nel maggio/giugno 1918 venne emanata una seconda serie di decreti, che instauravano la cosiddetta “dittatura alimentare”: tutta la produzione agricola, presente e futura, passava sotto il controllo dello stato. La manovra causò un forte malcontento nelle campagne. Un malcontento che il governo tentò di sviare agevolando la formazione di comitati di contadini poveri (kombedy), introducendo di fatto la lotta di classe nelle campagne.
Nello stesso giugno 1918, un contingente cecoslovacco di 60'000 uomini che doveva attraversare la Transiberiana, rifiutò di venire disarmato, entrando in conflitto con le autorità sovietiche locali. Fu l’inizio di una guerra civile che sarebbe durata due anni e che avrebbe provocato milioni di morti. A fronteggiarsi erano i “rossi” (l’Armata Rossa, capeggiata da Trockij ed aiutata dagli ufficiali del disciolto esercito zarista) ed i “bianchi” (polacchi e cecoslovacchi, appoggiati da Francia, Inghilterra e Giappone). Agli inizi del 1920 le truppe polacche varcarono il confine russo occupando Kiev; a luglio, la controffensiva degli avversari portò l’armata rossa a riconquistare la città ed addentrarsi profondamente in Polonia. La caduta di Varsavia sembrava imminente, quando nel partito bolscevico vi fu una nuova spaccatura: Lenin avrebbe voluto proseguire l’ondata rivoluzionaria sull’Europa, mentre Trockij era disposto ad accogliere la proposta di mediazione offerta dall’Inghilterra. La decisione fu imposta dagli eventi: l’esercito polacco riuscì a cacciare le truppe russe dal paese, costringendole all’armistizio (marzo 1921: pace di Riga). L’esercito della RSFSR (Repubblica sovietica federativa socialista russa) poté così concentrarsi sul fronte interno, costringendo le truppe bianche di Wrangel, nel dicembre 1921, a fuggire via mare.
Nel frattempo, quella che i bolscevichi chiamavano “dittatura del proletariato” era divenuta di fatto la dittatura di un solo partito: appunto quello bolscevico. Gli altri partiti continuarono formalmente ad esistere, ma avevano rappresentanze sempre più limitate, sia nei soviet che nei sindacati, al punto che molti degli intellettuali più in vista (tra cui Gorskij) scelsero la via dell’auto-esilio. La dittatura del proletariato si rifaceva alla fase giacobina della rivoluzione francese, con la sua “levée en masse” (l’armata rossa, complice l’introduzione della coscrizione obbligatoria, arrivò a contare 5 milioni di soldati) ed il suo “terrore” (nasce la Ceka, polizia politica del partito, e vengono istituiti i primi campi di lavoro e di deportazione). Il partito bolscevico arrivò a contare 600'000 iscritti (numero comunque irrilevante se si considerano i 132 milioni di abitanti), il 50% dei quali prestavano servizio nell’armata rossa. Da questo derivò una forte militarizzazione del partito, con l’introduzione della nomina dall’alto delle cariche e del principio della “responsabilità personale”. Si diffuse l’opinione, soprattutto grazie a Bucharin, che il “comunismo di guerra” basato sull’abolizione della moneta a favore degli scambi in natura, non fosse un qualcosa di transitorio legato alle dure circostanza del momento, ma il punto di partenza verso il comunismo marxista (“a ciascuno secondo i propri bisogni”). Fu così che, nel novembre 1920, le imprese vennero nazionalizzate e la fornitura di beni e servizi essenziali resa gratuita per impiegati ed operai.

3.3 – I primi anni della Nep (nuova politica economica – “capitalismo di stato”)

Sei anni (dal 1914 al 1920) di guerra (civile e non) lasciarono alle proprie spalle un paese devastato: Leningrado perse i due terzi della sua popolazione, Mosca il 50%, il rublo perse tutto il suo valore, il 75% della rete ferroviaria era inutilizzabile ed i salari equivalevano ad un terzo di quelli dell’anteguerra, ma venivano corrisposti principalmente in natura. L’84% della popolazione viveva nelle campagne e, dopo la rivoluzione, a maggior ragione, la Russia continuò ad essere un paese contadine. Il numero delle piccole proprietà era cresciuto enormemente e Lenin si rese conto che le possibilità di ricostruzione del potere sovietico passavano attraverso una ricostruzione del rapporto di scambio campagne-città ed un’alleanza tra operai e contadini. Una parte delle aziende venne riportata alla gestione privata; venne data ai contadini la possibilità di commercializzare i propri prodotti ed, entro certi limiti, la possibilità di assumere manodopera salariata. Ne conseguì una ripresa economica che permise il ritorno alla circolazione monetaria e la nascita della prima banca di stato (Gosbank). Il ritorno ad un’economia di “capitalismo di stato” implicava la nascita di un mercato del lavoro e la derivante ridefinizione dei ruoli dei sindacati (cui fu affidato il diritto di sciopero, sfruttato innumerevoli volte nel 1923). Un importante banco di prova per il nuovo corso politico russo era dato dalle “questioni nazionali” (un imponente numero di territori dell’ex-impero zarista era infatti abitato da popolazioni non-russe). Con il decreto sulla pace, a suo tempo, il consiglio dei commissari del popolo aveva garantito il diritto all’autodeterminazione dei popoli, di cui “approfittarono” Ukraina, Bielorussia, Transcaucasia (Georgia, Armenia, Azerbajdzan) e Siberia sud-orientale. A questo, nel luglio 1923, si aggiunse l’approvazione del piano di unificazione pansovietica propugnato da Stalin (all’epoca ministro delle nazionalità), che diede origine all’URSS (unione delle repubbliche socialiste sovietiche). Alle quattro repubbliche appena menzionate rimaneva la giurisdizione sugli affari interni (sanità, istruzione, ecc…), mentre gli organi pansovietici gestivano difesa, affari esteri, commercio estero e comunicazioni. Rispetto all’impero zarista, le varie nazionalità erano ora riconosciute ed incoraggiate attraverso lo studio delle lingue locali e la spinta alla creazione di quadri indigeni del partito (solo negli anni ’30, auspice ancora Stalin, si procedette ad un giro di vite nel senso della russificazione). Secondo Lenin, per sancire il definitivo successo della Nep, era necessario reinserire l’URSS nel circuito dell’economia internazionale. Da parte delle potenze occidentali (in primis la Francia, che voleva le fossero riconosciuti i debiti contratti dall’impero zarista), vi era però scarsa disponibilità in tal senso. Anche le resistenze interne non mancavano: tra i quadri vi era chi pensava che l’ingresso nell’economia internazionale avrebbe reso l’URSS una semi-colonia europea fornitrice di materie prime, mentre altri inquadravano la prospettiva come una definitiva rinuncia all’idea di una rivoluzione mondiale (e dunque una sconfessione della Terza Internazionale). Nel 1922, l’URSS fu invitata alla conferenza economica mondiale di Genova e, a margine degli infruttuosi lavori del vertice, riuscì a stringere un importante accordo con la Germania (“patto di Rapallo”): il governo tedesco riconosce l’URSS e ne infittisce le trame commerciali; sull’altra sponda, l’URSS rinuncia a richiedere le riparazioni tedesche ed offre alla Germania il proprio territorio, come banco di prova per gli armamenti vietati dal trattato di Versailles.
3.4 – L’ascesa di Stalin

Con la Nep, la Russia era riuscita ad uscire dalla crisi e trovare un suo equilibrio. Si trattava però di un equilibrio fortemente precario per via delle congiunture interne (“crisi delle forbici”, cioè del rapporto tra i prezzi dei prodotti agricoli e di quelli industriali) ed internazionali (bagliori rivoluzionari, minacce di rottura delle relazioni diplomatiche). Lenin si rese conto dell’arretratezza economico-culturale dell’URSS (rischio di uno sprofondamento nel “regno della grettezza contadina”) e del fatto che la contrapposizione tra le forze dell’imperialismo e quelle della rivoluzione restasse la contraddizione fondamentale dell’età contemporanea, ritenendo pertanto inevitabile una nuova guerra. La questione delle forme e dei tempi dello sviluppo economico si intrecciava con la collocazione internazionale dell’URSS: Trockij era per una “rivoluzione permanente”, Stalin e Bucharin per la “rivoluzione in un paese solo”. Le idee non mancavano, ma i componenti del gruppo dirigente sapevano che il proporre alla popolazione scelte di questo calibro avrebbe potuto innescare una pericolosa miccia (da qui il famoso “punto 7”, dove si prevedeva l’espulsione dal partito per coloro ritenuti responsabili di “frazionismo”). In un contesto come questo, il partito bolscevico diveniva quindi un’arma potentissima. Colui che se ne rese conto per primo fu Stalin, eletto segretario generale nel 1922, che riuscì ad organizzare una solida struttura gerarchica, votata all’idea di un’unità “monolitica”, concentrando nelle sue mani un enorme potere. Lenin (già oppositore di Stalin nell’ambito della “questione nazionale”), con il suo testamento politico del dicembre 1922 mise in un guardia i compagni di partito, chiedendo loto di destituire il prima possibile il nuovo “capo”. L’allarme fu ripreso da Trockij in due grandi battaglie: nel gennaio 1924, alla conferenza del partito egli denunciò la “dittatura di una frazione”, riuscendo ad ottenere un reclutamento di massa tra gli operai per formare i nuovi quadri del partito (l’iniziativa, chiamata “leva leninista” in quanto entrata in vigore subito dopo la morte di Lenin, si rivelò però appannaggio dello stesso Stalin); nell’ottobre dello stesso anno, l’opposizione chiese una “leninizzazione” dell’Internazionale Comunista (in contrasto al “socialismo in un paese solo” di Stalin e Bucharin), mediante manifestazioni di protesta a margine dei festeggiamenti per il decimo anniversario dell’ottobre (facilmente domate da Stalin, che destituì Trockij dal comando dell’armata rossa e ne provocò la deportazione ad Alma Ata).

Capitolo 4: “L’Inghilterra e il Commonwealth nei primi anni ‘20”

4.1 – I problemi internazionali

Nelle convulse giornate che intercorsero tra l’assassinio di Sarajevo e l’inizio delle ostilità, la diplomazia inglese (da decenni garante dell’equilibrio europeo) era stata quella che più si era mobilitata affinché gli eventi non precipitassero. In seguito agli sconvolgimenti bellici fu ancora sulle spalle degli inglesi che gravò la responsabilità di tutelare l’ordine europeo, dai l’isolazionismo americano e la svanita speranza sovietica di una “rivoluzione mondiale”. La diplomazia britannica, tuttavia, era quella più abituata ed abile nel gestire i delicati rapporti internazionali, sebbene al suo interno vi fossero vari esponenti rimasti affascinati dai 14 punti wilsoniano ed altri fedeli alla vecchia concezione di “impero”. Fatto sta che il liberale Lloyd Gorge, capo del governo durante la guerra e nel periodo successivo, si sforzò di limitare i danni di quella che l’economista Keynes aveva definito una “pace cartaginese”. Dal momento in cui tali accordi vennero però firmati, il suo lavoro si rivelò ancora più arduo di quanto si potesse pensare in precedenza.
Le difficoltà nella politica estera inglese iniziavano tuttavia da una questione semi-casalinga, quale era quella irlandese. Nelle elezioni del 1918 il Sinn Fein riuscì a far eleggere 75 deputati (sui 105 spettanti all’Irlanda), che in blocco rifiutarono di sedersi a Westminster, ma si costituirono in parlamento nazionale a Dublino e qui vi proclamarono la repubblica. Al tempo stesso, l’IRA (Irish Repubblican Army, braccio armato del Sinn Fein) scatenò una guerriglia contro gli inglesi (centinaia le vittime) che condusse alla firma del negoziato d’accordo nel giugno 1921.
Un altro problema, l’Inghilterra dovette affrontarlo relativamente ai suoi dominions, forti di 200'000 propri soldati andati a combattere sui campi di battaglia europei della prima guerra mondiale. Questa prova di lealtà doveva essere ricompensata dai britannici, che costituirono così l’”Imperial War Cabinet”, cui fecero parte i primi ministri di tutti i dominions, per poi approvare lo “status dei dominions”, dove si proclamava la sostanziale autonomia ed indipendenza delle colonie. Sulla base di tale status, i dominions parteciparono alla conferenza di pace ed entrarono a far parte della SdN (Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda ricevettero anche dei mandati). Anche l’India venne ricompensata per lo sforzo bellico ed entrò a far parte del nuovo commonwealth, interrazziale ed interculturale, dove i vari membri avevano parlamenti propri e piena sovranità.
Riguardo alla Germania, il governo di Lloyd Gorge si rese conto dell’impossibilità da parte tedesca di pagare le operosissime riparazioni, ma tutto ciò che ottenne alla conferenza di Versailles fu una riduzione dell’importo da pagare. In questo campo, infatti, Gorge dove fare i conti non solo con i compatrioti che avrebbero voluto vedere “il kaiser impiccato”, ma anche con i francesi che richiedevano il completo pagamento dei debiti “fino all’ultimo marco”.
Problematico era anche il rapporto con la Russia sovietica, verso la quale i francesi si mostrarono fortemente ostili. Dopo l’iniziale appoggio (con armi ed aiuti economici) alle truppe “bianche” nel corso della guerra civile, le sinistre convinsero Lloyd Gorge a cambiare la propria posizione ed intensificare i rapporti con il governo sovietico, culminati nel trattato commerciale del 1921 e nel successivo riconoscimento bilaterale.
Dopo il fallimento della conferenza di Genova del 1922 (sabotaggio da parte francese ed assoluta diserzione americana), il governo inglese cercò ci concentrarsi sulla cancellazione dei debiti interalleati, ma l’indifferenza degli States ed alcuni passi falsi dello stesso George, lo portarono ad un isolamento internazionale. Le elezioni dello stesso anno, una vera disfatta per i liberali, furono vinte dai conservatori, che schierarono a capo del gabinetto Bonar Law. Il nuovo governo fu caratterizzato da una tendenza al disimpegno e dalla rinuncia ad esercitare un ruolo attivo nell’ambito dello scacchiere europeo.

4.2 – I problemi interni

L’Inghilterra fu tra i primi paesi belligeranti ad indire elezioni generali. La decisione di chiamare gli elettori alle urne fu presa infatti nel dicembre 1918, a distanza di poche settimane dall’armistizio. L’elezione premiò quelli che il popolo considerava gli artefici della vittoria, ovvero i liberali di Lloyd George ed i conservatori di Bonar Law. Nonostante ciò, i laburisti conobbero un deciso incremento di voti  (dall’8 al 22%), diventando di fatto una forza politica alternativa e non più un satellite del partito liberale (la base elettorale dei laburisti era infatti costituita dalla Trade Unions, la confederazione di sindacati che nel corso della guerra aveva raggiunto gli 8 milioni di iscritti). Opinione diffusa nel paese era comunque che, da coloro che erano riusciti a guidare il paese alla vittoria, fosse lecito aspettarsi la capacità di cogliere i frutti che da questa vittoria sarebbero dovuti cadere copiosi. La congiuntura favorevole del 1919 e di parte del 1920 sembrò confermare questa tesi (salari medi aumentati del 17% e disoccupazione minima), ma conobbe la sua cessazione nell’inverno 1920, soprattutto nei riguardi dei settori minerario e cotoniero. Nell’aprile 1921 il governo decise di intervenire ponendo fine al controllo esercitato sulla produzione mineraria (nella quale era impiegato un milione di lavoratori) durante la guerra, restituendo le miniere ai legittimi proprietari. Quando ci si rese conto che questi avrebbero scaricato il peso della crisi sugli operai, riducendo i salari ed aumentando le ore di lavoro, il sindacato dei minatori entrò in rivolta. Forti di una duplice alleanza con ferrovieri e portuali, esso decretò per il 16 aprile l’inizio di uno sciopero che si preannunciava duro, ma soprattutto lungo. Il giorno precedente, però, i minatori vennero abbandonati dai due sindacati alleati e si trovarono a combattere da soli. Lo sciopero si protrasse fino a luglio, ma alla fine dovettero cedere. L’onda d’urto di questa batosta si espanse a tutti i sindacati, che nel 1922 tornarono al livello prebellico di 4 milioni di iscritti. Ciononostante, le successive elezioni del 1922 registrarono un sensibile aumento dei voti ai laburisti, in coda al successo ottenuto dai conservatori ed al definitivo crollo del partito liberale di Lloyd George. Il governo conservatore durò soltanto un anno: nel 1923 le nuove elezioni diedero ai laburisti una “vittoria morale”, in quanto riuscirono (pur rimanendo il secondo partito del paese) a strappare quasi 100 seggi ai conservatori. L’incarico di formare il nuovo gabinetto fu dunque affidato a Ramsay Mac Donald, leader laburista che riuscì a stringere una salda alleanza con i liberali. Anche il governo laburista durò un solo anno solare, ma esso lasciò un profondo segno nel paese.

Capitolo 5: “L’Europa continentale nei primi anni ‘20”

5.1 – Caratteri generali del dopoguerra in Europa

Il termine “dopoguerra” evoca il quadro di una congiuntura caratterizzata da una grande instabilità politica e sociale, nonché da bruschi cambiamenti. La guerra, con i suoi 8 milioni di caduti, portò ad un rimescolarsi del rapporto tra i sessi e le varie classi di età; le donne, che durante il conflitto sostituirono gli uomini nelle fabbriche, si sottrassero alla storica condizione di relegazione e subordinazione cui le aveva costrette il lavoro domestico, maturando al tempo stesso una maggior consapevolezza dei propri diritti. Il dopoguerra fu caratterizzato anche da una generale inflazione (+100% in Inghilterra, +500% in Francia, +400'000’000% in Russia), che erose i risparmi dei ceti borghesi, trasformatisi spesso in nuovi proletari. Per vasti strati sociali, comunque, la prima guerra mondiale fu una sorta di “battesimo” nella vita collettiva della nazione. Al ritorno dal fronte, questo si tradusse in un maggior desiderio di gettarsi nell’associazionismo politico (partiti agrari e contadini, cattolici, degli ex-combattenti, ecc…). Questo fenomeno, però, non può essere ricondotto ad una sorta di “democratizzazione di massa”: a regnare era infatti l’esasperazione per la guerra appena combattuta, condita dall’asprezza di fortissime tensioni politiche.
Lenin, e con lui l’intero gruppo dirigente bolscevico, era preoccupato dalla proliferazione di piccoli partiti comunisti indigeni “estremisti”, al punto, che nella seconda conferenza della Terza Internazionale, egli ribadì la necessità che essi aderissero in blocco alle “21 condizioni”. Il concetto di fondo del diktat era l’imposizione del modello sovietico a tutti i partiti comunisti europei, in modo che il partito comunista russo avesse potuto conservare una sorta di leadership in tal senso. Il progetto si tradusse in un sostanziale fallimento: nel corso di tutti gli anni ’20, i partiti comunisti europei non riuscirono a scalfire, se non in minima parte, la diffusa tradizione socialista/socialdemocratica.

5.2 – Il dopoguerra nell’Europa centro-orientale

  • Austria: il governo di coalizione presieduto da Karl Reuner, eletto nel febbraio 1919, doveva gestire un paese affamato ed indebitato, diviso tra una capitale “rossa” ed una campagna “bianca” e clericale. L’unica soluzione possibile per uscire dalla crisi sembrava essere la congiunzione (Anschluss) con la nuova repubblica tedesca, ma questa possibilità fu preclusa dall’ostilità della SdN. Nel marzo/aprile 1919, a Budapest e Monaco vennero dichiarate altrettante repubbliche sovietiche; le sinistre socialiste al potere, timorose di trovarsi isolate e prive degli aiuti economici occidentali, decisero comunque di chiudere immediatamente la vicenda;
  • Ungheria: nel marzo del 1919, guidati dal reduce russo Bela Kun, i comunisti si fusero insieme ai socialisti ed instaurarono sul territorio magiaro una repubblica dei consigli, sul modello sovietico. Tale repubblica, basata sul terrore e sulle requisizioni nelle campagne, era fronteggiata militarmente dai cechi (a nord) e dai rumeni (a sud). Questi ultimi penetrarono a Budapest in agosto, affidando il potere al nobile ammiraglio Horty, artefice di uno scatenato “terrore bianco”;
  • Bulgaria: le prime elezioni del dopoguerra, nel marzo 1920, furono vinte dal leader della Lega Agraria, Alaxander Stamboliskij, che promosse una vasta riforma agraria (ridistribuzione a braccianti e piccoli proprietari delle terre appartenenti alla Chiesa ed allo stato). Alcune operazioni di politica estera, attuate per ridurre in modo considerevole le riparazioni di guerra dovute ai vincitori, costarono a Stamboliskij l’ostilità degli emigrati macedoni, tra gli artefici del colpo di stato che lo rovesciò nel giugno 1923. I comunisti tentarono un’insurrezione, repressa nel sangue e seguita da un’ondata di terrore bianco;
  • Jugoslavia: il paese, che dopo la conferenza di Corfù del luglio ’17 venne denominato “Regno dei servi, dei croati e degli sloveni”, non venne particolarmente influenzato da contrasti sociali, quanto da quelli tra le varie nazionalità presenti sul territorio (in particolare, tra serbi e croati). Nel 1929 re Alessandro Karageorgevic assunse pieni poteri, annullò la costituzione del ’21 e modificò la struttura federale dello stato in senso centralista, ribattezzandolo “Regno di Jugoslavia”. L’obiettivo di attenuare i conflitti etnici venne completamente disatteso ed anzi, questi si acuirono fino ad esplodere in maniera drammatica nel corso della seconda guerra mondiale;
  • Romania: come in Jugoslavia, anche in Romania si assistette ad una forte svolta nel senso dell’autoritarismo, complice l’avvento al trono di re Carol II (1930), che instaurò un governo personale. In entrambi i paesi vennero portate a termine riforme agrarie di notevole portata;
  • Polonia: il nuovo stato, sorto in seguito alla prima guerra mondiale, conteneva al suo interno regioni, come la Galizia e la bassa Slesia, ad alta concentrazione industriale e dove si era sviluppato un forte movimento operaio. Il sistema politico del paese era però ancora basato su valori tradizionali (tra i partiti più importanti, il Partito Democratico Nazionale e il Partito Contadino). Il partito socialista aveva seguito l’evoluzione del suo leader Jozéf Pilsudski, dal socialismo rivoluzionario della giovinezza, al nazionalismo antirusso della maturità. La riforma agraria venne attuata nel 1925 e ad essa seguì il colpo di stato di Pilsudski, che conquistò il potere, supportato da socialisti e comunisti che vedevano in lui il rivoluzionario dei primi tempi. In realtà, non si ebbero ulteriori sussulti in tal senso;
  • Finlandia: un effimero governo rivoluzionario instauratosi ad Helsinki venne spazzato via dal terrore bianco e dalle truppe tedesche. Si tornò ad una dialettica politica, che nel 1927 condusse alla riforma agraria che colpi in massima parte i proprietari terrieri svedesi;
  • Cecoslovacchia: il paese, che aveva ereditato la maggior parte del patrimonio produttivo asburgico e che disponeva di una classe politica colta, poteva vantare un grande prestigio a livello internazionale. Si trattava, però, del paese etnicamente più composito d’Europa (2/3 tra cechi e slovacchi, 1/5 di sudati e circa 1/3 di minoranze varie) e questo ne comprometteva la stabilità interna, favorendo la frammentazione dei vari schieramenti politici secondo divisioni puramente razziali. I contrasti ed i mutamenti che ne derivarono furono comunque sempre contenuti nell’ambito della costituzione. Questo portò il paese a conseguire brillanti risultati in campo economico (stabilizzazione della moneta nel ’22 e progresso economico negli anni successivi). Contemporaneamente progrediva la legislazione sociale.

 

5.3 – L’avvento del fascismo in Italia

L’Italia era uscita vittoriosa dalla prima guerra mondiale, ma il prezzo da pagare era stato di 600'000 caduti, conditi da un pesante dissesto economico e da una profonda crisi socio-politica. Il sistema di potere era ulteriormente compenetrato nell’apparato economico dello stato, ma si era contemporaneamente disgregato per via della proliferazione di organi e di funzioni diverse, sorte durante la guerra ed ormai fuori controllo. Il dopoguerra italiano fu caratterizzato da un clima di insofferenza, alimentato dalla questione femminile (durante il conflitto, le donne sostituirono gli uomini nelle fabbriche e ora rivendicavano pari diritti), dai contadini (che chiedevano le terre promesse loro dal governo), da borghesi e sottufficiali, che con la cessazione delle ostilità erano ripiombati nell’anonimato prebellico. In particolare, però, la contrapposizione più forte del paese era ancora quella tra lo schieramento interventista e quello neutralista. Una svolta la si ebbe nell’aprile 1919, quando la delegazione italiana decise di ritirarsi dal tavolo delle trattative di pace, in segno di protesta per il mancato riconoscimento delle richieste relative al confine orientale. Il “ministero della vittoria” di Orlando si dimise, dando di fatto il la, nel settembre dello stesso anno, all’occupazione di Fiume da parte di D’Annunzio e di un manipolo di suoi fedeli. Tutto ciò alimentò nel paese il mito di una “vittoria mutilata”, sospingendo la bilancia dell’opinione pubblica dalla parte dei neutralisti.
Unica eccezione tra tutti i paesi vincitori, le prime elezioni del dopoguerra, in Italia videro prevalere i partiti estraniatisi dal conflitto: i socialisti (32,5% grazie alla formula del “non aderire, né sabotare”) ed il neonato Partito Popolare di don Luigi Sturzo (20,2%). Nonostante i numerosi conflitti interni al paese, il periodo 1919-20 portò a vaste conquiste in campo sociale (giornata lavorativa di 8 ore, aumenti salariali, contratti con nuovi diritti, “controllo operaio” del processo produttivo), complice il buon andamento della congiuntura internazionale. Nell’autunno 1920, quando essa venne però a cessare, si entrò in un periodo di forte depressione, che ebbe effetti tanto devastanti quanto inaspettati. Il calo della produzione, unito all’aumento della disoccupazione, ebbe ripercussioni sul numero di iscritti ai sindacati e su quello dei partecipanti ai conflitti di lavoro, entrambi drasticamente diminuiti, ed anche sul piano politico: nel gennaio 1921, dal PSI si staccò l’ala massimalista che formerà poi il Partito Comunista d’Italia, mentre nell’ottobre ’22, a distaccarsi è la corrente riformista, guidata da Filippo Turati e Giacomo Matteotti. Contemporaneamente, anche la Confederazione Generale del Lavoro prese le distanze dal partito socialista. Non da meno erano comunque le divisioni all’interno del Partito Popolare, tra borghesi vicini alle gerarchie vaticane e sindacati cattolici.
Fu comunque nel contesto della crisi economica che, nell’autunno 1920, cominciò a dilagare il movimento squadrista. Il suo campo d’azione, dapprima limitato alla valpadana, si estese rapidamente a tutto il centro-nord raggiungendo, nel ’21-22, i grandi centri urbani. Gli obiettivi delle “spedizioni punitive” erano le cooperative rosse, i sindacati, le sedi di partito e dei comuni retti da popolari e socialisti. Le scorribande erano tacitamente agevolate dalle autorità locali e finanziate da alcuni agrari ed industriali che vedevano gli squadristi come garanti dell’ordine. Le camicie nere facevano riferimento alla figura di Benito Mussolini, che nel marzo 1919 aveva fondato il “fascio di combattimento”. Mussolini stesso (che nel novembre, con la sua lista, ottenne appena 4'000 voti nel collegio di Milano) rimase colpito dal successo del movimento squadrista, ma non esitò a rivendicarne la paternità ed assumerne la guida politica. Il suo ingresso in Parlamento è datato maggio 1921, quando il presidente del consiglio Giolitti gli propose la partecipazione nella lista di concentrazione governativa, grazie alla quale vennero eletti 35 deputati fascisti. A luglio, per la prima volta, le squadre fasciste si scontrarono con la polizia; Mussolini tirò le briglie delle sue formazioni e strinse un patto di pacificazione con il nuovo presidente del consiglio Bonomi, suscitando le ire dei capi locali del movimento. Mussolini replicò presentando le dimissioni dalla commissione esecutiva del fascio di combattimento, ovviamente rifiutate, che gli servirono per rafforzare la sua leadership e convocare a Roma un congresso dal quale nacque il Partito Nazionale Fascista. Nell’ambiguo programma della nuova forza politica convivevano ammiccamenti verso gli industriali, la Chiesa e la Monarchia. Nell’estate 1922, l’Alleanza del Lavoro proclamò uno “sciopero legalitario” contro le violenze squadriste, ma esso si rivelò un fallimento e fu seguito da una nuova ondata di rappresaglie.
I tempi erano ormai maturi per l’insediamento di un governo d’ordine. Seguendo un’idea già avanzata da D’Annunzio, Mussolini diede comando alle sue camicie nere di prepararsi per una marcia su Roma. Nella notte tra il 27 ed il 28 ottobre 1922, con le forze fasciste già concentrate nella periferia della capitale, il re rifiutò di firmare il decreto sullo stato d’assedio propostogli dal presidente del consiglio Facta, che per tutta risposta presentò le proprie dimissioni. Il monarca affidò dunque a Mussolini l’incarico di formare il nuovo gabinetto. Il primo governo fascista si presentava con un pari numero di esponenti fascisti, nazionalisti, liberali e socialisti ed ottenne “pieni poteri” fino al 31 dicembre 1923. Tra i primi provvedimenti presi, venne istituita la MVSN (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), dove confluirono gli squadristi, e si stabilì un regolare calendario di sedute per il Gran Consiglio del Fascismo: si ottennero così un esercito parallelo ed un vero e proprio governo ombra. Nel 1923 i fascisti su unirono ai nazionalisti (“accorpando” uomini del calibro di Rocco e Federzoni), rompendo con i popolari (complice il benevolo rapporto tra Mussolini ed il Vaticano, che invitò i popolari a non ostacolare il nuovo governo). Per tutelarsi da un Parlamento così frammentato, il Gran Consiglio varò una nuova legge elettorale (“legge Acerbo”) che assegnava i 2/3 dei seggi alla lista che avesse ottenuto più voti a livello nazionale. Le successive elezioni diedero la vittoria al “listone”, nel quale confluirono anche vecchi liberali come Orlando e Lasalandra, con il 64,9% delle preferenze, ottenute anche mediante una campagna elettorale caratterizzata da violenze, intimidazioni e brogli. Il 30 maggio, il deputato socialista Matteotti, in un drammatico discorso al Parlamento denunciò tutti questi accadimenti. Dieci giorni più tardi egli fu rapito ed il suo cadavere ritrovato il 16 agosto nelle campagne di Roma. L’opposizione abbandonò il Parlamento e si rifiutò di rientrarvi finché non fosse stata fatta luce sull’episodio e sciolta la MVSN. Mussolini limitò il conflitto politico, affidando a Federzoni il ministero dell’interno (che controllava in prima persona) e rassicurando in tal modo un’opinione pubblica decisamente preoccupata. Al tempo stesso, però, riuscì a far approvare al Parlamento alcuni decreti che limitarono fortemente la libertà di stampa. Un aiuto gli venne ancora una volta dal Vaticano, che invitò il clero a non partecipare alla vita politica del paese e che, di fatto, segnò la fine della vita politica di Don Sturzo, invitato poco tempo dopo all’esilio.
Forte del successo, nel gennaio 1925, Mussolini si assunse tutte le responsabilità di quanto accaduto sinora ed invitò il Parlamento a tradurlo di fronte all’Alta Corte. Una sfida che, come egli sapeva benissimo, non sarebbe stata accolta.

5.4 – La repubblica di Weimar dal 1919 al 1923

All’indomani della proclamazione della repubblica e della firma dell’armistizio, la situazione della Germania era quella di una paese sull’orlo del collasso: a Monaco una coalizione di sinistra costituì una repubblica bavarese; in Renania i francesi fomentavano le intenzioni separatiste della popolazione; nelle regioni orientali si accalcavano minacciosi reparti reduci dal fronte; a Berlino erano sempre più frequenti gli scontri armati causati dai vari movimenti comunisti sorti sull’onda della rivoluzione di novembre. Friedrich Ebert ed i suoi uomini a capo del governo riuscirono tuttavia a sopraffare i sostenitori di una repubblica dei consigli ed elessero un’Assemblea Costituente. Sul piano politico, l’onere della firma sul trattato di pace spettò a Gustav Adolf Bauer (che succedette al dimissionario Scheidemann come capo del governo). Sciolto il nodo di Versailles, l’Assemblea Costituente si insediò nella tranquilla Weimar ed approvò la nuova costituzione il 31 luglio 1919. La nuovo parte di questa costituzione stabiliva caratteristiche di ordine generale (legge elettorale proporzionale, voto alle donne, ordinamento federale, elezione diretta del presidente, art. 48 per il ricorso a “poteri straordinari”), mentre la seconda sanciva i “diritti e doveri fondamentali dei tedeschi”, sia a livello politico che sociale (illimitata libertà di coalizione, diritto al lavoro, sistema assicurativo, controllo dello stato sulla divisione e sull’utilizzazione della terra), ponendo le basi di quel Welfare State tanto di moda ai giorni nostri.
La prima sfida che dovette affrontare la nuova costituzione tedesca è datata 1920, quando alcuni reparti dell’esercito si ammutinarono, insediando a Berlino un proprio governo. Il colpo di stato venne represso e si approfittò della situazione per rovesciare il governo socialista bavarese.
L’avvento della costituzione fu resa possibile, tra gli altri, dall’accordo tra sindacati ed industria, protagonisti dell’enorme sviluppo prebellico sfociato nell’accordo Legien-Stinnes (nel quale entrambe le parti si riconoscevano come le uniche autorizzate a gestire le dispute lavorative ed i sindacati ottennero il riconoscimento delle conquiste realizzate nel corso della rivoluzione di novembre). Per evitare che le conquiste realizzate dai lavoratori incidessero negativamente sul livello dei profitti, gli industriali chiesero alle autorità una politica economica intesa a favorire le esportazioni ed alleggerire i debiti delle industrie e l’onere delle riparazioni. Questo indirizzo venne intrapreso mediante una forte svalutazione del marco che andò a erodere l’operato dei piccoli risparmiatori. Altro cardine della Germania pre-bellica era costituito dall’esercito, ma già nel 1918 Ebert strinse un patto con il generale Groner, secondo il quale le forze armate si sarebbero impegnate a rispettare la nuova legalità repubblicana, a patto che quest’ultima si fosse a sua volta impegnata nel garantire l’ordine e nel sopprimere ogni focolare rivoluzionario. Il prezzo da pagare per questa intesa fu un temporaneo estraniamento dallo spirito di Weimar, sfociato in omicidi politici (in primis quello di Rosa Luxemburg) che privarono il movimento operaio della sua ala più radicale. Da quel momento in poi, la storia del Partito Comunista Tedesco (KPD) fu caratterizzata da un forte “settarismo” e da una strettissima subordinazione all’Internazionale Comunista.
La rapida stabilizzazione tedesca aveva dunque lasciato dietro di sé uno strascico di profonde lacerazioni, che si ripercossero sulle elezioni del giugno 1920, dove le forze della “commissione inter-partitica” subirono perdite rilevanti dando inizio a quel periodo di polarizzazione dell’elettorato verso gli estremi, costante della vita repubblicana fino all’elezione di Hitler. Al susseguente clima di instabilità politica si univano, a complicare la situazione, lo stato di quarantena politica in cui versava la Germania (nonostante il trattato di pace con gli USA e quello di Rapallo con l’URSS), complice l’intricata questione delle riparazioni (al rifiuto tedesco della proposta di pagamento avanzata dagli alleati, questi ultimi occuparono Dusseldorf, Duisburg e Ruhrort nel marzo 1921; la SdN attribuì alla Polonia il 40% del territorio dell’Alta Slesia, malgrado il plebiscito effettuato nella zona mostrò la piena volontà della popolazione di rimanere nel Reich). Nel maggio 1921 venne resa nota la cifra richiesta dagli alleati: 132 milioni di marchi d’oro. Una cifra esorbitante, seppur diluita in 42 annualità. Il governo del cancelliere Wirth si pronunciò a favore di una “politica di adempimento” ed iniziò i primi pagamenti (unitamente ad un processo di riassorbimento dell’inflazione), giostrati dal ministro degli esteri Rathenau (assassinato poi nel 1922). Tempo pochi mese ed il governo Wirth cadde. Al suo posto subentrò Wilhelm Cuno, a capo di un gabinetto formato da personalità sbiadite che si trovarono a dover gestire una fase di grande emergenza causata dall’occupazione franco-belga della Ruhr.

5.5 – La Francia del dopoguerra

Il territorio francese fu quello più duramente colpito e devastato dalla guerra (i danni materiali ammontavano ad 11 anni di investimenti prebellici) e contava 1'350'000 caduti al fronte. Questo comportava ovviamente un grande lavoro di ricostruzione. A tal proposito si favorì un forte processo migratorio dalle colonie, varando al tempo stesso una legge contro l’aborto (luglio 1920). La guerra aveva inoltre avuto un costo molto alto anche in termini economici, in gran parte ricoperti mediante titoli del debito pubblico (“buoni della difesa nazionale”), che dovevano ora essere rimborsati. Nel paese, che aveva mostrato un attaccamento quasi feticista al franco, la prerogativa di ogni governo era quella di limitare il più possibile l’inflazione, a tutela dei numerosissimi risparmiatori. Questa condizione si sarebbe potuta protrarre anche in futuro, solo a patto che la Germania avesse pagato le sue riparazioni.
Lo smarrimento per la tragedia vissuta ed il senso di fierezza per la vittoria culminarono nella formazione di un Bloc National, in cui confluirono conservatori, moderati e repubblicani (precedentemente divisi dalla questione sulla laicità di stato e scuola), con a capo Clemenceau ed obiettivo la protezione da sovversioni rosse, unitamente ad una valorizzazione della vittoria ottenuta. Il blocco di Clemenceau stravinse le elezioni, ma, a causa di vari eventi, vi fu instabilità di governo fino al 1922. In politica estera, la linea seguita fu sempre quella di garantire il rispetto dei trattati e di mantenere gli equilibri da essi garantiti. Ovviamente, l’ordine europeo sottintendeva, tra le altre cose, un ordine in Francia; i governi del Bloc National, nel dopoguerra dovettero fronteggiare in tal senso un’ondata di scioperi promossi da socialisti e sindacati. Nonostante varie concessioni (giornata lavorativa di 8 ore, validità giuridica dei contratti di lavoro), nel maggio 1920 si arrivò alla prova di forza tra governo e sindacati, per via dello sciopero dei ferrovieri, che chiedevano la nazionalizzazione delle ferrovie. Essi risultarono sconfitti con gravi ripercussioni in termini di sostenitori, sia per il partito socialista che per la CGT (Confederation Generale du Travail). Con l’appoggio del governo il patronato riuscì dunque a spingere la Francia verso una straordinaria ripresa economica, trainata in particolare dal settore automobilistico (Renault e Citroen). Il problema principale dell’opinione pubblica francese rimaneva però quello delle riparazioni tedesche, conscia del fatto che una non liquidazione delle stessa avrebbe avuto gravi ripercussioni sulla stabilità del franco. Nel 1922, in un incontro tra gli statisti alleati a Cannes, l’opinione pubblica si rese conto che Briand, presidente del consiglio francese, era intenzionato (su spinta del liberale inglese Lloyd George) a concedere “sconti” alla Germania. Pubblicamente ripreso dall’allora presidente Millerand, Briand fu costretto alle dimissioni lasciando il posto a Poincaré. La conferenza di Genova non diede alcun risultato, salvo il trattato di Rapallo tra Germania ed URSS che allarmò ulteriormente i francesi (ad allearsi erano due suoi grandi debitori). Il pretesto di un ritardo di pagamento da parte tedesca fu quindi sufficiente alla Francia per convincere la commissione inter-alleata per le riparazioni a passare alle maniere forti: nel gennaio 1923 le truppe franco-belghe entrarono in Germania, prendendo il possesso del bacino della Ruhr.

5.6 – Dalla crisi della Ruhr alla schiarita di Locarno

La risposta del presidente Elber all’occupazione franco-belga della Ruhr fu la proclamazione della “resistenza passiva”: tutti i lavoratori della zona furono invitati a non collaborare con le unità invadenti. Il governo si impegnò a pagare tutti i salari, proprio nel momento in cui l’apporto economico dell’area più industrializzata del paese veniva a mancare. Per perseguire tale obiettivo il governo accentuò la linea inflazionistica: 133 tipografie iniziarono a stampare cartamoneta 24 ore su 24. La conseguenza fu ovviamente una fortissima svalutazione del marco (operai pagati due volte al giorno, pausa per fare acquisti prima della nuova quotazione della moneta), che erose i risparmi del Mittlestand. Il padronato cercò di approfittare della situazione limitando alcune conquiste operaie, ma i sindacati risposero con ondate di scioperi; in Turingia ed in Sassonia i comunisti spinsero con tutti i mezzi per l’insurrezione; in Baviera, il desiderio di autonomia da Berlino era fomentato dalla destra e dai militari. Questa situazione di crisi e disgregazione fece cadere il fragile gabinetto Cuno, al quale subentrò il governo di Gustav Streseman, fautore di una politica di revisione dei trattati di pace nell’ottica della nuova realtà del dopoguerra. Il suo primo passo fu quello di abbandonare la resistenza passiva nella Ruhr (26 settembre 1923), sgravando da un grosso onere le finanze tedesche, ma alimentando i focolai indipendentisti in Renania (sospinti anche dagli occupanti francesi). Al tempo stesso, in Baviera venne dichiarato lo stato d’assedio mentre in Turingia/Sassonia la situazione era ormai degenerata in violenze quotidiane. Streseman riuscì a risolvere la situazione della Baviera isolando i gruppi più oltranzisti della Nsdap di Hitler (fautori, l’8 novembre, di un tentativo di colpo di stato) e quella dei territori orientali con il ricorso all’articolo 48 di Weimar ed il susseguente invio dell’esercito. Non sopportando questa politica dei due pesi e delle due misure, i socialdemocratici misero Stresemar in minoranza, costringendolo alle dimissioni. A lui succedette Wilhelm Marx, ma il peggio era ormai passato.
Nel 1923 entrò in vigore il Rentenmark, una nuova moneta, unitamente a misure deflazionistiche (tra cui l’eliminazione delle 8 ore lavorative). Se i ceti medi vedevano di buon occhio questi cambiamenti, altrettanto non si può dire per l’elettorato socialdemocratico, che nelle elezioni del ’24 espresse tutto il suo disappunto: a lievitare furono ancora una volta i partiti estremisti (comunisti e tedesco-nazionali). Alla ritrovata stabilità economica faceva dunque da contraltare la persistente instabilità politica. La crisi della Ruhr aveva fatto capire che il problema delle riparazioni tedesche doveva essere affrontato nell’interesse dell’intera economia europea (la Francia, uscita vincitrice dalla crisi, non solo non ebbe i vantaggi economici attesi, ma si trovò anzi un franco svalutato, nella “Verdun finanziaria”).
A Londra, nell’agosto 1924, venne approvato il cosiddetto “Piano Dawes”, dove la questione delle riparazioni veniva strettamente legata ad un risanamento delle finanze e dell’economia tedesca. A questo scopo, il calendario dei pagamenti venne reso flessibile sia in merito alle scadenze, sia relativamente agli importi periodici. Ciò comportava un controllo diretto degli alleati sugli affari interni tedesche che, sebbene non entusiasmò l’opinione pubblica, permise l’accensione di un prestito di notevole entità e la fine dell’occupazione della Ruhr (agosto 1925). Il piano Dawes fu reso possibile dai nuovi governi inglesi e francesi (guidati rispettivamente dal laburista Mac Donald e da Herriot, del “Cartel des gauches”). Dopo la repentina caduta dei due leader, fu Stresemar (divenuto ministro degli esteri ed in carica fino al ’29) a lavorare per far uscire il suo paese dalla quarantena politica in cui versava. Le sue mosse sfociarono negli accordi di Locarno dell’ottobre 1925, il più importante dei quali fu il cosiddetto “patto renano”, in base al quale Francia e Germania si impegnavano a rinunciare alla guerra quale strumento di risoluzione dei conflitti e, soprattutto, la Germania riconosceva come definitiva la frontiera occidentale, promettendo la demilitarizzazione della Renania. Nel 1926, data la persistente fluidità ed esposizione ai rischi del confine orientale, il governo tedesco strinse anche con l’URSS un patto di non-belligeranza. La Germania, poco tempo più tardi, fece il suo ingresso nella SdN quale membro del consiglio.

