Riassunto Storia del Diritto Italiano

Riassunto Storia del Diritto Italiano

 

 

 

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Riassunto Storia del Diritto Italiano

Per poter affrontare lo studio della Storia del Diritto Italiano è indispensabile ricordare bene la compilazione giustinianea  (Corpus iuris civilis), perché essa rappresenta il punto di partenza di tale disciplina.

 

LA CODIFICAZIONE DI GIUSTINIANO

LE PREMESSE STORICHE E STORIC0-GIURIDICHE

Nella parte orientale dell'impero la scuola di Berito, alla quale si era aggiunta all'inizio del V secolo quella di Costantinopoli, si ricominciarono a leggere e a capire i commentari di Paolo e Ulpiano e soprattutto le opere di Papiniano. Si rese, così, urgente un intervento del legislatore per circoscrivere e selezionare tutta la tradizione giuridica. Importante fu la personalità di Giustiniano, nato nel 482 e salito al trono nel 527 dopo un periodo d’indebolimento interno dell'impero d'Oriente. Grande sovrano, uomo di grande energia e di ardui propositi, egli si sentiva chiamato a restaurare l'antico splendore dell'Imperium Romanorum. Con la stessa grandiosità e magnificenza della sua cattedrale di Santa Sofia, Giustiniano concepì la codificazione, i cui lavori iniziarono subito dopo il suo avvento al trono.

L'ANDAMENTO DEL LAVORO LEGISLATIVO

Tra gli uomini di cui Giustiniano si servì per realizzare la sua opera legislativa, il primo posto è occupato da Triboniano, di cui sappiamo ben poco. La scelta di coloro che dovevano collaborare a questa poderosa impresa fu rimessa dall'imperatore nelle mani di Triboniano. Mentre all'inizio erano stati chiamati a partecipare a queste commissioni quasi esclusivamente i più alti funzionari dell'amministrazione centrale, nelle parti successive dell'opera ebbero un ruolo decisivo alcuni professori di diritto delle due scuole di Berito e Costantinopoli; ad essi si aggiunsero avvocati dei tribunali della capitale.
Seguiamo ora le varie tappe della codificazione. Essa ebbe inizio nel 528. Il13 febbraio di quest'anno Giustiniano nominò, con la costituzione Haec, una commissione di dieci membri, tutti alti funzionari dell'amministrazione centrale, tra i quali anche Triboniano e il professore della scuola giuridica di Costantinopoli Teofilo. Egli affidò loro l'incarico di comporre, sulla base dei codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano e delle costituzioni promulgate successivamente, una nuova raccolta di leggi imperiali. Le leggi sorpassate dovevano essere escluse, le contraddizioni eliminate e i testi ridotti al loro contenuto praticamente rilevante. L'opera fu condotta a termine in un anno e il 16 aprile del 529 entrò in vigore. A partire da questo giorno perdevano la loro validità i codici precedenti e tutte le altre leggi imperiali che non erano state incluse in questo nuovo Codex Justinianus, a meno che esse non contenessero speciali privilegi. Del Codex Iustinianusdel 529 si fece una nuova redazione nel corso dell' ulteriore lavoro di Codificazione (chiamato Codex repetitae praelectionis), sicché esso rimase in vigore solo pochi anni.
Il 15 dicembre del 530 la costituzione Deo auctoredette il via ai lavori per una raccolta in grande stile del diritto giurisprudenziale. Triboniano chiamò a partecipare all'opera quattro professori, due della scuola di Berito e due di quella di Costantinopoli, e undici avvocati. Il codice poté essere pubblicato dopo appena tre anni. L'opera, divisa in 50 libri, a loro volta suddivisi in titoli, fu chiamata Digesta; ebbe inoltre anche un nome greco, Pandectae. Entrò in vigore il 30 dicembre del 533. Da questo giorno in avanti gli originali dei giuristi classici e le opere elementari postclassiche scomparvero sia dall'insegnamento che dalla prassi giudiziaria dell'impero d'Oriente.
Ancor prima della pubblicazione del Digesto era stato portato a termine e pubblicato un manuale ufficiale destinato all'insegnamento elementare del diritto. Esso era tratto dalle Istituzioni di Gaio e da altre opere elementari d’epoca classica e postclassica e, come queste, era intitolato Institutiones.
Al pari delle Istituzioni di Gaio, il nuovo testo ufficiale si divideva in quattro libri.
Durante la compilazione del Digesto, ci si era imbattuti in parecchie questioni, che erano state oggetto di controversia fra i giuristi classici. Molti di questi ostacoli vennero eliminati dai compilatori semplicemente mediante omissioni, aggiunte o modificazioni di altro tipo apportate agli originali classici. Altre questioni si ritenne opportuno risolverle per mezzo di leggi specifiche. A questo fine  Giustiniano emanò, nel corso dei lavori per il Digesto, numerose costituzioni riformatrici.
Codice, Digesto e Istituzioni, pur mancando di un titolo comune, in quanto la designazione Corpus iuris civilis (Corpus iuris Justiniani) risale all'età moderna, costituivano, nelle intenzioni del legislatore, una codificazione unitaria. In essa non avrebbero dovuto trovarsi oscurità o contraddizioni, ma data la natura casistica e l'enorme mole del materiale rielaborato, e la rapidità con cui la gigantesca impresa fu condotta a termine, non potevano mancare numerosi difetti.