Capitolo 6: “Un’effimera prosperità”

Gli anni compresi tra il 1925 ed il 1929 furono, per i paesi europei, anni di congiuntura favorevole grazie anche alla ritrovata stabilità dei rapporti internazionali. La buona congiuntura investì tutti i maggiori paesi del continente, con aumenti sia del reddito nazionale che della produzione industriale, in particolare in merito ai settori più dinamici e cronologicamente più recenti (automobili ed elettricità). La ripresa, comune a tutta l’area europea, era diversa nei singoli paesi per gli effetti politici e di distribuzione dei suoi benefici.

6.1 – Il caso inglese

Il trend positivo inglese ebbe inizio già nel 1924, con la produzione industriale che raggiunse nuovamente il libello prebellico. La disoccupazione rimaneva pressoché costante, ma era concentrata prevalentemente nelle aree di vecchia industrializzazione, mentre diminuiva nelle imprese di nuova formazione. Non si trattava di un boom paragonabile a quello americano, ma la maggioranza della popolazione inglese possedeva la radio, talune l’automobile ed i consumi iniziavano a differenziarsi. Il governo di Churchill decise che era giunto il momento di ristabilire la parità aurea della Sterlina, segnale di ritorno alla normalità che l’opinione pubblica attendeva da tempo. L’operazione, di notevole rilevanza, ebbe ripercussioni favorevoli sugli ambienti della City, che videro positivamente rivaluti i crediti inglesi all’estero ed ebbero grossi vantaggi per l’importazione di materie prime, relativamente alle aziende che producevano per il mercato interno. Viceversa, le vittima della manovra furono ancora una volta le aziende tradizionalmente esportatrici, cioè le più datate, come quelle cotoniere e carbonifere, i cui prezzi dei prodotti sui mercati internazionali lievitarono. Il governo fece appello “a tutti gli operai del paese”, affinché sopportassero i nuovi sacrifici loro imposti dal patronato. Seguirono mesi di contrasti tra operai (minatori in particolare) e governo/patronato, sfociati nello sciopero generale del 3 maggio 1926. La protesta non riuscì tuttavia a paralizzare il paese (complice la diffusione su larga scala di radio ed automobili), tanto che il 12 maggio il sindacato revocò lo sciopero, lasciando al loro destino i minatori, capitolati a loro volta a dicembre. La sconfitta subita ebbe conseguenze negative sull’intero movimento operaio inglese: nel maggio 1929, infatti, il governo conservatore approfittò della vittoria per imporre severe restrizioni alle modalità di svolgimento degli scioperi futuri e cancellò molte delle conquiste storicamente ottenute dai lavoratori. Questo sciopero fallito segnò lo spartiacque della storia inglese contemporanea: un soprassalto anacronistico di quei settori del mondo del lavoro che, difendendo a spada tratta le proprie conquiste, rallentavano di fatto il processo di modernizzazione cui era sottoposto il paese. Da questo fallimento usciva sconfitto quello spirito di solidarietà dei lavoratori inglesi venutosi a creare con le sofferenze della guerra e con le speranze del periodo post-bellico.
6.2 – Il caso tedesco

Con il rientro nel circuito finanziario internazionale propiziato dal piano Dawes ed il ritorno nella comunità internazionale con l’ingresso nella SdN, la Germania ritrovò anche il suo dinamismo economico. Il prestito previsto dal piano Dawes fu largamente sottoscritto negli USA e, a questo notevole afflusso di capitali, seguì l’introduzione di una nuova moneta legata all’oro: il Reichsmark (1925). Nuove grandi concentrazioni industriali si affermarono nel paese, soprattutto per ciò che riguardava i settori chimico e siderurgico. Il tallone d’Achille del sistema tedesco, nonostante la ritrovata prosperità, rimaneva comunque l’alta instabilità politica derivante che aveva caratterizzato la repubblica di Weimar sin dalle sue origini. Se le elezioni del dicembre 1924 avevano fatto sperare un’inversione della tendenza all’estremizzazione politica, quelle dell’aprile 1925 (seguite alla morte di Ebert) diedero la vittoria al maresciallo Hindenburg. La nostalgia del passato era ancora una prerogativa dell’opinione pubblica tedesca e regnava la diffidenza verso la nuova repubblica. L’unico partito in grado di far breccia in questa indifferenza era quello socialdemocratico (Spd), grazie alle elaborazioni dei suoi personaggi di maggior spicco, che trasformarono il marxismo da una subcultura ad un movimento allineato alla cultura postbellica. Nel 1928 i socialdemocratici registrarono un forte aumento di voti e fu ad un loro esponente, Herman Muller, che venne affidato l’incarico di formare il nuovo governo. Il gabinetto Muller dovette fronteggiare gli scontati attacchi della destra relativi al “piano Young”, un’iniziativa concordata con i paesi alleati che prorogava il termine dei pagamenti ed offriva alla Germania altri vantaggi. Il governo superò anche attacchi al proprio interno, specie nel 1928, quando il gabinetto volle stanziare i fondi per la costruzione di una piccola nave corazzata, trovando l’opposizione di molti socialdemocratici che misero Muller in minoranza. Le tensioni e le difficoltà della situazione divennero più evidenti ed acute nel 1929, quando la congiuntura iniziò a mostrare i primi segni di inversione e di rallentamento. A ciò si aggiunse il caso: il 3 ottobre morì Streseman, mentre il 24 giunse la voce del crollo di Wall Street. Nel maggio del 1930 il governo Muller abbandonò l’incarico, dando il via al capitolo finale della storia della repubblica di Weimar.

6.3 – Il caso italiano

Superata la prova di forza del delitto Matteotti, il regime fascista poté procedere alla liquidazione dello stato liberale. Complice una serie sventata di attentati a Mussolini (quattro in un solo anno), si diede il la ad una sequenza di successivi giri di vite. Con l’emanazione di diverse leggi: il primo ministro divenne “capo del governo” (responsabile, pertanto, solo davanti al re); il principio di elettività delle amministrazioni locali venne sostituito da quello della “nomina dall’alto”; venne promulgata la pena di morte per chi avesse attentato al capo del governo, ad un membro della famiglia reale o alla sicurezza nazionale; vennero dichiarati decaduti i deputati aventiniani; venne completamente riformata la legge elettorale (lista di 400 deputati presentata dal Gran Consiglio del Fascismo, che il plebiscito doveva confermare o rifiutare in blocco); il Gran Consiglio del Fascismo divenne un organo istituzionale (chiamato anche a pronunciarsi sulla successione al trono) ed entrò in vigore un nuovo codice penale (elaborato da Alfredo Rocco), permeato di conservatorismo. Nel contempo il regime accentuò la sua presenza nella società con l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla, dell’Opera Nazionale Dopolavoro e dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR). Alla scuola si era già provveduto con la riforma Gentile del 1923 (“la più fascista delle riforme”), che decretava il liceo classico come formatore delle èlite. Particolare importanza per il consolidamento del regime la rivestì la “conciliazione” con la Santa Sede, ottenuta mediante un trattato (dove la Città del Vaticano veniva riconosciuta come stato autonomo e sovrano), una convenzione finanziaria ed un concordato (riconoscimento della religione cattolica come religione di stato e ruolo privilegiato dello studio della religione cattolica nelle scuole primarie e secondarie; attribuzione di effetti civili al matrimonio religioso). Il concordato, che fu la parte principale del patto, garantì al fascismo il prosequio del “non expedit” rivolto ai prelati cattolici (don Sturzo in particolare), dando al tempo stesso piena legalità all’Azione Cattolica.
Le prime elezioni del dopo-concordato (1929) furono plebiscitarie per il “listone” fascista, che raccolse l’89,9% dei consensi. Da un punto di vista politico-istituzionale, la stabilizzazione del fascismo poteva così definirsi conclusa, ma altrettanto non era vero sul piano economico. I primi anni di regime furono infatti improntati al pareggio del bilancio; obiettivo raggiunto nel 1925, sotto la guida del ministro delle finanze Alberto De Stefani. Ora, con la rivalutazione del marco e la rinnovata parità aurea della sterlina, per l’Italia la congiuntura divenne assai meno favorevole che in precedenza. I prezzi delle importazioni aumentarono infatti a dismisura, con conseguente aumento del livello generale dei prezzi e diminuzione del potere d’acquisto dei salari. Aumentarono gli scioperi e rifiorirono i sindacati comunisti, sospingendo il padronato a chiedere a Mussolini l’affidamento della gestione della politica economica ad un uomo di loro fiducia, ossia il conte Volpi. Egli risolse innanzitutto l’intricato problema della riparazioni, negoziando con Washington un accordo particolarmente vantaggioso. Sul fronte interno, Volpi sottoscrisse poi il “patto di palazzo Vidoni” tra Confindustria e Confederazione delle Corporazioni Fasciste, nel quale le due parti si impegnavano a riconoscersi come unici soggetti di contrattazione collettiva. L’effetto più immediato di ciò fu la fine del sindacalismo libero: CIL e CGL si sciolsero rispettivamente nel 1926 e nel 1927. Nella primavera del 1926, il governo fascista dovette però affrontare un nuovo e serio problema. La lira, infatti, subì un rovinoso crollo sul mercato valutario internazionale, compromettendo la stabilità faticosamente raggiunta. Per Mussolini si trattava di una questione di importanza fondamentale, sia in termini di prestigio internazionale, sia allo scopo di salvaguardare i risparmi dei ceti medi, principali sostenitori del regime. Il suo governo varò quindi il progetto “quota 90” (sulla Sterlina), che venne realizzato a prezzo di decurtazioni sulla produzione industriale e sul livello dei salari. Se il fascismo era ormai un fenomeno stabile, non si può dire con la stessa certezza che esso fosse una rilevante rottura con il passato.

6.4 – Il caso francese

Dopo l’affermazione del “Cartel des Gauches” alle elezioni del 1924 con l’avvento di Briand, gli indirizzi della politica estera francese vennero stabilizzandosi verso la ricerca di un miglioramento dei rapporti franco-tedeschi. A mostrare forti segni di instabilità fu invece la politica interna che, dopo la caduta di Herriot, si susseguì a ritmi vertiginosi, non radicalizzandosi tuttavia come quella tedesca, ma alternandosi tra una destra ed una sinistra altrettanto moderate. Punto di riferimento costante dell’elettorato francese erano le sorti del franco, al punto che il ministero delle finanze fu quello dal quale regolarmente dipendevano le sorti del governo in carica. Nel 1926, una sommossa popolare (seguita alla notizia che Herriot sarebbe stato messo a capo di un nuovo gabinetto, con conseguente crollo del franco) fece scegliere Poincaré come nuovo capo del governo. Sotto la sua guida venne ristabilita la convertibilità aurea della moneta francese, così come venne fissato il valore del franco, nell’80% di quello dell’anteguerra. La forte svalutazione ebbe però effetti favorevoli sulle esportazioni e, di conseguenza, sull’intera produzione industriale. Anche la Francia attraversò dunque un periodo di congiuntura favorevole e ciò diede l’occasione di avviare una politica di riforme e modernizzazione sotto l’egida di Tardieu (subentrato nel frattempo a Poincaré). La sua opera fu rivolta in particolare alle infrastrutture: nel 1932, l’83% dei comuni francesi fu toccato dall’elettricità. Tante altre opere non poterono invece essere portate a termine per via del clima di profondo conservatorismo che permeava il paese. Tale indirizzo conservatorista (nonostante già nel 1922 Albert Sarraut pubblicò un saggio sulla “messa in valore” delle colonie) venne mantenuto anche in merito alla politica coloniale. Le sole riforme di qualche rilievo si ebbero in Algeria, dove un terzo dei seggi delle comunità locali venne riservato agli indigeni, che potevano ora essere ammessi nei pubblici uffici.

 

Capitolo 7: “Il mondo islamico”

La disgregazione dell’impero ottomano, seguita alla prima guerra mondiale, non implicò soltanto un diverso assetto geografico dell’area sulla quale esso si estendeva. Costantinopoli, che oltre ad essere capitale dell’impero era soprattutto la capitale dell’Islam, era precedentemente divenuta il centro di irradiazione delle ideologie panislamiche elaborate negli ultimi decenni. La caduta dell’impero fornì così un’occasione per il ripensamento dei valori tradizionali, a favore di nuovi orizzonti.

  • Turchia: l’ondata di innovazione colpì naturalmente ed in maniera particolare la Turchia. Il movimento modernizzatore dei “giovani turchi” non aveva retto alla doppia sconfitta militare subita (nella guerra libica con l’Italia prima, nella guerra mondiale poi) ed i suoi principali esponenti avevano scelto orizzonti differenti. Tra questi si distinse in particolare la figura di Mustafa Kemal che, resosi conto dell’impossibilità di avviare una rivoluzione panislamica od una rivincita militare, puntò sul patriottismo turco e sulla derivante creazione di uno stato moderno nel più ristretto ambito geografico dell’Anatolia. Nell’aprile 1920, in una conferenza convocata ad Ankara, Kemal dichiarò decaduto il Sultano e si mise a capo del neonato stato turco. La situazione era problematica, per via delle varie presenze straniere sul territorio e di un isolamento diplomatico il cui unico sbocco poteva essere l’URSS (comunque più incline ad una rivoluzione panislamica, piuttosto che ad una rivolta “borghese”). Con il passaggio russo alla Nep, però, la situazione migliorò: il 16 marzo 1921, un patto tra i due paesi stabilì il confine tagliando in due l’Armenia. La Turchia, al sicuro sul fronte orientale e forte dell’appoggio politico-militare russo, poté procedere all’offensiva contro gli eserciti occupanti nel maggio 1822. Francesi, italiani e greci furono rapidamente sopraffatti; rimase l’Inghilterra, storicamente interessata alla questione degli stretti. La pace di Losanna, nel luglio 1923, sancì l’accordo tra turchi ed inglesi: i primi divennero membri di uno stato ufficialmente riconosciuto, mentre i secondi sarebbero sempre potuti transitare lungo gli stretti. Ebbe così inizio il lavoro riformista di Kemal, che dal modello sovietico ereditò unicamente il monopartitismo: vennero promulgati nuovi codici, modellati sulla base di quelli europei; venne abolita la poligamia ed introdotto il divorzio; fu incoraggiata l’alfabetizzazione e l’istruzione di base con l’introduzione dei caratteri latini e l’islamismo cessò di essere religione di stato (primo stato laico del mondo islamico). Il sistema economico del paese, però, rimaneva ancorato a quello di un’agricoltura di sussistenza;
  • Persia: tra i paesi islamici, quello che mostrava le maggiori analogie alla Turchia kemalista era certamente la Persia. Anche qui l’insofferenza per le presenze straniere sul territorio trovò nel dopoguerra un interprete nel militare Rezha Khan, che si impadronì del potere nel febbraio 1921 e lo mantenne attraverso due patti di alleanza con Russia e Turchia. Anche Rezha Khan cercò una modernizzazione del paese attuata nella piena indipendenza, ma gli ostacoli che incontrò su questo commino furono molti e di diversa natura. Da un lato vi erano infatti gli interessi delle compagnie petrolifere straniere che sfruttavano i pozzi persiani (all’epoca i più ricchi del Medio Oriente); dall’altro vi erano gli imam sciiti che non accettavano alcuna legge “in contrasto con i principi sacri dell’islam”. Khan non riuscì pertanto a diventare presidente di una repubblica laica, ma dovette proclamarsi imperatore dando origine ad una nuova dinastia. Sul modello di Ataturk (il “nome d’arte” di Mustafa Kemal), il leader persiano introdusse nel paese diversi elementi di modernizzazione di stampo occidentale, nei settori della giustizia e dell’educazione (riduzione delle competenze dei tribunali religiosi, creazione dell’università di Teheran);
  • Egitto: l’Egitto fu il primo paese ad emanciparsi dall’impero ottomano, ma fu anche il primo a dover sperimentare una sovranità limitata, in quanto l’Inghilterra lo dichiarò ufficialmente suo protettorato nel 1914. Per un paese che poteva contare sugli ingenti profitti realizzati durante la guerra grazie all’esportazione del cotone, su di un mondo affaristico cosmopolita che ruotava attorno al canale di Suez, nonché su di un movimento nazionalista operativo sul territorio già dal 1880, si trattava di una situazione insostenibile. Quando gli inglesi rifiutarono la presenza di una delegazione egiziana alla conferenza di pace, si innescò un braccio di ferro durato ben 3 anni. Nel febbraio 1922, l’Inghilterra rinunciò al protettorato, cosicché lo stato egiziano poté darsi una nuova costituzione. L’indipendenza così conquistata rimaneva tuttavia limitata: gli inglesi continuarono infatti a controllare il canale di Suez ed il parlamento locale, mediante la nomina di un re di loro fiducia incaricato di eleggere i 2/5 dei deputati;
  • I territori arabi del Medio Oriente: nei territori arabi, a campeggiare è la figura di Feisal (appoggiata da quella ancora più famosa di “Lawrence d’Arabia”), proclamatosi nel 1916 “re degli arabi” per poi assumere, come programma politico, quell’ideale di unità araba teorizzato da diversi intellettuali emigrati. Feisal e Lawrence ignoravano però il trattato segreto che Francia ed Inghilterra elaborarono nel maggio 1916, secondo il quale la regione mediorientale sarebbe stata partizionata in sfere di influenza tra le due potenze. Questo patto venne reso pubblico durante la conferenza di Sanremo del 1920 (alla Francia i mandati su Siria e Libano, all’Inghilterra quelli su Irak e Palestina), facendo fallire il progetto di Feisal. In realtà, le cause di tale fallimento sono da ricercare anche all’interno dello stesso mondo arabo: tra il 1919 ed il 1925, infatti, il sultano Ibn Saud riuscì ad estendere la sua sovranità su tutta la penisola, escluso il solo Yemen. Anche Medina e La Mecca, città sante dell’islam, entrarono a far parte del regno che, nel 1932, assunse poi il nome di Arabia Saudita. Nacque così uno stato, polo d’attrazione per tutti i musulmani, data la rigorosa ortodossia dei sui dinasti e la contemporanea rigidità nel respingere ogni tentativo di influenza occidentale;
  • Siria: Siria, Irak e Palestina erano mandati di tipo “A”. Questo stava a significare che le potenze mandatarie si sarebbe dovute limitare ad avviare o accelerare l’accesso dei loro protettorati alla piena sovranità. La Francia, in realtà, mantenne con la Siria un atteggiamento ben diverso: essa fu infatti smembrata dal Libano e suddivisa in varie province, ciascuna delle quali dotata di limitata giurisdizione sulle questioni locali. Il potere reale era detenuto da un governatore nominato direttamente ed in via esclusiva da Parigi. La cosiddetta “rivolta dei Drusi” del 1926/27 spinse Parigi a sposare una linea più flessibile, salvo il ritorno alle maniere forti con la nomina del governatore De Martel nel 1933;
  • Irak: con l’annessione dei territori turchi del Kirkuk negli anni ’20, l’Irak divenne uno dei maggiori produttori di petrolio della regione mediorientale. L’abilità di Feisal, che assunse le vesti di sovrano del paese, portò l’Irak ad avere una propria costituzione (1926) ed all’ingresso nella SdN (1932), passando per l’ufficiale riconoscimento dell’indipendenza (1930). Gli inglesi conservarono tuttavia alcune basi aeree, mentre le compagnie petrolifere straniere proseguirono sulla strada dello sfruttamento dei pozzi;
  • Palestina: in Palestina, il fatto nuovo fu la crescente immigrazione ebraica che, iniziata in sordina tra la fine del 1800 ed i primi del 1900, trovò nuovo slancio nella “dichiarazione Balfour” del novembre 1917, con la quale il governo inglese si dichiarò benevolmente interessato alla fondazione di una “National home” per il popolo ebraico. Tra il 1922 ed il 1942, gli abitanti ebraici della regione passarono dal 10 al 31% ed i loro possedimenti terrieri uguali ad 1/4 dell’intera superficie coltivabile. A mano a mano che l’immigrazione ebraica aumentava, saliva la tensione. Nel 1929 si registrarono i primi scontri e le prime vittime. Era l’inizio di un contrasto tra due diritti che dura ancora oggi.

 

Capitolo 8: “Il mondo indiano”

L’India Britannica, il cui territorio corrispondeva a quello attuale di India, Pakistan, Bangla Desh e Birmania, contava nel 1921 ben 305 milioni di abitanti. Si trattava di un’umanità sterminata e decisamente eterogenea (12 gruppi linguistici, 6 grandi religioni, di cui le più diffuse erano quella indù e quella musulmana). La grande maggioranza della popolazione era impiegata nell’agricoltura, ma grossi nuclei di proletariato industriale si erano formati attorno alle grandi città, dove erano localizzati enormi stabilimenti tessili. Il movimento anticolonialista indiano nacque con il “Partito del Congresso”, nel 1885 e prese consistenza in seguito alla vittoria giapponese sulla Russia. Il partito iniziò a mostrare i primi contrasti interni nel 1906, quando si scontrarono la corrente moderata di Gokhale (indipendenza da raggiungere mediante mezzi istituzionali) e quella più estremista di Tilak (che non escludeva il ricorso ad azioni illegale o terroristiche). La corrente moderata prevalse a lungo, grazie anche alle riforme introdotte nel 1909 dal viceré inglese Lord Minto, che assegnarono agli indiani la possibilità di far parte del Consiglio Imperiale, mediante suffragio. Nella prima guerra mondiale furono 1'200'000 gli indiani che combatterono a fianco degli inglesi; al loro ritorno in patria la situazione sociale mutò rapidamente, tanto che nel partito del Congresso riuscì a prevalere la corrente radicale di Tilak, ispirata al nazionalismo indipendentista irlandese. Il governo britannico, che seguiva con preoccupazione le vicissitudini indiane, varò un vasto progetto di riforme. Il loro effetto distensivo fu però vanificato dalla contemporanea decisione di prolungare quelle misure eccezionali di mantenimento dell’ordine pubblico (Rowlatt bill), prese durante la guerra. Fu così che il 13 aprile 1919, ad Amnistar, un reparto di truppe inglesi sparò sulla folla provocando ben 379 morti e scatenando un’ondata di violenta indignazione. Fu a questo punto che sulla scena politica si affermò la figura di Mohandas Karamchand Gandhi, figlio di una nobile famiglia indiana e che completò i suoi studi in legge a Londra. Egli visse a lungo in Sudafrica, dove fu coinvolto nella tutela della comunità indiana ivi residente contro gli abusi e le discriminazioni di cui essa era oggetto da parte del governo sudafricano. Gandhi poté elaborare e sperimentare sul posto la sua dottrina del “satiagraha”, ossia la “forza della verità”. Il nucleo fondamentale di tale dottrina consisteva nel rifiuto di obbedire alle leggi ingiuste, nell’accettazione delle sanzioni che da ciò derivavano e con l’ispirazione del principio della non violenza. La sua convinzione era che una lotta politica non violenta, in grado di coinvolgere grandi masse umane, rappresentasse uno strumento di azione di straordinaria efficacia. Gandhi, consapevole della sua popolarità, nella sessione annuale del partito del Congresso nel 1920, lanciò il segnale di avvio di una campagna di non-cooperazione con le forze occupanti inglesi, che si sviluppò per quasi due anni e durante la quale decine di migliaia di persone vennero arrestate. Le forme di lotta furono le più svariate: dal rifiuto di iscrivere i ragazzi alle scuole governative, al boicottaggio delle merci inglesi, passando per le dimissioni da tutti i ruoli di responsabilità civili-miliari e per il rifiuto di partecipare a manifestazioni pubbliche. La campagna per il rilancio della tessitura e della filatura fu quella più forte: gli indiani abbandonarono gli abiti di fattura europea e ripresero ad indossare il tradizionale “Khaddi”. Tuttavia, non mancarono anche alcuni episodi di violenza: il 4 febbraio 1922 una decina di poliziotti inglesi venne bruciata viva. La reazione di Gandhi fu quella di porre termine alla non-cooperazione, viste anche le concessioni inglesi ricevute nell’anno precedente. Pochi giorno dopo, egli venne però arrestato. Per qualche anno il movimento di emancipazione rimase così stagnante, ma nel 1927, quando Gandhi venne rilasciato e si venne a sapere che una commissione nominata dal governo inglese per esaminare i problemi indiani non conteneva al suo interno nessun membro indiano, esso entrò in una nuova fase. Gandhi non era più il leader incontrastato del Congresso, in quanto emerse al suo interno un’ala più radicale, che considerava riduttivo arrivare allo status di dominion, ma esigeva una completa indipendenza. Nel novembre 1928, Nehru fondò la “Lega per l’indipendenza”; successivamente, Gandhi (nonostante le divergenze tra i due erano notevoli) lo spinse alla carica di presidente del Congresso. L’India disponeva ora di uno strumento politico, nel quale una miriade di interessi diversi erano riusciti a trovare una non facile ma autentica convivenza e dove il gruppo dirigente era unito da forti vincoli di rispetto reciproco.

Capitolo 9: “L’area del Pacifico”

  • Giappone: sulla base del patto di alleanza stretto con l’Inghilterra nel 1902, il Giappone era entrato in guerra al fianco degli alleati, sin dalle prime settimane del conflitto mondiale. Si trattò però di un ingresso nel conflitto con fini ed obiettivi propri: il Gippone si limitò infatti all’occupazione delle basi tedesche nelle Caroline, nelle Marianne e nelle isole Bismark e, soprattutto, di quella di Kiao Chaou, nello Shantung cinese. I giapponesi avevano preso in grossa considerazione quest’ultima conquista, in quanto la ritenevano il trampolino di lancio per una politica di penetrazione in Cina, paese per cui gli americani avevano sempre sostenuto una politica di “porta aperta”. Il governo statunitense risolse momentaneamente la questione, riuscendo a far intervenire nel conflitto anche la Cina, che nell’agosto del 1917 si schierò a fianco degli alleati. I giapponesi ci riprovarono successivamente, occupando militarmente la Manciuria nel corso della rivoluzione russa, ma un corpo di spedizione interalleato sbarcò a Vladivostock, bloccando di fatto le truppe nipponiche sulle proprie posizioni. Il Giappone si rivelò un partner scomodo anche al tavolo della conferenza di pace dove, oltre alle concessioni in qualità di mandatario sulle aree conquistate, avanzò la proposta di eliminare ogni limitazione all’emigrazione giapponese, concentrata soprattutto verso la California ed i dominions britannici nel Pacifico. Quando questa venne respinta, il rifiuto diede modo al Giappone di denunciare all’opinione pubblica asiatica l’ipocrisia della conclamata democrazia occidentale e rivendicare il suo ruolo di “giustiziere” rispetto ai torti subiti dagli asiatici per mano dell’occidente.

A guerra conclusa, il Giappone si presentava sui mercati internazionali con un potenziale economico accresciuto: aveva infatti approfittato della mancata concorrenza europea durante il conflitto per aumentare il livello delle esportazioni e favorire un processo di espansione produttiva sostenuta. Il rovescio della medaglia era costituito da un settore agricolo nel quale era impegnato il 53.2% della popolazione, ma dove vincoli di stampo feudale ne impedivano lo sviluppo, al punto da rendere necessaria l’importazione di prodotti agricoli dall’estero. Il Giappone, il cui territorio non era stato investito dalla guerra, nel 1923 fu colpito da un terremoto disastroso; anche qui si dovette quindi procedere ad un periodo di ricostruzione, tra inflazione, deflazione ed agitazioni sociali. I tumulti scoppiati nell’agosto/settembre 1918 (“rivolta del riso”) non portarono però a grandi sconvolgimenti legislativi, per via di organizzazioni sindacali debolissime, nonostante le condizioni dei lavoratori fossero ben peggiori rispetto a quelle europee. L’unica istituzione nella quale si realizzava un’ampia aggregazione popolare era l’esercito, composto in prevalenza da contadini ancorati alle tradizioni e quindi poco propensi ad un processo di modernizzazione importato dall’occidente. Anche in Giappone, in sostanza, la spinta alla modernizzazione dovette giungere dall’alto: nel 1925 la Dieta approvò una legge elettorale che estese il diritto di voto a tutti gli uomini in età superiore ai 25 anni. I governi (Takashi, Kato, Watasuki) che si succedettero nel periodo detto “della grande rettitudine” riuscirono a sottrarsi alle pressioni dei militari e perseguirono una politica di apertura e di cooperazione internazionale. Decisiva in tal senso fu la conferenza di Washington (dicembre 1921 – febbraio 1922), alla quale parteciparono tutte le potenze interessate all’area del Pacifico e che si concluse con l’emanazione di una serie di trattati. Tra essi, il più importante fu l’accordo sulla limitazione degli armamenti navali, in base ad un sistema di quote e di tetti (520'000 tonnellate per l’Inghilterra, 325'000 per il Giappone); in cambio, i giapponesi ottennero la sospensione di nuove costruzioni anglo-americane nell’area e della fortificazione di quelle esistenti. Relativamente alla questione cinese, alla conferenza di Washington si ottenne che i partecipanti si impegnassero a riconoscere “sovranità, indipendenza ed integrità” alla Cina. I giapponesi rinunciarono pertanto a Kiao Chaou ed al controllo dello Shantung. L’opinione pubblica, in patria, si divise tra chi vedeva nel nuovo assetto geopolitico i segnali di un futuro periodo di pace e prosperità e chi invece pensava che la conferenza si fosse tradotta in una “Versailles asiatica”. L’apertura verso occidente ebbe comunque riflessi sul piano del costume interno: comparvero infatti i “modern boys” (mobo), le “modern girls” (mogi), nonché i “Marx boys”;

  • Cina: come si è appena visto, anche la Cina aveva partecipato in extremis alla prima guerra mondiale a fianco degli alleati. Tuttavia, alla conferenza di pace il governo di Pechino non riuscì a trarre alcun vantaggio relativamente al ritiro dei giapponesi dallo Shantung ed ai “trattati ineguali” imposti a suo tempo dalle potenze occidentali. L’indignazione sorta nel paese in seguito al diffondersi di queste notizie trovò espressione nel cosiddetto “movimento del 4 maggio”, un avvenimento di portata storica per la Cina contemporanea, sia per estensione (contrariamente alla rivolta dei boxer o a quella del Tai Ping, investì tutto il paese), sia per l’ampiezza dei ceti e delle forze sociali in esso confluite (iniziò dagli studenti, ma si estese rapidamente a ferrovieri, operai e borghesi). Fino a quel punto, si era sempre pensato che patriottismo e modernizzazione fossero due concetti fra loro incongruenti, ma, sulla base dell’esempio lasciato dalla rivoluzione russa, il movimento del 4 maggio fu la prova vivente del contrario. Se l’arretratezza del sistema economica era vista dai socialisti europei come un ostacolo insormontabile sulla via della costruzione di una società socialista, la stessa arretratezza rappresentava per i comunisti ed i nazionalisti cinesi un motivo di interesse in più per uscire da quella condizioni in cui vivevano e che oggi chiameremmo di sottosviluppo. Per la generazione che aveva partecipato alle lotte dell’anteguerra e per Sun Yat Sen in particolare, si poneva dunque il problema di una revisione dei propri orientamenti e delle proprie convinzioni. Rifugiatosi a Shangai, egli ebbe i primi contatti con Chen Duxid e Li Dazhao (che nel luglio 1921 fondarono il partito comunista cinese), nonché con l’emissario sovietico Jotte. Fu qui che Sun Yat Sen aggiornò i suoi “tre principi” (indipendenza, sovranità, benessere), intendendo ora l’indipendenza dalla potenze europee ed il socialismo quale strumento per raggiungere il benessere, e che trasformò il suo partito, il Guomindang, in un movimento politico organizzato sul modello sovietico. Nel 1924, egli fondò inoltre un’accademia militare, allo scopo di generare i futuri quadri dell’esercito nazionalista. Fu proprio con l’aiuto apportato dai cadetti alle milizie sindacali organizzate dai comunisti che vennero fermate le milizie mercenarie delle “tigri di carta”, che cercavano di prendere possesso di Canton, sede del governo del Guomindang. Sull’onda di quest’evento, il governo di Pechino si rese disponibile a negoziare con quello di Canton una riconciliazione ed una riunificazione del paese. Sun Yat Sen, però, morì durante il viaggio verso la capitale occidentale, lasciando nel suo testamento politico l’invito ai suoi seguaci di seguire con fedeltà i tre principi da lui enunciati. Il Guomindang fu però spaccato al suo interno sulla decisione relativa al principio sul quale dovesse essere assegnata la priorità: la maggioranza dei quadri puntava su “indipendenza e sovranità”, ipotizzando una riunificazione del paese, mentre i comunisti scommettevano sul “benessere”, inteso come rivoluzione socialista. I comunisti appoggiarono dunque gli scioperi che stavano interessando Canton, Shangai ed Hong Kong, ma appena questi toccarono le aziende condotte da proprietari cinesi la disgregazione interna al Guomindang aumentò ulteriormente. Per evitare che il processo di frammentazione del paese raggiungesse un punto di non ritorno, nel marzo 1926, con un colpo di mano, Chiang Kai Shek si impadronì del potere facendo arrestare buona parte dei dirigenti comunisti. Nel luglio dello stesso anno, egli iniziò da Canton un’offensiva verso nord, che nel maggio 1928 portò alla conquista di Pechino ed agli inizi del 1929 a quella della Manciuria. L’unità cinese, almeno formalmente, si era così conclusa ed un governo unitario venne fondato a Nanchino. Man mano che la vittoria di Chiang Kai Shek si andava profilando, le grandi potenze riconoscevano il governo di Nanchino ed ingenti capitali affluivano nel paese. Paradossalmente, l’unico paese con cui la nuova Cina non intratteneva più rapporti era l’URSS. Allo stesso modo, all’interno, i grandi perdenti furono i comunisti, vittime di una repressione che fece decine di migliaia di vittime, mentre i pochi superstiti dovettero rifugiarsi nelle regioni centrali del paese. Fu qui che Mao Zedong, già membro comunista del Guomindang, rafforzò la sua convinzione secondo cui la forza motrice della rivoluzione dovesse essere rappresentata dalle sterminate masse contadine. Al ritorno nel nativo Hunan, le sue prime esperienze non furono positive (1927, fallimento della “rivolta del raccolto d’autunno”) e dovette così riparare in una zona montuosa, dove chiamò a raccolta banditi ed emarginati di vario genere, costituendo la base rivoluzionaria della sua prossima “lunga marcia”. La nuova unità cinese, comunque, invalidava quella situazione di equilibrio nata a Washington e creava timori in particolare nel Giappone;
  • Paesi del sud-est asiatico: fatta eccezione per i dominions dell’Australia e della Nuova Zelanda, i paesi del sud-est asiatico presentavano vari tratti comuni. Innanzitutto essi erano tutti possedimenti coloniali, anche se la subordinazione dalla potenza colonizzatrice era diversa a seconda dei casi (più forte in Indonesia, più leggera nelle Filippine). Tutti questi paesi erano caratterizzati da un elevato incremento demografico e da un’agricoltura arretrata (divisa tra monocoltura da esportazione e sussistenza). Ovunque ci si rendeva conto del nesso esistente tra la condizione di arretratezza e quella di dipendenza coloniale;
  • Indonesia: già nell’anteguerra, in Indonesia si era formata un’associazione, la Sareket Islam, che si proponeva di salvaguardare la religione musulmana (alla quale era legato il 90% dei 40 milioni di abitanti del paese) dall’influsso delle missioni cattoliche. Nel dopoguerra, il Sareket Islam si trasformò in un movimento di massa, cui nel 1920 si affiancò il partito comunista, che aderì alla Terza Internazionale e stabilì stretti contatti con i comunisti cinesi. Le differenze tra i due movimenti erano però notevoli, nonostante Tan Malaka cercò di trovare un punto d’incontro tra islamismo e comunismo all’insegna dell’anti-imperialismo. I comunisti indonesiani tentarono allora l’approccio rivoluzionario a Giava, ma come i compagni cinesi vennero spietatamente repressi;
  • Viet Nam: sull’eco degli avvenimenti cinesi e sul modello del Guomindang, nel 1927 venne fondato il “Viet Nam Quoc Dan Dang”, un partito nazionalista clandestino. Nel 1925, a Canton (all’epoca sede del governo del Guomindang), Nguyen Ai Quoc (passato alla storia come “Ho Chi Minh”) fondò l’associazione della gioventù rivoluzionaria vietnamita. Egli si mise successivamente alla guida del partito comunista vietnamita, quando ormai la Terza Internazionale aveva deciso di rompere con i movimenti nazionalisti “borghesi”.

Capitolo 10: “L’America latina negli anni ‘20”

Furono diversi i paesi dell’America latina che, dopo l’entrata in guerra degli USA, parteciparono a loro volta al conflitto a fianco degli alleati. Se il coinvolgimento militare e politico degli stati latino-americani nella guerra fu ridotto ed in alcuni casi puramente simbolico, la loro economia ne fu invece largamente investita. Gli stati belligeranti avevano infatti bisogno più che mai dei prodotti agricoli e delle materie prime che il sudamerica esportava tradizionalmente (generi coloniali dal Brasile, petrolio dal Venezuela, stagno dalla Bolivia, rame dal Cile, ecc…). Contemporaneamente, complice questo afflusso di capitali stranieri, aumentò il livello delle importazioni di prodotti finiti dagli USA, non intaccando comunque una bilancia commerciale largamente positiva (Argentina: +305%, Brasile +91%). Le ingenti risorse che si resero così disponibili stimolarono gli investimenti industriali e quelli in infrastrutture di collegamento. La prosperità economica di questi paesi era tuttavia fragile, considerata la forte dipendenza dall’andamento della congiuntura e dei prezzi sul mercato internazionale. La relativa stabilità economica degli anni ’20, comunque, si accompagnò ad un relativo equilibrio politico, assicurato principalmente attraverso le forme e gli strumenti tradizionali dell’epoca (dalla dittatura aperta o larvata, al caudillismo più o meno populista, passando per le istituzioni democratiche di facciata o meno). Un decennio di relativa stabilità politica costituiva un lasso di tempo sufficiente (ed un’occasione difficilmente ripetibile) per sviluppare una politica di modernizzazione del sistema politico e di riforme sociali. Tuttavia, nei paesi dell’America centrale e caraibica non si registrarono progressi in tal senso, in quanto un’economia basata sull’agricoltura corrispondeva solitamente a regimi autoritari e personali. In altri paesi, invece, sebbene con ritmi più o meno veloci e realizzazioni più o meno consistenti, il processo riformatore risultò ben più visibile:

  • Messico: al Messico spetta il posto d’onore nel campo delle riforme. Sotto l’egida della costituzione sorta nel 1917 all’indomani della rivoluzione, le presidenze Obregon (1920-24) e Calles (1924-28) poterono risolvere i contrasti sociali del paese. Lo stato venne separato dalla Chiesa (obiettivo storico dei movimenti liberali e progressisti messicani), vennero introdotti l’orario lavorativo di 8 ore ed il salario minimo garantito e furono infine riconosciute le personalità giuridiche dei sindacati. Applicando un particolare articolo della costituzione, ai contadini vennero assegnati i terreni conquistati durante la rivoluzione. Tale articolo non venne però applicato nel 1927, di fronte ai contrapposti interessi delle grandi compagnie petrolifere nordamericane;
  • Argentina e Uruguay: in questi due paesi l’introduzione del suffragio universale maschile (rispettivamente nel 1912 e nel 1927) ed il conseguente avvento al potere di partiti rappresentativi dei ceti urbani ed emergenti, rese possibile una dialettica politica molto più ampia rispetto al passato. Vennero così introdotte le 8 ore lavorative, il diritto di sciopero e furono promosse misure di previdenza e di assistenza. Si aprirono così spazi (seppur limitati) per nuovi soggetti politici ed in particolare per il giovane movimento operaio. Ai partiti della sinistra facevano però difetto adeguate organizzazioni sindacali (solo nel 1929, in Argentina, nacque la CGT). Maggior forza dimostrò invece il movimento studentesco, che nacque anch’esso in Argentina e che rapidamente si estese ad altri stati, rendendosi promotore di una vasta gamma di riforme;
  • Cile: un analogo ruolo di supplenza, in Cile, fu svolto da quei settori delle forze armate che mal tolleravano l’autoritarismo delle alte gerarchie e dell’oligarchia. Sotto questo impulso, nel 1925 venne elaborata una costituzione sul modello di quella messicana;
  • Brasile: con i suoi 28 milioni di abitanti, il Brasile era il paese più piccolo dell’America latina e quello con il sistema politico più arretrato (tra il 1920 ed il 1930, gli elettori erano il 2,7% della popolazione). Il ricambio del personale politico avveniva esclusivamente all’interno dell’oligarchia dominata dai produttori ed esportatori di caffè, che di fatto controllavano il paese. Anche in Brasile le spinte all’innovazione riformista vennero dai quadri inferiori dell’esercito; a differenza del Cile, però, i tumulti scoppiati nel 1922 e nel 1924 si rivelarono un fallimento. Uno dei loro promotori, il comunista Luis Carlos Prestes fu costretto a riparare in Bolivia, dopo aver dato origine alla cosiddetta “colonna Prestes” che vagò per il Brasile fino al 1927, divenendo il simbolo delle difficoltà che i movimenti rivoluzionari latino-americani incontravano quando tentavano di uscire dalle grandi agglomerazioni urbane in cui erano nati e di mettere le radici nel mondo contadino. Un tentativo di superare tale limite fu rappresentato da Victor Haya de la Torre, che nel 1924 fondò l’Alleanza Rivoluzionaria Americana (APRA), un movimento che proponeva una concezione nuova del panamericanismo (unità politica con l’internazionalizzazione del canale di Suez e unità etnica dei vari popoli indios, meticci, ecc…).

 

Parte seconda – Dalla grande depressione alla seconda guerra mondiale

 

Capitolo 11: “La grande depressione”

11.1 – Le origini

Il segnale di inizio della grande depressione fu il crollo della borsa di Wall Street, fatto registrare il 23 ottobre 1929 e proseguito nei giorni e nelle settimane seguenti. In tutto il mondo non vi fu paese industrializzato che si salvò dalla tempesta scatenatasi. Un avvenimento così complesso, naturalmente, non può essere ridotto ad un’unica causa, quanto piuttosto ad un vasto insieme di esse. E’ bene iniziare ad analizzare queste cause partendo dalla conferenza di Genova del 1922, i cui risultati furono deludenti se si esclude la decisione relativa al passaggio dal “gold standard” prebellico al “gold exchange standard”, secondo cui la copertura delle monete nazionali poteva essere assicurata, oltre che con l’oro, anche con una valuta forte quale era il dollaro. Il tentativo di restaurare gli automatismi del mercato si contrapponeva però a forti ostacoli. Innanzitutto, relativamente alla questione dei dazi doganali (38% in USA, 33% in Inghilterra, 13% in Francia, 27,8% in Italia) le risoluzioni che approvavano una tregua tariffaria (conferenza di Ginevra del 1927) rimasero carta morta. Ogni paese aveva la possibilità di manovrare a suo piacimento i cambi ed i tassi di interesse; ogni manovra di tal genere aveva ovviamente i suoi aspetti negativi e le politiche variavano a seconda della congiuntura. Il ritorno dell’Inghilterra al gold standard (aprile 1925), con una palese sopravvalutazione della sterlina, causò una spirale di tensioni monetarie tra i maggiori paesi europei (franco assestato all’80% del valore pre-bellico, “quota 90” mussoliniana), confermando che la decisione inglese comportò più svantaggi che non vantaggi. Gli Stati Uniti, che potevano influire in vari modi sull’economia europea (abbassando i dazi doganali per favorirne le esportazioni, riducendo il tasso di interesse per far defluire oro e capitali, riducendo i debiti di guerra alleati, ecc…), scelsero invece la politica dei prestiti, di cui beneficiò in particolar modo la Germania. Gli USA, che continuarono a mantenere separate la questione dei debiti da quella dei prestiti, rimediarono in parte con il “piano Dawes” (presto vanificato) e quindi con il “piano Young”. I capitali prestati finirono presto, però, per rientrare in patria ed essere indirizzati verso l’investimento azionario, innescando il processo speculativo drammaticamente esploso nell’ottobre 1919. La grande depressione non fu, dunque, la crisi del sistema capitalistico o l’infrazione di regole che, se rispettate, avrebbero permesso al sistema di proseguire nel suo regolare funzionamento, ma fu determinata da un intreccio unico di sfortunate coincidenze.

11.2 – La crisi al centro

Prima del crollo di Wall Street non erano mancati segnali di allerta. Nel 1927, l’industria automobilistica, settore trainante dell’economia statunitense, conobbe una contrazione del 22%, mentre la produzione nel settore dell’edilizia tornò al di sotto della media del periodo ’23-25. La situazione venne comunque risolta con una riduzione del tasso di interesse, sufficiente a rilanciare il sistema economico. Anche le sensibili perdite borsistiche (dicembre 1928 e marzo ’29) vennero riassorbite alla stessa maniera. Al termine del suo mandato, in sostanza, Coolidge lasciò un paese prospero come non mai. Il crollo del 23 ottobre fu dunque tanto imprevisto quanto drastico: in poche settimane le azioni persero la metà della loro quotazione. Le perdite fatte registrare da milioni di risparmiatori fecero crollare i consumi ed i contratti per le vendite a rate; le aziende, alla ricerca di liquidità, furono costrutte a ridurre le spese e la produzione stessa. Tutti i principali indici presero così a scendere verso il basso, salvo quello relativo alla disoccupazione (12 milioni di unità nel 1932). L’amministrazione Hoover reagì con progressive riduzioni del tasso di interesse fino al 2,5% ed incoraggiando la produzione industriale mediante sgravi fiscali concessi a patto che questi si impegnassero a non effettuare tagli sui salari o licenziamenti. Risolto così il problema interno, non si pensò però alle ripercussioni della crisi sull’Europa. Nel giugno 1930 venne approvato un rialzo dei dazi doganali, messo in preventivo prima del crollo borsistico, peggiorando drasticamente la congiuntura internazionale.
Il paese ad subirne le maggiori ripercussioni fu la Germania, dove si vennero ad acuire i segni di recessione già emersi nel ’28. Il governo di Bruning, appoggiato dal presidente Hindenburg e dai militari, fece ricorso all’articolo 48 per approvare misure deflazionistiche e di difesa del marco. Il Reichstag si oppose duramente e si dovettero così approntare nuove elezioni per il 1930. La radicalizzazione del paese spinse al trionfo i nazionalsocialisti di Adolf Hitler, che divennero il secondo partito del paese. L’Europa reagì spaventata per un possibile insolvibilità da parte tedesca, così che dal paese defluirono ingenti masse di capitali, portando a ben quattro milioni di disoccupati nell’estate 1931. La destra proseguì la propria battaglia contro le riparazioni, mentre Bruning intavolava trattative segrete per un’unione doganale con l’Austria. L’indignazione della Francia, una volta venuta a conoscenza dell’accordo, portò a farle ritirare tutti i crediti dalla principale banca austriaca (il Credit-Ansalt), che dovette dichiarare bancarotta. Fu l’inizio di una reazione a catena che investì tutto il sistema bancario austro-tedesco e che nel 1931 portò Bruning a dover dichiarare pubblicamente l’incapacità del suo paese di proseguire nella liquidazione delle riparazioni. Il suo annuncio fu seguito da una nuova fuga di capitali dalla Germania, dalla bancarotta delle maggiori banche tedesche e dalla cessazione della quotazione del marco sulle piazze straniere. Dovette quindi intervenire Hoover, che nel giugno 1932 convocò la “conferenza di Losanna”, nella quale venne deciso di congelare i debiti tedeschi (con la garanzia, però, che ogni progetto di unione doganale con l’Austria venisse annullato).
Anche in Inghilterra arrivò l’ondata della grande depressione: più di una crisi economica, qui si trattò piuttosto di una crisi finanziaria, originata dalle ripercussioni negative delle perturbazioni finanziarie in Europa centrale e dal ritiro dei depositi da parte di molti investitori stranieri. Mac Donald, tornato alla guida del governo, nell’agosto del 1931 fu costretto alle dimissioni, a favore di un nuovo governo di “unione nazionale”, presieduto da lui stesso, che per questo motivo venne cacciato dal Labour insieme ai suoi colleghi di gabinetto. Il nuovo governo approvò una linea di forte rigore e fece passare un bilancio di emergenza che inaspriva il carico fiscale, decurtava salari e stipendi e rivedeva il sistema assicurativo contro la disoccupazione. La reazione a queste manovre fu dura e culminò nell’ammutinamento dei marinai della Royal Navy di stanza nella base di Invergorden, episodio a cui l’opinione pubblica reagì con un profondo turbamento. La sterlina si deprezzò ulteriormente e, a settembre, la Banca d’Inghilterra annunciò l’esaurimento dei crediti esteri. Il governo rispose con l’abbandono del gold-standard. Quella che sembrava una mossa dettata dalla disperazione, si rivelò invece audace ed efficace, soprattutto per la contemporanea protezione della moneta con un rialzo medio dei dazi di entrata del 10% e per gli accordi stabiliti con i dominions (nessun dazio d’entrata per i prodotti provenienti dai dominions relativamente alla produzione agricola, innalzamento dei dazi d’entrata per i dominions sui prodotti industriali provenienti da terzi). Sotto queste spinte, l’economia inglese riuscì a rialzare la testa e le curva della disoccupazione mostrò i primi segni di inversione. Con queste misure l’Inghilterra si limitò comunque a risolvere il problema internamente, rinunciando alla ricerca di una soluzione concertata a livello internazionale. Altri 25 paesi (inclusi quelli del Commonwealth, tranne il Sudafrica, ed esclusi Francia, Italia e Germania) seguirono l’esempio inglese abbandonando la parità aurea (acuendo ulteriormente le tensioni monetarie già esistenti) e causando un’ulteriore contrazione degli scambi internazionali, i cui effetti negativi si ripercossero principalmente sugli USA.
La crisi, iniziata in America e trasferitasi all’Europa, rimbalzò così verso il suo luogo d’origine. Il 1932 fu uno degli anni più bui della storia statunitense (produzione industriale al 59% di quella del 1929 ed importazioni pressoché dimezzate), cui seguì una situazione ancora peggiore nel 1933 (disoccupazione pari al 25% della popolazione attiva). Le banche fallirono a centinaia, con conseguenze devastanti sul piano sociale ed umano: privi di un sistema nazionali di sussidi ai disoccupati, i cittadini del paese più ricco del mondo fecero l’amara esperienza della denutrizione, delle baraccopoli e del vagabondaggio lungo le ferrovie. Dal canto suo, l’amministrazione continuò a far fronte alla situazione esclusivamente con provvedimenti finanziari: la neonata Reconstruction Finance Corporation, nel 1932 stanziò 1'500 milioni di dollari in prestiti a banche, ferrovie ed agenzie assicurative, ma anche questa si rivelò una manovra di scarso rilievo. Per uscire dalla crisi servivano energie umane e morali ed un leader in grado di capitalizzarle. Fu proprio nel 1932, che le elezioni presidenziali diedero la vittoria al due volte governatore di New York, Franklin Delano Roosevelt. Anche in Germania, il 1932 fu un anno terribile, dove venne sfondato il tetto dei 6 milioni di disoccupati, alimentando una continua guerriglia paramilitare urbana (a fronteggiarsi erano la Reichsbanner repubblicana, la Rotfront comunista e l’SA nazista) che nell’anno precedente fece registrare 300 morti. Era pertanto inevitabile una ricaduta nella radicalizzazione politica, culminata nelle presidenziali del ’32, che al ballottaggio portarono alla riconferma di Hindenburg, dopo che al primo turno Hitler strappò il 30% delle preferenze.
Se Stati Uniti, Germania ed Inghilterra furono i paesi più duramente colpiti dalla crisi, la Francia sembrò per un lungo periodo un’isola felice in mezzo alla depressione. Ciò era dovuto in particolare alla struttura sociale del paese, meno esposto di quelli succitati alle fluttuazioni della congiuntura per via di una diffusa condizione di piccola-media proprietà contadina e di piccola azienda. Al tempo stesso, la svalutazione del franco aveva favorito le esportazioni dei settori più dinamici. Fu però la svalutazione della sterlina ad infliggere il primo e severo colpo all’economia francese, le cui esportazioni cessarono di essere competitive, facendo così scendere gli indici della produzione e facendo contemporaneamente aumentare quelli relativi alla disoccupazione. L’opinione pubblica, già scossa dalla crisi, si trovò inoltre davanti al congelamento dei debiti tedeschi, accordato nella conferenza di Losanna.
La grande depressione colpì pesantemente anche il Belgio ed in particolare l’area carbonifera del Bourinage. E’ però interessante notare come il Belgio fu il paese dove venne elaborato uno dei più precisi piani di politica anticiclica: il “Plan du travail”, adottato dal Partito Operaio belga e studiato da Henry de Man. Questo piano prevedeva l’abbandono della parità aurea, un rilancio delle esportazioni, la messa in cantiere di grandi opere pubbliche ed una politica salariale atta a sostenere la domanda (salari minimi garantiti e settimana annuale di ferie pagata). Entrato a far parte del governo Van Zeeland, De Man dovette però fronteggiare le resistenze dello stesso Partito Operaio e dei sindacalisti, al punto che nel 1936 gli operai subirono una brutta sconfitta elettorale, dalla quale ebbe origine la parabola discendente del “planismo”.
L’Italia non si era ancora del tutto ripresa dalla stretta creditizia della “quota 90”, quando sopraggiunse la crisi. La produzione manifatturiera, dal 1930 al ’33, diminuì del 20% e con essa la disoccupazione arrivò a toccare la punta di 1'300'000 unità. L’intervento del governo fu notevole: vennero costituiti l’Istituto Immobiliare Italiano (IMI) e l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), furono rilevate buona parte delle azioni detenute dalle banche e lo stato si accollò inoltre gli oneri delle imprese in crisi, mediante l’emissione di titoli garantiti, impegnandosi così in una vasta opera di risanamento. Lo stato arrivò dunque a controllare interi settori produttivi, partecipando fortemente in altri. Il fatto che l’Italia fosse il paese (dopo l’URSS) con la più alta quota di attività produttive controllate dallo Stato, portò in molti a ritenerlo una sorta di “terza via” tra capitalismo liberale e pianificazione centrale di tipo sovietico. L’intervento statale, a differenza di quanto accaduto in altri paesi, salvo alcune eccezioni si limitò a perseguire una filosofia deflazionistica, a difesa della lira, senza iniziative a sostegno della domanda o degli investimenti. Esso fu dunque una “nazionalizzazione delle perdite”, che finì per gravare sui ceti sociali meno protetti.
Anche i paesi dell’Europa dell’est risentirono, seppur con differenti intensità, degli effetti devastanti della grande depressione. Ovunque il settore agricolo dovette subire le conseguenze della caduta dei prezzi sul mercato internazionale, mentre quello industriale risultò maggiormente colpito là dove esistevano aziende che producevano per l’esportazione. Dove la produzione era rivolta esclusivamente a soddisfare la modesta domanda interna, i danni furono infatti molto lievi. Maggiormente colpiti furono dunque quei paesi maggiormente industrializzati, quali erano la Cecoslovacchia e la Polonia. Il deterioramento economico si ripercosse sul sistema politico, causando uno spostamento verso la radicalizzazione. Regimi autoritari e filo-fascisti vennero infatti alla luce in Grecia (con Metaxas), in Bulgaria (re Boris), in Lettonia (Ulmanis), in Estonia (Paets), in Ungheria (Gombos), in Romania ed in Austria.
Anche i paesi scandinavi non furono risparmiati dalla depressione. Fu in particolare la Danimarca, la cui quasi esclusiva risorsa era rappresentata dall’esportazione della sua florida agricoltura, ad accusare maggiormente il colpo, benché anche la Svezia subì conseguenze decisamente pesanti. Tuttavia, gli indicatori economici ci mostrano come i paesi scandinavi uscirono rapidamente dalla crisi, forti di una maggiore specializzazione dell’industria svedese e della marineria norvegese, dell’espansione del consumo mondiale di carta e cellulosa ricavate dalle foreste scandinave e della non-dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento elettrico (grazie allo sfruttamento del locale sistema idroelettrico). A differenza degli altri paesi europei, la depressione non comportò in quelli scandinavi decurtazioni salariali, ma bensì degli aumenti in tal senso, uniti a perfezionamenti delle già avanzate legislazioni sociali.

 

11.3 – La grande depressione alla periferia

L’indice più comprensivo della depressione era costituito dalla contrazione del commercio internazionale cui essa dette luogo. E’ quindi intuibile come i paesi la cui principale risorsa era rappresentata da esportazioni del settore primario e delle materie prime (3/5 delle transazioni internazionali) furono quelli maggiormente colpiti dall’onda d’urto. Questi paesi erano principalmente quelli della “periferia”, cioè i dominions britannici del Pacifico e quelli dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia. Si determinò così un’inversione di tendenza del trend degli anni ’20 (Europa affamata importatrice di materie prime) ed a ciò si aggiunse una contrazione dei prestiti e degli investimenti stranieri. Di conseguenza, le monete locali si svalutarono e le riserve si assottigliarono. Tanto più sovrappopolati ed arretrati erano i singoli stati, tanto maggiori furono gli effetti della Depressione, che portarono con sé quelli dell’inurbamento indiscriminato.

  • India: per un paese come l’India, la cui economia era fortemente basata sull’esportazione di beni primari, la depressione rappresentò la fonte di gravissime tensioni sociali. Esse trovarono espressione nella seconda campagna di non-cooperazione, iniziata nel marzo 1930 con la “marcia del sale” e proseguita negli anni seguenti in un crescendo di manifestazioni, scioperi, boicottaggi e con episodi di violenza che i leader del Partito del Congresso non riuscirono ad evitare. Al solito, il gabinetto Mac Donald reagì con una repressione (60'000 arresti, tra cui quello di Gandhi) e contemporanea flessibilità (convocazione di una tavola rotonda a Londra). Nell’agosto ’31 anche Gandhi partecipò ai lavori che nel novembre si conclusero con un accordo di massima sulla costituzione di una federazione indiana. Rimanevano però problemi sulla questione del corpo elettorale (unico secondo Gandhi, frazionato in tanti collegi quanti erano i principali gruppi etnici come voleva la Lega Musulmana), così che il Congresso decise di proseguire sulla strada della non-cooperazione. Essa venne interrotta nel 1933, portando con sé diversi vantaggi, seppur inferiori alle attese ed alle speranze in essa riposte. Con l’Indian Government Bill del 1935, l’India divenne una federazione di 11 province ed il principio della “diarchia” venne trasferito a livello federale (il viceré continuò comunque a gestire difesa, esteri e culto, ma gli affari interni venivano controllati in collaborazioni con ministri e consiglieri dei nuovi organi legislativi interni). Non tutti vollero però accettare il piano, che rimase così a lungo allo stato embrionale;
  • Cina: l’opera di unificazione cinese messa in atto dal Guomindang di Chiang Kai Scek, accompagnato dall’abolizione della fitta rete di dazi interni e dal miglioramento dei sistemi di comunicazione, favorì un forte sviluppo economico del paese. La depressione colpì le esportazioni, che calarono drammaticamente, ma il neonato mercato interno (seppur basato sui capitali stranieri, del Giappone in primis) resistette e la produzione industriale continuò a salire. Lo sviluppo era però localizzato nelle grandi città della costa e le campagne, nelle quali viveva la maggior parte della popolazione, continuavano ad essere regno della sottoalimentazione e delle epidemie. Era su queste masse che, dopo il fallimento della “rivolta del raccolto d’autunno”, Mao Zedong intendeva far leva per una trasformazione in senso socialista del paese. La piccola base rivoluzionaria da lui costituita sui monti del Changkanshan venne rafforzata dall’alleanza con l’armata dell’ex signore della guerra Chu Teh e quindi trasferita in alcuni distretti del Kiang-si. Altre isole rivoluzionarie si crearono nel paese, favorite dalla ridistribuzione delle terre operata a favore dei piccoli contadini che esse misero in atto. Nel Partito Comunista Cinese, vi erano comunque uomini che non potevano accettare l’idea di una rivoluzione senza operai. Nell’estate 1930, partì dunque un’offensiva nella prosperosa valle dello Yang Tze Kiang, volta alla riconquista delle città, ma essa si rivelò un clamoroso insuccesso. Il Guomindang rispose con cinque “campagne di annientamento” che si protrassero per i quattro anni seguenti, costringendo i comunisti a fuggire dal Kiang-si, dirigendosi verso il nord del paese. Questa fuga, denominata successivamente “la lunga marcia”, proseguì per due anni e 12'000 chilometri, prima che i soldati rossi poterono riunirsi in un unico blocco. Mao Zedong, nuovo capo riconosciuto del comunismo cinese, stabilì la nuova capitale a Yenen;
  • Paesi del sud-est asiatico: i paesi del sud-est asiatico furono tra quelli più violentemente colpiti dalla recessione: in Indonesia le esportazioni calarono dell’80%, in Indocina si dimezzarono, mentre in Malesia crollò il prezzo del caucciù. In tutti questi paesi, però, le accresciute tensioni sociali non confluirono in movimenti sociali e politici continuativi. In Malesia, per esempio, il malessere si sfogò sugli immigrati cinesi ed indiani, mentre in Viet Nam la lotta rimase confinata esclusivamente tra i movimenti politici;
  • Medio Oriente ed Africa settentrionale: tra le regioni periferiche, Medio Oriente ed Africa settentrionale furono tra quelle toccate in maniera minore dalla crisi. Mentre le esportazioni del cotone egiziano diminuirono, continuava l’espansione di quelle di petrolio. Gli effetti della depressione colpirono tuttavia quest’area e gli anni ’30 furono agitati: in Siria, il risentimento anti-francese sfociò in uno sciopero insurrezionale nel febbraio 1936, che costrinse il governo di Parigi a riconoscere l’indipendenza siriana; in Palestina, dopo l’avvento di Hitler, crebbe notevolmente l’immigrazione ebraica, alimentando le già forti tensioni tra ebrei e palestinesi; in Egitto il governo inglese dovette ritirare le truppe di occupazione (eccetto da Suez) e concedere al paese l’ingresso pieno nella SdN;
  • America latina: l’America latina fu l’area periferica maggiormente colpita dalla crisi, a causa della monocultura da esportazione sulla quale si reggeva l’autonomia dei singoli stati in essa presenti. Su 20 repubbliche sudamericane, soltanto 9 si salvarono da profonde e radicali trasformazioni nei campi politico ed istituzionale;
  • Brasile: in Brasile si verificò l’inedita esperienza del “populismo”, una variante riveduta ed aggiornata del “caudillismo” latino-americano. Getulio Vargas giunse al potere nel 1930, sull’onda di una sollevazione popolare volta a scalzare il predominio dell’”oligarchia del caffè” (apparsa inerme dinnanzi alla crisi) e forte di un avanzato programma di legislazione sociale. Nel 1934 venne approvata la nuova costituzione, che attribuiva maggiori poteri al Presidente della Repubblica, carica alla quale fu eletto lo stesso Vargas. In Brasile ebbe così inizio una politica volta a favorire l’industrializzazione del paese, che fece registrare un notevole successo. Intorno al presidente continuava comunque a regnare profonda incertezza (vi era chi si ispirava al fascismo, chi chiedeva la cancellazione del debito estero, chi sosteneva la necessità di nazionalizzare le aziende straniere); Vargas, usando come pretesto la scoperta di un piano rivoluzionario comunista, nel novembre 1937 sciolse tutti i partiti ed assunse pieni poteri. L’Estado Novo, come venne chiamato, era basato sulla “carta del lavoro” fascista ed attuò una notevole politica di legislazione sociale (aumento dei salari, miglioramento delle condizioni lavorative, giornata lavorativa di 8 ore, pensioni e previdenza sociale, tutela del lavoro femminile e minorile, liquidazioni e ferie pagate). Da qui, la forza del populismo brasiliano;
  • Argentina: Anche in Argentina i governo venne rovesciato da una sollevazione cui parteciparono studenti, operai e militari.. Questi ultimi riuscirono a prendere il controllo della situazione, insediando al potere il generale Justo nel 1931, che governò allo stesso modo di Vargas in Brasile. L’industria (grazie ai dazi doganali ed al drastico deprezzamento del pesos), riuscì così ad uscire dalla crisi. La situazione politica non subì comunque profonde trasformazioni e le regole del gioco politico-costituzionale vennero rispettate, anche se con manipolazioni varie, comprese quelle sulle elezioni (“decennio infame”);
  • Cile: le esportazioni cilene, conseguentemente alla depressione, subirono un autentico tracollo. Nel giugno 1932, a seguito di un pronunciamento dell’aviazione, in Cile venne proclamata una “repubblica socialista”. Essa durò poco, poiché le elezioni di ottobre diedero la vittoria al vecchio Alessandri, che attuò un indirizzo politico fortemente conservatore, il quale favorì a sua volta la formazione di un Fronte Popolare, vincitore alle urne nel 1938;
  • Perù: in Perù, nel 1930, il presidente Leguia venne rovesciato da un colpo di stato militare guidato da Cerro. Questi promulgò una nuova legge elettorale che estendeva il diritto di voto a tutti i maschi alfabetizzati con più di 21 anni ed indisse nuove elezioni, nelle quali battè di misura la lista presentata dall’Apra. Gli apristi cercarono la rivincita mediante la lotta armata, ma lo scontro che ne seguì si tradusse in una loro cocente sconfitta. Migliaia di apristi caddero così vittime delle repressione e le redini del potere tornarono saldamente nelle mani dell’oligarchia e dei militari;
  • Messico: in Messico, con l’elezione a presidente di Labaro Cardenas nel 1934, si aprì per il paese un periodo di curiosa combinazione tra la tradizione rivoluzionaria e l’imitazione del New Deal americano. Sebbene vari paesi dell’America latina furono incuriositi dall’esperimento rooseveltiano, soltanto Cardenas ebbe il coraggio di metterlo in pratica. Vennero così distribuite le terre ai contadini (un milione le famiglie coinvolte), rallentando in questo modo l’esodo rurale verso le città e stimolando lo sviluppo di nuove iniziative industriali dirette a rifornire il mercato interno. Un ulteriore impulso ad una politica di sostegno della domanda venne poi dal miglioramento dei salari e delle norme legislative, ottenuti dalla confederazione dei sindacati, riunitisi nel 1936 sotto la guida di Vincente Lombardo Toledano. Questi miglioramenti salariali avevano però un prezzo molto alto per il paese, al quale non bastarono più le royalties versate dalle compagnie petrolifere. Cardenas procedette quindi ad una espropriazione delle compagnie straniere e fondò un’azienda petrolifera di stato (Pemex).

11.4 – Le conseguenze della depressione: un mondo più diviso

Tra il 1932 ed il ’33, diversi paesi si erano già incamminati sulla strada della ripresa economica, mentre altri si accingevano a farlo. Il tratto comune delle manovre escogitate a tal fine dai singoli paesi, era rintracciabile nella loro unilateralità: ciascuno uscì dalla crisi a modo suo, senza preoccuparsi dei riflessi internazionali delle proprie azioni. Quello che venne fuori fu dunque un mondo ancora più diviso del precedente. Da un punto di vista di mercati internazionali, si accentuò la tendenza alla compartimentazione del mercato mondiale in zone e sfere di influenza (conferenza di Ottawa per il commercio tra l’Inghilterra ed i paesi del commonwealth; interscambio francese con le colonie; tentativo di unione doganale tra Austria e Germania). Si trattava di una manovra impossibile da effettuare per i paesi che non avevano possedimenti coloniali. L’Italia scelse la strada dell’autarchia (ufficializzata da Mussolini solo nel 1936, come risposta alle sanzioni della SdN per l’aggressione all’Etiopia), mentre la Germania (le cui sollecitazioni per una ridistribuzione dei territori coloniali rimasero inascoltate) riuscì a far leva sull’attrazione che per lei provavano diversi paesi dell’Europa orientale, stipulando con loro una serie di scambi commerciali basati sull’importazione di materie prime e sull’esportazione di prodotti finiti. Il risultato di queste azioni fu una drastica riduzione degli scambi internazionali rispetto agli anni ’20. La crisi strisciante dunque continuava e con essa la ricerca di una via d’uscita. In Europa, l’americanismo (inteso come combinazione di taylorismo e fordismo, ossia la razionalizzazione del lavoro secondo i criteri dello “scientific management”, della standardizzazione del prodotto, con bassi prezzi di vendita ed alti salari) suscitò molto fascino. Fu così che il 12 giugno 1933 si riunì a Londra una conferenza economica internazionale, dove si sarebbe originariamente discutere di stabilizzazione monetaria, debiti di guerra, diminuzione delle tariffe doganali e rilancio economico. Le fasi di preparazione alla conferenza furono però caratterizzate da forti attriti (soprattutto da parte USA), che poi esplosero all’inizio della conferenza stessa, con una note di Roosevelt dove si sosteneva l’inutilità di tentare di sistemare una situazione internazionale ignorando i problemi interni. La conferenza di Londra si strascicò così per un paio di settimane, per poi affossare definitivamente.
Al di là del campo della cooperazione economico-finanziaria, la depressione aveva dato una brusca scossa a quel poco di sistema politico internazionale del dopo-guerra. La crisi politica ebbe origine dal Giappone. Il paese nipponico, per uscire dalla depressione, varò un processo di massiccia riconversione industriale verso settori più moderni e dinamici (meccanico e metallurgico), unita ad una manovra fiscale e monetaria che ebbe la ricaduta più pesante sulla popolazione delle campagne, tradizionale bacino di rifornimento dell’esercito. Fu quindi nelle forza armate che ricaddero le tensioni ed il rancore di chi guardava con disprezzo al modello capitalista occidentale, artefice della grande depressione. Fu in questo clima che vennero ratificati i trattati di Washington sull’armamento navale (seguì l’assassinio del ministro degli esteri nipponico, nel novembre 1930). Negli anni seguenti vennero sventati una serie di complotti militari, ma non si riuscì ad evitare che, nel settembre 1931, l’armata giapponese di stanza in Manciuria lanciasse di propria iniziativa un attacco militare ed entrasse in pochi giorni nella capitale Mukden. In patria, il governo dovette dimettersi e si assistette ad un lungo periodo di instabilità politica, conclusasi con la formazione del nuovo gabinetto diretto dall’ammiraglio Sato. Nel frattempo la Manciuria era stata resa indipendente e cominciarono ad affluirvi le prime masse di capitali giapponesi, quando truppe da sbarco nipponiche attaccarono le postazioni cinesi a Shangai, con l’ausilio dell’aviazione. Ciò che stava accadendo era una palese violazione del “Covenant” della SdN ed una fonte di instabilità per l’intero sistema delle relazioni internazionali. Gli USA (paese che dopo il dispiegamento inglese era quello a conservare i maggiori interessi nell’area del Pacifico) inviò una nota ai governi cinese e giapponese, nella quale si dichiarava garante dell’integrità e dell’indipendenza della Cina. Tuttavia, con l’amministrazione Hoover prossima alla fine del mandato, l’intervento americano non si spinse oltre. La SdN, dal canto suo, inizialmente si limitò ad inviare alcuni osservatori in Manciuria due mesi dopo l’inizio delle ostilità; un anno più tardi approvò il rapporto presentatole, non riconoscendo il nuovo stato, ma senza applicare alcuna sanzione al Giappone (giudicandolo, di fatto, “non aggressore”). Uno dei motivi di tanta indifferenza era il desiderio di non compromettere gli esiti della conferenza sul disarmo, convocata a Londra nel 1932 dopo otto anni di discussioni ed alla quale parteciparono 64 stati, USA e URSS compresi. Il primo contrasto in seno alla conferenza fu quello tra la tesi tedesca (disarmo basato sull’”eguaglianza dei diritti”) e quella francese (priorità dei problemi di sicurezza). Altro nodo intricato era quello sulla creazione di una forma militare sovra-nazionale, che trovò però la ferma opposizione del Giappone (finché esso rimase membro del Covenant) e dell’Italia (in seguito alla sostituzione del capo della delegazioni Dino Grandi con il battagliero Italo Balbo). L’uscita dalla conferenza della Germania (passata dal conciliante cancelliere Bruning all’intransigente Hitler, passando per il conservatore Von Papen) ne decretò il definitivo insuccesso ed essa terminò i suoi lavori nel giugno 1934. Nel giro di due anni, dunque, la conferenza economica e quella sul disarmo erano fallite; altrettante potenze (Germania e Giappone) avevano abbandonato il proprio seggio alla SdN. L’autorità dell’associazione ginevrina, cui USA e URSS continuavano a non far parte, era ulteriormente diminuita. Il Giappone, inoltre, aveva potuto compiere un’aggressione rimanendo del tutto impunito.

Capitolo 12: “Gli Stati Uniti e l’Inghilterra negli anni ‘30”

12.1 – L’America del New Deal

Mai, nella storia americana, un’amministrazione si era presentata agli elettori con un bilancio tanto negativo quanto quello dell’amministrazione Hoover. Non c’è quindi da stupirsi se le elezioni presidenziali del novembre 1932 diedero una larga vittoria al candidato democratico Franklin Delano Roosevelt. Il suo fiuto politico gli permise di rendersi conto che l’opinione pubblica si aspettava da lui una rottura netta con il passato: un New Deal. Egli riunì dunque una seduta straordinaria del Congresso che si protrasse con decisione per 100 giorni, nella quale vennero varate diverse manovre (taglio alla spesa pubblica, abolizione del regime proibizionista con la conseguente risoluzione della storica diatriba tra dry e wet, abbandono dell’ancoraggio all’oro). Il problema maggiore del paese era il dissesto dell’agricoltura, alla quale l’amministrazione Roosevelt contrappose una politica di stabilizzazione e sostegno dei prezzi (coordinata dalla Agricultural Adjustment Administration, AAA), che partì dallo sradicamento di 10 milioni di ettari di terreno coltivati e dall’uccisione di 6 milioni di maialini da latte. I prezzi dei prodotti agricoli ripresero così a salire e con questo si allentò la pressione nelle campagne. Altrettanto gravi erano i problemi del settore industriale (13 milioni di disoccupati), cui si cercò di porre rimedio attraverso una politica di pianificazione nella quale lo stato avesse un ruolo preminente. Venne così istituita la “Tennesee Valley Authority” (TVA), una public corporation che realizzò una centrale idroelettrica nello stato ed approfittò dell’energia derivante per un programma di risanamento e di ristrutturazione economica dell’area. Il modello ebbe successo ma, naturalmente, non poteva essere applicato su scala nazionale. L’amministrazione Roosevelt scelse così la strada di una concertazione tra stato, industria e sindacati, con l’istituzione della “National Recovery Administration” (NRA), che stipulando “codici” tra le imprese operanti in ogni settore produttivo stabiliva le quote della produzione ed il livello minimo dei prezzi. Lo stato, dal canto suo, varò un vasto programma di lavori pubblici con uno stanziamento di oltre tre miliardi di dollari. L’intervento statale, però, si manifestò in particolare nell’instaurare un clima di pressione psicologica collettiva (campagna dell’”aquila azzurra” con il motto: “noi facciamo la nostra parte”). Naturalmente venne anche migliorata la situazione dei disoccupati (500 milioni di dollari di sussidi stanziati dalla “Federal Emergency Relief Administration) e poste sotto un rigoroso controllo le attività bancarie e finanziarie. Questo enorme ciclone legislativo ottenne ottimi risultati (2 milioni di nuovi posti di lavoro, miglioramento dell’indice settimanale degli affari), ma fu contrastato dal CIO (Congress of Industrial Organisations), una nuova coalizione sindacale nella quale potevano confluire tutti i lavoratori americani. Il CIO promosse un’ondata di scioperi contro la concertazione e spinse le agitazioni sociali a livelli paragonabili a quelle degli anni ’20. L’amministrazione rooseveltiana decise così di “correggere il tiro” con il varo di una vasta serie di riforme sulla legislazione sociale a tutela della classi medie e dei consumatori (“secondi cento giorni”). La manovra ebbe successo, così che il presidente potè allargare la sua base elettorale agli immigrati italo-americani, agli agricoltori ed alla popolazione di colore, ottenendo la riconferma della carica alle elezioni del ’36 e del ’40. Sul piano internazionale, il New Deal fu la dimostrazione di come fosse possibile raggiungere il progresso sociale con l’espansione della democrazia, senza il bisogno di pianificazioni rigide o di collettivizzazioni forzate. Sul piano della politica estera, l’abbandono del gold standard dimostrò il perseguimento di fini propri da parte degli USA, lasciando all’Europa le implicazioni che da questo atto derivavano. Sui mercati internazionali, con una legge che attribuiva direttamente al presidente la decisione sulla gestione dei dazi doganali, si stipularono 15 accordi di scambio con paesi dell’area latino-americana. Sul piano militare internazionale, invece, gli Stati Uniti mantennero una politica di “neutralità” (anche sull’invasione italiana in Etiopia), così come la contrarietà a far parte della SdN.

12.2 – L’Inghilterra negli anni ‘30

Se negli USA la crisi era stata superata con un mutamento della direzione politica, in Inghilterra il superamento avvenne all’insegna dell’unità nazionale. Il governo Mac Donald superò la prova della svalutazione della sterlina e continuò a governare per tutto il decennio, con il passaggio di consegne a favore di Baldwin, forte della fiducia della maggior parte del paese. La stabilità politica non stava però a significare che le tensioni provocate dalla depressione fossero scomparse. Per milioni di inglesi, gli anni ’30 furono anni bui: livello minimo di 1'500'000 disoccupati e città come York, dove il 32% della popolazione costretta a vivere al di sotto della soglia di povertà. I tradizionali difensori dei lavoratori, cioè il partito laburista ed i sindacati, attraversavano un momento difficile: il primo uscì decimato dalle elezioni del 1931 ed il seguente “salto del fosso” da parte di Mac Donald contribuì ad alimentare all’interno diverse altre spaccature; i sindacati, il cui numero di iscritti era circa la metà rispetto agli anni ’20, avevano ancora ben impresso in mente il ricordo della batosta subita nello sciopero generale del 1926 e preferivano ora la concertazione alla tradizionale lotta sociale. D’altro canto, al governo, Mac Donald conservava l’impronta del Labour (pur essendone stato espulso) e si rese conto della necessità di aiutare i lavoratori. Il problema più urgente era quello dei sussidi di disoccupazione; in un primo tempo si devolse a livello locale il compito di accertare il reddito dalle famiglie, ma accadde che i comuni retti da amministrazioni conservatrici usarono una scala di valutazione molto più rigida rispetto a quella adottata dalla controparte laburista. Nel 1934 venne così introdotto l’”Unemployement Act”, che centralizzò l’amministrazione del sussidio. Contestualmente vennero varati provvedimenti di legislazione sociale (tetto di ore lavorative settimanali, ferie pagate,distribuzione di latte a basso prezzo nelle scuole) ed economica (sovvenzioni ai consorzi di produttori agrari, appoggio alle aziende operanti nei nuovi settori). A cambiare, nel frattempo, erano anche la geografia del paese (riduzione del costo della vita, emigrazione dal Galles, inurbamento di Londra) ed i modelli di vita dei “colletti bianchi” e degli operai specializzati (acquisto della casa e dell’automobile, vacanze al mare o nei campeggi, lettura dei giornali e dei tascabili, frequentazione dei pub, dello stadio e del cinema). Lo stesso senso dell’identità nazionale veniva scemando (entusiasmo per la convocazione di Gandhi alla tavola rotonda sulla questione indiana, indifferenza rispetto al desiderio di indipendenza irlandese), malgrado la resistenza dello zoccolo duro guidato da Winston Churchill. Il ripiegamento verso l’interno venne alimentato dal mai così fiorente movimento pacifista degli anni ’30. A questa corrente aderì la stragrande maggioranza della popolazione (compresi i conservatori, che temevano la resistenza stessa del paese nel caso di un nuovo scossone), trovando il loro punto di coagulo nel termine di “appeasement”.