IL DIGESTO
Il Digesto è la seconda, più cospicua per la mole e per l'importanza, parte della codificazione di Giustiniano. Leggiamo la premessa di Giustiniano, capiamo che esso non fu creato per mancanza di documenti giuridici a partire dall'epoca di Romolo ma, al contrario, per una eccessiva abbondanza di essi. Triboniano, che già disponeva di un'ottima biblioteca giuridica, raccolse da tutte le parti più di duemila opere di diversi giuristi romani delle varie epoche. Da tutta quest’abbondanza di opere bisognava estrarre il meglio e riunirlo in modo tale da compilare una raccolta armoniosa e logica, comoda per l'uso da parte di giudici ed avvocati. Il lavoro fu completato già per il 16 dicembre del 533.
Il Digesto è composto di 50 libri, divisi in titoli, frammenti e paragrafi. Ogni frammento è preceduto dall'indicazione, da quale giurista e da quale libro di sua composizione è estratto il dato frammento. Il Digesto ha assorbito citazioni da 1625 opere di 39 giuristi. La struttura del Digesto è la seguente: il l° libro tratta le questioni generali di diritto, contiene un breve saggio di storia dì diritto e il diritto pubblico. Dal 2° al 46° libro viene esposto il diritto privato; i libri 47-48 e in parte 49 espongono questioni relative al diritto e processo penale. Nel libro 49 vengono esaminati alcuni istituti di diritto pubblico: diritto fiscale e militare. Infine nel libro 50 sono considerati alcuni istituti di diritto pubblico: il diritto amministrativo, il diritto dell'immunità, dell'ambasceria ecc.
Dei giuristi dell'epoca classica vanno nominati i più noti e più frequentemente citati nel Digesto di Giustiniano. Ricordiamo Masurio Sabino, Celso, Salvo Giuliano, Sesto Pomponio, Gaio, Giulio Paolo e Domizio Ulpiano ed infine Modestino, allievo di Ulpiano.
Sono le opere di questi giuristi ad essere le più citate nel Digesto di Giustiniano. Il Digesto di Giustiniano e' un indubbio monumento giuridico del VI secolo. Va notato che molto spesso troviamo delle inserzioni fatte per chiarire alcuni termini ad uso di lettori poco istruiti, evidentemente studenti. Gli studiosi trovarono nei testi delle citazioni dei giuristi classici numerose interpolazioni, cioè correzioni inserite dalla commissione per avvicinare le posizioni dei giuristi classici al diritto giustinianeo vigente. L'originario manoscritto del Digesto non si è conservato; però disponiamo per fortuna del manoscritto quasi contemporaneo a Giustiniano databile nei secoli VI-VI. Questo manoscritto è noto sotto il nome di Codice Fiorentino.Evidentemente esso fu scritto da greci che vivevano in Italia. È noto che già all'inizio del XII  sec. il manoscritto era conservato a Pisa.