Capitolo 13: “La Germania nazista”

Fino alle elezioni del settembre 1930 erano ben pochi, sia in Germania che all’estero, a conoscere il nome di Adolf Hitler. Cresciuto nell’attività artistica viennese, Hitler assunse a Monaco la guida di un partito di estrema destra, il DAP, nel 1920, iniziando così la sua carriera politica. Egli ribattezzò il gruppo in “Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori” e preparò un programma nel quale confluirono elementi “socialisti” (nazionalizzazione di tutte le imprese a carattere monopolistico, eliminazione della “schiavitù dell’interesse”), “nazionalisti” (abrogazione del trattato di Versailles, formazione di una “grande Germania”, sostituzione dei diritto romano con un “Gemeinrecht” tedesco) ed un forte antisemitismo (esclusione degli ebrei dalla comunità nazionale tedesca). La prima sortita del nuovo partito fu il “Putsch della birreria”, promosso a Monaco nel novembre 1923 sull’onda della crisi della Ruhr e della derivante super-inflazione, che però fallì miseramente. Hitler fu condannato a cinque anni di prigione, ma di fatto scontò solo 9 mesi, durante i quali elaborò la prima parte del suo “Mein Kampf”. Dopo questa prima fase, egli si rese conto dell’impossibilità di replicare in Germania una marcia sullo stile mussoliniana e decise quindi di intraprendere la scalata al potere seguendo le regole della legalità repubblicana. Nel 1928, il Nsdap era un movimento con scarsissimo seguito (2,6% dei voti), ma appena gli effetti della depressione toccarono il suolo tedesco, riaccendendo la quotidiana violenza tra le formazioni paramilitari del paese, le SA di Hitler non si fecero cogliere impreparate. In questo clima, il Nsdap divenne un forte polo di attrazione per i rancori e le frustrazioni di chi aveva conosciuto il dopoguerra e per quei giovani che desideravano fortemente una situazione migliore. Si trattata di un consenso fortemente “emotivo” e che come tale sarebbe potuto dissolversi rapidamente; Hitler sapeva però come cementarlo e capitalizzarlo, sfruttando la sua grande capacità oratoria e le tecniche di aggregazione e di mobilitazione, tipiche del fascismo italiano, del comunismo sovietico, così come dei movimenti operai. Tra il luglio 1932 ed il gennaio 1933 i tedeschi furono chiamati per ben due volte alle urne e si succedettero altrettanti governi: quello di Von Papen (durato pochi mesi) e quello di Von Schleicher (resistito alcune settimane). I meccanismi della democrazia weimariana giravano a vuoto e le trame del paese venivano tessute da dietro le quinte da Hindenburg, dalla Lega rurale tedesca, da esponenti militari e della finanza e dallo stesso Hitler, il cui partito era nel frattempo diventato il maggiore del paese, forte di un terzo dell’elettorato schierato a suo favore. Egli rifiutò più volte il ruolo di vice-cancelliere, insistendo con il reclamare per se la guida del governo, arrivando a piegare, suo malgrado, la resistenza di Hindenburg. Il 30 gennaio 1933 Hitler assunse così il ruolo di cancelliere, affiancato dal vice Von Papen. Del nuovo governo facevano parte due soli ministri nazisti ed Hitler stesso si era impegnato a conferire con Hindenburg solo alla presenza di Von Papen. Opinione diffusa era che in questo modo si sarebbe riuscito ad imbavagliarlo e sbarazzarsene quando la sua popolarità si fosse sgonfiata (alle ultime elezioni, i nazisti persero 2 milioni di voti). Questa miopia politica era diffusa anche agli avversari; soprattutto tra i comunisti, che vedevano l’avvento al potere di Hitler come una tappa obbligata sulla via dell’instaurazione di una dittatura del proletariato.
Nelle trattative precedenti alla formazione del governo, Hitler aveva ottenuto che a breve termine fossero indette nuove elezioni, contando sull’effetto di trascinamento della sua assunzione al potere. La campagna elettorale era a pieno regime quando, a sei giorni dal voto, venne dato alle fiamme il Reichstag. Hitler colse l’occasione per affermare il suo potere personale: egli attribuì infatti ai comunisti la responsabilità dell’incendio e fece arrestare 4'000 di essi (Dimitrov, futuro capo dell’Internazionale comunista, compreso), assieme a diversi oppositori ed intellettuali. Il giorno seguente all’avvenimento, Hitler esercitò forti pressioni su Hindenburg, ottenendo la firma di un decreto che sospendeva tutti i diritti e le libertà costituzionali, istituendo inoltre la pena di morte per una serie di reati contro lo stato. Le elezioni si svolsero in questo clima militaresco ed il Nsdap trionfò con il 43,9% delle preferenze, raggiungendo la maggioranza assoluta con gli altri partiti di destra, ma senza i due terzi dei seggi necessari per poter apportare modifiche alla costituzione. Per raggiungere quest’ultimo scopo, fu però “sufficiente” invalidare l’elezione degli 81 deputati comunisti. La repubblica di Weimar diveniva così un lontano ricordo, segnando il passo alla “Gleichschaltung” (la “sincronizzazione”): con la sola eccezione del Nsdap, tutti i partiti vennero sciolti; i Lander si sostituirono agli organi elettivi; la stampa ed i media furono posti sotto il controllo del “ministero per l’informazione popolare e la propaganda” (presieduto da Joseph Goebbels) e si favorì l’infiltrazione nazista all’interno delle scuole e delle università. Hitler tentò di unificare le religioni in una “Chiesa nazionale” sulla base del movimento dei “tedeschi-cristiani”, ma tale tentativo fallì e fu risolto con una sorta di concordato (libertà di culto e di esistenza delle scuole cattoliche, ma nessun intervento nella vita politica del paese). Rimaneva l’esercito, le cui alte gerarchi erano ostili al Fuhrer e preoccupate dalla crescita delle SA, che guidate da Rohm avevano ormai raggiunto il milione di appartenenti. Hitler agì in modo chirurgico, incaricando le SS (un reparto di fedelissimi) e la polizia dell’eliminazione di Rohm e delle più alte cariche delle SA (giugno 1934). Nell’operazione furono uccisi anche diversi generali della Wehrmacht, ma l’obiettivo di annullare le SA era stato raggiunto. Il 2 agosto 1934, in seguito alla morte di Hindenburg, tramite un plebiscito popolare Hitler riuscì a fare in modo che le cariche di cancelliere e di presidente fossero unificate nella sua persona. Il “Terzo Reich” era così istituito; la grande differenza rispetto alle altre dittatura contemporanee era la legittimazione ideologica cui esso si richiamava (comunità di “appartenenti allo stato, di sangue tedesco e fedeli al Reich”).
L’avvento al potere di Hitler coincise con l’uscita della Germania dalla grande depressione. Nel 1933, il numero di disoccupati iniziò lentamente a scendere ed il governo nazista incoraggiò tale tendenza varando un imponente piano di lavori pubblici (in particolare, la creazione di una fitta rete autostradale) ed estromettendo le donne da tutti i settori della pubblica amministrazione per restituirle al ruolo di madri e spose. Col crescere dell’attività industriale, però, crebbe contemporaneamente il disavanzo della bilancia commerciale tedesca. Il rimedio fu il lancio del “Never Plan”, consistente essenzialmente nel tentativo di regolamentare il commercio estero sulla base della bilateralità (importazioni solo da chi era disposto ad importare a sua volta dalla Germania) e dello sviluppo di materiali sintetici, sostitutivi delle materie prime. Si trattava però di misure incompatibili con il riarmo tedesco, sollecitato dal partito e dall’esercito; fatto sta che i dirigenti economici puntarono su di un espansione fortissima del settore degli armamenti, la cui produzione lievitò nel giro di pochi anni, spremendo al massimo l’economia tedesca e causando un denso miglioramento del tenore di vita della popolazione (redditi alti, disoccupazione pressoché nulla, incremento demografico). Ovviamente, tali misure non potevano durare in eterno, in quanto vi era un limite alle risorse interne. Tra Hitler ed i suoi collaboratori si diffuse dunque l’idea di un’espansione verso est, ben oltre il recupero dei territori persi a Versailles. Il primo passo in questa direzione fu l’abbandono della conferenza sul disarmo e della SdN, sanciti da un plebiscito popolare. A questo passo, però, per diverso tempo non ne seguirono altri (trattato di non-aggressione con la Polonia, dichiarazione di estraneità al putsch pro-nazista di Vienna, divergenza di vedute tra Hitler e Mussolini).

Capitolo 14: “L’URSS di Stalin e lo stalinismo”

Sul finire del 1929, quel poco di equilibrio tra città e campagne formatosi negli anni della Nep dette segni di cedimento, per via della forbice tra i prezzi dei prodotti agricoli ed industriali, sempre più ampia a favore di questi ultimi. Il malcontento dei contadini si espresse nella riduzione delle quote di grano versate negli ammassi, costringendo il governo sovietico ad imporre il razionamento dei generi di prima necessità. Nel paese scoppiarono diverse agitazioni che, seppur meno drammatiche di quelle del 1921, fecero capire ai governanti che il ciclo della Nep veniva definitivamente esaurendosi e che era quindi necessario un nuovo programma di largo respiro. Restavano da definire le modalità, i tempi e le priorità di questo nuovi ciclo. Le correnti di pensiero che si scontrarono all’interno del partito furono fondamentalmente due: quella di uno sviluppo equilibrato ed inserito nella divisione internazionale del lavoro (sponsorizzata da Bucharin), contro quello di una pianificazione più accelerata. In URSS mancavano tuttavia gli organi politici necessari per trovare un compromesso, cosicché tutto ricadeva nelle mani di Stalin che, posto di fronte alla necessità di una scelta, era incline ad affrontarla dall’angolo visuale dell’”occasione” che essa gli forniva o meno per riaffermare il proprio potere personale. Tra il 1928 ed il 1933, dal punto di vista del contenuto, la sua fu infatti una politica assolutamente incoerente e sconnessa. Il primo di questi suoi atti d’imperio fu il cosiddetto “processo Sachty”, nel quale un gruppo di tecnici ed ingegneri (cinque dei quali tedeschi) venne accusato di sabotaggio. Cinque di loro furono condannati a morte e ciò provocò una sorta di rottura con l’intellighenzia tecnica e con i partners stranieri. Durante il processo venne registrata una piccola spaccatura interna al partito (Rykov, Bucharin e Tomskij votarono contro la pena di morte), che Stalin regolò al Politbjuro nel gennaio 1929, mettendo all’ordine del giorno l’esilio di Trockij e lanciando così un segnale rivolto a tutti quei moderati che non avevano esitato a prendere contatti con l’opposizione. Il trio votò contro l’esilio di Trockij e Stalin li ripagò provocandone le liquidazione politica.
La situazione economica, nel frattempo, non mostrava segni di miglioramento. Fu così che, nell’aprile 1929, la conferenza del partito approvò il lancio del primo piano quinquennale (“pjatiletka”), in gestazione da tempo, che copriva il periodo compreso tra l’ottobre 1928 ed il settembre 1933. Tra i suoi presupposti vi era quello di un andamento regolare dei raccolti e si poneva perciò il problema di trovare gli strumenti adeguati per assicurarlo. La strada che venne intrapresa fu quella della grande azienda agricola collettivizzata e modernizzata: nell’ottobre del ’29, il 7,6% della popolazione agricola era inquadrato in cooperative (“kolchozy”). Stalin era tuttavia deciso a bruciare le tappe. Il 5 gennaio 1930 l’obiettivo della collettivizzazione venne esteso alla grande maggioranza delle terre, implicando l’eliminazione dei “kulaky” (4-5 milioni) in quanto classe. Il mondo contadino rispose con una violenta protesta, culminata non solo nell’uccisione di diversi esponenti comunisti inviati nelle campagne, ma anche nella macellazione del bestiame e nella minaccia di astenersi dalle semine. Stalin fu così costretto a tornare sui suoi passi, salvando il raccolto del 1930. Superata la fase critica, nel 1932 il leader sovietico spinse sull’acceleratore, riprendendo le deportazioni e varando un decreto legge che istituiva la pena di morte per i furti nei kolchozy. La collettivizzazione fu di fatto una seconda guerra civile, che però portò i suoi risultati: alla fine del ’32, oltre il 60% della popolazione rurale era inquadrata all’interno di cooperative. Agli inizi del 1933, con diversi mesi di anticipo rispetto alle previsioni, il primo piano quinquennale fu dichiarato concluso e ne seguì subito un secondo. Sul fronte dell’industria si fece registrare un aumento molto consistente per quella estrattiva e pesante, mentre molto meno marcato fu quello dell’industria leggera e di consumo. Le motivazioni sono in parte individuabili nella pratica del “lavoro d’assalto” (preferita a quella dello scientific management) ed in parte nella corsa al riarmo intrapresa dall’URSS. Il fallimento del piano quinquennale fu però l’agricoltura: aumentò infatti la percentuale dei prodotti conferiti allo stato, ma crollò la produzione, che si assestò sui livelli degli anni ’20. Conseguenza di ciò fu la carestia del 1932, che provocò 6 milioni di morti. Da un punto di vista sociale, si registrò un vertiginoso aumento della popolazione urbana, con una conseguente “ruralizzazione” della vita urbana. A ritmo ancora maggiore crebbe però la popolazione studentesca, che alla vigilia della seconda guerra mondiale toccò il 35 milioni.
Il secondo piano quinquennale, ritoccato verso il basso per dar modo al paese di tirare il fiato, ebbe un andamento meno convulso del primo ed i suoi risultati furono migliori, pur accentuandosi la sproporzioni tra i settori dell’industria pesante e di quella leggera. La nuova (e relativa) stabilità economica del paese ebbe riflessi positivi sul piano sociale: si registrò infatti una distensione dei rapporti con i contadini, cui seguì un rappacificamento interno al partito con la rentrée politica di Bucharin, Rykov e Tomskji. La novità fu però rappresentata dall’emergere di nuovi quadri, formatisi nella dura esperienza della collettivizzazione e del piano quinquennale e pertanto fautori di una visione meno dispotica del comunismo russo. Il più autorevole di essi era Kirov, che nel congresso del partito del 1934 ottenne più voti rispetto a Stalin, ma rifiutò la proposta di diventare segretario. Kirov venne assassinato sul finire dell’anno; Stalin colse l’occasione per attuare una svolta radicale e dare inizio ad un nuovo e sinistro corso politico. Tra il 1935 ed il 1939, il periodo più nero dell’intera storia sovietica, una lunghissima serie di processi politici fece uscire distrutta quasi tutta la vecchia guardia bolscevica. Seguì il completamento dell’”epurazione”, già avviata prima dell’omicidio-Kirov, e che si ultimò con l’espulsione dal partito di 1'700'000 appartenenti, avviati ai campi di deportazione staliniani.
Lo spionaggio ed il “pericolo di guerra”, le due accuse più frequentemente rivolte agli imputati dei processi politici, erano solo pretesti. L’URSS aveva infatti partecipato alla conferenza del disarmo nel 1928; i suoi rapporti con Inghilterra, Germania, Francia ed Italia erano nettamente migliorati; l’industria USA esportava massicciamente macchine utensili sul territorio russo e, per finire, nel 1934 l’URSS entrò a far parte della SdN. Gli unici problemi, si pensava, potevano derivare dalla presenza giapponese in Manciuria e dall’avvento al potere di Hitler.

Capitolo 15: "Il fallimento della sicurezza collettiva"

La conferenza sul disarmo, dopo il ritiro della Germania, si concluse nel giugno 1935. Essa non aveva portato a nessun risultato e la sua fine coincise con una nuova fase della corsa agli armamenti. A partire dal 1934, la spese per la difesa delle grandi potenze conobbe un deciso incremento, più marcato in URSS, Giappone e Germania, meno in USA, Italia e negli altri paesi dell'Europa occidentale (erano comunque diversi i rispettivi punti di partenza). Una volta innescata, la corsa al riarmo accese un processo di automatismo praticamente inarrestabile. Nel 1935 i governi anglo-francesi sollecitarono  rispettivamente un aumento delle spese militari ed il prolungamento a due anni della ferma. Sul confine francese venne inoltre avviata la costruzione della "linea Maginot", ultimata a fine 1936. La Germania replicò reintroducendo la coscrizione obbligatoria e portando a 550'000 gli effettivi dell'esercito (contro i 100'000 previsti dal trattato di Versailles). Alla conferenza di Ginevra non venne approvata nessuna delle misure proposte per limitare o proibire l'utilizzo di armi in grado di coinvolgere la popolazione civile (aerei ed armi chimiche). Nel marzo 1935 Hitler poté così annunciare al mondo che la Germania disponeva di un'aviazione militare, dando nuovo impulso al riarmo aereo. Nell'opinione pubblica si accendeva l'incubo della guerra aero-chimica e la psicosi della "sicurezza collettiva".
Conscio della vulnerabilità del sistema politico di cui era a capo, tra il 1929 ed il 1933, Stalin stipulò una serie di patti di non-aggressione con i paesi confinanti (Finlandia, Estonia, Lituania, Polonia, Romania), nonché con Francia ed Italia. Per l'URSS i pericoli maggiori provenivano però da Germana e Giappone. Era pertanto necessario individuare un nuovo partner europeo e riavvicinarsi alla SdN. Tra gli stati dell'Europa occidentale, quello più allarmato per l'evolversi della situazione tedesca era ovviamente la Francia. E' quindi naturale che tra le due potenze, quella francese e quella tedesca, vi fu un rapido avvicinamento. Nel settembre 1934, l'URSS venne ammessa all'assemblea della SdN quale membro del consiglio. L'uccisione del ministro degli esteri francese Barthou, fautore del riavvicinamento ad oriente, portò alla nomina di Pierre Laval, apparentemente meno disponibile nei confronti della Russia sovietica. La sua prima iniziativa di rilievo fu infatti l'incontro con Mussolini nel gennaio 1935, nel corso del quale venne confermato il comune impegno dei due stati per l'indipendenza austriaca ed il disinteresse francese per l'impresa africana cui il Duce si accingeva. Solo l'annuncio del riarmo tedesco spinse Laval a riprendere il discorso avviato dal suo predecessore e stringere un patto con l'URSS (aiuto reciproco in caso di aggressione), integrato in seguito da un analogo accordo tra URSS e Cecoslovacchia (tradizionale partner francese).
L'Inghilterra, inizialmente restia a farsi coinvolgere nel ginepraio diplomatico continentale, dovette cambiare orientamento dopo la sfida lanciata dal riarmo tedesco. Il paese Inglese partecipò dunque con Francia ed Italia alla cosiddetta "conferenza di Stresa" (aprile 1935), nella quale venne proposto di sanzionare qualsiasi infrazione ai trattati di Locarno. Fu però la stessa Inghilterra a sbugiardare l'accordo, negoziando con la Germania un trattato navale che consentiva al paese di Hitler di armare una flotta da guerra (violando palesemente il diktat di Locarno). E' lampante come la bilateralità della maggior parte degli accordi stipulati in questi anni, ben poco si concili con il principio della "sicurezza collettiva" cui tutti tributavano ossequio.
Il prestigio della SdN, duramente scosso dalla questione mancese, si trovò ben presto su di un altro banco di prova. Il 3 ottobre 1935, nonostante il tentativo di mediazione del ministro inglese Eden, le truppe italiane invasero l'Etiopia. Si trattava di un'aggressione in piena regola ad uno stato membro della SdN e l'opinione pubblica lo percepì come tale ("Peace Ballot" in Inghilterra: 7 milioni di inglesi chiedono sanzioni economiche e militari contro l'Italia). All'indomani dell'invasione, lo stesso consiglio della SdN votò rapidamente l'approvazione delle sanzioni economiche. Nel maggio del 1936 l'esercito Italiano entrò in Addis Abeba. Il 18 giugno l'Inghilterra sospese le sanzioni, applicate d'altro canto in modo parziale e mai estese alle forniture petrolifere. Il test etiopico provocò dunque la definitiva perdita di prestigio della SdN. Hitler se ne rese presto conto e decise di cogliere il momento favorevole, ordinando a reparti della Wehrmacht di entrare nella zona smilitarizzata della Renania.
La morbidezza della SdN relativamente alla questione etiopica era dovuta principalmente al timore che l'Italia, colpita duramente dall'organizzazione ginevrina, potesse essere portata ad accostarsi alla Germania, costituendo un blocco delle potenze fasciste. Situazione che puntualmente si verificò, per mano di un Mussolini imbaldanzito dai suoi successi e irritato per gli ostacoli frapposti al suo cammino. Nell'ottobre 1936, i ministri degli esteri dei due paesi stipularono l'accordo passato alla storia come l'"asse Roma-Berlino". All'Austria di Schuschnigg, privata della protezione italiana, non rimase che sottoscrivere una convenzione con la Germania, in base alla quale, pur ottenendo il formale riconoscimento della sua sovranità, essa si riconosceva "stato tedesco" ed apriva le porte del governo ad esponenti dell'"opposizione nazionale".

Capitolo 16: "I fronti popolari e la guerra civile spagnola"

La Spagna fu tra quei pochi paesi europei a non essere coinvolto nella prima guerra mondiale. Essa non dovette pertanto sperimentare i turbamenti del dopoguerra e la sua economia fece registrare, negli anni '20, una forte espansione trainata dall'aumento delle esportazioni. La crisi del 1929 ebbe però devastanti effetti, non solo sul piano economico, ma anche e soprattutto su quello politico. Nel giro di poco più di un anno, si verificarono infatti le dimissioni del dittatore Primo de Rivera, l'abdicazione di re Alfonso XIII e la conseguente proclamazione della repubblica. Tutte le tensioni e i rancori sepolti per decenni da una coltre di repressione e di rassegnazione, emersero alla superficie. Il governo repubblicano, costituito nel 1931, guidato da Azana e composto da radicali e socialisti si impegnò in un'opera di laicizzazione di stato e scuola, concesse uno statuto autonomo alla Catalogna e varò una riforma agraria che ebbe però scarsissimo successo. In seguito ad una sommossa anarchica repressa nel sangue, nel gennaio 1933 il gabinetto di Azana fu costretto alle dimissioni. Alle elezioni seguenti prevalsero i partiti della destra, che formarono un governo presieduto da Alejandro Leroux. Ebbe così inizio il "bienio negro", dove venne smantellata la legislazione sociale avviata da Azana e dove la repressione divenne la sola risposta ai conflitti di lavoro. La svolta avvenne nell'ottobre 1934, quando un insurrezione dei minatori (la "rivolta delle Asturie") fu stroncata duramente dall'esercito (oltre mille morti e circa 30'000 prigionieri politici). Dopo questo avvenimento, infatti, le sinistre spagnole si unirono in un'unica formazione politica, che sull'esempio francese prese il nome di "Fronte popolare". La nuova coalizione vinse le elezioni del 1936 (grazie all'auto degli anarchici) e Azana tornò a capo del governo, riprendendo il programma riformista avviato precedentemente. A conti fatti, però, il Fronte popolare spagnolo non fu altro che un'alleanza elettorale. Bastò poco tempo, infatti, perché i dissapori tra le varie formazioni di cui esso era composto venissero a galla. Viceversa, la destra iberica rinserrava le file nella prospettiva di un colpo di stato. Tra i suoi leader politici vi erano Jose Antonio Primo de Riera (fondatore della Falange) e Calvo Sotela, ma la regia rimaneva nelle mani dei militari, tra cui il generale Francisco Franco (l'uomo della repressione asturiana, ora relegato al comando della guarnigione delle Canarie).
Per quanto riguarda la Francia, essa aveva deciso di uscire a modo suo dalla depressione: il paese ricorse infatti a misure protezionistiche e provvedimenti di natura deflattiva (in primis, decurtazioni sugli stipendi). In questo difficile contesto scoppiò lo "scandalo-Staviski" (fine '33), che mise alla luce la corruzione dell'intero apparato burocratico francese. L'attacco contro la terza repubblica venne quindi portato avanti dalle Ligues, un eterogeneo assemblaggio di formazioni politiche di destra, che spaziava dai nazionalisti ai filofascisti. Il 6 febbraio 1934 le Ligues promossero una mobilitazione di piazza, che venne repressa nel sangue dall'esercito. Il giorno seguente, vari ministri presentarono le proprie dimissioni, costringendo Daladier a sciogliere il governo. Ne derivò una forte instabilità politica, accentuata dalle spaccature, non solo tra i diversi partiti di sinistra, ma anche al loro interno. Per uscire da questa situazione di stallo, nel luglio 1934, comunisti e socialisti strinsero un patto di unità d'azione. Nel giugno dell'anno successivo, anche i radicali si inserirono nell'accordo, dando origine al primo "fronte popolare" della storia. Tutti coloro che guardavano con apprensione a Berlino, guardavano ora con speranza a Parigi e salutavano la nascita di questo contropotere antifascista appena nato. Le elezioni del 1936 (svolte in un clima infestato dall'occupazione tedesca della Renania) diedero una larga vittoria al Fronte popolare, che mise a capo del governo Leon Blum. Il programma del movimento politico era essenzialmente di natura democratica ed antifascista (scioglimento delle Ligues e consolidamento delle istituzioni repubblicane). Sul versante economico, invece, il Fronte popolare varò vaste opere pubbliche, sostenne i consumi delle classi popolari e procedette alla nazionalizzazione dell'industria militare ed alla creazione di un ufficio nazionale per il grano (con il compito di regolarizzarne il mercato). Prima ancora che il governo si insediasse, la Francia fu percorsa da un'ondata di scioperi e di occupazioni di fabbriche. Gli "accordi di Martignon", nel luglio 1936 (realizzati grazie anche alla fusione tra le due confederazioni sindacali del paese), portarono ad aumenti salariali consistenti, nonché all'introduzione della contrattazione collettiva, della settimana lavorativa di 40 ore e delle ferie pagate. Si dimostrò così che l'unita' sindacale e politica erano in grado di dischiudere la prospettiva di nuove e importanti conquiste sociali.
Tornando alla Spagna, dopo l'assassinio di Calvo Sotelo, il 17 luglio 1936 le guarnigioni di Franco si ammutinarono, imitate il giorno successivo da quelle di molte altre città e diedero così inizio al loro tentativo di colpo di stato. Il governo di Quiroga si dimise, lasciando il posto a Jose Giral, che distribuì le armi alla popolazione, cominciando ad organizzare la difesa. L'assalto a Madrid, tentato dai franchisti a novembre, venne respinto dai miliziani repubblicani. Quella che si preannunciava era dunque una guerra civile aspra e di lunga durata. L'opinione pubblica europea fu duramente scossa dal conflitto spagnolo, che assumeva sempre più i contorni di una guerra combattuta tra eserciti regolari con l'impiego della armi più moderne, aviazione inclusa (lasciò il segno, in particolare, il bombardamento della cittadina basca di Guernica il 26 aprile 1937). Le potenze fasciste (tra cui il Portogallo di Salazar), che simpatizzavano per Franco e che già nel novembre 1936 riconobbero come governo spagnolo legittimo quello instaurato dai franchisti a Burgos, lo sostennero con vigorosi aiuti militari (aerei ed armamenti dalla Germania, 60'000 uomini dall'Italia). L'abilita' politica di Franco, che non si immedesimò mai nella Falange, gli consentì di avere anche l'appoggio di tutti i fautori dell'ordine e della Chiesa cattolica, che condannò duramente i repubblicani per le persecuzioni religiose avvenute nelle zone sotto il loro controllo. Sul versante del disimpegno e della neutralità, il ruolo principale fu ricoperto da Francia ed Inghilterra. Nel luglio 1936, esse diedero origine ad un "comitato di non intervento", al quale aderirono tutte le maggiori potenze. Esso si rivelò però una pura finzione, in quanto vi aderirono anche Italia, Germania e URSS, che non rispettarono in alcun modo gli impegni presi. Francia ed Inghilterra, mantenendo il comitato in vita, rispecchiavano però il pensiero maggioritario delle rispettive opinioni pubbliche interne, che privilegiavano le ragioni del pacifismo, rispetto a quelle dell'antifascismo. L'unica grande potenza che aiutò la Spagna repubblicana fu l'URSS, che a partire dall'ottobre 1936 inviò navi cariche di armamenti nei porti spagnoli. I consiglieri militari sovietici iniziarono a collaborare con le autorità militari nazionali, pur seguendo le indicazioni di Stalin, che non intendeva accreditare l'immagine della guerra civile spagnola come una tenzone all'ultimo sangue tra fascismo e comunismo (visione sfruttata invece dalle potenze fasciste). La coalizione repubblicana, nonostante gli aiuti russi, era divisa al suo interno da fortissimi contrasti. Il culmine venne raggiunto nel maggio 1937, quando a Barcellona scoppiò un violento scontro fratricida, che costò 400 morti. Le susseguenti dimissioni di Largo Caballero e la nomina a capo del governo di Juan Negrin (cui seguì la dichiarazione di illegalità del Poum e l'omicidio del leader Andres Nin da parte dei servizi segreti russi) affossarono il morale delle truppe nazionali. Nel giugno 1938 i franchisti, dopo Malaga, espugnarono Bilbao; nell'ottobre estero il controllo a tutto il nord nel paese; nel novembre costrinsero alla fuga le brigate internazionali e fecero cadere prima Barcellona (gennaio 1939) e quindi Madrid (marzo dello stesso anno).
In Francia l'introduzione della settimana di 40 ore e le accresciute spese militari non portarono benefici, ma anzi appesantirono notevolmente il bilancio. Blum dovette far svalutare il franco e sospendere la sua politica riformista. La pressione sempre più pesante da parte dell'opposizione lo costrinse quindi, nel giugno 1937, alle dimissioni. Nel corso del 1937, dunque, le speranze fiorite dopo la vittoria dei Fronti popolari in Spagna ed in Francia vennero gradualmente appassendo.

Capitolo 17: "L'aggressione giapponese alla Cina e i suoi riflessi internazionali"

Dopo l'invasione della Manciuria, l'esercito giapponese non rimase inoperoso, ma si spinse fino a sud della Grande Muraglia, arrivando a minacciare Pechino. Nel maggio 1933, Chiang Kai-shek, in procinto di lanciare la definitiva "campagna di annientamento" contro le basi tenute dai comunisti, negoziò un armistizio con i giapponesi, che a conti fatti non si rivelò altro che una tregua.
La vita politica del Giappone, dietro un'apparente costituzionalità, era guidata sempre più dai militari e sempre meno dai politici. Il paese nipponico subì una vera e propria militarizzazione (mantenimento della legge sulla preservazione della pace civile, provvedimenti limitativi delle libertà, emarginazione del dissenso politico/intellettuale, educazione della gioventù al culto dei valori tradizionali) anche sul piano sociale. La lotta politica era forte, ma circoscritta prevalentemente all'interno delle forze armate. Le due fazioni maggiori erano quelle del Kodo (che vedevano l'URSS come nemico e obiettivo principale) e del Tosei (che individuavano invece la Cina come campo naturale dell'espansione economico/politica del Giappone). Lo scontro tra le due frange vide uscire vittoriosa quella del Tosei, che ebbe così il pieno controllo della vita politica del paese.
Tra le grandi potenze, quella che per motivi geografici ed ideologici seguiva con maggiore apprensione gli sviluppi della situazione era l'URSS. L'indecifrabilità della politica giapponese spinse la diplomazia sovietica a giocare su più tavoli. Il suo primo tentativo fu un miglioramento dei rapporti bilaterali con il Giappone (vendita dissimulata della ferrovia orientale), ma la situazione alla frontiera siberiana continuò ad essere tesa fino ad arrivare agli scontri, sempre più violenti, tra il giugno 1937 ed il 1939. All'URSS non rimase quindi che giocare la carta cinese, ma ciò era reso difficile dalle intenzioni di Chiang Kai-shek, intento ad eliminare i comunisti dal suo paese. Incontro ai sovietici venne però l'incidente di X'ian: Chiang Kai-shek venne imprigionato da un signore della guerra cui egli andò a chiedere collaborazione e fu liberato solo dopo essersi impegnato a collaborare con i comunisti ed adottare maggiore fermezza nei confronti del Giappone.
Il 7 luglio 1937, senza una formale dichiarazione di guerra, il Giappone diede inizio a operazioni militari su larga scala nel territorio cinese, facendo indiscriminato ricorso all'aviazione. In pochi mesi i giapponesi occuparono Pechino e Nanchino (teatro di orrendi massacri), costringendo il leader cinese a spostare la capitale. Malgrado gli insuccessi, i cinesi opposero una tenace resistenza. Tra Guomindang e comunisti venne stretto un accordo, in base al quale questi ultimi integrarono le loro armate nell'esercito nazionale (mantenendo il controllo delle loro basi, ma ponendo fine alla repubblica sovietica proclamata nel 1931). La guerra si preannunciava dunque di lunga durata.
Così come la questione spagnola, anche quella giapponese aveva assunto le dimensioni di un problema internazionale e ciascuno stato era tenuto a definire il proprio atteggiamento. L'URSS lo fece, concludendo il trattato di non aggressione con la Cina ed inviando sul territorio i propri consiglieri militari. L'isolazionismo degli americani e degli inglesi, spinse la Cina a ricorrere alla SdN. Come già accaduto dopo l'invasione mancese, anche in questo caso l'assemblea ginevrina si limitò a condannare l'aggressione giapponese, senza far cenno ad eventuali sanzioni. A sostenere i nipponici erano le stesse potenze che appoggiavano il pronunciamento franchista in Spagna. Tra Germania e Giappone, infatti, nel novembre 1936 venne firmato il "patto antikomintern" (sottoscritto un anno più tardi anche dall'Italia), il cui scopo dichiarato era la difesa della "civiltà occidentale" dalla minaccia del comunismo internazionale.
La guerra civile spagnola e l'aggressione giapponese alla Cina introducevano dunque nel sistema delle relazioni internazionali nuovi e consistenti elementi di destabilizzazione. Le reazioni dei singoli stati furono diverse a seconda del loro grado di coinvolgimento e della loro percezione dei rischi che per essi derivavano dalla nuova situazione. Ciò che mancava, in sostanza, era una percezione della globalità del pericolo e della sfida in atto.

Capitolo 18: "Verso la guerra"

18.1 - Dall'Anschluss a Monaco

Il 5 novembre 1937 Hitler convocò i suoi uomini e presentò loro la sua visione dei grandi problemi internazionali. Il suo obiettivo era quello di assicurarsi, per mezzo della forza, quello "spazio vitale" di cui la Germania aveva bisogno. Le perplessità mostrate da buona parte dei partecipanti a quella riunione spinsero il Fuhrer, qualche mese più tardi, ad operare un cambio della guardia (con la nomina, tra gli altri, di von Ribbentrop agli esteri e dello stesso Hitler a capo delle forze armate). Il leader tedesco era convinto dell'insostenibilità a medio termine della sua politica di riarmo. L'unica via d'uscita da questa impasse era dunque costituita da un'espansione, che egli aveva deciso di intraprendere, accettando tutti i rischi che da essa potessero derivare.
Nel contempo, la Francia viveva la sua consueta instabilità politica, mentre la ben più consolidata Inghilterra doveva affrontare un'opinione pubblica fortemente refrattaria all'essere coinvolta nelle vicende del continente, malgrado l'intensificazione degli sforzi per il riarmo del governo Chamberlain. La sua politica estera fu quindi volta a ricercare una composizione delle controversie in atto, nel senso dell'appeasement.
Un primo test era rappresentato dai rapporti con l'Italia, seriamente deterioratisi in seguito alla questione etiopica. Il governo Baldwin cercò già di sistemare le cose a suo tempo, con la firma del "gentlemen's agreement" nel quale le due parti si impegnarono a rispettare la libertà di navigazione nel Mediterraneo. Il trattato venne però compromesso da diversi attacchi sottomarini compiuti dalla flotta italiana, spingendo gli inglesi a convocare una conferenza internazionale sulla pirateria, alle cui decisioni l'Italia aderì di controvoglia. Le trattative tra i due paesi vennero riprese da Chamberlain e culminarono nella firma degli "accordi di Pasqua" (aprile 1938), che consistevano nella riconferma del gentlemen's agreement e nella promessa che il corpo di spedizione italiano in Spagna si sarebbe ritirato a fine guerra, a fronte del riconoscimento dell'impero italiano in Etiopia. La linea dell'appeasement, da parte inglese era dunque seguita sia nei confronti della Germania, che nei confronti dell'Italia. Chamberlain, per facilitare la linea del suo governo, promosse la rimozione dei "falchi" dagli incarichi che essi ricoprivano.
Il 12 febbraio 1938, Schuschnigg, disponibile a nuove concessioni a favore dei tedeschi, venne ricevuto da Hitler. Il Fuhrer si dimostrò del tutto insensibile alle richieste del leader austriaco ed anzi gli impose condizioni leonine, tra cui l'elezione a ministro degli interni di Seyss Inquart (suo uomo di fiducia). Gli atti di forza di Hitler al rientro in patria di Schuschnigg, spinsero quest'ultimo alle dimissioni a favore di Inquart. Il presidente della repubblica austriaco si rifiutò però di firmare, così che Inquart si auto-proclamò e chiese l'intervento sul territorio austriaco delle truppe tedesche. L'11 marzo l'armata varcò il confine e, due giorni più tardi, l'Austria venne incorporata nel Reich. L'impresa di Hitler fu facilitata da Mussolini, che diede carta bianca al Fuhrer, ottenendo in cambio "eterna riconoscenza".
In seguito all'Anschluss, la situazione più precaria divenne quella della Cecoslovacchia, braccata a ovest dal Reich e minacciata all'interno dal Partito dei Sudeti Tedeschi, che reclamava una larghissima autonomia. Tra Francia ed Inghilterra prevalse la linea di spingere il governo cecoslovacco a fare concessioni ad Hitler e, al tempo stesso, spingere su di lui affinché moderasse le sue richieste. Nel settembre 1938, Chamberlain ed Hitler ebbero un incontro, dove il cancelliere tedesco ribadì la sua richiesta di congiungimento dei Sudeti al Reich. Chamberlain si impegnò ad adoperarsi presso i governi di Parigi e di Praga e così fece. Pochi giorni più tardi, il primo ministro inglese incontrò nuovamente Hitler e rimase sorpreso quando questo rincarò le sue pretese, chiedendo la smilitarizzazione dei Sudeti e mettendo sul tavolo delle trattative la questione delle rivendicazioni territoriali che nel frattempo polacchi e ungheresi avevano avanzato ai danni della Cecoslovacchia. Una schiarita si ebbe a fine mese, quando Mussolini raccolse l'invito di Chamberlain di promuovere una conferenza a quattro, nella quale affrontare la questione cecoslovacca. La conferenza si riunì a Monaco il 29 settembre 1938: nelle poche ore di riunione, le richieste di Hitler si addolcirono leggermente riguardo ai tempi per l'occupazione dei Sudeti, ma soprattutto il premier inglese ottenne la promessa che ogni altra questione che toccasse gli interessi dei due paesi sarebbe stata risolta mediante consultazioni. Chamberlain, Daladier e Mussolini fecero il loro ritorno in patria accolti da folle che salutavano in loro i salvatori della pace.

18.2 - Da Monaco alla guerra

Le conseguenze di Monaco furono avvertite in particolar modo nell'Europa orientale, dove il sistema di alleanze e contrappesi che per anni ebbe garantito la stabilità della regione, non sopravvisse alla crisi cecoslovacca. La Francia, che ne era stata il principale garante, perse alla conferenza gran parte della sua credibilità, completando poi l'opera con la firma di un patto di non aggressione con la Germania. Nel vuoto così determinatosi ebbero libero corso le tensioni etniche nei vari stati della regione. Incoraggiati dalla Germania, i polacchi occuparono Teschen, nel distretto ceco, mentre l'Ungheria si impadronì della parte meridionale della Slovacchia.
Nel contempo, all'interno delle potenze fasciste dilagò il razzismo. Nella notte tra il 9 ed il 10 novembre 1938 (la "notte dei cristalli"), Hitler scatenò un raid contro gli ebrei (decine di morti, migliaia di deportati, centinaia di sinagoghe distrutte e di negozi saccheggiati). In quegli stessi giorni, in Italia vennero emanate le prime leggi "per la difesa della razza".
Proseguiva intanto la corsa al riarmo: Inghilterra e Germania aumentarono gli stanziamenti per gli armamenti, Chamberlain introdusse la coscrizione obbligatoria e Hitler denunciò l'accordo navale anglo-tedesco del 1935. Il motivo per cui l'Inghilterra decise l'adozione di una misura così impopolare, fu il precipitare degli eventi. Il 15 marzo 1939, in seguito alla dichiarazione di indipendenza dei nazionalisti cattolici slovacchi, le truppe tedesche entrarono in Boemia e Moravia, mentre gli ungheresi si impadronirono della Rutenia subcarpatica. Trascorsero pochi giorni e i tedeschi occuparono anche un distretto della Lituania, da tempo rivendicato dal Fuhrer. Le successive pretese la Germania le avanzò su Danzica (dal 1919 "città libera" sotto il controllo della SdN), entrando così in conflitto con la Polonia (che fino ad allora aveva partecipato al bottino germanico), al punto di denunciare il patto tedesco-polacco del 1934. Nel frattempo, anche Mussolini volle far vedere i muscoli e procedette così all'occupazione dell'Albania (aprile 1939).
Se in Francia, nonostante tutto, non si riuscì a reagire in modo fermo alle sempre crescenti pretese di Hitler, l'opinione pubblica inglese, viceversa, trovò quella compattezza mancatale nel corso delle crisi mancese e spagnola. Il 31 marzo il governo inglese dichiarò di sostenere "con tutti i mezzi" la Polonia, nell'eventualità di un qualsiasi attacco tedesco. Alcune settimane dopo, anche la Francia si associò a questa dichiarazione di garanzia, che fu successivamente estesa anche alla Romania.
Agli inizi di maggio, quelli che erano gli schieramenti che si sarebbero affrontati nel corso della seconda guerra mondiale cominciarono a delinearsi nettamente. Proprio nel maggio 1939, infatti, cedendo alle reiterate pressioni tedesche, Italia e Germania firmarono il "Patto d'acciaio" (i tedeschi si impegnarono a rispettare la frontiera del Brennero e a non sollevare la questione della minoranza altoatesina; l'Italia si impegnò a sostenere la Germania in caso di conflitto, ma solo a partire dal 1943). Considerando inamovibile la posizione isolazionista degli USA, l'unica incognita era relativa all'URSS. Il 18 aprile, il ministro degli esteri russo Litvinov intavolò trattative per una garanzia comune inglese, francese e sovietica, estesa a tutti i paesi confinati con l'Unione Sovietica. La sostituzione del filo-occidentale Litvinov con Molotov (uomo di fiducia di Stalin) fu però il segnale di un cambiamento di rotta della politica estera russa. Le trattative comunque proseguirono, per incagliarsi poi sulla "questione polacca". La Polonia non era infatti disposta a consentire il passaggio delle truppe russe sul suo territorio in caso di guerra con la Germania e ciò fece saltare il possibile accordo tra le parti. Dal canto suo, la Germania (ai cui generali Hitler comunicò già a maggio l'intenzione di invadere ad ogni costo la Polonia) propose alla Russia un patto di non aggressione, in modo da poter tranquillizzare i militari, che non correvano così il rischio di dover combattere su due fronti. A Mosca la suggestione fu accolta, ma i diplomatici sovietici cercarono di tergiversare in attesa degli eventi. Atteggiamento del tutto contrario rispetto a quello tedesco, volto ad accelerare il più possibile i tempi della firma. Il 20 agosto venne firmato un trattato commerciale tra i due paesi, seguito, tre giorni più tardi, dalla stipula del patto di non aggressione. La notizia dell'accordo fu un trauma per tutti coloro che guardavano l'URSS come il baluardo dell'antifascismo e della lotta per la pace. Il 25 agosto, Francia ed Inghilterra confermarono e formalizzarono gli impegni assunti con la Polonia. Il Giappone, invece, indignato dalla violazione tedesca del patto antikomintern, rompette le trattative in corso da tempo per un'alleanza militare tedesco-nipponica ed avviò contatti con la diplomazia sovietica per una tregua sulla frontiera siberiana. Il cammino verso la guerra non era più interrompibile. Il primo settembre le truppe tedesche varcarono la frontiera polacca. Due giorni più tardi, Francia ed Inghilterra lanciarono un ultimatum alla Germania, che fu ovviamente rifiutato. All'Inghilterra si affiancarono anche i dominions, alcuni dei quali proposero indipendentemente la dichiarazione di guerra alla Germania.

Capitolo 19: “La seconda guerra mondiale”

19.1 – Il primo anno di guerra

La strategia che Hitler intendeva seguire e di fatto seguì nel corso della prima fase della guerra non è, a ben vedere, dissimile da quella che aveva guidato la sua politica estera: mettere di volta in volta la controparte di fronte ad un fatto compiuto, attenderne la reazione e regolarsi di conseguenza. Nelle sue idee, dunque, la guerra non era altro che una successione di campagne fulminee e vittoriose. Ciò si verificò regolarmente in Polonia, la cui capitale Varsavia capitolò il 28 settembre 1939, a sole quattro settimane dall’inizio delle ostilità.
Hitler decise così di passare alla mossa successiva, cioè l’invasione della Francia. Le resistenze dei suoi ufficiali e le necessità di un’accurata preparazione della campagna fecero trascorrere ben sette mesi (“drole de guerre”) nel corso dei quali le operazioni militari ristagnarono. La mancata offensiva sul fronte occidentale da parte alleata è a sua volta spiegata da due motivazioni differenti: da un lato l’impreparazione degli eserciti franco-inglesi; dall’altro la convinzione che tra Germania e Russia si stesse formando un’aperta cooperazione e che la seconda fosse decisamente più vulnerabile della prima (attacco da nord con l’appoggio alla Finlandia aggredita dai sovietici; da sud, partendo dal Medio Oriente in direzione dei pozzi petroliferi di Baku). Nell’aprile fu la Germania ad assumere l’iniziativa, invadendo la Danimarca e la Norvegia, sulle cui coste era sbarcato un contingente alleato. Il 10 maggio 1940 ebbe inizio la campagna di Francia che, come da progetto, interessò Olanda e Belgio, corridoio che le truppe tedesche utilizzarono per entrare e dilagare sul territorio settentrionale francese. L’avanzata venne fermata da Hitler il 24 maggio, per permettere al contingente britannico di rientrare in patria, per essere poi ripresa a giugno e sfociare nell’ingresso a Parigi (14 giugno). A pochi giorni dal crollo della capitale francese, Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia. Il governo francese si dimise e ad esso subentrò (con sede a Vichy) un gabinetto presieduto da Pétain (l’uomo di Verdun), che firmò l’armistizio con Germania (secondo cui la Francia settentrionale e la costa atlantica della Manica fino ai Pirenei vennero sottoposte a un regime di occupazione) e Italia (zona di occupazione lungo il confine alpino).
Dopo la disfatta della Francia, il successivo obiettivo di Hitler era l’Unione Sovietica. Convinto di poter concludere altrettanto rapidamente la questione, il Fuhrer volle però rassicurare i suoi generali sul fatto che essi non si sarebbero dovuti trovare a combattere su due fronti. Iniziò pertanto una politica di leggera apertura verso l’Inghilterra, che però fu stroncata sul nascere dalla risolutezza del nuovo premier Winston Churchill. Scartata l’ipotesi di uno sbarco sulle coste inglesi (operazione “Leone marino”), Hitler diede il via, tra il mese di settembre e quello di ottobre, ad una violenta battaglia aerea, che si concluse però a favore della Royal Air Force inglese, anche grazie all’utilizzo dei radar.