 

LE NOVELLE

La pubblicazione del Codex repetitae praelectionis nel 534 concluse le grande opera codificatoria di Giustiniano, ma non significò la fine delle sue riforme legislative. Al contrario, l'imperatore intervenne anche successivamente a modificare lo stato del diritto con numerose leggi singole   (leges novellae). Le novelle giustinanee (di cui possediamo quattro collezioni), nella loro maggioranza, furono redatte in lingua greca. Solo poche Novelle furono pubblicate in entrambe le lingue.

 

La legislazione e la consuetudine nell'alto medioevo

Con la caduta dell'impero romano e le invasioni barbariche anche l'ordinamento giuridico romano perse la sua posizione di predominio, per cui, mentre sotto l'impero tutta la popolazione era stata soggetta al diritto romano, in questo periodo soltanto i Romani, i discendenti della vecchia popolazione indigena, furono soggetti ad esso e le tribù germaniche conservarono il loro diritto consuetudinario.
I popoli germanici erano governati, come si è accennato sopra, dalle consuetudini, tramandate oralmente, tuttavia con la formazione dei nuovi regni nei territori conquistati le loro leggi nazionali "furono talvolta messe per iscritto”. Queste compilazioni erano, tuttavia, solo rozzi tentativi di esprimere in latino una legge primitiva che era priva di ogni principio generale.
Queste compilazioni contenevano principalmente norme di diritto penale, che prendevano la forma di misure dettagliate nello stabilire multe e compensi in caso di omicidio e danni vari. Tali norme riflettevano la società agraria arcaica da cui derivavano; la più nota è la Lex Salica dei Franchi Sali.
I regni germanici del Continente - franco, ostrogoto, visigoto e longobardo - unirono popoli di origine romana e germanica. I romani rimasero soggetti al diritto romano volgare, i germani al diritto della propria tribù. Questo è il principio della personalità del diritto: qualunque sia il suo luogo di residenza e chiunque sia il sovrano del posto, un individuo rimane soggetto alla legge del suo popolo di origine. Fu solo più tardi che il principio della personalità del diritto fu abbandonato in favore del principio della territorialità, sotto cui il diritto consuetudinario della regione era applicabile a tutti coloro che vi abitavano, senza riguardo all'origine etnica".
Nei regni romano-barbarici furono fatti molti tentativi per ricomprendere in testi scritti le consuetudini dei popoli germanici: "di solito l'iniziativa partiva dal re, e lo scopo era quello di dare alla comunità una maggiore certezza nell'applicazione del diritto tradizionale.
Una documentazione scritta degli usi costituiva la prova certa di quella che era la legge, e definiva questioni in precedenza lasciate alla discrezionalità dei giudici laici nelle corti locali, proteggendoli da influenze indesiderabili.

Le codificazioni regie di diritto germanico

Lex Romana Visigothorum e Lex Visigothorum 

I Visigoti furono, tra i popoli germanici, quelli che per primi si insediarono nell’Occidente europeo. Essi fondarono un regno nel 418 in Aquitania con capitale Tolosa. I Visigoti si appropriarono rapidamente di molti ele­menti della civiltà romana e già nel 506Alarico II promulgava un testo normativo, la cosiddetta Lex Romana Visigothorum, nota dal sec. XVI in poi anche con il nome di Breviarium Alarici, composta esclusivamente di fonti di diritto romano vigente, tutte riprodotte nel testo originale. Si trattava di una raccolta di testi legislativi (il Codice Teodosiano e alcune novelle post-teodosiane) a cui venivano affiancate altre opere più propriamente dottrinali (frammenti delle sentenze di Paolo, le Istituzioni di Gaio, parti del Codice Gregoriano ed Ermogeniano).
L'influenza esercitata dal Breviarium Alaricifu certamente assai ampia in Occidente, e rappresentò il mezzo principale di trasmissione del diritto romano scritto nell'alto medioevo
Nel regno visigoto vigeva la Lex visigothorum, un complesso di norme indirizzato ai soli Visigoti.
La Lex Visigothorumcostituisce il momento più alto della legislazione visigotica. L'uso del diritto romano fu espressamente abrogato, anche se molti principi romanistici risultano inseriti nella Lex.