19.2 – Dalla guerra europea alla guerra mondiale

A un anno dall’inizio delle ostilità, solo le maggiori potenze dell’Europa centrale e occidentale erano coinvolte nel conflitto. Una prima estensione dei teatri di guerra al Mediterraneo e all’Africa Settentrionale si ebbero in seguito all’intervento italiano. Successivamente, nell’ottobre 1940, una “missione militare” tedesca si insediò in Romania, assicurando alla Germania il controllo del petrolio ivi presente. La replica di Mussolini fu l’invasione della Grecia, che si rivelò però fallimentare e fece svanire l’illusione del Duce di poter condurre una “guerra parallela” in piena autonomia dall’ingombrante partner tedesco. Al fallimento greco, si aggiunsero infatti le sconfitte del corpo di spedizione italiano in Africa settentrionale ed in Etiopia, nonché le gravi perdite inflitte alla flotta del Mediterraneo da parte della Royal Navy. Il nuovo teatro aperto nei Balcani, da sempre lacerati da rivalità etniche e da contrapposti nazionalismi, costrinse Hitler, in procinto di lanciare l’invasione dell’URSS (operazione Barbarossa), ad assicurarsi un retroterra sicuro. Nell’aprile 1941, le truppe tedesche penetrarono quindi in Jugoslavia, dilagando e prendendo il controllo di tutta la penisola balcanica, compresa l’isola di Creta.
Le operazioni militari contro l’URSS iniziarono il 22 giugno 1941 e il loro sviluppo iniziale sembrò confermare pienamente le previsioni di una campagna breve e vittoriosa (oltre tre milioni di soldati russi imprigionati nei primi sei mesi di conflitto). La guerra combattuta in Russia si differenziava da quella sul fronte occidentale, per il suo carattere totale, di autentica guerra di sterminio. L’intenzione di Hitler era infatti quella di colonizzare il paese sovietico, spartendolo in commissariati del Reich. In quanto agli ebrei, il Fuhrer decise per la “soluzione finale” (conferenza del Wannsee, il 20 gennaio 1942), il cui svolgimento venne affidato alle SS.
Rimaneva l’incognita dell’atteggiamento che avrebbero assunto gli Stati Uniti. L’11 marzo 1941, Roosevelt (eletto per la terza volta presidente) fece approvare al Congresso una legge che lo autorizzava a “vendere, affittare o prestare” aiuti (incluse armi e munizioni) a paesi minacciati di aggressione e la cui sicurezza fosse giudicata negli interessi degli USA. Una complicata parafrasi per indicare implicitamente l’Inghilterra. Nel luglio dello stesso anno, alcuni contingenti americani si insediarono in Islanda. Seguì un incontro tra Roosevelt e Churchill, nel corso del quale venne sottoscritta la “Carta atlantica”. L’opinione pubblica statunitense, tuttavia, era ben più interessata agli sviluppi della situazione nell’area del Pacifico, piuttosto che a quelli della guerra europea. Il patto “Tripartito”, firmato nel settembre 1940 da Giappone, Germania ed Italia, sancì l’impegno reciproco delle tre potenze ad aiutarsi in caso di attacco da parte americana. All’accordo seguì, nel luglio 1941, l’occupazione giapponese dell’Indocina francese. Gli USA risposero sequestrando tutti i beni giapponesi presenti in america, mentre l’Inghilterra e i suoi dominions dichiararono la rottura delle relazioni diplomatiche con il Giappone e l’emanazione di un pesante embargo. L’economia giapponese ne risultò strangolata e le vie di uscita a questo problema erano poche. Dopo un breve tentativo di trattativa, l’esercito nipponico sferrò un massiccio attacco aereo alla flotta americana alla fonda a Pearl Harbor, infliggendole gravissime perdite. La saldatura tra il teatro di guerra sorto nel Pacifico e quello europeo fu operata da Hitler e Mussolini, che l’11 dicembre 1941 dichiararono guerra agli Stati Uniti.

19.3 – Le strategie dei due blocchi contrapposti

La conduzione di una guerra mondiale implica una strategia anch’essa mondiale, di carattere non soltanto militare, ma anche e soprattutto politico. Ciascuno dei contendenti, in sostanza, è tenuto a dichiarare per quale tipo di “ordine nuovo” si batte e quale sistema di relazioni internazionali intende costruire.
Germania, Italia e Giappone, che nel settembre 1940 sottoscrissero il patto Tripartito, non si dotarono di un organismo di comando comune, ma si limitarono (gennaio 1942) a firmare a Berlino un accordo militare con il quale si delimitavano le rispettive zone di operazione. Di fatto, ciascuno condusse la “sua” guerra, perseguendo i “suoi” obiettivi. Non sarebbe potuto essere altrimenti, data la lontananza geografica e l’inconsistenza di obiettivi politici comuni, non solo tra i Paesi, ma anche al loro interno (solo in Germania, la visione di Ribbentrop, che prevedeva un futuro in cui URSS e Germania fossero partner di livello mondiale, si scontrava con quella di Hitler, che intendeva colonizzare l’Unione Sovietica e creare un codominio mondiale anglo-tedesco).
Per quanto riguarda invece il blocco opposto, sin dal giugno 1940 Roosevelt autorizzò il capo di stato maggiore delle forze armate americane, il generale Marshall, a prendere contatto con i suoi colleghi inglesi per l’elaborazione di una strategia comune. Nel gennaio 1942, immediatamente dopo la conferenza Arcadia che succedette Pearl Harbor, venne decisa la costituzione di un organo militare comune: i Combined Chiefs of Staff. La strategia militare si basava su di un presupposto fondamentale, quale la priorità assegnata alla lotta contro la Germania rispetto a quella contro il Giappone (“Germany first”). Sul piano politico, il documento fondamentale della strategia anglo-americana fu la Carta Atlantica, resa pubblica il 14 agosto 1941, quando gli USA non erano ancora entrati nel conflitto. La Carta si rifaceva ai 14 punti di Wilson (ripetuta riaffermazione del diritto di autodeterminazione per tutti i popoli) ed al patto Briand-Kellogs (abbandono dell’impiego della forza nelle relazioni internazionali). Il documento esordiva con l’affermazione che i suoi firmatari “non aspirano a in gradimenti territoriali o d’altro genere” e si pronunciava per la restituzione dei “diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza”, un’affermazione che valeva, oltre e ovviamente che per i territori sottoposti all’occupazione tedesca, anche per quelli annessi all’Unione Sovietica. Si auspicava infine, esplicitamente, la “definitiva distruzione della tirannia nazista”.

 

 

19.4 – La grande svolta

Il 7 novembre 1941, nel discorso per l’anniversario della rivoluzione d’ottobre, Stalin fece leva sui sentimenti patriottici del popolo russo. L’appello fu raccolto dal suo esercito: nei primi giorni di dicembre l’offensiva tedesca venne bloccata e l’Armata Rossa poté procedere alla controffensiva, forte dei rinforzi giunti dalla Siberia. L’illusione hitleriana dell’ennesima campagna-lampo era ormai svanita. L’iniziativa militare rimaneva tuttavia nelle mani delle potenze del Tripartito. In Asia, il Giappone si impadronì del Pacifico meridionale e della Birmania, dalla quale minacciava da vicino l’India. Nell’Africa settentrionale le truppe italiane, cui dal febbraio 1941 si era affiancato un corpo di spedizione tedesco guidato dal generale Rimmel, passarono nel maggio all’offensiva raggiungendo in un mese El Alamein. In Asia, le truppe tedesche stanziate a Nord e a Sud diedero contemporaneamente inizio alle operazioni previste da una direttiva di Hitler: le prime mossero alla volta di Leningrado e le seconde puntarono invece ai pozzi petroliferi di Baku. La conquista di Leningrado, complice l’eroica resistenza della città, fallì. Viceversa, a sud le armate tedesche riuscirono a penetrare in profondità fino a raggiungere il Caucaso. Si delineò quindi la possibilità di una mossa a tenaglia tedesco-giapponese, ma Hitler si rifiutò di appoggiare la richiesta di indipendenza indiana, che avrebbe permesso all’esercito nipponico di entrare sul territorio.
La rivincita alleata si materializzò in tre diversi eventi. Tra il 4 ed il 6 giugno, nei pressi delle isole Midway, la flotta americana inferse gravissime perdite a quella giapponese, che perse così il controllo sui mari. A novembre, il generale Montgomery sconfisse le truppe italo-tedesche nella battaglia di El Alamein, dando il la a quell’avanzata che si sarebbe conclusa con l’espulsione delle forze al comando di Rimmel da tutta l’Africa settentrionale. Infine, sempre nel mese di novembre, i sovietici passarono al contrattacco sul fronte meridionale, riuscendo ad isolare e circondare l’armata del generale Paulus nella città di Stalingrado, che dovette capitolare nel febbraio 1943.
La battaglia di Stalingrado fu la grande vittoria morale di Stalin, che divenne così per gli alleati un interlocutore obbligato ed esigente.

19.5 – I rapporti tra gli alleati e la questione del secondo fronte

Nel periodo compreso tra la stipulazione del patto Ribbentrop-Molotov e l’avvio dell’operazione Barbarossa, l’atteggiamento di Stati Uniti ed Inghilterra nei confronti dell’URS era caratterizzato da una forte dose di diffidenza. L’aggressione hitleriana determinò però una situazione del tutto nuova: da potenziale nemico, l’URSS era infatti divenuta un cobelligerante. I primi contatti presi da Stalin con le forze alleate risalgono dunque al luglio 1941; essi erano caratterizzati dalla richiesta di fornitura di aiuti militari e dell’apertura di un secondo fronte militare. La prima richiesta trovò un parziale accoglimento con un accordo firmato nell’ottobre, mentre la seconda rimase a lungo inascoltata. L’argomento che Stalin avanzava, cioè che l’URSS sosteneva il peso maggiore del conflitto in corso, non era però oppugnabile e si faceva perciò sempre più difficile poterlo ignorare.
Nel corso della conferenza Arcadia, Churchill presentò un piano che prevedeva come primo passo uno sbarco in forze sulla costa nordafricana (operazione Torch), mentre da parte americana si prospettò la soluzione di un attacco che partisse dall’Inghilterra e puntasse al cuore dell’Europa mediante uno sbarco sulle coste francesi (operazione Overlord). I comandi anglo-americani, malgrado la promessa dell’apertura di un fronte francese entro il 1942 fatta a Stalin, optarono per la soluzione africana. Per dimostrare a Stalin la bontà della scelta fatta, Churchill non esitò a lanciare un’operazione suicida, con uno sbarco di 6'000 uomini sulle coste francesi di Dieppe, rapidamente annientati dai tedeschi. L’8 novembre 1942, le truppe comandate da Eisenhower diedero il via all’operazione Torch, prendendo terra nei pressi di Casablanca ed occupando tutta la regione circostante fino all’Algeria. L’esercito dell’Asse, circondato da Montgomery a est ed Eisenhower ad ovest, dovette trincerarsi in Tunisia, stato appartenente all’Africa francese. La confusa situazione geopolitica fu sfruttata dal generale Charles De Gaulle, che riuscì a ottenere così la legittimazione da parte americana, per poi diventare leader del Comitato di liberazione francese, creato nel giugno dell’anno successivo. Il 14 gennaio 1943, a Casablanca, si riunirono Roosevelt e Churchill: dalla conferenza uscirono il progetto di uno sbarco in Sicilia e il principio della “resa incondizionata”, utile per assicurare a Stalin che le dilazioni nell’apertura del secondo fronte europeo non nascondevano nessuna manovra o secondo fine.
Al contrario delle potenze fasciste, la “strana alleanza” riuscì a stabilire sul piano militare un certo grado di coordinamento. Le cose, ovviamente, erano molto più difficili sul piano della cooperazione politica. Da questo punto di vista, l’unico effettivo punto di convergenza era costituito dal fatto che le tre grandi potenze della coalizione combattevano lo stesso nemico. E’ per questo che la parola “antifascismo” apparve sempre più frequentemente nei documenti politici scritti in comune. Esso si rivelò, alla prova dei fatti, un’idea-forza e un potente fattore di mobilitazione.

19.6 – La resistenza

Sul piano militare, fatta eccezione per la Jugoslavia e, in misura minore, per la Polonia, la Resistenza ebbe un rilievo ed un ruolo che solitamente si tende a sopravvalutare.

  • Unione Sovietica: il movimento partigiano russo si venne sviluppando nelle retrovie tedesche. Esso arrivò a coinvolgere 800'000 uomini e si integrò all’esercito regolare; dal punto di vista politico, si caratterizzava per il patriottismo, di una patria la cui immagine si identificava con quella del partito e di Stalin;
  • Jugoslavia: quello della Jugoslavia era un territorio segnato da profondi contrasti etnici, sui quali fecero leva gli occupanti italo-tedeschi. La Croazia venne costituita in uno stato indipendente autonomo, comprendente anche parte della Bosnia-Erzegovina. La minoranza serba, che ammontava al 30% della popolazione, si trovò soggetta ad una feroce persecuzione, che provocò 750'000 vittime. Il movimento di resistenza che si venne sviluppando in Serbia, dopo uno scontro con il generale Draza Mihajlovic, fu guidato dal comunista Josif Broz Tito. La sua concezione era quella di una lotta di liberazione nazionale aperta a tutte le etnie del paese. Nel novembre 1942 egli costituì il Fronte di liberazione nazionale, un vero e proprio esercito che consentì alla Jugoslavia di essere l’unico paese dell’Europa orientale la cui liberazione venne praticamente portata a termine prima dell’arrivo dell’Armata Rossa sovietica;
  • Cecoslovacchia: i contrasti etnici e la mancanza di uno stabile collegamento tra i gruppi che operavano rispettivamente in Boemia, Moravia e in Slovacchia fecero sì che, a differenza della Jugoslavia, in Cecoslovacchia nessuna efficace attività militare venne portata a termine;
  • Polonia: la prima iniziativa per l’organizzazione della Resistenza polacca venne presa dal governo in esilio del generale Silkorski, con la costituzione dell’Armia Krajowa, inquadrata dai militari ed alla quale aderirono tutti i partiti polacchi, con l’eccezione di quello comunista (disciolto nel ’38 su ordine dell’URSS). Il partito comunista, ricostituito nel 1942 con la denominazione di Partito operaio polacco, si dotò di una propria organizzazione militare, che venne denominata Armia Ludowa (decisamente meno numerosa rispetto alla controparte, ma forte degli appoggi dell’Armata Rossa). Man mano che l’esercito russo muoveva verso occidente, l’attività militare delle due formazioni si venne intensificando, sino a controllare intere zone e territori. Il primo agosto 1944, su proposta del governo in esilio, a Varsavia ebbe inizio un’insurrezione popolare. Stalin (complice uno precedente scontro con il governo polacco di Londra) non fornì alcun aiuto alla popolazione, la cui sommossa venne domata e repressa nel sangue;
  • Francia: l’appello di De Gaulle alla resistenza (pronunciato ai microfoni di Radio Londra il 18 giugno 1940) non ebbe grande eco nel territorio francese. Dopo l’avvio dell’operazione Torch e la conseguente occupazione italo-tedesca della zona libera dell’Africa francese, il movimento della Resistenza acquisì un rilievo politico importante. Sfruttando la sua abilità politica, De Gaulle diede il la alla costituzione del Conseil National de la Resistance, nel quale furono rappresentati, oltre ai movimenti di resistenza operanti localmente, anche i partiti politi e le organizzazioni sindacali. L’organismo unitario così costituito potè dispiegare tutto il suo potenziale nell’ultima fase della guerra;
  • Italia: analogamente alla Francia, anche in Italia venne costituito un Comitato di liberazione nazionale, cui aderirono tutti i partiti antifascisti, con l’esclusione dei repubblicani. La mancanza di un “De Gaulle italiano” e le differenti vedute sulla “questione istituzionale” (le sinistre premevano per l’abdicazione del re, mentre le destre vi si opponevano), resero però difficoltosa la collaborazione tra le varie forze appartenenti alla coalizione. Lo scoglio fu superato grazie all’iniziativa di Palmiro Togliatti, che avanzò la proposta di rinviare la questione istituzionale e di costituire un governo in cui fossero rappresentati tutti i partiti del Cln, con l’obiettivo primario della liberazione del paese (“svolta di Salerno”);
Germania: per ovvi motivi la Resistenza tedesca non poteva essere che una “resistenza d’élites”. Elites operaie superstiti alla falcidia operata dalla Gestapo, intellettuali, studentesche, ma soprattutto militari. Man mano che si diffuse la convinzione di una sicura sconfitta, furono infatti molti gli alti ufficiali tedeschi (tra cui Rommel) a schierarsi contro il Fuhrer. Solo i militari avevano la possibilità di assumere l’iniziativa e lo fecero adottando la forma di lotta più violenta e disperata, quale era l’attentato alla persona di Hitler (operazione Walchiria). Dopo vari tentativi andati a vuoto, il 20 luglio 1944 si cercò la soluzione finale, con una bomba depositata sotto la scrivania del leader tedesco. Anche questo tentativo si rivelò però vano.

19.7 – Dalla campagna d’Italia alla fine della guerra in Europa

Nella prima metà del 1943, la situazione militare sui vari fronti volse decisamente a sfavore delle potenze dell’Asse. Nel maggio le truppe italo-tedesche dovettero arrendersi in Tunisia; a luglio, un tentativo di offensiva tedesca nel settore centrale del fronte russo (operazione Zitadelle) venne respinto; il 10 luglio gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia.
A questo punto, le visioni di Churchill e di Roosevelt sul modo in cui proseguire la guerra erano discordanti. Il primo ministro inglese ipotizzava di risalire la penisola italica, per puntare da qui ai balcani ed al “ventre molle” d’Europa. Il leader americano, il cui punto di vista finì per prevalere, era invece convinto della necessità di aprire, entro il 1944, il secondo fronte sulla costa francese.
Nel frattempo, in Italia la situazione precipitò. Nella notte tra il 24 ed il 25 luglio 1943, Galeazzo Ciano e Dino Grandi fecero approvare al Gran Consiglio un ordine del giorno nel quale si invitava il re a riprendere la pienezza dei poteri, esautorando di fatto Mussolini (che il giorno successivo fu fatto arrestare). Il nuovo governo, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, cercò inizialmente di tranquillizzare l’ormai ex-alleato tedesco, dichiarando che la guerra proseguiva con gli stessi intenti di quando era iniziata. I tedeschi però fiutarono l’aria che tirava e penetrarono in forze in Italia. L’8 settembre venne reso pubblico l’armistizio firmato con gli alleati: a re e governo non rimase altro che fuggire da Roma e rifugiarsi a Brindisi, in territorio già controllato dagli alleati. Al nord si costituì una Repubblica sociale, con alla testa Mussolini (liberato da un reparto di paracadutisti tedeschi). L’armistizio, il cui complesso delle clausole venne sottoscritto solo a fine settembre, riconosceva di fatto la continuità della monarchia e la legittimità del governo in carico, un punto particolarmente a cuore agli inglesi. L’Italia, inoltre, sarebbe stata considerata “cobelligerante” (e come tale avrebbe goduto di qualche vantaggio nella stesura del trattato di pace) nel caso in cui avesse dichiarato guerra alla Germania. Cosa che Badoglio si affrettò a fare il 13 ottobre 1943.
L’Italia non era il solo test delle relazioni tra i membri della coalizione e neppure il più importante; dossier altrettanto spinosi rimanevano aperti, quali quelli relativi a Polonia, Balcani e soprattutto Germania. Si decise così di convocare, a Teheran, quel vertice tra i capi di stato, che fino a quel momento non era stato possibile realizzare. Il comunicato finale della conferenza faceva esplicito riferimento all’impegno alleato di aprire il secondo fronte nel maggio 1944, ma non conteneva indicazioni precise per quanto concerne le varie questioni sul tappeto. Orientamenti di massima furono comunque elaborati, quale quello di riconoscere Tito come interlocutore degli alleati in Jugoslavia e di compensare a ovest i territori che la Polonia avrebbe dovuto cedere ai sovietici in seguito al ristabilimento della linea Curzon. Fu sempre in questa occasione, che Roosevelt espose per la prima volta sua proposta di costituire un’Organizzazione delle nazioni unite, nella quale Stati Uniti, Inghilterra, URSS e Cina (lasciando trasparire, con quest’ultima inclusione, la sua politica anti-colonialista) avrebbero costituito una sorta di direttorio.

19.8 – Da Teheran alla vittoria in Europa

Nel corso del 1944, la Germania nazista venne gradualmente costretta a ritirarsi da tutti i territori che aveva occupato nei primi anni di guerra. In Italia, gli eserciti anglo-americani, dopo aver liberato Roma e Firenze si assestarono sulla Linea gotica (a ridosso dell’Appennino tosco-emiliano); i Russi, liberata Kiev, raggiunsero ad agosto il corso della Vistola; ad ottobre gli inglesi sbarcarono ad Atene e, con la collaborazione dei partigiani greci e jugoslavi, espulsero gli occupanti tedeschi dalla penisola balcanica. Nel frattempo, il 6 giugno 1944, un imponente corpo di spedizione alleato sbarcò sulle coste della Normandia, aprendo quel secondo fronte tanto richiesto dai sovietici. Sfondando le linee nemiche nei pressi di Avranches, il 31 luglio gli anglo-americani liberarono Parigi. Contemporaneamente, un altro corpo di spedizione prese terra nei pressi di Tolone, liberando la Francia meridionale. A uno a uno anche i satelliti della Germania (Romania, Finlandia e Bulgaria) abbandonarono il loro campo. La reazione tedesca alla concentrica offensiva alleata fu rabbiosa e concentrata sul fronte occidentale. Londra e l’Inghilterra del sud furono sottoposte ad un massiccio bombardamento, grazie alle nuova “arma segreta” hitleriana: i missili a lunga gittata V1 e V2. Nel dicembre, la Germania lanciò una controffensiva nelle Ardenne che fece registrare inizialmente un notevole successo. Sul fronte orientale, però, le truppe sovietiche penetrarono profondamente in territorio tedesco, assestandosi a 50 chilometri da Berlino e dando così la spallata finale alle residue speranze di Hitler.
All’interno dell’European Advisory Commission (un organismo creato appositamente per studiare il futuro assetto della Germania) ci si venne orientando verso il criterio della divisione della Germania in zone di occupazione, riconoscendo di fatto l’unità economica e politica del paese ed il conseguente abbandono dei progetti di “smembramento”, avanzati in precedenza da più parti.
Il 9 ottobre 1944, a Mosca, Churchill visitò Stalin, in quell’incontro che è passato alla storia per lo scambio dei bigliettini che avvenne tra i due. In essi, scritti di suo pugno dal leader inglese, vi erano annotati in termini percentuali i gradi di influenza che i due paesi avrebbero dovuto avere in una serie di stati dell’Europa balcanica (90% di influenza sovietica in Romania, 50% in Ungheria e Jugoslavia, ecc…). Churchill, però, non mancò di sottolineare ripetutamente che ogni eventuale accordo era comunque subordinato all’approvazione da parte americana.
Il 6 febbraio 1945, in un momento in cui la capitolazione della Germania sembrava imminente, i tre grandi (Churchill, Roosevelt e Stalin) si incontrarono a Yalta, producendo nel corso della conferenza un cospicuo numero di decisioni e documenti finali. Per quanto riguarda la situazione polacca, vennero confermati gli orientamenti già espressi a Teheran; in merito alla Nazioni Unite, venne invece accolta la richiesta sovietica secondo cui il diritto di veto fosse possibile anche nei casi in cui uno dei membri del Consiglio di Sicurezza fosse coinvolto nella questione in discussione. Non furono compiuti progressi sul problema della Germania e soprattutto sulla connessa questione delle riparazioni, fortemente volute dall’URSS, ma alle quali erano fermamente contrarie Inghilterra e Stati Uniti. La Francia venne ammessa nell’EAC, con la conseguente assegnazione di una zona di occupazione in Germania, da ricavarsi tra quella inglese e americana. A margine della conferenza, Roosevelt e Stalin raggiunsero un accordo secondo cui l’URSS si impegnava a dichiarare guerra al Giappone entro due o tre mesi dalla fine della guerra con la Germania, ricevendo in compenso alcuni territori marittimi nel Pacifico. A tutte queste decisioni, si aggiunsero le “dichiarazioni sull’Europa liberata”, dove venivano previste libere elezioni in tutti i paesi ed una pace sicura e duratura, che potesse garantire a tutti gli uomini, di tutti i paesi del mondo, di vivere liberi dalla paura e dalla necessità.
Tra la conferenza di Yalta e la fine della guerra in Europa trascorsero 3 mesi. Il 16 aprile gli eserciti alleati, dopo aver forzato il Reno, si incontrarono con le avanguardie sovietiche; il 28 Mussolini venne fucilato dai partigiani Italiani ed il 30 aprile Hitler si suicidò nel bunker della Cancelleria, con i Russi già impadronitisi di Berlino. L’8 e il 9 maggio, il generale tedesco Jodl firmò l’atto di resa rispettivamente con gli alleati occidentali e con i sovietici.

19.9 – La fine della guerra nel Pacifico

Dopo la sconfitta nella battaglia navale delle isole Midway, i giapponesi persero la superiorità navale di cui avevano precedentemente disposto. L’iniziativa passò da quel momento nelle mani degli americani, sviluppandosi nella cosiddetta strategia dei “balzi del ranocchio”. I giapponesi non rimasero però inattivi sul fronte terrestre: nel marzo 1944 un’armata nipponica, partendo dalla Birmania, sferrò un’offensiva in direzione dell’India. L’esercito faceva affidamento sull’insurrezione della popolazione indiana, che però non ci fu e causò in questo modo il fallimento del tentativo. Diversamente andarono le cose sul fronte cinese, dove le truppe giapponesi passarono all’azione nell’aprile, conseguendo notevoli successi e riuscendo a impadronirsi della base americana di Henyang. La guerra nel Pacifico sembrava dunque destinata a perdurare a lungo. Con ciò si spiegano le pressioni esercitate sull’URSS da parte anglo-americana, affinché anche Stalin dichiarasse guerra al Giappone.
Il 9 ed il 10 marzo, due ondate di bombardamenti su Tokio causarono più di 80'000 morti. Il 26 luglio, al Giappone venne presentato un ultimatum congiunto cino-anglo-americano: le pressioni dei militari, però, non permisero che l’orientamento favorevole all’accettazione del governo Suzuki venisse reso pubblico. Il silenzio venne interpretato dagli alleati come un diniego e con ciò proseguirono le operazioni militari. L’elaborazione dell’ultimatum venne conclusa in un momento in cui Truman, il nuovo presidente americano succeduto a Roosevelt, era stato informato che la sperimentazione della prima bomba atomica effettuata ad Alamogordo il 19 luglio era riuscita.
Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica della storia venne lanciata su Hiroshima, provocando 70'000 morti. Due giorni più tardi l’URSS dichiarò guerra alla Cina ed invase la Manciuria. Il 9 agosto, anche Nagasaki fu sottoposta ad un bombardamento atomico. Neppure una settimana più tardi, il 14 agosto, l’imperatore Giapponese si pronunciò per l’accettazione dei termini della resa, che venne firmata il 2 settembre a bordo della corazzata americana Missouri.

 

Parte terza – L’età del bipolarismo e dello sviluppo

 

Capitolo 20: “Il mondo nel dopoguerra”

20.1 – Desolazione e speranze del dopoguerra

Le operazioni militari della seconda guerra mondiale investirono un’area assai più vasta di quella prevalentemente europea che era stata teatro della prima. In Europa solo la Svezia, la Svizzera, gli stati della penisola iberica e l’Irlanda riuscirono a mantenersi neutrali. All’esterno del vecchio continente, invece, si combatté nell’area del Pacifico, nell’Asia sud-orientale (fino alle frontiere indiane), in Africa settentrionale e nel Medio Oriente. Rimasero esclusi l’Africa subsahariana e il continente americano, che tuttavia partecipò alla guerra (conferenza panamericana di Rio del 1942, a seguito della quale Messico, Brasile ed Argentina ruppero le relazioni diplomatiche con le potenze del Tripartito). La cifra complessiva dei caduti può essere valutata solo per approssimazione, ma essa supera comunque i 50 milioni.
A guerra finita non erano finite le sofferenze che essa aveva generato. Al di là dei milioni di tedeschi che vennero espulsi dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia e dall’Ungheria, dei rifugiati italiani dell’Istria e dei sopravvissuti all’Olocausto, milioni di cittadini europei vivevano in un regime di sottoalimentazione. Molti di essi riuscirono a sopravvivere solo grazie agli aiuti dell’Unrra, un’agenzia delle Nazioni Unite: la produzione agricola europea del 1946-47 era infatti pari al 75% del livello pre-bellico e ciò spiega perché le misure di razionamento introdotte durante la guerra vennero mantenute per vari anni.
Se queste erano le condizioni dell’agricoltura, quelle dell’industria non erano molto migliori. Il dissesto totale dei trasporti, il disordine e la non convertibilità delle monete, con i conseguenti effetti negativi sulle importazioni e sul commercio internazionale e la bassa produttività di una manodopera sottoalimentata non permettevano infatti che un’utilizzazione parziale degli impianti.
L’umanità aveva dunque toccato il fondo e aveva ora voglia di tornare a vivere. Mai, nella storia dell’età contemporanea, vi fu ovunque nel mondo tanta speranza e tanta volontà di fare tabula rasa del passato e di cominciare una vita nuova. Non vi è perciò da stupirsi se, in tutte le consultazioni elettorali che si svolsero negli anni dell’immediato dopoguerra, registrarono il successo quei partiti che più apertamente si pronunciavano per la rottura con il passato e per il cambiamento.
La prima e più clamorosa manifestazione venne del più stagionato e compassato dei paesi europei, quale era l’Inghilterra, dove le elezioni del luglio 1945 videro il trionfo dei laburisti, dando così il benservito a Winston Churchill. Analoga volontà di rottura con il passato si riscontrò in Francia, dove nacque la Quarta Repubblica, con l’adozione di una nuova costituzione. A capo del governo vi era Charles De Gaulle e del suo gabinetto facevano parte ministri socialisti e comunisti. In Italia, nell’assemblea costituente del giugno 1946, gli elettori concentrarono i loro suffragi sulla neonata Democrazia Cristiana (“un partito di centro che guarda verso sinistra”) di Alcide De Gasperi; alle elezioni politiche del 1946 venne abbinato un referendum istituzionale in seguito al quale l’Italia cessò di essere una monarchia e divenne una repubblica. Il trono italiano non fu l’unico a cadere nel dopoguerra: altrettanto avvenne infatti in Romania, Bulgaria, Jugoslavia ed Albania. Anche in Cecoslovacchia le prime elezioni del dopoguerra videro un’affermazione delle sinistre, mentre in Ungheria raccolse la maggioranza assoluta dei voti il partito dei contadini, maggior sostenitore della riforma agraria attuata nella primavera del 1945. Negli altri paesi dell’Europa orientale, ormai inseriti nella sfera di influenza sovietica, le elezioni segnarono la vittoria di blocchi nei quali il partito comunista occupava una posizione predominante (Romania e Jugoslavia nel 1945, Bulgaria nel 1946). Esternamente all’Europa, meritano di essere segnalati i casi del Giappone (dove i socialdemocratici prevalsero sui liberali, designando il nuovo premier) e degli USA (dove a sorpresa venne riconfermato il democratico Harry Truman).
I programmi sulla base dei quali i partiti progressisti raccolsero il sostegno popolare variavano naturalmente da paese a paese. In Europa occidentale il loro cavallo di battaglia era rappresentato dalla richiesta di nazionalizzazioni (attuate su vasta scala in Inghilterra, Francia ed Austria). Ciò valeva anche per i paesi dell’Europa dell’est, dove però la rivendicazione più sentita era quella di una riforma agraria (attuata in modo radicale in Ungheria, Polonia e Germania orientale; selettivamente in Cecoslovacchia, Romania ed Albania; marginalmente in Bulgaria e Jugoslavia).
Nel mondo coloniale, le aspirazioni al rinnovamento passavano obbligatoriamente attraverso la fine della colonizzazione e la conquista dell’indipendenza. Nelle elezioni indiane del 1945 si affermarono i partiti sostenitori dell’indipendenza. La febbre indipendentista contagiò anche la Birmania, dove la Lega antifascista, uscita vincitrice dalle elezioni del 1947, proclamò l’indipendenza l’anno successivo. In Viet Nam, subito dopo il bombardamento americano di Hiroshima, Ho Chi Minh costituì un comitato di liberazione del popolo vietnamita e proclamò l’indipendenza del paese. Quasi contemporaneamente, un’analoga dichiarazione venne fatta dal movimento indipendentista indonesiano. Nelle Filippine, invece, una volta estromessi gli occupanti giapponesi, divenne operativo il Tyding McDuffie Act del 1934, in base al quale era stato loro garantita l’indipendenza per il 1946.
In Medio Oriente acquisirono l’indipendenza, rispettivamente nel 1943 e nel 1946, i mandati francesi del Libano e della Siria. Nel primo, il trasferimento dei poteri avvenne senza spargimento di sangue, ma altrettanto non si può dire per la Siria, dove la Francia inviò un nuovo contingente militare (maggio 1945) per piegare la resistenza dei nazionalisti siriani, senza esitare a bombardare la capitale Damasco. Siria e Libano, nel marzo 1945 si associarono con gli altri stati indipendenti della regione (Egitto, Irak, Yemen, Arabia Saudita e Transgiordania) nella costituzione della Lega araba, il cui obiettivo principale sarà la lotta contro l’immigrazione ebraica in Palestina e contro lo stato di Israele.
Tra i paesi del Maghreb, quello nel quale le istanze autonomiste o indipendentiste si manifestarono in maniera più aperta fu l’Algeria, la cui insurrezione popolare del maggio 1945 venne repressa.
Per quanto riguarda le colonie francesi in Africa, la conferenza di Brazzaville del gennaio-febbraio 1944 convocata da De Gaulle si impegnò a trasformare l’impero coloniale in un’unione di stati con parità di diritti. Tale impegno venne però bocciato dagli elettori francesi, provocando una delusione negli ambienti degli evolués africani, sfociata nella costituzione del Rassemblement Démocratique africain (Rda), un partito cui facevano parte rappresentanti delle diverse colonie. Non si registrarono peraltro, nei paesi africani dell’unione francese, episodi di protesta di una certa consistenza. La sola eccezione è quella del Madagascar, dove il tentativo insurrezionale, promosso nel dicembre 1947 dai partiti usciti vittoriosi alle elezioni amministrative dell’anno precedente, venne represso in un bagno di sangue che fece migliaia di vittime.

20.2 – L’America e il mondo

La potenza cui larghissimi settori dell’opinione pubblica mondiale guardavano come a quella che più era in grado di assumersi il gravoso compito di svolgere un ruolo di leadership era rappresentata dagli Stati Uniti. A conflitto finito, la riconversione di un’economia di guerra in un’economia di pace comportava però delle difficoltà anche per un paese ricco come gli USA. La crescita della domanda, se da un lato evitò il rischio di una ricaduta nella recessione, dall’altro innescò la spirale inflazionistica. Il 1946 fu un anno turbolento dal punto di vista delle agitazioni sociali e le elezioni di mezzo termine che si tennero nel novembre diedero la maggioranza, sia al Congresso che al Senato, ai repubblicani. Nel giugno 1947, appunto su proposta repubblicana, venne approvata una legge che limitava drasticamente le libertà sindacali. La risposta del presidente Truman fu l’uso spropositato del diritto di veto e l’avvio di un programma di aumenti salariali e di estensione dell’assistenza pubblica sul modello rooseveltiano (“Fair Deal”). Queste scelte consentirono ai democratici di vincere le presidenziali del 1948 (a differenza del cambio di guardia che succedette il termine della prima guerra mondiale).
La situazione politica si era così stabilizzata e con essa anche quella economica. Il prodotto interno lordo continuò ad aumentare ad un tasso sostenuto, così come i consumi (trainati da automobili, elettrodomestica ed abitazioni). Al contrario, a scendere fu la disoccupazione. Nel paese si creò dunque un clima di euforica sicurezza. Ne è testimonianza il “baby boom” degli anni ’50, che portò ad un aumento della popolazione quantificabile in ben trenta milioni di unità.
Dal punto di vista militare, non si poteva certo dire che gli Stati Uniti stessero male: 1'200 navi, dozzine di portaerei, 3'000 bombardieri, basi e diritti di sorvolo estesi su quasi tutto il pianeta. Vero è che, subito dopo la guerra, gli effettivi dell’esercito vennero ridotti, così come gli stanziamenti da parte del governo. Le risorse vennero però investite con intelligenza, puntando ad un processo di modernizzazione dell’apparato bellico e di un suo adeguamento alla mutata natura della guerra.
Oltre ad essere il più grande arsenale del mondo, gli USA erano anche il più grande magazzino. Nonostante una riduzione della popolazione attiva impiegata nell’agricoltura, essi erano i maggiori esportatori di semi di soia, di frumento e di carne, nonché i maggiori contribuenti dell’Unrra.
Infine, non si può certo sorvolare sulla concentrazione di cervelli e di competenze sul suolo americano, dovuta in gran parte alla fuga dall’Europa della miglior intellighenzia.
Esistevano dunque tutte le condizioni affinché gli Stati Uniti ponessero la loro candidatura a quella leadership cui avevano rinunziato dopo il primo conflitto mondiale.

20.3 – Gli accordi di Bretton Woods

Negli ambienti politici americani, ma non solo in quelli, ciò che ci si auspicava per il futuro era un mondo privo di barriere doganali e senza protezionismi, in cui le persone e le merci potessero circolare liberamente, dove le monete fossero pienamente convertibili ed in cui, infine, la cooperazione tra gli stati si sostituisse alla vecchia politica delle sfere di influenza. Fu a questo fine che due équipes di esperti, dirette rispettivamente da Keynes in Inghilterra e da White negli Stati Uniti, elaborarono dei piani che avevano in comune l’obiettivo di evitare un ripetersi della situazione degli anni ’30, quando ognuna della grandi potenze cercò di uscire a modo suo dalla depressione, senza preoccuparsi dei riflessi internazionali delle proprie azioni.
L’orientamento che emerse al termine dei lavori della conferenza convocata a Bretton Woods (luglio 1944), si avvicinava molto a quello che era il “piano-White”. Tale indirizzo era basato sulla fissazione di tassi di cambio fissi tra le varie monete e sulla loro convertibilità per la transazione delle partite correnti. Venne istituito il Fondo Monetario Internazionale (finanziato dai paesi aderenti, con una quota proporzionale al PIL ed alla loro partecipazione al commercio internazionale), la cui principale funzione sarebbe stata quella di venire in aiuto a quei paesi che si fossero trovati ad affrontare una situazione di squilibrio strutturale della propria bilancia dei pagamenti, senza dover ricorrere a svalutazioni della moneta. Al Fondo venne affiancata una Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, con il compito di finanziare la ricostruzione in quei paesi danneggiati o devastati dalla guerra.
Ad affiancare gli accordi di Bretton Woods (approvati dall’ONU nel luglio 1945, ma con cinque anni di “elasticità” per quanto riguardava la convertibilità delle varie monete nazionali) si rendeva necessaria ora una cooperazione di stampo politico tra i paesi interessati. L’organo principale a cui sarebbe toccato questo compito era ovviamente la neonata ONU, che nell’immediato dopoguerra contava 51 stati membri. Il diritto di veto esteso a tutti i membri permanenti, però, annullava la sua capacità di produrre decisioni politiche di rilievo, trasformando l’organo in una tribuna politica.

20.4 – Le relazioni anglo-americane nel primo dopoguerra

Nel maggio 1945, subito dopo la fine della guerra in Europa, la legge affitti e prestiti di cui aveva largamente beneficiato l’Inghilterra venne bruscamente interrotta dal governo USA. Il vasto programma di riforme sociali e di nazionalizzazioni che i laburisti si accingevano a varare, poteva ora essere realizzato solo con un concorso economico da parte dell’alleato americano.
Dopo aspre e lunghe discussioni, nel luglio 1946 la Camera dei rappresentanti di Washington approvò la concessione di un prestito per l’ammontare di 3,75 miliardi di dollari, alla condizione che le sterline usate per le transazioni correnti fossero rese convertibili e che fossero tolti i vincoli alle importazioni provenienti dagli Stati Uniti. Ciò non fu però sufficiente a migliorare la situazione finanziaria ed economica dell’Inghilterra, che anzi si venne gravemente e rapidamente deteriorando. Il governo laburista si trovò così dinnanzi ad una drammatica alternativa: ridimensionare la propria presenza e la propria politica “imperiale” o rinunciare al suo ambizioso e impegnativo programma di riforme. A prevalere fu la prima ipotesi: nel gennaio 1947, le truppe inglesi si ritirarono dalla Grecia e dalla Turchia; il 15 luglio venne firmato l’India Independence Bill; nel maggio 1948, dopo che anche la Birmania si rese indipendente, l’Inghilterra rinunciò ai propri mandati sulla Palestina, sull’Africa e sull’America latina.
Nonostante gli inglesi conservassero ancora una forte presenze in vaste aree del pianeta (in particolare nel Medio Oriente, ricco di pozzi petroliferi), il paese aveva cessato di essere quel direttore d’orchestra che era stato per tutto il XIX° secolo, cedendo la bacchetta agli Stati Uniti.

20.5 – L’URSS e il mondo

L’URSS era uscita dalla guerra con una popolazione falcidiata e, per questo motivo, il processo di ricostruzione necessitava di tutte le braccia disponibili. L’Armata Rossa subì una massiccia smobilitazione e, tra il 1947 ed il ‘48, le truppe di occupazione russe vennero ritirate dalla Cecoslovacchia, dalla Jugoslavia, dalla Bulgaria e dalla Corea (mentre restarono quelle dislocate in Polonia, Ungheria e Romania). Nonostante dal punto di vista militare l’Unione Sovietica non rappresentasse una minaccia, essa era comunque una grande potenza; ne sono testimonianza le affermazioni dei partiti comunisti nelle prime elezioni del dopoguerra. A fare da contraltare vi era però la paura, diffusa in molti ambienti, che l’URSS potesse esportare la rivoluzione sul suolo dell’Europa occidentale, sfruttando proprio questi partiti.
Dal punto di vista sociale, le diffuse speranze di pace e prosperità nutrite dalla popolazione vennero presto vanificate da Stalin, il cui potere mantenne inalterato il carattere dispotico dell’anteguerra. I campi di concentramento continuarono infatti ad esistere e venne reintrodotta la pena di morte.
La ricostruzione venne impostata sulla base dei piani quinquennali: quello varato nel ‘46 raggiunse buoni risultati per quanto riguarda l’industria pesante, ma svantaggiò la produzione di beni di consumo e l’agricoltura, che continuò ad essere la Cenerentola dell’economia sovietica: il tenore di vita della popolazione rimaneva infatti ai livelli del 1928.
In politica estera, Stalin rimase fedele al ruolo isolazionista che egli aveva ritagliato per l’URSS, convinto che una nuova guerra fosse inevitabile (date le contraddizioni interne del sistema capitalistico) e che fosse quindi importante mantenersi il più a lungo possibile estranei al conflitto. Nei suoi programmi, dunque, non vi era nessuna prospettiva di rivoluzioni socialiste nell’Europa occidentale.

Capitolo 21: “La guerra fredda”

21.1 – La questione della bomba

Agli inizi del 1947, gli Stati Uniti non disponevano che di 14 ordigni nucleari, la cui capacità di essere armi risolutive in caso di un nuovo conflitto era ancora tutta da dimostrare. Sebbene gli USA non disponessero neppure di mappe aggiornate relative alla dislocazione degli obiettivi strategici russi, vi era chi già si rendeva conto che la scoperta della scissione dell’atomo avrebbe alla lunga modificato la natura stessa della guerra, aprendo scenari apocalittici.
Nella conferenza tra i ministri degli esteri, svoltasi a Mosca nel dicembre 1945, venne approvata la proposta americana di costituire una commissione per l’energia atomica, sotto l’egida dell’ONU, che si insediò nel gennaio 1946. Fu proprio a questa commissione che gli Stati Uniti proposero il cosiddetto “piano Baruch”; esso prevedeva la costituzione di un authority che censisse tutte le risorse di uranio e materiali fissili esistenti al mondo, controllando, mediante ispezioni in loco, il loro utilizzo a fini pacifici. Secondo il piano, una volta avviato questo complesso organismo, tutti i paesi che già disponevano della bomba avrebbero dovuto provvedere a distruggerne ogni scorta. Questo significava però che gli USA avrebbero avuto ancora per diversi anni il monopolio dell’arma nucleare: una proposta inaccettabile per l’URSS, che avanzò invece l’ipotesi di distruggere immediatamente tutti gli ordigni nucleari esistenti al mondo e bandirne la costruzione. Inutile aggiungere che il rifiuto, questa volta, fu degli americani. A pregiudicare le residue speranze di un accordo contribuirono inoltre l’esperimento condotto dagli USA sull’atollo di Bikini (alla presenza di osservatori sovietici) e l’approvazione del Mac Mahon Act (agosto 1946), con il quale gli Stati Uniti sospesero ogni scambio di informazioni in materia nucleare con i paesi esteri, Inghilterra compresa. Nel frattempo, però, la situazione venne cambiando: in Unione Sovietica, nel giugno 1948, entrò in funzione il primo reattore non sperimentale, cui seguì, poco tempo dopo, il primo test atomico nell’atmosfera. Le prime scintille di quella “guerra fredda” che andava delineandosi, si accesero nella vecchia Europa, territorio che entrambe le parti ritenevano decisivo.
21.2 – Prodromi europei della guerra fredda

Dopo la conferenza di Potsdam, la soluzione delle questioni relative all’Europa rimaste in sospeso furono deferite al consiglio dei ministri degli esteri delle potenze vincitrici. Esso si riunì per la prima volta nel settembre 1945, senza giungere a nessun provvedimento degno di nota, ma appesantendo invece il clima, per via della presa di posizione degli alleati occidentali, che si rifiutarono di riconoscere i governi di Romania e Bulgaria, data la fortissima ingerenza sovietica su di essi. Il successivo incontro ebbe luogo a Mosca nel dicembre e si rivelò meno deludente del primo: venne infatti approvata la costituzione della commissione per l’energia atomica, vennero fissati tempi e modalità per la conferenza di pace e furono riconosciuti i governi bulgaro e romeno.
Il 29 luglio 1946 poté così aprirsi la conferenza della pace di Parigi, cui parteciparono 21 stati. Il trattato più laborioso fu quello concluso con l’Italia: Gorizia venne assegnata al Belpaese e la nuova linea di frontiera tagliava ora in due l’Istria (Trieste e l’entroterra furono dichiarati territorio libero sotto l’egida dell’ONU); l’Alto Adige rimase territorio italiano, con la promessa di riservargli una forte autonomia; la Francia ebbe alcune piccole concessioni sull’arco alpino; l’arcipelago del Dodecanneso fu assegnato alla Grecia; la Libia fu dichiarato stato indipendente; il governo italiano ottenne un mandato decennale sulla Somalia e le riparazioni vennero fissate in 360'000 dollari. Anche gli altri stati ex nemici, quali l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria e la Finlandia, furono leggermente modificate nei loro confini. Rimaneva però aperta la questione più spinosa, ovvero quella tedesca. Nonostante a Potsdam si fosse confermata la decisione di considerare la Germania un’unità economica, ciascuna potenza occupante governava ed amministrava la zona assegnatale autonomamente ed in modo indipendente da ciò che accadeva nelle altre zone. Di conseguenza, negli anni del dopoguerra, la produzione industriale della Germania aumentò in una misura quasi impercettibile ed i consumi della popolazione rimasero ai limiti della sopravvivenza. Era chiaro che tale situazione non sarebbe potuta durare a lungo: l’orientamento che prevaleva nei governanti anglo-francesi era decisamente favorevole ad una divisione verticale del paese. Il pensiero sovietico, al contrario, non era per nulla chiaro. Il desiderio di una Germania unita, cui guardava con benevolenza Stalin, era contraddetto dall’Armata Rossa e dal sistematico prelievo delle riparazioni, basato sullo smantellamento di qualsiasi cosa fosse trasportabile, che essi praticavano.

21.3 – La dottrina Truman

Verso la metà del 1946 i rapporti tra i vincitori della seconda guerra mondiale apparivano dunque logorati, ma non definitivamente compromessi. I trattati di pace con i paesi vinti erano infatti stati firmati (fatta eccezione per quello con la Germania) e i loro governi riconosciuti; in Cecoslovacchia ed Ungheria governavano gabinetti usciti da libere elezioni; i partiti comunisti italiano e francese collaboravano con i rispettivi governi. Nel maggio dello stesso anno, venne inoltre risolta la querelle iraniana, con il ritiro dal territorio delle truppe di occupazione sovietiche.
Nel frattempo, però, quello che veniva profilandosi nell’opinione pubblica e nei circoli dirigenti americani era un mutamento sostanziale. Se ne ebbe la sensazione quando Truman criticò aspramente l’operato del suo ministro degli esteri Brynes alla conferenza di Mosca del dicembre 1945, accusandolo di essere eccessivamente conciliante nei confronti dei russi e costringendolo alle future dimissione. A ciò si aggiunse poi il discorso della “cortina di ferro” di Churchill, che invitava a dar prova di forza, quale unica virtù che i sovietici riconoscevano. Nello stesso lasso di tempo, giunse a Washington il “lungo telegramma” dell’ambasciatore americano a Mosca, George Kenann. La sua analisi della situazione politica escludeva la possibilità di una cooperazione e di un compromesso con l’URSS, raccomandando una politica di “contenimento”, intesa principalmente a prevenire ogni sovversione comunista nelle aree forti del mondo (Inghilterra, Giappone, Europa centrale ed occidentale).
Questo irrigidimento delle coordinate della politica estera americana portò ad un piano per la fusione delle zone di occupazione inglese e americana in Germania, attuata nel dicembre 1947 (creazione della “bizona”), a cui aderì in seguito anche la Francia, nel marzo 1948. Era ormai scontata la futura divisione della Germania.
Se la Germania rimaneva il pomo della discordia, attriti e tensioni si manifestarono anche in altre aree ed in particolare nel bacino del Mediterraneo. Da tempo, infatti, l’URSS esercitava pressioni sulla Turchia rivendicando la restituzione di alcuni distretti, mentre in Grecia si era riaccesa la guerra civile tra i partigiani comunisti (sostenuti dalla Jugoslavia di Tito) e le forze governative. Il presidente Truman chiese al Congresso lo stanziamento di 400 milioni di dollari da destinarsi ai governi greco e turco perché fossero in grado di difendere la propria integrità territoriale e politica. Il presidente, peraltro, non si limitò a questo, ma enunciò anche un principio generale: l’impegno degli Stati Uniti a difendere “i popoli liberi del mondo” dalle minacce e dalle aggressioni del “totalitarismo”. Era questa la cosiddetta “dottrina Truman”, che introduceva nella guerra fredda un elemento ideologico per cui il contrasto tra le due grandi potenze assumeva il carattere di uno scontro tra due opposte e inconciliabili visioni del mondo.

21.4 – Il piano Marshall

Le iniziative sin qui viste possono essere considerate solo schermaglie di una partita ingaggiata su più fronti, o reazioni alla sempre più evidente stretta di freni che i sovietici inesorabilmente attuarono nei paesi dell’Europa orientale (elezioni manovrate in Polonia che diedero il 90% delle preferenze al blocco democratico egemonizzato dai comunisti, processo ed esecuzione del leader del partito agrario bulgaro, condanna all’ergastolo del capo del partito nazionale contadino romeno). La mossa di vero e proprio ingaggio fu quella del piano Marshall. Esso prevedeva l’impegno degli Stati Uniti nel sostenere e finanziare un progetto comune, frutto di un’intesa, se non di tutti, di un certo numero di stati europei. Esso si differenziava dai piani Dawes e Young dell’anteguerra, soprattutto perché si trattava di un “programma” e non di un semplice aiuto finanziario. Un salto di qualità che colse impreparata la compassata diplomazia sovietica. Molotov, che già a Yalta aveva fatto formale richiesta di un prestito (sempre negato) agli USA, mostrò inizialmente interesse al piano, salvo poi manifestare le sue perplessità quando si rese conto che esso presupponeva una qualche forma di limitazione delle singole sovranità nazionali, a vantaggio del paese erogatore. Il ministro degli esteri russo invitò dunque tutti i leader dei partiti comunisti europei a partecipare alla conferenza sul piano Marshall (in programma il 12 luglio 1947 a Parigi) per denunciare il “piano anglo-francese”. Da Mosca giunse però il contrordine di Stalin, preoccupato dall’eventualità che i paesi dell’Europa orientale potessero accettare gli aiuti finanziari americani, velocizzando così il processo di ricostruzione ed allontanandosi dall’URSS. Il no di Mosca aveva quindi il valore di un richiamo all’ordine e non si dovette attendere molto tempo perché esso fosse reso esplicito.
Il 21 settembre, in Polonia, si riunirono i rappresentanti di tutti i partiti comunisti dell’Europa orientale, con l’aggiunta di quelli italiano e francese. Nella conferenza venne discussa una relazione, non prevista dall’ordine del giorno, preparata da Zhdanov. Il suo leitmotiv era costituito dalla teoria della divisione del mondo in due campi: quello dell’imperialismo con alla testa gli USA e quello del socialismo, guidato dall’URSS. Zhdanov criticò apertamente l’opportunismo dei partiti francese ed italiano, che non reagirono con sufficiente energia al loro allontanamento dai governi di coalizione di cui erano parte. Dati questi precedenti, la decisione della conferenza di dar vita ad un organismo permanente di collegamento tra i partiti comunisti che vi avevano partecipato, il Cominform, suonava quale un richiamo all’ordine ed all’obbedienza verso la casa madre. Tra le diverse opzioni che si presentarono alla politica estera sovietica nell’immediato dopoguerra, insomma, aveva finito per imporsi quella tradizionale dell’isolazionismo.
Nel frattempo, la conferenza di Parigi (cui parteciparono 15 paesi dell’Europa occidentale più la Turchia e nessuno di quella orientale) si concluse il 22 settembre con l’approvazione di una relazione finale, in cui i paesi europei accettavano il principio di un coordinamento e di una cooperazione nell’ambito del piano e si impegnavano a favorire la convertibilità delle rispettive monete. Nell’aprile 1948 il Congresso dette il via libera all’Erp (European Recovery Program), stanziando per il suo primo anno la somma di 4,3 miliardi di dollari.
I vantaggi derivanti agli USA dal piano Marshall furono ben maggiori dei pur rilevanti costi economici. Se ne ebbe la prima prova in Italia, dove le elezioni dell’aprile 1947 videro un’affermazione nettissima della DC. Due anni dopo i democratici cristiani ottennero la maggioranza assoluta in Belgio; nel 1951 i conservatori tornarono alla guida del governo inglese e nel 1953 la CDU tedesca ottenne la maggioranza relativa a scapito dei socialdemocratici. Questo round della guerra fredda terminò così con una netta affermazione americana.

Capitolo 22: “Dal blocco di Berlino alla guerra di Corea”

22.1 – Il blocco di Berlino

Nel marzo 1947 i ministri degli esteri inglese e francese firmarono il cosiddetto “patto di Dunquerque”, che prevedeva l’aiuto reciproco in caso di iniziative aggressive da parte di altri stati. Un anno più tardi al patto si associarono anche i paesi del Benelux, dando origine al “patto di Bruxelles” che verrà poi denominato “Unione Occidentale”. Era evidente che la minaccia cui queste iniziative intendevano far fronte non era quella di un’improbabile revanscismo tedesco (come si affermò pubblicamente), quanto quella di un supposto espansionismo sovietico.
Sul finire del 1947, gli unici paesi dell’Europa dell’est retti da governi regolarmente eletti erano Ungheria e Cecoslovacchia. Nel primo di questi stati, le elezioni del 1947 segnarono la vittoria della coalizione del Fronte nazionale, voluta dai comunisti. Al suo interno, essi ricoprivano però un ruolo minoritario e fu solo con l’aiuto dei militari sovietici che essi riuscirono ad assicurarsi il monopolio del paese, estromettendo via via dalle posizioni di governo gli esponenti del partito contadino e applicando la prassi già sperimentata in Germania orientale, di promuovere una fusione tra partito comunista e socialista, che praticamente si risolveva nell’inglobamento del secondo nel primo (ripetuta, in seguito, anche in Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria e Polonia). In Cecoslovacchia, invece, nel febbraio 1948 i comunisti organizzarono imponenti manifestazioni popolari, che costrinsero alle dimissione i ministri non comunisti ed imposero al presidente Benes la formazione di un governo di loro fiducia. L’unico stato a opporre resistenza alla normalizzazione in atto fu la Jugoslavia, che dovette però pagare questa sua scelta con l’espulsione dal Cominform e la conseguente rottura delle relazioni con l’Unione Sovietica.
Gli eventi di Praga contribuirono ad accelerare il successivo sviluppo degli eventi ed a rilanciare la questione tedesca. Nel marzo 1948, si riunì a Londra una conferenza cui parteciparono Stati Uniti, Inghilterra, Francia e paesi del Benelux ed i cui lavori si conclusero con una dichiarazione nella quale le potenze partecipanti manifestarono la disponibilità ad “assicurare la ricostruzione economica dell’Europa occidentale, inclusa la Germania, e di stabilire una base per la partecipazione della Germania democratica alla comunità dei popoli liberi”. Una seconda conferenza, svolta a giugno, approvò un documento che estese il piano Marshall alle tre zone di occupazione alleate, decretò l’internazionalizzazione della Ruhr, auspicò la convocazione di un’assemblea costituente in Germania e varò una riforma unitaria, con l’emissione del marco unico per le zone di occupazione occidentali, ponendo così un freno all’inflazione. La risposta sovietica non si fece attendere e consistette nel blocco delle vie di accesso alla ex capitale, che ebbe inizio il 23 giugno e terminò dopo 11 mesi, il 12 maggio 1949.
In questo lasso di tempo, non solo il rifornimento della città venne comunque assicurato da un gigantesco ponte aereo che rese inefficaci le misure adottate dai russi, ma sul piano politico si assistette a un evento di portata storica, quale la firma del Patto Atlantico (4 aprile 1949). Esso prevedeva che, in caso di aggressione a uno dei contraenti, gli altri avrebbero intrapreso l’azione giudicata necessaria, ivi compreso l’impiego delle forze armate (che non era pertanto automatico). Il patto coinvolse i paesi affacciati sulle due rive dell’Atlantico del nord e, su insistenza francese, esso venne esteso anche all’Italia.
A quindici giorni di distanza dalla cessazione del blocco di Berlino, un consiglio parlamentare riunito a Bonn approvò la legge basilare della Repubblica federale tedesca. A differenza della costituzione di Weimar, agli otto Lander componenti la federazione veniva assegnata maggiore autonomia. Per evitare l’instabilità politica venne istituita la preminenza del Cancelliere, cui spettava la nomina dei ministri, nei confronti del governo; fu introdotto il concetto di “sfiducia costruttiva” e, per contro, l’elezione del presidente della repubblica doveva ora avvenire tramite il Parlamento. Il 7 settembre 1949, il Parlamento uscito dalle elezioni di agosto e riunito a Bonn, proclamò la nascita della Rft ed elesse a cancelliere Konrad Adenauer. La risposta sovietica fu la creazione, il 7 ottobre 1949, della Repubblica democratica tedesca sul proprio territorio di occupazione.

22.2 – L’area del Pacifico nel dopoguerra

A differenza che in Europa, nell’area del Pacifico gli USA godevano di una posizione di netto predominio, frutto non solo della loro presenza militare, ma anche del ruolo politico che essi svolsero nella regione. Gli Stati Uniti, unica potenza occidentale con pieni poteri, non potevano sottrarsi al compito di avviare la ricostruzione del Giappone, duramente provato dalla guerra.
I lavori dovevano ovviamente iniziare da una nuova costituzione. Una commissione giapponese iniziò dunque i lavori in tal senso, ma lo schema proposto fu giudicato troppo timido dallo Scap (l’apparato militare e politico delle forze di occupazione, guidato dal generale Douglas Mac Arthur) che decise pertanto di accollarsi in prima persona il compito. La nuova costituzione, entrata in vigore nel maggio 1947, prevedeva una democrazia parlamentare bicamerale, l’estensione del diritto di voto alle donne e la rinuncia alla guerra quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali (stessa formula adottata poi dalla costituzione italiana). Dal 1946 al ’59 i giapponesi furono chiamati per ben tre volte alle urne, segno della rinnovata vivacità politica, che portò ad una serie di riforme che investirono tutti gli aspetti della vita associata (prolungamento a 9 anni dell’obbligo di studio, fondazione di 130 nuove università, pieno riconoscimento del diritto di sciopero, radicale riforma agraria).
Gli Stati Uniti, che già avevano onorato il loro impegno di dare l’indipendenza alle Filippine, difficilmente avrebbero potuto assumere un atteggiamento di incomprensione nei confronti dei movimenti anticolonialisti esistenti nella regione. Quando l’Olanda inviò un proprio contingente in Indonesia per reprimere il movimento indipendentista di Sukarno, gli USA reagirono infatti con una mozione al Consiglio di sicurezza replicata, due anni più tardi, con l’aggiunta della sospensione degli aiuti previsti dal piano Marshall al paese europeo, che dovette così lasciare via libera alla dichiarazione di indipendenza indonesiana. Maggiori difficoltà vi furono invece in Viet Nam, dove l’impegno americano a garantirne l’indipendenza (preso a Teheran da Roosevelt) si scontrava con l’egemonia dei comunisti nell’ambito del movimento di liberazione vietnamita. Era comunque chiaro che l’evoluzione della situazione in Indocina sarebbe in larga misura dipesa dalla piega che gli eventi avrebbero assunto nel maggiore dei paesi asiatici, quale era la Cina.
L’idea che una collaborazione, in guerra e in pace, tra Guomindang e comunisti rappresentasse la più realistica soluzione del problema cinese, prendeva sempre più piede sia a Washington che a Mosca, dove la maggior parte degli esponenti politici erano convinti che i comunisti cinesi fossero essenzialmente dei nazionalisti e quindi differenti dai comunisti russi. Chi non era d’accordo con questa impostazione erano i cinesi. Nonostante il tentativo di mediazione di Marshall, nel luglio 1946 in Cina si riaccesero le ostilità. Le operazioni militari, che inizialmente videro una netta affermazione del Guomindang, cambiarono corso a partire dal luglio 1947, quando partì la controffensiva comunista. Nella primavera del 1949 i comunisti passarono lo Yang Tse ed il 1° ottobre 1949, sulla piazza Tian’an Men di Pechino, Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica popolare cinese. A guerra civile conclusa, nel febbraio del 1950, Mao si recò a Mosca per un incontro con Stalin ed i massimi dirigenti sovietici. Nel corso dell’incontro venne annunciata la stipulazione di un trattato di alleanza protettiva anti-giapponese tra Cina ed URSS. La reazione degli USA fu rapida e decisa: in Giappone venne stroncata la serie di riforme in atto, a favore di una brusca accelerazione del processo di ricostruzione. Il governo cinese non venne riconosciuto dagli Stati Uniti, che riconobbero invece Chiang Kai-Shek come unico rappresentante del paese asiatico e quindi come titolare del seggio nel consiglio di sicurezza, in qualità di membro permanente con diritto di veto. A Pechino fu inoltre imposto un embargo e fu deciso il pattugliamento navale dello stretto tra Taiwan ed il continente.

22.3 – Una nuova revisione della politica estera americana e gli inizi della corsa al riarmo

Lo shock della rivoluzione cinese e del trattato di amicizia cino-sovietico, contribuì a diffondere e consolidare, sia nell’opinione pubblica che nel mondo politico, la sensazione che la minaccia comunista fosse incombente e che dovesse di conseguenza essere contrastata con determinazione. E’ in questo contesto che, nei primi anni ’50, negli USA prese piede il fenomeno del maccartismo: quindici milioni di persone vennero inquisite a vario titolo dal Comitato per le attività antiamericane e varie personalità intellettuali abbandonarono il paese. Il movimento, che già nel 1954 era sulla via del declino, lasciò comunque una traccia profonda nell’opinione pubblica statunitense. I principali responsabili della politica estera americana non condividevano certo queste apprensioni, ma non potevano certo ignorarle. L’amministrazione Truman procedette quindi ad una revisione delle sue coordinate militari e politiche.
Nel gennaio 1950, il presidente dette il via libera al programma di ricerche finalizzato alla costruzione della bomba all’idrogeno. Tre mesi dopo, lo stesso Truman approvò un documento (passato alla storia come NSC 68), in cui si giungeva alla conclusione che gli Stati Uniti si trovavano confrontati con una “sfida mortale” e che di conseguenza la priorità assoluta era costituita dal “rafforzamento del mondo libero”. L’NSC 68 metteva anche in guardia dai rischi di un riarmo basato esclusivamente sull’arma atomica, sottolineando che se non fossero stati migliorati anche gli ordigni convenzionali, gli USA si sarebbero sempre trovati di fronte all’alternativa tra la capitolazione e l’innesco di una guerra globale. Tra il 1951 ed il 1953, la spesa militare americana raddoppiò e, nel novembre 1952, venne esplosa la prima bomba H. A meno di un anno di distanza, nell’agosto 1953, i sovietici risposero a loro volta con lo scoppio di una bomba all’idrogeno. Nel febbraio 1954 vi fu il nuovo sorpasso americano, con la sperimentazione di un ordigno nucleare della potenza di 15 megatoni, assai superiore a quello della bomba sovietica. Iniziava così una nuova fase della corsa al riarmo, che vedeva però il netto vantaggio americano (841 ordigni nucleari a disposizione contro i 50 sovietici e un sistema di basi che permetteva agli USA di colpire qualsiasi obiettivo situato in territorio sovietico).

22.4 – La guerra di Corea

Nella penisola coreana, il 38° parallelo segnava la linea di demarcazione tra la zona di occupazione sovietica a Nord (in cui si era insediato un governo guidato dal comunista Kim Il Sung) e quella americana nel Sud, dove il governo era eletto dal filoamericano Sygman Rhee. Entrambi i governi proclamavano come obiettivo principale la riunificazione del paese e ciò spiega come gli scontri lungo la frontiera fossero all’ordine del giorno. Il 25 giugno 1950, per la prima volta dal termine della seconda guerra mondiale, scoppiò una nuova guerra: le truppe della Corea del Nord varcarono infatti il 38° parallelo e dilagarono in tutta la penisola, costringendo i nemici ad arroccarsi nell’estremità meridionale del paese. La reazione di Truman fu fulminea: il giorno stesso dell’attacco, il presidente investì della questione il consiglio di sicurezza, che votò una risoluzione nella quale la Corea del Nord veniva dichiarata stato invasore. Due giorni dopo, una nuova seduta del consiglio votò una seconda risoluzione che invitava le nazioni rappresentate all’ONU ad inviare propri contingenti in Corea. E’ interessante notare come, in entrambe le occasioni, non fu presente il delegato sovietico, che come tale disponeva del diritto di veto. Nel settembre 1950 le truppe americane e i contingenti di altri paesi, guidati da Mac Arthur, sbarcarono nei pressi di Seul, costringendo i nordcoreani a ritirarsi ed assestarsi nuovamente sul 38° parallelo. Nonostante le minacce cinesi e le perplessità di Francia ed Inghilterra, Mac Arthur decise di proseguire le operazioni, invadendo, il 1° ottobre 1950, la Corea del Nord. L’azione fu vincente e, già a novembre, le truppe dell’ONU raggiunsero il fiume Yalu, che segnava il confine con la Cina. Il 26 novembre, cedendo alle pressanti richieste di Stalin, le truppe cinesi fecero la comparsa sul fronte coreano e costrinsero gli avversari a ripiegare nuovamente al di sotto della linea di confine (gennaio 1951). La situazione era dunque immutata rispetto a quella iniziale. La destituzione del bellicoso Mac Arthur (che minacciò a più riprese l’utilizzo dell’arma atomica) nell’aprile del 1951 contribuì a rasserenare il clima, al punto che, il 23 giugno, il delegato sovietico all’ONU avanzò la proposta di un cessate il fuoco, accettata da parte statunitense. A fine luglio anche le delegazioni coreane trovarono un accordo e la guerra poté così dirsi conclusa.
Il conflitto generalizzato che si temeva non vi era stato, così come l’arma atomica, malgrado le minacce, non fu utilizzata. Era la prova che una guerra poteva essere localizzata.

22.5 – Riflessi internazionali della guerra di Corea

Mai, come negli anni a cavallo della guerra di Corea, la guerra fredda meritò questo suo appellativo e mai come in quegli anni essa assunse i caratteri di un conflitto inconciliabile tra ideologie contrapposte. Fu in questa atmosfera che Stalin sostenne, in una conferenza, che la guerra si sarebbe potuta evitare solo per 3 o 4 anni e stipulò di conseguenza, con i paesi satelliti, un accordo segreto che prevedeva, in caso di conflitto, la costituzione di un esercito unico sotto comando sovietico. Per quanto riguarda gli USA, l’esperienza coreana fu una conferma della necessità di revisione operata con il NSC 68. Occorreva ora passare dall’enunciazione dei principi alla loro concreta applicazione.
L’obiettivo cui si tendeva relativamente al Giappone, era quello di trasformarne lo status da paese ex-nemico e vinto a quello di alleato, bastione della presenza americana nel pacifico. Nel settembre 1951 venne quindi elaborato il trattato di pace con il paese nipponico: le clausole territoriali lasciarono pressoché immutata la situazione determinatasi alla fine della guerra; vennero notevolmente alleggerite le riparazioni ed al Giappone fu riservato il diritto di chiedere l’ammissione all’ONU. Contestualmente, tra i due paesi venne firmato un patto di sicurezza, in base al quale gli Stati Uniti ricevettero in amministrazione fiduciaria una catena di isole del Pacifico (che sarebbero state utilizzate come basi militari) e poterono stanziare truppe americane in Giappone. A integrare ciò, vennero anche alcuni patti di “mutua assistenza”, stipulati con le Filippine, l’Australia, la Nuova Zelanda (confluiti poi nel trattato di Manila del 1954, cui aderiranno anche Inghilterra, Francia, Pakistan e Thailandia), la Corea del Sud e Taiwan. Gli USA acquisivano così il ruolo di garante e di custode della stabilità dell’intera regione, trovandosi di conseguenza coinvolti in tutte le controversie in atto o che potevano sorgere. Tra queste, la più spinosa era quella relativa all’Indocina, dove era da tempo in corso una guerra tra il Viet Minh ed il corpo di spedizione francese. La mediazione americana portò, tra il 1947 ed il ’49, la Francia a riconoscere l’indipendenza del Laos, della Cambogia e dello stesso Viet Nam.
Sull’altro versante della guerra fredda, quello atlantico, l’applicazione dell’NSC 68 comportava anzitutto la trasformazione della Nato da alleanza essenzialmente politica ad alleanza militare. Nell’aprile 1951 il generale Eisenhower fu nominato comandante supremo dello Shape (Supreme Headquarter of the Allied Powers in Europe) e quattro nuove divisioni americane vennero inviate in Europa. Il potenziamento dell’alleanza militare venne perseguito tramite il suo allargamento a paesi che non ne facevano parte, quali la Grecia e la Turchia (febbraio 1952). Tra i paesi europei affacciati su Atlantico e Mediterraneo, l’unico a non far parte della Nato era la Spagna franchista, che tuttavia venne ammessa nell’ONU nel 1950. Era però evidente che il potenziamento dell’alleanza poneva il problema del concorso che a esso sarebbe potuto venire dall’appena costituita Repubblica federale tedesca. La questione del riarmo tedesco, che gli USA sollevarono già nel 1950, era molto sentita in Europa ed in particolare in Francia. Fu proprio nel paese francese che prese corpo l’idea (“piano Pleven”) di una comunità europea di difesa (CED), costituita da un esercito integrato di 100'000 uomini, con 6 divisioni internazionali nelle quali sarebbero stati diluiti i militari tedeschi. Il trattato istitutivo della CED venne firmato nel 1952, ma la sua entrata in vigore era sottoposta alla ratifica da parte dei vari parlamenti nazionali. Quello francese, con il voto congiunto di comunisti e gollisti, espresse parere negativo nel 1954, facendo così la cadere la sola alternativa possibile ad un riarmo tedesco nel quadro dell’alleanza atlantica. Nel settembre 1954 i ministri degli esteri della Nato approvarono quindi un documento in cui si prevedeva il ristabilimento della sovranità della Rft, la sua adesione alla Nato (alla cui forza militare avrebbe contribuito con 12 divisioni) e la rinuncia, da parte della stessa Rft, a produrre armi atomiche, chimiche e batteriologiche.
La risposta sovietica arrivò nel maggio 1955, quando venne stipulato il “patto di Varsavia” tra l’URSS ed i paesi dell’Europa orientali. Esso prevedeva sostanzialmente un’assistenza, non necessariamente militare, al paese sottoscrittore che fosse stato aggredito.

Capitolo 23: “Gli alti e bassi della distensione”

23.1 – Cambio della guardia a Washington e Mosca

Le elezioni presidenziali del novembre 1952 posero fine alla ventennale sequenza di presidenze democratiche ed insediarono alla Casa Bianca il generale repubblicano Dwight Eisenhower. Il nuovo presidente era un militare di grande prestigio, ma non un militarista. Né, tanto meno, esso era un crociato della guerra fredda. Nel discorso che tenne all’ONU nel dicembre 1953, egli sottolineò infatti l’estrema pericolosità di un’eventuale guerra nucleare. Il suo segretario di stato, John Foster Dulles, noto per il suo intransigente anticomunismo, è procedette a sostituire la dottrina del containment con quella del roll back, condita dalla sua formula della “danza sull’orlo dell’abisso” (che tuttavia, per i primi anni, non si differenziò sostanzialmente dalla dottrina precedente).
Il 27 luglio 1953, a Pan Mun Jon, venne firmato l’armistizio tra le due Coree, scongiurando così il rischio di una ripresa del conflitto. Se, da una parte, il merito della ritrovata pace è da attribuire ad Eisenhower (che in prima persona si era recato in Corea quale mediatore), ad essa contribuì un altro evento di rilievo: la morte di Stalin, avvenuta a Mosca il 5 marzo 1953. In questo caso non si trattava di un semplice cambio di guardia, ma di una rottura traumatica, che comportava una revisione sostanziale dei precedenti indirizzi di governo, non solo nel campo della politica interna, ma anche in quello della politica estera. Il nuovo presidente del consiglio, Georgij Malenkov, esordì dichiarando pubblicamente che una nuova guerra avrebbe comportato “la fine della civiltà mondiale”. Tale punto di vista non era condiviso da tutti i membri della nuova “direzione collegiale” sovietica, in quanto una buona parte dei componenti riteneva che un conflitto si sarebbe concluso con la meno drastica “fine del capitalismo”. Di risolvere questa contraddizione se ne assunse il compito il nuovo segretario del partito, Nikita Chruscev, che per farlo scelse la tribuna solenne del XX congresso del partito, nel febbraio 1956. Egli illustrò il principio della “coesistenza pacifica” tra i due sistemi, quale unica alternativa ad una terza e devastante guerra mondiale. Malgrado le ambiguità del suo discorso (che di fatto non escludeva a priori lo scontro militare) era evidente che un processo di revisione delle coordinate tradizionali della politica estera sovietica era in corso.

23.2 – La breve schiarita della distensione

Se in Europa la situazione era ormai consolidata e le rispettive sfere di influenza definitivamente delimitate, ben più gravida di pericoli appariva la situazione nel Pacifico. In particolare, rimaneva aperta la questione del Viet Nam, dove erano ancora in pieno svolgimento gli scontri tra le truppe coloniali francesi e quelle del Viet Minh, appoggiate e rifornite dalla Cina. Queste ultime, nel marzo 1954, erano dilagate, arrivando a cingere d’assedio la piazza fortificata di Dien Bien Phu, che venne espugnata il 7 maggio (dopo che la proposta dell’“operazione avvoltoio” venne lasciata cadere dagli USA). Il giorno successivo, a Ginevra si aprirono i lavori di una conferenza dei ministri degli esteri cui, su proposta di Molotov, vennero convocati anche la Cina popolare, i due Viet Nam, il Laos e la Cambogia. Complice la caduta del governo francese di Laniel e l’avvento di Pierre Mendès (del quale erano note le propensioni a favore di un disimpegno francese dalla trappola vietnamita), tra il 20 ed il 21 luglio si giunse ad un accordo, in base al quale la linea di demarcazione tra i due Viet Nam firmatari veniva fissata al 17° parallelo ed i firmatari assumevano l’impegno di indire, entro il luglio 1956, libere elezioni in tutto il paese. Gli accordi di Ginevra ebbero una forte rilevanza politica, in quanto la Cina era stata per la prima volta ammessa ad un negoziato internazionale ed erano stati ristabiliti i contatti tra i rappresentanti della grandi potenze. Il mutato clima internazionale portò alla dissoluzione di altri pomi della discordia: nell’ottobre 1954 venne raggiunto un accordo sulla frontiera italo-jugoslava e, nel maggio 1955, venne firmato un trattato di stato con l’Austria che poneva fine al regime di occupazione quadripartita del paese (ma lo obbligava a dichiarare e mantenere permanentemente la propria neutralità). Successivamente, nel dicembre, venne raggiunto un accordo in base al quale una serie di stati europei, cui fino ad allora era stato precluso l’accesso all’ONU dai veti incrociati delle due superpotenze, tra i quali l’Italia, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria, l’Albania, l’Austria e la Spagna, vennero ammessi a farne parte.

23.3 – Il XX congresso del Pcus e la destalinizzazione

Il potere arbitrario e dispotico di Stalin aveva cancellato ogni regola e distinzione di competenza e di organi nell’organizzazione dello stato. La prima preoccupazione degli uomini di fiducia di Stalin che ne raccolsero l’eredità fu dunque quella di restaurare una “direzione collegiale”, tracciando innanzitutto qualche linea di demarcazione tra le funzioni del partito e quelle dello stato. La presidenza del consiglio dei ministri venne dunque affidata a Malenkov, che lasciò la segreteria del partito, le cui funzioni vennero assolte (pur senza nomina ufficiale) da Chruscev. Esisteva però nel paese un autentico stato nello stato, quale era la polizia politica, che era necessario inquadrare se davvero si voleva ristabilire la “legalità socialista”. In tal senso, a seguito di un’amnistia concessa per tutti i reati fino a 5 anni,  la polizia politica venne sottoposta al controllo del Comitato centrale e furono rimesse in libertà alcune migliaia di internati nei campi di concentramento. Il paese venne dunque rassicurato che i tempi del terrore indiscriminato e dell’arbitrio erano finiti, ma serviva un altro passo per scuotere la passività di un popolo ridotto ad un livello di vita di poco superiore a quello di sussistenza. Nell’agosto 1952 Malenkov espresse dunque il suo nuovo indirizzo di governo: revisione dei piani quinquennali a favore dell’industria leggera, dell’agricoltura e della produzione di beni di consumo, nonché aiuti fiscali ed economici ai kolchoziani, conditi dal ripristino del diritto all’auto-licenziamento degli operai. Contemporaneamente, un appello lanciato da Chruscev per la valorizzazione di alcune terre vergini venne raccolto da centinaia di migliaia di giovani volontari. Nel febbraio 1955 Malenkov venne però esonerato dalla sua carica ed al suo posto subentrò Bulganin; nella vicenda del suo allontanamento, Chruscev rivestì un ruolo non certo secondario, ma anch’egli era comunque consapevole della necessità ed improrogabilità di una riforma e di un rinnovamento del sistema politico staliniano. Dalla tribuna del XX Congresso, nel febbraio 1956, egli assunse per la prima volta la coesistenza pacifica tra i due sistemi quale principio ispiratore della politica estera sovietica, riprese l’idea già avanzata da Malenkov circa l’impraticabilità di una guerra atomica e, per la prima volta, riconobbe la possibilità di diverse vie di transizione al socialismo, ivi inclusa quella parlamentare. Il 25 febbraio, a lavori finiti e seguendo le orme tracciata da Anastas Mikojan, Chruscev denunciò i crimini di Stalin davanti ad un uditorio attonito. Il suo rapporto, che sarebbe dovuto rimanere segreto, circolò rapidamente e venne pubblicato dalla stampa straniera. In tutto il mondo ciò esercitò una forte sensazione: a Tbilisi, capitale della Georgia e patria di Stalin, vi furono manifestazioni a favore del dittatore scomparso, che sfociarono in numerosi morti.
Quello che ci si chiedeva era se alle parole sarebbero seguiti i fatti. Una prima risposta positiva a tale interrogativo arrivò dalla revisione delle accuse fatte a suo tempo agli internati nei campi di concentramento e dalla liberazione di un gran numero di essi. Il paese attendeva però un miglioramento delle condizioni di vita e non solo una riparazione dei crimini del passato. Ciò sarebbe stato possibile soltanto con una riduzione delle spese militari, iniziativa che fu adottata da Malenkov nel corso della sua breve presidenza. L’avvento di Chruscev, però, segnò la rottura con la politica isolazionista di Stalin: superando le resistenze di Molotov, si addivenne alla stipulazione del trattato di stato con l’Austria e si pose fine alla lunga diatriba ideologica con la Jugoslavia di Tito. Logica conseguenza fu lo scioglimento del Cominform. Relativamente all’area del Pacifico, venne preso atto della cessazione dello stato di guerra tra Unione Sovietica e Giappone ed i due paesi ristabilirono normali relazioni diplomatiche. I massimi dirigenti sovietici visitarono inoltre l’India, la Birmania e l’Afghanistan, a dimostrazione dell’attenzione con la quale l’URSS guardava al movimento dei non allineati. Tutte queste iniziative “distensive” di Chruscev avevano per presupposto la consapevolezza che l’Unione Sovietica era divenuta una grande potenza e ciò implicava il doversi sobbarcare gli elevati costi che una politica di grande potenza necessariamente comporta. Dal 1957 in poi, le spese militari aumentarono, così come gli aiuti ai paesi in via di sviluppo, che nel 1964 sfiorarono il miliardo di dollari. Sta qui, in questo circolo vizioso istituitosi tra politica estera e politica interna, il limite maggiore del nuovo corso chrusceviano e della politica di destalinizzazione.

23.4 – I paesi satelliti e l’insurrezione ungherese

Abbiamo già osservato come, nei paesi dell’Europa centro-orientale, le tappe principali della trasformazione da “democrazie popolari” a “stati satelliti” furono le elezioni polacche del gennaio 1947, quelle ungheresi dell’agosto, la costituzione del Cominform nel settembre e la presa del potere da parte dei comunisti in Cecoslovacchia nel 1948. Il processo di omologazione ha inizio da qui: tra il 1948 ed il 1953, tutti gli Stati dell’est europeo si dotarono di costituzioni esemplate sul modello sovietico e vararono piani quinquennali, che riproducevano gli stessi obiettivi e squilibri tra comparti economici tipici dei precedenti sovietici. Anche in questi casi, dunque, il settore più negletto fu quello agricolo, nonostante il processo di collettivizzazione venisse portato avanti con maggiore gradualità e con forme diverse rispetto alla collettivizzazione forzata dell’URSS. L’unico stato a sottrarsi da questo processo di omologazione fu la Jugoslavia di Tito. Espulso dal Cominform, il paese varò un nuovo corso di politica economica, caratterizzato dall’abbandono della collettivizzazione delle campagne, dalla formazione di consigli operai cui venne affidata la proprietà e la gestione delle fabbriche e dall’elaborazione di una propria piattaforma ideologica, basata sul recupero dell’originaria dottrina marxista-leninista a scapito della deformazione staliniana. Dal punto di vista di Mosca, il “titismo” assumeva le dimensioni di un’eresia, qualcosa di analogo al trockismo degli anni ’30. Tra il 1948 ed il 1952, una serie di processi furono intentati contro esponenti comunisti accusati di simpatizzare con le posizioni di Tito (tra questi, il segretario del partito comunista cecoslovacco Rudolf Slansky, il corrispettivo polacco Wladislaw Gomulka e molti membri della Chiesa cattolica).
Lo sviluppo che in questi anni registrarono i paesi dell’Europa orientale fu per più aspetti uno sviluppo squilibrato. All’interno di ogni singolo stato ai progressi dell’industria faceva riscontro la stagnazione dell’agricoltura e agli incrementi degli indici di produzione non corrispondevano quelli del reddito pro capite e, di conseguenza, quelli dei consumi. Progressi rilevanti furono realizzati invece per quanto riguarda la scolarizzazione di massa.
Paradossalmente, il consenso della fase iniziale dello sviluppo venne progressivamente erodendosi man mano che gli squilibri e le distorsioni che esso comportava venivano manifestandosi. La prima manifestazione di questo nuovo disagio ebbe luogo nella zona est di Berlino, con una rivolta operaia nel giugno 1953. Seguirono, quasi contemporaneamente, le manifestazioni di protesta di Pilsen, in Cecoslovacchia. Questi segnali non mancarono di suscitare allarme a Mosca. Malenkov, che era consapevole della necessità di una revisione dei rapporti tra URSS e paesi satelliti, si impegnò a perseguire lo stesso obiettivo che egli perseguiva nella sua politica interna: un riequilibrio della pianificazione che favorisse la produzione di beni di consumo e una politica economica intesa a elevare i redditi e, di conseguenza, ad allargare i consumi.
Il paese nel quale questi nuovo indirizzi trovarono maggior ascolto fu l’Ungheria, dove, nel giugno 1953, Imre Nagy era subentrato a Matyas Rakosi quale presidente del consiglio. Il suo programma, caratterizzato da una politica economica basata sulla priorità dell’industria produttrice di beni di consumo, dall’attenuazione delle misure di collettivizzazione, dalla sospensione dei campi di internamento e, più in generale, da una democratizzazione della vita pubblica, fu stroncato dal sabotaggio di Rakosi (che conservava la carica di segretario del partito) e dall’estromissione di Malenkov nel febbraio 1955. Esperienze simili a quella ungherese si ebbero in Romania, con Gheorhe Apostol ed in Cecoslovacchia con Antonin Zapotocki.
Gli avvenimenti successivi alla disgrazia politica di Malenkov, quali la riconciliazione sovietica con Tito, la riabilitazione del partito comunista polacco (sciolto nel 1938) e, soprattutto, la denuncia del culto di Stalin fatta da Chruscev, trasformarono una situazione già tesa in una situazione esplosiva.
La prima scintilla si accese il 28 giugno 1956 a Poznan, in Polonia, dove una manifestazione operaia di protesta contro alcune riduzioni salariali si trasformò in una sommossa che la polizia represse nel sangue (54 morti e 300 feriti). In agosto, un milione di persone si radunarono sulla spianata del santuario della Vergine nera di Czestochowa, luogo storico del patriottismo polacco. Eduard Ochab, segretario del partito polacco, si rese conto di come Gomulka, con il suo prestigio, fosse la sola carta di cui il partito disponesse per mantenere il movimento di protesta in atto entro i limiti del quadro politico e istituzionale esistente. Ochab decise quindi per la sua liberazione e gli affidò la carica di segretario (13 ottobre), convocando allo stesso tempo il Plenum del partito cui spettava di sanzionare tale decisione. Seguirono giornate di grande tensione, ma alla fine Chruscev accettò l’elezione di Gomulka, che dovette però impegnarsi a mantenere la Polonia all’interno del patto di Varsavia.
La vicenda dell’ottobre polacco si era appena conclusa, quando la crisi politica in atto in Ungheria entrò nella sua fase più acuta e drammatica. In seguito alla denuncia dei crimini stalinisti di Chruscev, per tutto il mese di ottobre Budapest ed altre città del paese furono teatro di sempre più imponenti manifestazioni studentesche e popolari. Ciò che chiedevano i manifestanti era il ritorno alla testa del governo del comunista riformatore Imre Nagy a scapito del suo sostituto Erno Gero (intransigente stalinista). La tensione raggiunse l’apice il 23 ottobre, quando centinaia di migliaia di cittadini invasero il centro di Budapest, costringendo il Comitato centrale del partito a riconsegnare a Nagy la carica di presidente del consiglio. Il giorno successivo, con l’avvallo dello stesso Nagy (convinto che la protesta fosse alimentata da elementi provocatori e che fosse pertanto possibile ristabilire la calma), i carri armati sovietici fecero il loro ingresso nelle vie della capitale. La protesta si trasformò però in un’autentica insurrezione armata che fece morti e feriti da entrambe la parti. I sovietici cercarono di placare gli animi degli insorti sostituendo Gero, quale segretario del partito, con Janos Kadar ed annunciando il ritiro delle truppe dal territorio ungherese (cui fu dato effettivamente corso nei giorni immediatamente seguenti). Ciò non fu però sufficiente ai manifestanti, che il 30 ottobre espugnarono la sede della Federazione comunista uccidendone gli occupanti; lo stesso giorno Nagy annunciò la formazione di un nuovo governo (il cui ministro della difesa era Pal Maleter, capo militare degli insorti), che due giorni dopo annunciò il ritiro dal patto di Varsavia. Nel frattempo, alcune dichiarazioni “distensive” provenienti da Washington, con Eisenhower impegnato nella campagna elettorale, vennero recepite come tali dall’URSS. All’alba del 4 novembre le truppe sovietiche entrarono a Budapest ed insediarono un nuovo governo “operaio e contadino”, presieduto da Janos Kadar. Imre Nagy fu costretto a rifugiarsi nell’ambasciata jugoslava, ma sarà successivamente catturato e condannato a morte.

 

 

Capitolo 24: “L’Europa occidentale e il Giappone negli anni ‘50”

24.1 – La ricostruzione nell’Europa occidentale

Il compito con cui tutti gli stati europei si trovarono a confronto, dopo la fine della guerra, fu ovviamente quello della ricostruzione. A differenza del primo dopoguerra, tuttavia, all’immediata ripresa economica non fece seguito una recessione simile a quella del 1920. Nel 1947, quando i flussi previsti dal piano Marshall non erano ancora arrivati, la produzione media dei maggiori paesi dell’Europa occidentale si assestava sull’87% del livello prebellico. Ciò era dovuto essenzialmente alle azioni di stimolo esercitate da parte dei singoli stati, accomunate nella formula di “economia mista”. In Inghilterra, nel periodo compreso tra il 1945 ed il 1951, il governo laburista varò un vasto programma di nazionalizzazione, che toccò i settori dell’industria carbonifera, elettrica, dei trasporti e la stessa Banca d’Inghilterra. In Francia, nel 1946 il parlamento approvò il “Plan Monnet”, un piano quadriennale di modernizzazione dell’apparato produttivo del paese, che mirava a favorire la grande impresa tecnologicamente avanzata. In questo contesto, un programma di nazionalizzazioni investì il settore bancario, quello assicurativo, quello dei trasporti, nonché le officine automobilistiche Renault e Berliet. In Italia, dove il fascismo aveva lasciato in eredità un sistema bancario ed un apparato industriale in cui il settore a partecipazione statale occupava un posto rilevante, i piani dell’IRI (ispirati dal Plan Monnet francese e basati sullo sviluppo dei settori meccanico, petrolchimico e siderurgico) cominciarono a trovare applicazione solo sul finire degli anni ’40. L’intervento dello stato nella maggior parte dei paesi europei non poteva però ignorare la pressante domanda di una maggior equità e giustizia sociale, proveniente dal mondo del lavoro e dalle organizzazioni sindacali ricostituitesi su base unitaria. Esse premevano per la lotta alla disoccupazione e per la messa in opera di un sistema generalizzato di protezione e sicurezza sociale. Fu sotto questi impulsi che in Inghilterra, nel 1948, entrò in vigore un servizio sanitario nazionale. Venne inoltre potenziato il sistema assicurativo, furono installati nuovi insediamenti industriali nelle aree più depresse e trovò il varo un programma di edilizia popolare. Sulla stessa lunghezza d’onda i provvedimenti adottati in Francia (1945-46) con le leggi Croizat, che estero il sistema di protezione di sicurezza sociale a tutto il lavoro dipendente. Non vi furono invece variazioni significative in Italia. Una spesa pubblica così elevata comportava però, per ogni paese, il rischio inflazionistico. L’inflazione, in forme e misure diverse, toccò infatti quasi tutti i paesi dell’ovest europeo, sebbene venne arginata in modo più che dignitoso dai vari governi. Il vecchio continente rimaneva dunque un convalescente bisognoso di cure: le bilance commerciali dei singoli paesi erano generalmente deficitarie, le risorse di monete forti molto limitate, l’economia costantemente in bilico tra inflazione e deflazione e, conseguentemente, l’equilibrio politico era del tutto instabile.

24.2 – La nascita della Cee e l’avvio dell’integrazione economica europea

Gli aiuti del piano Marshall contribuirono in maniera consistente alla ripresa dell’economia europea. Tra il 1948 ed il 1951, dodici miliardi di dollari (per lo più consistenti in forniture di materie prime) approdarono sul continente (26% in Inghilterra, 20% in Francia, 10% in Italia). Il traguardo che gli ideatori del piano si proponevano era la creazione di un’area di libero scambio comprendente i 16 paesi beneficiari degli aiuti americani, che consentisse all’Europa di inserirsi nel sistema delineato dagli accordi di Bretton Woods. Un primo passo in questa direzione sembrò essere l’insediamento, nel maggio 1949, del Consiglio d’Europa (composto da 142 membri eletti dai singoli parlamenti nazionali), cui furono però riservati poteri esclusivamente consultivi. Più rilevante apparve l’istituzione, nel settembre 1950, dell’Unione europea dei pagamenti (Uep), mediante la quale le monete dei vari paesi europei vennero rese parzialmente convertibili (rendendo così possibile il passaggio da un sistema degli scambi basato sulla bilateralità ad uno basato sulla multilateralità). Rimanevano però in vigore le tariffe doganali e le misure di tipo protezionistico adottate dai singoli stati; unica eccezione era l’unione doganale del Benelux, operativa a partire dal primo gennaio 1948.
Il piano Monnet non contemplava un’integrazione dell’economia francese nel più vasto contesto di un’economia europea. Dopo la conferenza di Londra dell’estate 1948, però, Monnet operò una revisione radicale dei precedenti indirizzi di politica economica ed estera del paese, basandosi sul presupposto che la forza politico-economica della Francia non fosse necessariamente figlia di una Germania debole. Nell’aprile del 1951 Francia, Germania federale, Italia ed i paesi del Benelux istituirono la Comunità europea per il carbone e per l’acciaio (Ceca). Il grande valore dell’accordo fu soprattutto politico: per la prima volta, cinque stati europei decidevano di delegare parte della propria sovranità ad un organismo sopranazionale e, soprattutto, per la prima volta si avviavano sulla strada di una cooperazione Germania e Francia, la cui storica rivalità era stata una delle cause di due conflitti mondiali. Tappa successiva ed ancora più importante fu la firma del Trattato di Roma del 1957, con il quale venne istituita la Comunità economica europea (Cee). L’accordo prevedeva una progressiva abolizione delle barriere doganali all’interno della comunità (eccetto che per i prodotti agricoli), la libera circolazione della manodopera e dei capitali, l’armonizzazione della legislazione sociale dei singoli stati e l’istituzione dell’Euratom, un’organizzazione europea per la ricerca e la sperimentazione nucleare, il cui scopo principale era quello di assicurare in prospettiva l’autosufficienza energetica della Comunità. Il compito di rendere esecutivi questi orientamenti venne affidato ad una commissione di 9 membri, affiancata da un comitato di ministri (con il compito di approvare, esclusivamente all’unanimità, le decisioni della commissione) e da un parlamento i cui poteri erano esclusivamente di controllo. Nel luglio 1968 venne portata a termine l’abolizione di tutti i diritti doganali all’interno della Comunità e messa a punto la tariffa doganale esterna. L’Europa assurgeva così al rango di grande potenza commerciale, cui aderirono anche Grecia e Turchia. La Cee che si era venuta costituendo era qualcosa di diverso rispetto a ciò che avevano ipotizzato gli ideatori del piano Marshall. Innanzitutto essa era una “piccola Europa”, cui non facevano parte l’Inghilterra ed  paesi scandinavi. In secondo luogo, essa era protetta da una tariffa doganale esterna e si era dotata di una struttura esclusiva. Si era dunque creata una situazione anomala: se sul piano militare la comunità era integrata nell’Alleanza atlantica, dal punto di vista economico essa faceva parte per se stessa.

24.3 – Il Giappone negli anni ‘50

L’inizio di quell’ininterrotto sviluppo economico che ha portato il Giappone a divenire la seconda potenza industriale del mondo fu la guerra di Corea. Grazie alle commesse per l’esercito dell’ONU, l’industria nipponica potè riavviare i suoi motori ed iniziare un periodo di costante ascesa. Già nel 1953 il livello della produzione superò di una volta e mezzo quello dell’anteguerra. Tra il 1951 ed il 1961 le esportazioni raddoppiarono e mutarono sia qualitativamente (non più prodotti dell’industria tessile, ma macchine utensili, motociclette e soprattutto navi), sia in quanto a destinazione (gli USA divennero infatti il maggior importatore di prodotti nipponici). Il Giappone non era del tutto autosufficiente sotto il profilo alimentare e non poteva vantare larghe risorse di materie prime: nello stesso arco di tempo, anche il livello delle sue importazioni raddoppiò.
A rendere possibile una siffatta performance concorsero vari fattori. Da un punto di vista economico, furono certamente rilevanti una spesa militare non superiore all’1% del reddito nazionale lordo, la qualità e preparazione dei managers, l’intraprendenza e audacia di taluni capi d’industria (Honda in primis), il flusso costante di investimenti da parte delle banche (l’altissimo costo delle abitazioni rendeva loro disponibili ingenti masse di risparmi) e l’intervento dello stato nell’opera di incentivazione e di coordinamento dell’economia del paese, protetta mediante un sistema di tariffe doganali. Non si può inoltre sorvolare sull’aspetto strutturale della società giapponese: il fortissimo incremento demografico ed il costante esodo dalla campagna alla città fecero sì che fosse disponibile sul mercato del lavoro una grande quantità di manodopera a bassi salari. Per quanto riguarda i fattori politici all’origine del boom, essi vanno ricercati soprattutto nella scomparsa del condizionamento militare sulla vita politica giapponese, che costituì un passo importante sulla via della democratizzazione del paese. La scena politica fu così dominata dal partito liberaldemocratico, nato nel 1955 (senza un programma politico vero e proprio, se non il rapporto privilegiato con gli USA) ed avvantaggiato, non solo da un sistema elettorale che privilegiava i collegi rurali, ma anche da un collegamento assai stretto tra il partito ed il mondo dell’industria. L’egemonia liberaldemocratica era priva di una alternativa credibile: l’unico punto che univa la sua variegata opposizione (socialisti, comunisti, parte dei sindacati, studenti universitari, e setta Sokka Gokkai) era costituito dall’antiamericanismo. Le manifestazioni contro gli Stati Uniti raggiunsero l’apice nell’estate 1960, quando portarono alle dimissioni del primo ministro ed alla rinuncia, da parte di Eisenhower, ad una visita in Giappone programmata da tempo. Passati questi momenti e queste occasioni, le divergenze tra le opposizioni tornarono a prendere il sopravvento, consentendo così al partito liberaldemocratico ed alle forze che lo sostenevano di mantenere ben salde le redini del governo e del potere.

Capitolo 25: “Nuovi soggetti e paesi emergenti”

25.1 – Cina e India: convergenze e divergenze

Stando al censimento del 1953, il 94% degli oltre 600 milioni di cinesi era di stirpe Han. Fu su questa unità etnica che il partito comunista, dopo la vittoria sul Guomindang, costituì il proprio potere. Nel 1954 entrò in vigore una nuova costituzione, che riproduceva la struttura centralistica della tradizione imperiale, con la sola differenza che a garantire e simboleggiare l’unità del paese non vi era più l’imperatore, ma un partito che si definiva comunista ed un esercito temprato e disciplinato da una lunga lotta.
L’India, al contrario, era un mosaico di etnie e religioni, la cui unità era garantita soltanto dalla dominazione coloniale inglese. Quando quest’ultima venne meno, vennero meno anche le condizioni dell’unità. La frattura principale fu quella che si registrò tra hindu e musulmani, sfociata nella costituzione del Pakistan e nella conseguente migrazione, in un senso e nell’altro, di 10 milioni di persone. I mesi che seguirono la proclamazione dell’indipendenza videro sanguinosi scontri tra la comunità hindu e quella dei musulmani rimasti in India (particolarmente accesi nel Bengala) nei quali trovò la morte anche il Mahatma Gandhi. A complicare ulteriormente le cose vi era la miriade di principati, grandi e piccoli, puntelli dell’ex-dominazione inglese: a tal fine, nel 1953 dovette essere costituita una commissione per la riorganizzazione degli stati, che si sforzò di disegnare una mappa del paese che assicurasse a ciascuno degli stati che lo componevano il più possibile di unità etnica. Date queste premesse, la scelta federale si presentava come obbligata. Nella costituzione del 1950 il paese venne diviso in tre parti: una parte A che comprendeva le nove province dell’India britannica che divennero stati dotati di larga autonomia; una parte B che comprendeva i principati maggiori e una serie di principati minori accorpati in cinque stati; una parte C che raggruppava 61 zone minore ed arretrate, unite in dieci stati.
Cina e India erano dunque realtà molto diverse, ma che condividevano lo stesso improbo compito di uscire dalla condizione di arretratezza in cui versavano (consumo pro capite di calorie inferiore al minimo necessario, analfabetismo superiore al 70%, frequenti carestie ed elevato tasso di incremento demografico). Per uscire da quest’impasse occorreva incidere profondamente sulle strutture e sulle mentalità del mondo contadino (famiglia patriarcale allargata e unita nel culto degli antenati in Cina, sistema delle caste con cui il notabilato esercitava una pressione di tipo paternalistico sulla popolazione contadina in India).
Nell’aprile 1950 il governo cinese emanò una legge sul matrimonio, che proibiva i matrimoni combinati, il concubinaggio, la bigamia, l’infanticidio, fissava l’età minima per il matrimonio a 18 anni per le donne e 20 per gli uomini ed introduceva il divorzio. In India, nel 1949, venne invece approvato un Hindu Marriage Validity Act, che aboliva il divieto di contrarre matrimonio tra appartenenti a caste diverse, cui seguì, sei anni più tardi, la legalizzazione del divorzio. In entrambi i paesi venne inoltre esteso il diritto di voto alle donne.
Relativamente all’agricoltura, nel 1950 in Cina venne approvata una radicale riforma agraria, a scapito dei possedimenti delle comunità religiose e dei contadini ricchi. Nel paese indiano, invece, le riforme agrarie varate dai singoli stati incontrarono le notevoli resistenze dei notabilati locali, cui, in parte, supplirono iniziative provenienti dal basso. Era però chiaro, in entrambi i governi, che i problemi dell’agricoltura non si sarebbero risolti senza l’apporto di un adeguato settore industriale che fornisse quei mezzi che permettessero un più razionale sfruttamento delle risorse. Il modello cui entrambe le nazioni si richiamarono fu quello della pianificazione sovietica: il primo piano quinquennale fu lanciato dall’India nel 1951 (priorità all’agricoltura), seguita nel 1953 dalla Cina (priorità all’industria pesante); i risultati corrisposero alle scelte fatte.
Un’ulteriore analogia tra i due paesi è rappresentata dall’impulso che entrambi diedero alla scolarizzazione (raddoppio degli iscritti alla scuola primaria in Cina, +20% in India).
Nehru, che fu tra i primi a riconoscere il nuovo governo di Pechino e che non lesinò il suo appoggio nei momenti più duri della guerra di Corea, nel 1954 strinse con la Cina un trattato di amicizia.
I problemi che dovevano affrontare i due giganti asiatici comportavano però altre e più radicali scelte, che dipendevano in larga parte dai soggetti politici chiamate a farle: il partito comunista in Cina e quello del Congresso in India. E’ quasi superfluo sottolineare la differenza tra i due movimenti: quello cinese era un partito di massa, organizzato al suo interno sulla base di un rapporto tra la base ed il vertice non dissimile alla disciplina vigente nell’esercito; quello del Congresso, la cui vita interna era regolata secondo i principi della democrazia, contava su iscritti provenienti dalle classi medie e dal notabilato; i congressi si svolgevano regolarmente e con essi gli iscritti avevano la possibilità di regolare e controllare gli indirizzi politici. Molto differenti erano anche le rispettive leadership: Mao e Nehru si richiamavano entrambi ai principi del “socialismo”, ma era evidente come la loro concezione del socialismo e del suo rapporto con la democrazia non fosse la stessa. Alla stagione delle convergenze succedette dunque quella delle divergenze.
L’obiettivo che si poneva Pandit Nehru era quello di trasformare l’India in un paese socialista, conscio però che la complessa realtà del suo paese non avrebbe tollerato forzature e misure radicali Fu solo nel 1955, in seguito ad un viaggio in Cina che lo lasciò impressionato, che Nehru impresse una svolta agli indirizzi di politica economica sino ad allora seguiti (primo piano quinquennale focalizzato sull’agricoltura e nazionalizzazioni limitate all’industria delle munizioni, dell’energia atomica e ferroviaria), optando per la “scelta verso il socialismo”. Si procedette così ad un ampliamento delle nazionalizzazioni (in cui fu coinvolta anche la Banca imperiale indiana) ed al varo di un secondo piano quinquennale, più ambizioso e sbilanciato verso l’industria di quanto non lo fosse il precedente. Se i risultati furono buoni dal punto di vista industriale (raddoppio della produzione di energia elettrica e moltiplicazione di quella del ferro), le sfavorevoli condizioni atmosferiche causarono un incremento della produzione agricola dimezzato rispetto alle previsioni. Ne conseguirono un aumento del prezzo delle derrate alimentari e la minaccia dell’inflazione, cui si pose rimedio con restrizioni fiscali e con un sostanzioso prestito di capitali dagli USA.
Più difficile è ricostruire la storia della Cina comunista. Ciò che in generale si può dire è che, nel ventennio compreso tra l’instaurazione del potere comunista e la rivoluzione culturale, all’interno del gruppo dirigente emersero due linee diverse. La prima di esse aveva per fondamento la convinzione che un grande paese come la Cina potesse risolvere i propri problemi “contando sulle proprie forze”: centinaia di milioni di uomini dediti ed entusiasti che avrebbero permesso una politica interna di sviluppo accelerato a suon di mobilitazione e campagne. L’altra componente, per contro, si caratterizzava per la consapevolezza che essa aveva dell’arretratezza e della sovrappopolazione della società cinese e puntava dunque ad uno sviluppo graduale ed equilibrato, con un’apertura al mondo esterno ai fini della propria modernizzazione e democratizzazione. Mao, per la sua formazione culturale e la sua esperienza di leader di un grande movimento contadino era indubbiamente più vicino al primo orientamento. Se il gruppo dirigente del partito e dello stato cinese seppe evitare quelle lacerazioni sanguinose che conobbe il gruppo dirigente sovietico, tuttavia, il merito è da attribuire a Zhou Enlai, accorto e navigato mediatore. Nel primo piano quinquennale, l’industria cinese venne pressoché totalmente statalizzata, mentre l’agricoltura fu progressivamente collettivizzata (nel 1956 tutte le famiglie lavoravano nei vari tipi di cooperative agricole). Ciò fu possibile solo con una violenta pressione sulla popolazione, che non risparmiò neppure gli intellettuali, dai quali si richiedeva un impegno militante ed al servizio del popolo. I progressi nella produzione industriale realizzati con il primo piano, furono assai più consistenti di quelli conseguiti nella produzione agricola. Nonostante la preoccupazione di parte del gruppo dirigente, Mao scelse la strada del “gran balzo in avanti”, sia nell’industria che nell’agricoltura, da realizzarsi con il ricorso a tutte le risorse di energia disponibili ed allo spirito di sacrificio della popolazione cinese (l’obiettivo era quello di raggiungere l’Inghilterra in 15 anni). Il risultato della nuova politica furono il caos ed il dissesto economico: il raccolto del 1960 crollò ai livelli del ’52 e ne conseguì una carestia nella quale trovarono la morte milioni di cinesi; l’acciaio, prodotto in improvvisati altiforni disseminati lungo il paese, risultò inutilizzabile, dando il la ad un drastico calo del commercio estero, sia sotto il profilo delle esportazioni, sia per quanto riguarda le esportazioni.

25.2 – La conferenza di Bandung

Tra il marzo e l’aprile 1947, a una data in cui l’India non era ancora stata riconosciuta come paese indipendente, a New Delhi si tenne una conferenza sulle relazioni asiatiche, dalla quale uscì una forte denuncia verso il colonialismo e l’imperialismo. Nel gennaio 1949 seguì un secondo incontro, nel corso del quale si condannò invece l’intervento olandese in Indonesia, rivendicando il diritto all’autodeterminazione ed all’indipendenza per tutti gli abitanti dell’arcipelago indonesiano. Obiettivo raggiungo nel dicembre 1949, quando l’Olanda rinunciò alla sua sovranità sull’Indonesia, che divenne una repubblica indipendente. Fino a questo punto, la solidarietà e le convergenze manifestatesi tra i partecipanti alle due conferenze di New Delhi avevano dunque funzionato. A complicare la situazione sopravvennero però la rivoluzione cinese (alcuni stati, tra cui l’India, riconobbero immediatamente il nuovo governo di Pechino) e la guerra di Corea (dove altri paesi, come Thailandia, Filippine ed Etiopia, inviarono propri contingenti a fianco delle truppe dell’ONU). Dal canto suo il Pakistan, prendendo le distanze dall’India, convocò a Karachi e a Teheran, rispettivamente nel 1949 e nel ’50, due congressi ai quali vennero invitati a partecipare solo gli stati islamici. La logica della guerra fredda e del bipolarismo, però, non riuscì a recidere del tutto i legami stabilitisi a New Delhi. All’ONU, infatti, i paesi del gruppo asiatico votarono spesso compatti temi quali l’apertheid in Sudafrica e l’indipendenza di Libia, Tunisia e Marocco. L’armistizio coreano segnò un allentamento delle tensioni accumulatesi nel continente asiatico, ma rimaneva aperta la questione vietnamita. Su suggerimento dell’Inghilterra, il governo cingalese convocò, nell’aprile 1954 a Colombo, una conferenza dei paesi del sud-est asiatico, che si pronunciò a favore dell’indipendenza indocinese, del bando dell’arma atomica ed auspicò che il seggio nel consiglio di sicurezza riservato alla Cina fosse assegnato a Pechino. L’orientamento sotteso a queste prese di posizione non poté non preoccupare Washington. La risposta americana fu dunque la costituzione della Seato (South East Asia Treaty Organisation), un’alleanza politico-militare modellata sulla base della Nato, cui facevano parte (oltre a Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Francia) Filippine, Thailandia e Pakistan. E’ in questo contesto contraddittorio che, su spinta indonesiana, venne rilanciato il progetto di una conferenza afro-asiatica all’insegna del non allineamento. Nel dicembre 1954, a Bogor, si ritrovarono dunque i rappresentanti dei paesi che aveva partecipato alla conferenza di Colombo, che decisero di escludere dalla futura riunione la Cina di Formosa, Israele e le due Coree, riservando all’URSS un ruolo di semplice “osservatore”. Nell’aprile 1955 potè così avere luogo la conferenza di Bandung. I principi che qui vennero enunciati, tradotti in termini politici, comportavano il rispetto dei diritti umani e della relativa carta dell’ONU, il rispetto dalla sovranità e integrità territoriale di ogni stato, il riconoscimento dell’eguaglianza delle razze, la rinuncia ad ogni interferenza negli affari interni di altri paesi, l’impegno a non partecipare ad accordi di difesa collettiva finalizzati agli interessi di una grande potenza, la dissuasione di ogni atto o minaccia di aggressione e di ogni ricorso alla forza ai danni dell’integrità politica e territoriale di ogni nazione ed il regolamento delle controversie internazionali con mezzi pacifici.
E’ a queste enunciazioni che occorre risalire quando si parla di “coesistenza pacifica” e di non allineamento. Il divieto di partecipare ad accordi di difesa finalizzati agli interessi di una grande potenza fu formulato in modo piuttosto vago, tale da poter essere accettato anche dai paesi della Seato. La solennità della dichiarazione si accompagnava dunque ad una indeterminatezza e genericità degli impegni assunti. Ciò non sorprende se si tengono presenti le diverse opzioni dei paesi partecipanti alla conferenza, non solo nel campo della politica estera, ma anche in quello della politica interna. Alla conferenza di Bandung partecipò anche, quale unico stato europeo, la Jugoslavia di Tito che, nel 1956, in un suo incontro con vari leader dei paesi asiatici, diede origine al movimento dei non allineati, la cui prima conferenza si tenne a Belgrado nel 1961.
Uno schieramento tanto variego, difficilmente avrebbe potuto elaborare una piattaforma politica comune. Al suo interno esisteva però un nucleo sufficientemente coeso di stati e di leader non impegnati in alcuna alleanza e decisi ad utilizzare questa loro estraneità ai due grandi blocchi contrapposti quale strumento di pressione su entrambi, ai fini di accelerare quel processo di decolonizzazione e di emancipazione che costituiva l’obiettivo principale del movimento del quale essi erano stati i maggiori promotori.

25.3 – La guerra di Suez e la decolonizzazione

Tra i paesi arabi, l’Egitto era quello che più aveva contribuito all’elaborazione dell’ideologia panaraba e che, sin dal diciannovesimo secolo, esercitò in varie occasioni un ruolo di leadership intellettuale e politica su tutti i paesi del Medio Oriente. Quella egiziana era inoltre un’area di grande importanza economica, per via della presenza del canale di Suez e dei maggiori giacimenti petroliferi allora conosciuti. Proprio per questi motivi, le grandi potenze ponevano grande attenzione alla collocazione dell’Egitto nel sistema delle relazioni internazionali. A surriscaldare ulteriormente la regione contribuiva poi lo stato di tensione permanente tra lo stato di Israele e la Lega Araba, sfociato in un’inutile guerra vinta dagli israeliani (1948-49), che non portò infatti ad alcuna soluzione politica.
Nella notte tra il 22 ed il 23 luglio 1952, un gruppo di “liberi ufficiali” egiziani si impadronì del potere, deponendo il corrotto ed esautorato re Faruk e proclamando la repubblica. Nell’aprile 1954, messo da parte il generale Neguib che aveva fino ad allora ricoperto la carica di presidente, le redini del potere passarono nelle energiche mani di Gamal Abder Nasser. La sua iniziativa non si limitò alla politica interna, ma, anzi, si esplicò principalmente nel campo della politica estera: dopo aver guidato la delegazione egiziana alla conferenza di Bandung, nel settembre del 1955 concluse con la Cecoslovacchia un accordo per una massiccia fornitura di armi e, nella primavera del 1956, riconobbe la Cina popolare. Ciò destò profonda preoccupazione negli Stati Uniti, che modificarono bruscamente la loro posizione nell’area (stop al finanziamento per la costruzione di una grande diga sul Nilo ad Assuan), offrendo così all’URSS l’occasione di subentrare ad essi, come di fatto avvenne. Nel luglio 1956, Nasser annunciò la sua intenzione di procedere alla nazionalizzazione del canale di Suez. Le diplomazie di Francia ed Inghilterra, che avevano interessi nella regione e che dipendevano fortemente dalle importazioni di petrolio mediorientale, iniziarono dunque a lavorare a ritmi frenetici alla ricerca di una soluzione al problema. Contando sulla neutralità di USA ed Unione Sovietica e seguendo un copione preparato a tavolino, il 29 ottobre Israele attaccò l’Egitto ed il giorno successivo arrivò l’ultimatum franco-inglese per il ritiro di entrambe le truppe dalla zona dei combattimenti. I due paesi europei posero il veto dinnanzi alla convocazione del consiglio di sicurezza, ma gli USA (utilizzando un escamotage già testato ai tempi della guerra di Corea), presentarono in assemblea una risoluzione con la quale si chiedeva l’immediato arresto delle operazioni belliche, che venne approvata a larga maggioranza il giorno seguente. Il 4 novembre, un reparto di paracadutisti anglo-francesi prese il controllo della zona di Porto Said. Il 5, contemporaneamente alle minacce di ritorsioni missilistiche da parte del presidente del consiglio sovietico Bulganin, gli USA ritirarono l’ambasciatore americano in Egitto e procedettero a una pressione finanziaria, vendendo un’ingente quantità di sterline. Passarono appena 24 ore ed entrò in vigore il cessate il fuoco: le truppe anglo-francesi dovettero rimpatriare alla vigilia di Natale. Francia ed Inghilterra uscirono dunque umiliate da questa vicenda, che portò alle dimissioni del primo ministro inglese Eden. Alla tradizione influenza nell’area esercitata dalle due potenze, si venne sostituendo quella degli Stati Uniti che si impegnarono (“dottrina Eisenhower”, esplicata al Congresso il 5 gennaio 1957) a fornire assistenza economica e militare a quei paesi del Medio Oriente la cui sicurezza fosse minacciata dal “comunismo internazionale”. La crisi dell’ottobre 1956 segnò al contrario una brillante vittoria per Nasser, il cui prestigio in Medio Oriente e nel mondo arabo crebbe notevolmente: nel febbraio 1958 la Siria si unì all’Egitto, dando origine ad una Repubblica Araba Unita; nel luglio venne rovesciato il governo filo-inglese di Baghdad, e furono stroncati analoghi tentativi effettuati in Giordania ed in Libano.
La crisi di Suez rappresentò inoltre una vittoria dell’intero movimento dei non allineati e comportò una decisa accelerazione del processo di decolonizzazione, che si estese ad Africa e Maghreb. Nel 1956 dichiararono l’indipendenza Sudan, Tunisia e Marocco; nel 1957 il Ghana e nel 1958 fu la volta della Guinea. Nel 1960, in seguito ad una dichiarazione dell’ONU in cui si auspicò senza mezzi termini la fine del colonialismo, seguirono l’indipendenza delle ex colonie francesi del Senegal, del Mali, dell’Alto Volta, della Costa d’Avorio, del Dahomey, del Niger, del Ciad, del Congo-Brazzaville, del Gabon, del Madagascar, del Camerun e del Togo. Nel 1961, a rendersi indipendenti furono invece quelle ex inglesi della Sierra Leone e del Tanganika, oltre che la Somalia (giunta alla scadenza del mandato italiano). Nel 1963 toccò allo Zanzibar ed al Kenia. Il Congo Belga, la più ricca delle colonie africane, fu reso indipendente nel 1960, ma la secessione della regione mineraria del Katanga ed il successivo intervento delle truppe dell’ONU e belghe fecero piombare il paese una guerra civile nel corso della quale venne assassinato il leader nazionalista Patrice Lumumba. Il maggior spargimento di sangue si ebbe però in Algeria, dove si era venuta a creare una vera e propria guerra tra i patrioti del Fronte di Liberazione Nazionale ed un corpo di spedizione francese che arrivò a contare 400'000 uomini. Fu solo con l’avvento di De Gaulle che vennero avviate le trattative, protrattesi sino all’indipendenza concessa nel 1962.
Gli stati africani che acquisirono l’indipendenza si riunirono per la prima volta ad Addis Abeba nel 1963, dove nacque l’Organizzazione per l’unità africana.

25.4 – L’America latina negli anni ‘50

Ogni paese dell’America latina presentava proprie caratteristiche e specificità, a cominciare dalla composizione etnica, che si rifletteva sul piano politico e di rapporti tra gli stati. Ciò non significa tuttavia che non esistessero elementi comuni a tutti i paesi latino-americani. Il più macroscopico è quello relativo all’incremento demografico ed alla conseguente urbanizzazione, che diede origine a megalopoli accerchiate da una cintura di favelas. In secondo luogo, l’alto tasso di analfabetismo, che comportava bassissime percentuali di elettori (la più alta era il 15-20% del Cile). Non si può inoltre sorvolare sull’instabilità politica e l’importanza, in ogni singolo stato, dell’esercito, tutore dell’ordine e della stabilità. Si può in generale parlare di una diffusa condizione di arretratezza e della ricerca di una via che permettesse di uscire da tale costrizione.
Sin dai tempi della depressione, l’obiettivo perseguito dai paesi dell’America latina era compendiato nella formula della “sostituzione delle importazioni”, ossia una produzione di quei beni solitamente importati in grado di dar vita ad una produzione industriale nazionale. A questo fine, lo stato sottraeva alle oligarchie il controllo e la regolamentazione della produzione e delle esportazioni, facendo sorgere attività industriali operanti per lo più nel settore dell’industria leggera e dei beni di consumo, non in grado però di reggere la concorrenza internazionale. Passati gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra sino al conflitto coreano, la bilancia dei pagamenti dei paesi sudamericani tornò infatti ad essere negativa, facendo riprendere la corsa dell’inflazione e rendendo necessario il ricorso ai prestiti ed al capitale straniero. Tra i paesi della regione, occorre soffermarsi almeno su alcuni di essi.
In Brasile, nel dicembre 1945 le elezioni indette dal leader dell’Estado Novo, Vargas, fecero registrare la nomina a presidente del generale Enrico Dutra, sostenuto dal partito socialdemocratico. La sua presa di potere coincise con la stesura di una nuova costituzione, di stampo liberale e pre-varghiano. La popolarità di Vargas, però, non accennava a diminuire: nel 1950 egli fu rieletto con una schiacciante maggioranza del 48,7%. Tornato al governo, egli seguì una linea intesa a conciliare una politica di espansione economica e di incremento della spesa pubblica, anche avvalendosi dell’apporto di capitale straniero, con l’indirizzo populista sul quale aveva principalmente costituito la sua fortuna politica. Vargas decise così di aumentare i salari minimi e porre le basi per la costituzione della compagnia petrolifera Petrobras. La sua politica, decisamente costosa, fece riapparire puntualmente il problema dell’inflazione e del deficit della bilancia dei pagamenti. Criticato da più parti e isolato da Washington, i militari trovarono il pretesto per deporre Vargas, che il 24 agosto 1954 si tolse la vita con un colpo di pistola. Ne seguì una lungo periodo di instabilità politica, fino all’insediamento di Kubitschek, con cui il Brasile riprese vigorosamente la politica di sostituzione delle importazioni grazie alla quale conobbe uno sviluppo economico tumultuoso, con un tasso di crescita triplo rispetto a quello degli altri paesi del subcontinente.
Per quanto riguarda l’Argentina degli anni ’50, invece, è impossibile non ricordare la figura di Juan Peron. Eletto presidente nel 1946, egli fuse i partiti che lo avevano sostenuto in un “Partido unico de la Revolucion” e fece approvare una modifica della costituzione che gli consentì di essere candidato alle elezioni del 1951, nel corso delle quali venne riconfermato a capo della repubblica. Il punto di forza di Peron era individuabile nell’appoggio della grande maggioranza della classe operaia e della Cgt, la sua maggior organizzazione sindacale. Rispetto al 1943, nel 1948 i salari degli operai qualificati risultarono aumentati del 27%, contro il 37% di quelli non qualificati. Il consenso così ottenuto gli permise di perseguire una linea di politica economica di sostituzione delle importazioni più radicale che in qualsiasi altro paese dell’America latina. I risultati non mancarono: il prodotto interno lordo registrò una crescita notevole e fu raggiunto il traguardo della piena occupazione. A partire dal 1948-49, però, quando la congiuntura favorevole cessò, anche l’Argentina peronista si trovò a dover fronteggiare quei problemi di deficit della bilancia commerciale e di inflazione, scotto da pagare per una politica di sostituzione delle importazioni. Peron scelse dunque una nuova rotta politica con il varo di secondo piano quinquennale, nel 1952, che prevedeva un sostanziale ricorso agli investimenti stranieri. Man mano che l’inflazione annullava gli aumenti salariali concessi, le basi del consenso popolare di Peron vennero erodendosi. Egli fece ricorso alla popolarità della moglie Evita Duarte e ad un giro di vite nel senso autoritario e dell’intimidazione (normalizzazione della stampa e intervento dei “descamisados” contro l’oligarchia dei Jockey Club e la Chiesa cattolica, che aveva duramente contestato l’introduzione del divorzio). Dopo che ad un fallito tentativo di rovesciamento nel giugno 1955 seguì una nuova ondata di persecuzioni, da Roma piovve su Peron la scomunica papale. Ciò era davvero troppo per un paese cattolico quale era l’Argentina ed una successiva sollevazione militare costrinse il dittatore alle dimissioni.
Tornando sul piano internazionale, nonostante il piano Marshall fosse rivolto esclusivamente all’Europa, il casto campo dell’America latina rimaneva però aperto al flusso degli investimenti privati che, tra il 1950 ed il ’57, crebbero in maniera esponenziale, soprattutto da parte USA. A questa accresciuta penetrazione economica corrispondeva naturalmente un’intensificazione dei rapporti politici tra le due parti del continente. Nel marzo 1948, a Bogotà, sotto il segno della guerra fredda nacque l’Oas (Organisation of the American States), che in sostanza garantiva protezione ai paesi sudamericani in caso di attacco dall’esterno. Gli stati dell’America Latina finirono dunque per allinearsi agli indirizzi della politica estera americana e ridussero i già esigui scambi commerciali con i paesi del blocco sovietico. Nel marzo 1954, la conferenza dell’Oas di Caracas approvò un documento in cui si affermava che l’attività comunista in America latina costituiva un’ingerenza negli affari interni del continente. In conseguenza a tale dichiarazione, un contingente di mercenari organizzato dalla CIA varcò la frontiera del Guatemala e vi rovesciò il governo di Arbenz Guzman, uscito da libere elezioni e promotore di una radicale riforma agraria. Il pretesto che venne usato per giustificare l’intervento non convinse l’opinione pubblica latino-americana, il cui senso di frustrazione nei confronti dei gringos era solidamente radicato (se ne accorse Nixon, che nel 1958 fu accolto da manifestazioni di ostilità in tutte e sette le capitali sudamericane che visitò).
Quanto alla “violencia” rurale, essa era un fenomeno ricorrente nella storia latino-americana e solitamente focalizzato contro le oligarchie. Nessuna di queste insurrezioni, però, era mai riuscita a vincere, fino a che, a Cuba, il primo gennaio 1959, i guerriglieri di Fidel Castro entrarono all’Avana rovesciando la dittatura di Fulgencio Batista.

Capitolo 26: “Dalla crisi di Berlino alla crisi di Cuba”

26.1 – Lo Sputnik e la nuova fase della corsa al riarmo

Il 4 ottobre 1957 l’URSS mise in orbita lo Sputnik, il primo satellite artificiale. Il diffondersi di tale notizia susseguì di poche settimane quella, altrettanto sensazionale, del lancio del primo missile balistico internazionale, operato dai sovietici nell’agosto. Nel mondo intero, ma in particolare negli Stati Uniti, si diffuse così la psicosi del “missile gap”: uno stato d’animo d’allarme basato sulla convinzione che tra le due superpotenze si fosse determinato uno squilibrio, a vantaggio naturalmente dell’Unione Sovietica. E’ in questo clima di panico che va collocata l’elaborazione di un progetto delirante quale il Siop (Single Integrated Operation Plan) da parte di alcuni militari statunitensi che, nel caso in cui fosse stato ritenuto imminente un attacco da parte sovietica, avrebbero risposto sganciando preventivamente l’intero arsenale atomico a disposizione sull’URSS, la Cina, la Corea ed il Vietnam del nord. Nonostante l’allarmismo del missile gap fosse frutto di una sopravvalutazione del fenomeno (che gli USA poterono ben presto constatare mediante gli aerei spia U2 ed i satelliti), esso comportò la ripresa della corsa al riarmo missilistico. Nel 1958, anche gli USA disponevano di missili intercontinentali. La corsa agli armamenti non fu interrotta neppure dalla moratoria degli esperimenti nucleari, che dal marzo 1958 all’agosto 1960 accomunò URSS, Stati Uniti ed Inghilterra. Nell’opinione pubblica si diffuse però la consapevolezza dei rischi che la corsa al riarmo comportava: molti scienziati abbandonarono le loro ricerche nel campo del nucleare e diversi intellettuali avanzarono la questione della possibilità di sopravvivenza del genere umano in un ambiente degradato e contaminato. Pilotati dall’URSS e dai vari partiti comunisti, in tutta Europa si diffusero movimenti pacifisti, che da allora rappresenteranno una costante del panorama politico europeo ed americano.

26.2 – La crisi di Berlino

Nel contesto della nuova impennata della corsa al riarmo, il confronto tra le due superpotenze conobbe una fase di recrudescenza, il cui epicentro fu ancora una volta la Germania. Rimaneva infatti aperta la questione di Berlino, situata all’interno della Rdt e divisa in quattro settori di occupazione; la stessa città rappresentava una via obbligata per quanti desiderassero rifugiarsi ad ovest. Nei primi mesi del 1953, furono ben 120'000 i tedeschi orientali che varcarono in questo modo la frontiera. Per l’URSS si trattava ovviamente di un problema spinoso. Su pressione della Cina e della stessa Rdt, il 27 novembre 1958 il governo sovietico indirizzò alle potenze occidentali una nota nella quale comunicava il suo proposito di sottoscrivere un trattato di pace con la Germania democratica e dava loro tempo sei mesi per trovare un modus vivendi circa lo status della città. In seguito, un incontro tra Foster Dulles e Mikojan fece cadere la scadenza dei sei mesi, contribuendo ad allentare la tensione tra le due potenze: nel settembre 1959 Chruscev potè così visitare gli Stati Uniti. I rapporti rimasero buoni sino al 1° maggio 1960, quando un aereo spia americano venne abbattuto sui cieli dell’Unione Sovietica. L’evento rese infruttuoso l’incontro di Parigi tra Chruscev ed Eisenhower di metà mese, cui seguirono le invettive dello stesso leader sovietico, esplose a settembre nel corso di un’assemblea dell’ONU. Nel frattempo, le proporzioni bibliche assunte dall’esodo verso Berlino ovest spinsero l’URSS alla costruzione del muro, il 13 agosto 1961.

26.3 – La “nuova frontiera” di J.F. Kennedy

Nel novembre 1960, le elezioni presidenziali americane decretarono il successo del democratico John Fitzgerald Kennedy sul suo antagonista repubblicano Richard Nixon. Fedele all’idea della “nuova frontiera”, slogan della sua campagna elettorale, lo staff del nuovo presidente si impegnò in politica interna in una riduzione del carico fiscale, in modo da favorire gli investimenti ed incoraggiare i consumi. A ciò si aggiunse un aumento della spesa pubblica, condito dal varo di un imponente programma edilizio (Housing Act) e dallo stanziamento di un ingente quantitativo di fondi per la ricerca nel campo delle nuove tecnologie. La gara nella corsa allo spazio ingaggiata con i russi volse così negli anni ’60 a favore dell’America: il 21 luglio 1969 due astronauti americani misero piede sulla Luna. La fetta più grossa degli investimenti fu peraltro quella destinata alla spesa militare, che dal 1960 al ’68 risultò quasi raddoppiata. Sul piano dei rapporti internazionali, la politica della nuova frontiera consisteva in una modificazione del rapporto con gli alleati europei (l’Oece venne estesa a Stati Uniti e Canada con il nuovo nome di Ocse e fu dato il via ad un nuovo round di negoziati nell’ambito del Gatt), nel superamento della dottrina Eisenhower in Medio Oriente ed in un’iniziativa di grande respiro in America latina. La revisione delle coordinate della politica estera americana richiedevano una corrispondente revisione delle “dottrine” militari. Quella della “massive retailation” (rappresaglia massiccia di fronte ad ogni azione aggressiva da parte sovietica) venne dunque sostituita da quella della “risposta flessibile”, che consisteva nel bloccare la strategia aggirante dell’URSS post XX° Congresso, per evitare l’allargamento della sua sfera di influenza, in qualunque direzione esso procedesse.

26.4 – La crisi di Cuba

La presa di potere dei castristi a Cuba, fu accolta con favore da larghi strati dell’opinione pubblica americana. Fidel Castro assicurò che non avrebbe accolto ministri comunisti nel suo governo, che venne pertanto prontamente riconosciuto da Washington. La spaccatura tra i due paesi avvenne però nel febbraio 1960, quando Cuba e URSS stipularono un accordo per l’acquisto dello zucchero cubano, cui gli Stati Uniti risposero con l’embargo sulle importazioni di zucchero dall’isola. Nel gennaio del 1961 gli USA ruppero le relazioni diplomatiche con Cuba e, nell’aprile dello stesso anno, la Cia organizzò lo sbarco di un migliaio di profughi cubani (militarmente addestrati) alla Baia dei Porci, che tentarono inutilmente di rovesciare il regime castrista. Il futuro lider maximo si rivolse dunque all’URSS per avere protezione: nel febbraio 1962 sull’isola arrivarono missili a media e lunga gittata, aerei ed un contingente composto da 42'000 uomini. Il 22 ottobre, quando gli aerei spia e i satelliti americani rivelarono la presenza delle installazioni missilistiche nell’isola, Kennedy annunciò alla nazione l’intenzione di porre Cuba in “quarantena”, onde impedire, anche mediante l’uso della forza, l’approdo di navi sovietiche con carico di armamenti. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, si prospettò così la possibilità di uno scontro diretto e di uno showdown atomico tra le due superpotenze. Il 27 ottobre, dopo che un U2 americano venne intercettato sui cieli sovietici ed un altro fu abbattuto sopra Cuba, le due parti trovarono un accordo. I sovietici si impegnarono a ritirare i missili dall’isola e gli USA a non invadere Cuba, disinnescando al tempo stesso le testate missilistiche piazzate in Turchia nei primi mesi del 1962. La crisi cubana terminò così con un compromesso che accrebbe notevolmente il prestigio di Kennedy, ma che al tempo stesso fece apparire come un perdente Chruscev (accusato sia di avventatezza nell’aver installato i missili a Cuba, sia di arrendevolezza nel toglierli).
La consapevolezza del rischio corso durante il braccio di ferra non fu privo di effetti sui rapporti tra le due superpotenze: nel giugno 1963 entrò in funzione la “linea rossa”, che collegava il Cremlino alla Casa Bianca e nell’agosto venne sottoscritto un trattato con il quale ci si impegnava a metter fine agli esperimenti nucleari nell’atmosfera. A pochi mesi dalla sua firma, il 22 novembre 1962, Kennedy venne assassinato nel corso di una sua visita a Dallas. Neppure un anno più tardi, il 14 ottobre 1964, Chruscev fu esonerato dal suo incarico. Nonostante questo doppio cambio della guardia ai vertici, il dialogo tra le due superpotenze continuò e produsse ulteriori risultati: nel gennaio 1967 venne proibito l’uso di ordigni nucleari anche nello spazio e, nel giugno 1968, l’assemblea della Nazioni Uniti approvò il trattato di non proliferazione degli armamenti atomici, in base al quale gli stati firmatari provvisti di ordigni nucleari si impegnavano a non trasferirle ad altri e quelli non provvisti a non intraprenderne la produzione (il patto non fu però firmato, tra gli altri, da Sudafrica, Israele, India, Brasile, Spagna, Francia e Cina).
Se il mondo era ancora bipolare da un punto di vista militare, esso non lo era più sotto il profilo politico. La Cina, il movimento dei non allineati e la maggior parte dei paesi dell’America latina tendevano a sottrarsi dalla logica dei due blocchi contrapposti, che avevano ormai perso molta di quella forza di attrazione di cui disponevano ai tempi della guerra fredda.

Capitolo 27: “L’Europa occidentale negli anni ‘60”

Tra il 1950 ed il 1970, il vecchio continente attraversò una fase di sviluppo tumultuosa. La produzione industriale crebbe mediamente del 4,6% annuo, il reddito pro capite del 4,5% (il doppio rispetto agli USA), la quota europea nella produzione mondiale di beni passò dal 37 al 41% e la disoccupazione risultò ovunque drasticamente diminuita. Ovunque si registrò la trasformazione delle regioni agricole in aree industriali. Il contributo principale a questo sviluppo arrivò certamente dal processo di integrazione avviato dal trattato di Roma, che incontrò comunque molti ostacoli sul suo cammino. Il culmine della tensione venne raggiunto nel giugno 1965, quando la Francia annunciò l’intenzione di non partecipare più ai lavori degli organi comunitari. Nel 1966 fu però trovato un compromesso, basato su una divisione dei poteri tra Commissione e Consiglio dei ministri, che rese possibile, a partire dal 1970, l’avvio di una politica agricola comunitaria.
Disgregando le cifre relative allo sviluppo economico complessivo per singoli paesi, balza all’occhio come alcuni procedettero con passo più spedito rispetto ad altri.

27.1 – I paesi vinti

Per quanto ciò possa apparire sorprendente, furono i paesi usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale a realizzare le migliori peformances.
E’ questo anzitutto il caso della Repubblica federale tedesca: nonostante le spese militari, nel 1970, risultassero triplicate rispetto al 1955, nel ventennio compreso tra il 1950 ed il 1970 l’indice della produzione industriale fece segnare un incremento medio annuo del 6,2%. Tra i fattori che resero possibile questo “miracolo” economico, un peso rilevante lo ebbe la larga disponibilità di manodopera a buon mercato, grazie all’afflusso di milioni di rifugiati dalle zone orientali del paese nell’immediato dopoguerra ed all’immigrazione di lavoratori stranieri provenienti dai paesi dell’Europa meridionale. A ciò, si aggiunse un quadro politico caratterizzato da un alto grado di stabilità. La polarizzazione verso gli estremi dello schieramento politico, tipica della Germania prebellica, cessò infatti di esistere: il trattamento più che severo riservato dalle forze di occupazione sovietica nella zona orientale del paese alienò quei consensi che il partito comunista ottenne a fine conflitto; il serbatoio di voti dei milioni di profughi dell’est, che avrebbe potuto riversarsi sulla destra, fu invece assorbito dai democristiani della CDU. La presenza di un’unica centrale sindacale contribuì a semplificare e facilitare le relazioni tra le parti sociali, al punto che il paese registrò il più basso indice di conflittualità d’Europa.
Per tutti gli anni ’50 la CDU, sotto la prestigiosa guida di Konrad Adenauer, tenne saldamente in mano la situazione. I rapporti di forza tra i due grandi partiti antagonisti vennero però modificandosi da quando, nel novembre 1959, i socialdemocratici optarono per l’abbandono del programma tradizionalmente marxista che avevano sempre seguito, trasformandosi in una forza politica capace di attrarre le simpatie dei ceti medi. Dopo il ritiro dalla vita politica di Adenauer, nel 1963, un breve cancellierato di Ehrard fece da battistrada per l’insediamento, tre anni più tardi, di un governo di “grosse koalition”.
Altro miracolo economico fu quello che avvenne in Italia. Negli anni ’50 il prodotto interno lordo del paese crebbe al ritmo medio del 5,9% annuo, il più alto d’Europa dopo la Rft. La velocità di questo sviluppo appare tanto più sorprendente se si tiene conto dell’handicap costituito dall’arretratezza del paese e in particolare degli squilibri regionali che continuarono a caratterizzarne la struttura negli anni del dopoguerra. Fu solo nel 1950 che si tentò di porre un primo rimedio a questa situazione di squilibrio, con il varo di una riforma agraria che interessò complessivamente 700'000 ettari di terreno e con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Per altri aspetti, però, l’arretratezza del sud fu anche d’aiuto: essa costituì infatti un serbatoio di manodopera a buon costo per l’industria del nord.
Il quadro politico italiano, che può apparentemente sembrare caratterizzato da una forte instabilità, era comunque imperniato sul partito della Democrazia cristiana, vincitore alle elezioni del 1948 ed al quale appartennero tutti i presidenti del consiglio dei vari governi. Tra il 1947 ed il ’60 si succedettero ben 9 presidenti del consiglio, ma il PCI, complice la denuncia dei socialisti del patto di unità d’azione che da 30 anni lo legava ai comunisti, venne ulteriormente respinto ai margini della vita politica del paese. Nel 1963, in seguito alle violente manifestazioni che nel luglio del 1960 portarono alla caduta del governo Tambroni (che ottenne la fiducia grazie ai voti di monarchici e fascisti), si aprì la via alla costituzione del primo governo di centro sinistra, presieduto da Aldo Moro e nel quale il leader socialista Pietro Nenni ebbe la carica di vicepresidente del consiglio. Iniziò così un nuovo ciclo di riforme, all’insegna della distribuzione più equa della ricchezza prodotta dal boom (nazionalizzazione dell’energia elettrica ed estensione dell’obbligo di studio a 14 anni). Seppur nel contesto di una certa stabilità politica, l’Italia rimaneva il paese europeo con il più alto tasso di conflittualità industriale. Sia i sindacati che il maggior partito di opposizione, il PCI di Togliatti, non assunsero però nei confronti dei governi di centro-sinistra un atteggiamento pregiudizialmente di opposizione, ma piuttosto di condizionamento e di stimolo. Il legame tra i comunisti italiani e l’URSS rese comunque impossibile un’alternanza di governo con la Democrazia cristiana.

27.2 – I paesi vincitori

La vita politica della Francia fu caratterizzata da un alto tasso di instabilità. La larghissima base di consenso sulla quale poggiavano i governi della liberazione, infatti venne progressivamente erodendosi e restringendosi. Ciò fu in parte dovuto al ritiro dalla vita politica di Charles De Gaulle e in parte all’emarginazione del partito comunista che, benché potesse vantare il 25% dei consensi e l’appoggio della maggiore confederazione sindacale del paese (la Cgt), nel maggio 1947 venne escluso dal governo. Tra il 1947 ed il 1958, i gabinetti del paese erano basati su una maggioranza costituita da un’eterogenea coalizione di “terza forza” dalla quale, nel febbraio 1952, vennero esclusi anche i socialisti. Ad accrescere il tasso di instabilità contribuiva poi il disagio dei ceti medi (in particolare artigiani e commercianti), sfociato nel fenomeno del poujadismo.
Nel gennaio 1956 sembrò delinearsi una nuova fase della vita politica francese: le elezioni furono infatti vinte dalle sinistre e l’incarico di formare un nuovo governo affidato al socialista Guy Mollet. Nella tradizione del Fronte popolare, il nuovo gabinetto introdusse misure quali l’aggiunta di una terza settimana di ferie pagate ed il miglioramento del sistema pensionistico e previdenziale. Riguardo alla politica estera, vennero concluse le già avviate trattative che riconobbero l’indipendenza di Marocco e Tunisia. Rimaneva aperta la questione algerina, dove la presenza di una forte e combattiva minoranza di coloni francesi fece optare Mollet per la prova di forza, non solo con l’Algeria, ma anche con gli altri paesi del mondo arabo che ne sostenevano la causa. E’ in questo contesto che si colloca l’impresa di Suez, il cui fallimento portò allo scioglimento del governo nel dicembre 1957. Via via che la questione algerina veniva incancrenendosi, l’instabilità politica si trasformò nella crisi della Quarta Repubblica: il 13 maggio 1958 i militari assunsero il potere ad Algeri, esautorando di fatto il governo francese, e la settimana successiva si impadronirono della Corsica. La situazione fu risolta solo con il ritorno attivo alla vita politica di De Gaulle. Egli elaborò il progetto di una nuova costituzione (la quale attribuiva maggiori poteri al presidente della repubblica e prevedeva un sistema elettorale maggioritario a doppio turno), che fu approvata da un referendum nel settembre 1958, decretando la nascita della Quinta Repubblica, della quale fu messo a presidente lo stesso De Gaulle. Malgrado le violenze dell’Oas (un’organizzazione di estrema destra, avversa ad ogni concessione alla resistenza algerina), nell’aprile 1962 vennero firmato gli accordi di Evian che decretarono l’indipendenza dell’Algeria. Pochi mesi dopo, nell’agosto, il presidente sfuggì ad un attentato e, sull’onda dell’emozione suscitata nel paese, riuscì a far approvare una riforma che prevedeva l’elezione del presidente della repubblica a suffragio popolare diretto.
In ogni caso, la performance economica francese del ventennio compreso tra il 1950 ed il 1970 risultò essere buona. Nonostante le spese militari per le guerre coloniali, lo sviluppo si assestò sul +4,92% annuo, trainato dall’industria e dal settore dei servizi. Alla continuità del processo di sviluppo e di modernizzazione contribuirono inoltre il forte senso di identità nazionale radicato nel paese, nonché l’efficienza e la competenza di un apparato statale ed amministrativo collaudato da secoli ed al riparo dalle convulsioni della vita politica.
Tra i paesi dell’Europa occidentale, quello che procedette meno rapidamente sulla via dello sviluppo fu certamente l’Inghilterra, il cui tasso medio annuo di crescita economica fu solo del 2,2%. Un pesante fardello era infatti costituito dalle spese militari (sviluppo dell’arma atomica e mantenimento delle basi militari nel sud-est asiatico, nel Pacifico e in Medio Oriente), che nel 1955 rappresentavano l’8,2% del prodotto interno lordo. Al di là dell’aspetto militare, comunque, in Inghilterra mancava una riserva di manodopera a basso costo e, anzi, la forte presenza sindacale, negli anni ’50 portò ad un aumento dei salari maggiore rispetto a quello del costo della vita. Il problema con cui ogni governo si trovava a confronto era dunque quello di individuare un punto di equilibrio tra una politica di rigore monetario ed una di allargamento della spesa, controllando il sempre presente rischio inflazionistico. Si comprende perciò come la politica economica inglese si configurasse quale un succedersi di “stop and go”.
Sotto la guida di Mac Millan, venne prendendo corpo l’idea che una via d’uscita dalle difficoltà interne avrebbe potuto essere quella di un’adesione al trattato di Roma. La richiesta del premier, datata 9 agosto 1961, si scontrò con la ferma opposizione di De Gaulle, tutt’altro che intenzionato a concedere all’Inghilterra ed ai paesi dell’Efta (costituitasi nel ’59, quale area di libero scambio cui aderirono Inghilterra, Austria, Portogallo, Svizzera e paesi scandinavi) la salvaguardia dei vantaggi che essi avevano nell’importazione di beni dal Commonwealth. Il governo laburista, formatosi dopo le elezioni del 1964 e capitanato da Wilson, ripropose la domanda nel 1967, ma ancora una volta il rifiuto arrivò alla Francia gollista.

27.3 – Gli altri paesi dell’Europa occidentale

Il processo di sviluppo e trasformazione non interessò soltanto i paesi dell’Europa continentale sin qui trattati, ma si estese a tutti i paesi europei, anche al di fuori della Comunità. Nei paesi scandinavi la leadership della sinistra socialdemocratica fece sì che lo sviluppo economico e l’avvento della società dei consumi procedessero a braccetto di una concertazione tra governo, sindacati ed associazioni imprenditoriali. Ne conseguirono un’estensione ed un consolidamento del welfare state e della piena occupazione. In generale, si può dire che lo sviluppo europeo degli anni ’50 e ’60 si collocò in un quadro di democrazie collaudate (Francia, Inghilterra e paesi scandinavi) o “recuperate” (Italia e Germania). Unica eccezione quella della Spagna franchista che, grazie agli aiuti USA, negli anni ’60 fu protagonista di un vigoroso processo di industrializzazione e di modernizzazione.
Capitolo 28: “L’Europa orientale negli anni ‘60”

28.1 – Il fallimento dell’esperimento chrusceviano e la rottura con la Cina

I successi dello Sputnik e di Suez, uniti agli sviluppi della situazione nell’Asia sud-orientale, nel Medio Oriente ed a Cuba, facevano ostentare sicurezza nel gruppo dirigente sovietico, convinto che nel lungo periodo il socialismo si sarebbe rivelato un sistema superiore a quello del capitalismo. Tra il 1960 ed il 1968 l’aumento che fece registrare la spesa militare russa fu analogo a quello statunitense. Il problema che il nuovo corso politico enunciato dal XX° congresso si trovava ad affrontare era appunto quello di conciliare una politica estera globale e costosa, con l’esigenza di attuare riforme che potessero migliorare le condizioni di vita della popolazione sovietica. Nonostante le asserzioni di Chruscev, la compattezza del campo socialista non era certo quella sbandierata ai quattro venti e l’arsenale di missili a testata nucleare di cui disponeva il suo paese era di gran lunga inferiore a quello statunitense. Dopo gli eventi del 1956 in Polonia ed Ungheria, si rafforzarono le posizioni di quanti auspicavano un ritorno ai collaudati metodi del passato. Nel giugno 1957 si registrò il tentativo di esonero di Chruscev, che fu sventato e si concluse con l’espulsione dal partito dei suoi promotori (in particolare Molotov, Malenkov, Kaganovic e Sepilov). Ad appagare le aspirazioni di un miglioramento del tenore di vita delle masse e di una maggiore libertà dell’intellighenzia, non poteva però bastare il prestigio acquisito dalla conquista dello spazio di Gagarin. Erano necessarie riforme profonde, diverse da quelle di Chruscev che si risolsero in un sostanziale fallimento. In politica interna, portarono infatti a scarsissimi risultati il tentativo di ristrutturare l’apparato direzionale dell’industria su base territoriale anziché accentrata, la riforma scolastica (il cui progetto originale dovette essere ridimensionato) e la politica agraria (dopo il disastroso raccolto del 1963, l’URSS, tradizionale esportatore di grano, dovette assumere le vesti di paese importatore). All’attivo della politica chrusceviana è comunque possibile attribuire l’impulso dato all’estrazione di gas naturale ed alla creazione di gasdotti ed alloggi prefabbricati. Anche il rapporto con l’intellighenzia venne progressivamente deteriorandosi, così come quello con la popolazione operaia, al punto che nel 1962 si verificarono moti di protesta in seguito ad una riduzione salariale. Sul piano internazionale, lo scacco più grave fu quello della rottura con la Cina. Gli screzi per i bombardamenti cinesi sulle isole di Quemoy e Matsu culminarono nella comunicazione ufficiale, nel giugno 1959, della decisione di Mosca di sospendere la consegna di un prototipo di bomba atomica a Pechino, cui si era impegnata due anni prima. La rottura fu suggellata nel luglio 1960, quando i tecnici sovietici vennero ritirati dalla Cina. Il paese cinese, da quel momento in poi, non esitò a criticare qualsiasi atto significativo della politica estera sovietica. La polemica proseguì poi da un punto di vista ideologico e portò ad alcuni scontri di frontiera tra i due paesi. Unitamente alla questione cinese, la crisi di Berlino e successivamente quella cubana non contribuirono certo a sollevare l’autorità del leader sovietico, che il 13 ottobre 1964 venne definitivamente esonerato dal suo incarico.
Gli anni tra la morte di Stalin e la deposizione di Chruscev furono 11 anni di normalità e quindi di relativo progresso. L’economia conobbe così un buono sviluppo sul piano quantitativo, soprattutto per quanto concerne i settori dell’industria pesante e dell’energia. Progressi più leggeri si ebbero invece nei campi della produzione di beni di consumo e durevoli, sul livello dei salari e nell’estensione del sistema pensionistico a tutti i lavoratori, compresi i contadini. In politica estera, l’asse portante era costituito da un’interpretazione strettamente diplomatico-militare e bipolare del concetto di coesistenza, che aveva come presupposto la parità strategica con gli USA nel campo degli armamenti e la protezione della propria identità. La nuova equipe al potere, Breznev alla segreteria del partito e Kosygin alla presidenza del consiglio, prometteva stabilità, intesa sostanzialmente come continuità con il passato pre-chrusceviano. All’interno del campo socialista entrò dunque in vigore la dottrina della “sovranità limitata” (o “dottrina Breznev”), sulla cui base venne giustificato l’intervento delle truppe del patto di Varsavia in Cecoslovacchia, nell’agosto 1968. Gli anni del nuovo segretario del partito sono però rimasti nella storia come un periodo di stagnazione: essi segnarono infatti il definitivo abbandono di quei progetti di riforme dell’apparato produttivo del paese di cui si discuteva da anni. Il meccanismo della pianificazione centralizzata rimase sostanzialmente inalterato e con esso la sua macchinosità e la sua sempre crescente inefficienza. Il rapporto tra potere ed intellighenzia venne sempre più deteriorandosi, facendo prendere sempre maggior consistenza al fenomeno del dissenso.

28.2 – I paesi satelliti dal 1956 alla primavera di Praga

Gli eventi dell’estate e dell’ottobre 1956 segnarono l’inizio di una nuova fase nella storia di tutti i paesi satelliti, che riuscirono a ritagliarsi, chi in misura maggiore e chi con minore successo, dei margini di autonomia nei confronti del protettorato sovietico. In questo contesto vennero sperimentati quei modelli di pianificazione flessibile e decentrata basata sulla responsabilizzazione delle singole aziende, che in Russia non riuscì a prendere piede. Lo sviluppo dei paesi satelliti di quegli anni, anche se minore rispetto a quello antecedente il 1956, fu più equilibrato. Il paese che procedette più speditamente su questa via fu l’Ungheria, dove i consumi aumentarono di circa il 30% e si assistette ad una relativa liberalizzazione politica nell’ambito del sistema esistente (nelle scelte dei quadri, il criterio della competenza venne favorito a quello dell’affidabilità), che contribuì a distendere i rapporti tra potere ed intellighenzia. Nella Polonia di Gomulka, il paese del blocco sovietico più aperto verso l’occidente, l’agricoltura venne liberata anche dagli ultimi vincoli collettivistici, ma nel settore dell’industria le proposte di riforma stentarono a tradursi in realtà. Per quanto riguarda la Cecoslovacchia, essa conobbe invece un momento economicamente difficile, per via sia della rottura sovietica con la Cina, sia per la costituzione di una propria struttura industriale di quei paesi verso i quali tradizionalmente esportava. Anche nella Rdt si procedette a revisioni della pianificazione centralizzata con l’introduzione, nel 1963, di un “nuovo sistema economico” (Nes). Caso inverso è quello della Jugoslavia, dove la liberalizzazione economica attuata con la riforma del 1965 (le cui manifestazioni più evidenti furono l’apertura delle frontiere in entrata a un turismo di massa ed in uscita all’emigrazione di lavoratori all’estero), si accompagnò ad un ridimensionamento del ruolo della polizia segreta e ad un nuovo corso riformatore che giunse ad investire la struttura stessa del partito. In Bulgaria, invece, la sostituzione di Valko Cervenkov con il più aperto Todor Zivkov quale segretario del partito, non apportò sostanziali mutamenti.
I criteri della pianificazione che vigevano all’interno dei singoli stati non erano però replicati a livello interstatale. Si dovette attendere fino al 1959, affinché il Comecom (un organismo costituito allo scopo dieci anni prima) si dotasse di uno statuto ed il principio della divisione internazionale del lavoro venisse preso seriamente in considerazione. A queste proposte si oppose però la Romania, guidata prima da Gheorghiu Dej e successivamente da Nicolae Ceausescu, che tennero anzi a marcare in questo modo la propria autonomia anche in politica estera.
In generale, l’aspirazione ad una maggior autonomia nei confronti dell’URSS ed a una maggior articolazione interna rappresenta un tratto comune a tutti i paesi satelliti e costituisce il filo rosso della loro storia. E’ emblematico in tal senso il caso della Cecoslovacchia, dove nel 1967 venne eletto a segretario Aleksander Dubcek. Per impulso della nuova leadership, il Comitato centrale approvò un “programma d’azione”, nel quale si sosteneva che il partito non doveva imporre la sua autorità, ma “guadagnarsela continuamente con le sue azioni”. Alle parole seguirono i fatti: il 27 giugno venne abolita la censura e pubblicato il “manifesto delle 200 parole”, dove gli intellettuali del paese avanzarono le loro proposte per una piena democratizzazione del paese. Ciò destò allarme a Mosca, al punto che, il 21 agosto, reparti delle truppe del patto di Varsavia entrarono a Praga ed arrestarono Dubcek, unitamente ai suoi principali collaboratori. L’URSS non riuscì però ad insediare un governo di propria fiducia: Dubcek fu così rimpatriato e rassegnato al suo incarico, ma sotto la condizione che nel 1969 cedesse il suo posto a Gustav Husak. Così avvenne e, in uno dei suoi primi atti, il nuovo segretario riconobbe la legittimità dell’intervento dell’agosto 1968. Aveva così termine la “primavera di Praga” ed appassiva la speranza di poter realizzare un “socialismo dal volto umano”, a favore del “socialismo reale”.
Capitolo 29: “Gli anni del Viet Nam”

29.1 – Gli Stati Uniti della Great Society

Nel corso degli anni ’50, pur se ad un ritmo inferiore rispetto a Giappone ed Europa occidentale, lo sviluppo dell’economia americana proseguì lungo la sua strada. Nel tessuto sociale del paese e nel mercato del lavoro si produssero profonde modificazioni, tra cui le migrazioni di massa (in particolare della popolazione nera) dalle campagne alle città e dalle regioni più povere verso quello più sviluppate (Texas, Florida e California). Seguirono un corrispondente travaso dal settore secondario al terziario e la diminuzione della disoccupazione (che si ridusse sotto al 5%, con il contributo dato dall’occupazione femminile), unitamente al raddoppio della popolazione studentesca. A questa mobilità sociale non corrispondeva però altrettanto dinamismo della vita politica ed intellettuale. I fermenti innovativi rimasero infatti circoscritti all’interno di determinati ambiti, così come la protesta politicamente consapevole, limitata a gruppi ed episodi isolati, anche se significativi. Da ricordare in tal senso la protesta contro la discriminazione nell’ammissione degli studenti di colore, di cui fu teatro nel 1956 l’università dell’Alabama e la lotta per l’integrazione razziale, che ebbe per epicentro e per simbolo la città di Little Rock, nell’Arkansas, un anno più tardi. L’input di entrambi gli episodi è indirettamente riconducibile all’amministrazione Truman (che nel 1944 vietò la discriminazione razziale nell’esercito) ed al governo federale. Nel 1954, infatti, la Corte Suprema dichiarò incostituzionale la separazione razziale praticata nelle scuole del sud. Tale sentenza incontrò comunque forti resistenze e, sia l’amministrazione che il Congresso, sottoposti alle continue pressioni delle lobbies segregazioniste, non fecero molto per imporne l’applicazione. Fu nel corso degli anni ’60 che tutte queste tensioni e queste frustrazioni vennero, dopo una lunga incubazione, allo scoperto. La manifestazione più evidente di questo nuovo clima sociale fu la contestazione studentesca, che nel 1964 si spinse fino all’occupazione dell’università di Berkeley. Importanza analoga fu rivestita dal movimento femminista, che nel corso degli anni ’60 acquisì una sempre maggior consistenza. Il movimento più robusto ed efficace fu peraltro quello dei neri, per la fine della segregazione razziale e l’iscrizione nelle liste elettorali. Tra i leaders che esso espresse, il più autorevole fu il reverendo Martin Luther King, che il 28 agosto 1963, in seguito ad una “marcia su Washington” cui parteciparono 250'000 persone, pronunciò un discorso entrato nella storia. Due mesi dopo la marcia venne assassinato il presidente Kennedy ed il suo successore, il vicepresidente Lyndon Johnson, si trovò a fronteggiare questo multiforme moto di protesta. Egli optò per sostanziose concessioni, rappresentate dal “Civil Rights Act” del 1964 e dal “Voting Rights Act” dell’anno seguente.
La campagna elettorale del 1964 fu segnata dallo slogan della “great society”, una società nella quale fosse garantita l’eguaglianza dei diritti e messa al bando la povertà. Le elezioni furono un trionfo per Johnson, il cui governo stanziò ingenti quote del bilancio federale a favore dei sussidi per la disoccupazione, dell’edilizia popolare, della scuola e della formazione professionale, della ricerca scientifica, del sistema dei trasporti pubblici e dell’ambiente. Il peso congiunto della spesa militare per la guerra del Viet Nam e della spesa civile per la realizzazione del programma della great society non tardò però farsi sentire. A partire dal 1966 rialzò infatti la testa l’inflazione, che ridusse i vantaggi di cui vasti strati sociali avevano beneficiato grazie ai sussidi ed alle agevolazioni del nuovo piano sociale.

29.2 – La guerra del Viet Nam

In Viet Nam, non ebbero mai luogo le elezioni previste dagli accordi di Ginevra del 1954, e con esse l’unificazione del paese. La situazione si era infatti deteriorata, al punto che i guerriglieri Viet Cong giunsero a controllare vaste zone del paese. A Washington si diffuse l’infondata opinione che una vittoria comunista in Viet Nam avrebbe innescato una sorta di “effetto domino” in tutti i paesi del sud-est asiatico. Occorreva però trovare un pretesto per un intervento più impegnativo nell’area ed esso fu individuato nell’agosto 1964, quando due navi da guerra americane si scontrarono in acque territoriali nordvietnamite con tre torpediniere nemiche. Johnson chiese al Congresso l’autorizzazione all’uso della forza per difendere il Viet Nam del Sud e questa gli fu concessa. Nel febbraio del 1965 iniziarono dunque i bombardamenti sul paese asiatico, segnando l’inizio di un escalation militare che raggiunse il suo apice nel 1967 (mezzo milione di soldati americani presenti sul territorio vietnamita e numero di ordigni sganciati superiore a quello di tutta la seconda guerra mondiale). Le speranze che questo impegno massiccio riuscisse a stabilizzare la situazione furono deluse il 31 gennaio 1968, quando una forte offensiva vietnamita riuscì ad impadronirsi di diverse città, fino ad assestarsi nei pressi dell’ambasciata americana di Saigon. La reazione americana fu rabbiosa, ma militarmente vincente. Era però chiaro che la guerra sarebbe durata a lungo ed avrebbe comportato un alto costo in termini finanziari e di vite umane. L’impatto sull’opinione pubblica statunitense fu forte: i movimenti di protesta e di contestazione ripresero vigore, spingendo ben 50'000 studenti a scegliere la strada della diserzione ed il movimento nero sul piede di guerra. Il culmine di queste proteste venne raggiunto nell’ottobre 1967, con una marcia sul Pentagono cui parteciparono centinaia di migliaia di persone.
Le elezioni di mezzo termine del 1966 fecero registrare una relativa affermazione dei repubblicani e, nel marzo 1968, Johnson annunciò l’intenzione di limitare i bombardamenti sul Viet Nam e di non candidarsi alle successive elezioni. La campagna elettorale del 1968 fu una delle più drammatiche dell’intera storia americana: il 4 aprile venne assassinato Martin Luther King ed il giorno seguente, fresco vincitore delle elezioni primarie della California, il candidato democratico Robert Kennedy. Al partito democratico venne dunque mancando una leadership convincente e la vittoria, al foto-finish, fu assegnata al repubblicano Richard Nixon.

29.3 – L’evoluzione delle relazioni interatlantiche negli anni ‘60

La guerra del Viet Nam ebbe conseguenze non solo sulla situazione interna americana, ma anche nell’ambito dell’alleanza atlantica. Tra il 1950 ed il 1973, la percentuale della produzione mondiale di USA ed Inghilterra non cessò di ridursi. Nello stesso lasso di tempo, essa aumentò in Italia, Giappone, Germania federale e Francia. Risultati molto simili si ebbero anche nel contesto dell’esportazione di manufatti. Una consistente parte di queste esportazioni europee trovava sbocco sul mercato americano, mentre al contrario si ridusse l’importazione di beni statunitensi in Europa, in particolare in merito alle importazioni agricole, dopo che la Cee adottò misure protezionistiche. Già dagli anni ’50 il Congresso esercitava pressioni sull’amministrazione repubblicana affinché le cose cambiassero. Il rilancio delle trattative nell’ambito del Gatt (il “Kennedy round”) fu uno dei cavalli di battaglia del presidente democratico e portò a tagli medi del 35% sulle tariffe doganali tra Europa ed USA, che vennero però aggirati dall’erezione di barriere non tariffarie (quali premi e sussidi alle esportazioni). Un ulteriore fattore di tensione nelle relazioni inter-atlantiche era la preoccupazione europea di fronte all’abbandono americano della dottrina della “massive retailation”. Una risposta con armi convenzionali di fronte ad un attacco russo, esponeva infatti l’Europa ai rischi di un eventuale conflitto, in misura ancora maggiore da quando, in seguito alla crisi di Cuba, vennero ritirati i missili installati sul territorio turco.
L’amministrazione Kennedy si dichiarò disponibile ad installare queste testate sulle navi inglesi integrate nella Nato e ad una collaborazione tra Francia ed Inghilterra nel campo degli armamenti nucleari, a patto che De Gaulle accettasse la domanda di ammissione inglese alla Cee, che quest’ultima aveva avanzato nel 1961. La risposta del generale fu il respingere la domanda, non solo per ragioni economiche ma anche e soprattutto politiche: ammettere alla Cee un paese che da sempre intratteneva una “relazione speciale” con gli USA sarebbe equivalso a riconoscere a questi ultimi un ruolo politico e militare dominante.
Il finanziamento della guerra in Viet Nam comportò, come già detto, un vigoroso aumento dell’inflazione. La quotazione del dollaro, legata all’oro, rimaneva però stabile, così come, in base agli accordi di Bretton Woods, rimasero fissi i tassi di cambio tra il dollaro e le monete europee. I paesi del vecchio continente si trovarono così a “prestar soldi agli Stati Uniti, ottenendo in cambio una moneta inflazionata”. La Francia decise di prendere le distanze: nel gennaio 1964 essa ristabilì le relazioni diplomatiche con la Cina e nel 1966 uscì dall’organizzazione militare della Nato, pur rimanendo all’interno dell’alleanza. Le dimissioni di De Gaulle e l’avvento alla presidenza di Georges Poumpidou nel 1969, non furono sufficienti ad eliminare i contrasti tra i due paesi.
Se la solidarietà tra USA ed alleati resse a queste tensioni, ciò fu dovuto a ragioni di ordine essenzialmente politico e militare: i paesi europei, in sostanza, erano disposti a pagare un prezzo per la leadership politica e la protezione militare loro assicurata dagli Stati Uniti.
Problemi analoghi a quelli insorti nei rapporti inter-atlantici si ponevano anche nelle relazioni nippo-americane. L’economia del Giappone era ormai matura ed orientata verso produzioni ad alto contenuto tecnologico, potendo così abbandonare la tradizionale politica dei bassi salari. La lenta erosione di consensi del partito liberale e di quello socialdemocratico procedeva di pari passo con l’insofferenza nei confronti degli Stati Uniti. Lo stato d’animo si espresse in un contrasto politico, relativo all’isola di Okinawa, la cui restituzione era chiesta a gran voce dall’opinione pubblica giapponese. L’annuncio, nel 1969 che tale concessione sarebbe stata fatta, consentì ai liberali di conservare la maggioranza dei seggi nelle due successive tornate elettorali. Se la crisi politica era superata, il contenzioso economico tra i due paesi rimaneva però aperto. Gli Stati Uniti premevano infatti affinché il Giappone rivedesse le sue misure protezionistiche, operasse “restrizioni volontarie delle esportazioni sul mercato USA” e partecipasse alle spese militari americane nel Pacifico. In cambio, il governo nipponico chiedeva però la fine delle limitazioni alle loro relazioni commerciali con la Cina. Si trattava di un contenzioso ancora oggi aperto.

29.4 – Il 1968

Così come il ’48 del secolo precedente, anche il 1968 fu un movimento ed un sommovimento di carattere transnazionale, che si estese però all’intero pianeta. Da un punto di vista generazionale, il ’68 può essere ricondotto all’irruzione sulla scena politica della prima generazione, figlia del baby boom, che non aveva conosciuto la guerra e che considerava il benessere come un dato di fatto acquisito; una generazione esigente e proiettata verso il futuro, che mal tollerava il “sistema”. Da un punto di vista politico, l’unico denominatore comune che è possibile individuare consiste nella condanna alla guerra in Viet Nam ed in un generico estremismo, disprezzante nei confronti di quei partiti storici della sinistra.
Negli Stati Uniti, passata l’ondata di piena, il movimento di contestazione si esaurì rapidamente. Nei paesi dell’Europa occidentale, invece, la protesta tentò di acquisire una più consistente dimensione politica. Se nella Rft il movimento degli studenti assunse ben presto dimensioni consistenti, esso rimase circoscritto al mondo giovanile. La situazione fu però diversa negli altri paesi latini. In Francia il movimento di protesta si estese anche agli operai ed alla loro più forte confederazione sindacale, quale era la Cgt: per giorni la Francia fu paralizzata da uno sciopero generale e percorsa da interminabili cortei di manifestanti. Il 30 maggio, De Gaulle sciolse il parlamento ed indisse nuove elezioni: ciò fu sufficiente, unitamente all’accordo tra governo e Cgt del 27 maggio, a far cessare di colpo ogni manifestazione. A differenza della Francia, la sinergia tra studenti ed operai si realizzò in forme più consistenti e durature nel Belpaese, trovando non solo l’appoggio dei sindacati, ma anche quello del PCI. La contestazione del ’68 fu però anche per l’Italia una festa d’addio agli anni del miracolo economico e della stabilità politica, che lasciarono il posto alla stagione della “strategia della tensione”. Il solo paese europeo in cui la sinergia tra movimento studentesco ed operaio non si esaurì in una sola stagione, ma durò fino al compimento della transizione verso la democrazia, fu la Spagna franchista.
Se, sotto il profilo strettamente politico, la contestazione giovanile fu complessivamente un insuccesso, il segno che essa impresse nella società e negli stessi rapporti interpersonali è rimasto e costituisce parte integrante del costume e del patrimonio intellettuale e morale delle società in cui viviamo.

 

Fonte: http://www.webalice.it/fabio.ruini/riassunti/Storia.doc

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