Lex Burgundionume Lex Romana Burgundionum

Un'analoga operazione di risistemazione legislativa venne tentata nel corso del VI secolo presso i Burgundi, con la promulgazione della Lex Burgundionum, emanata dal re Gundobado intorno al 501. Raccoglieva in 88 titoli le costituzioni dei re burgundi e sebbene da essa emerga talvolta un regi­me giuridico diverso per barbari e romani, molte disposizioni appaiono invece esplici­tamente indirizzate a entrambi i gruppi etnici. Pochi anni dopo, Gundobado emanò la Lex Romana Burgundionum, essenzialmente rivolta ai Romani di Borgogn; ma ebbe vita breve, poiché la popolazione di origine romana preferì nell'uso la Lex Romana Visigotorum.
Degna di rilievo nel diritto burgundo era la disciplina riservata alla famiglia.
Il matrimonio veniva concepito come “acquisto”della moglie da parte del marito. Il divorzio era proibito. La moglie poteva essere ripudiata solo in caso di adulterio o di stregoneria. Ai  maschi era riconosciuta un'assoluta superiorità. I beni paterni erano divisi tra i figli; le figlie, prive di capacità giuridica, erano escluse dalla suc­cessione, salvo nel caso di mancanza di eredi maschi.
Molto distante dal diritto romano era il codice penale burgundo.

L’edictum Theodorici

Per lunghi secoli l'Edictum Theodoricièstato attribuito a Teodorico l'Amalo (450 ca d.C.- 526d.C.) re degli Ostrogoti d'Italia, che aveva sconfitto e ucciso Odoacre nel 493.
I dubbi sulla paternità dell’editto sono sorti una quarantina d’anni fa (alcuni lo attribuiscono a Teodorico II re dei Visigoti, ed in dubbio è anche l’anno di pubblicazione).
L’Edictum, vincolante sia per la popolazione di origine germanica, sia per quella di origine romana,  consiste in una raccolta di fonti di diritto romano adattata ad un ordinamento barbarico.

Legge Salica e le influenze sulle compilazioni successive

 

Un'altra raccolta di norme venne prodotta presso i Franchi Salii: la Legge Salica, il cui nucleo è costituito dal Pactum legis Salicae, risalente agli ultimi anni del regno di Clodoveo, intorno al 511. Successivamente essa fu integrata con altre disposizioni, contenute nei Capitularia legis Salicaedi Carlo Magno e dei suoi successori. Inoltre, fu corredata di alcune note, che servivano ai giudici che dovevano condurre il processo e pronunciare la sentenza. La maggior parte delle norme in essa contenute fissavano le composizioni pecuniarie relative a diversi fatti illeciti.

 

Il diritto dell’Impero d’Oriente dopo Giustiniano

Dopo la morte di Giustiniano la produzione di costituzioni imperiali fu abbondante ma poco omogenea
e confusa. Si avvertiva la necessità di nuove codificazioni tenessero conto delle mutate esigenze e delle diverse consuetudini locali.
Nel 740 nacque così la legislazione dell’imperatore Leone III l’Isaurico: una raccolta di leggi con l’ambizioso intento di disciplinare sia la materia penale, sia quella civile con norme desunte dal Corpus iuris civilis di Giustiniano. L’opera, tuttavia, fu molto modesta. Imponente, invece, fu l’opera legislativa realizzata dai primi due imperatori della dinastia macedone, Basilio I e Leone il Saggio. L’obiettivo di Basilio era quello di riordinare e raccogliere, in un codice, l’enorme quantità di leggi che si erano susseguite dalla morte di Giustiniano in poi. L’opera si presentò modesta, rispetto ai propositi annunciati. Suo figlio Leone il Saggio, invece, riuscì a dare vita ad un codice completo, comprendente il materiale legislativo delle quattro parti del Corpus iuris civilis di Giustiniano. L’opera, distribuita in 60 libri, nota come “Basilici”, ebbe ampia diffusione. Essa testimonia come in Oriente si sia comunque conservato, sia pure a livello scolastico, il patrimonio culturale romano.

 

I Longobardi

 

Nel 568 ebbe inizio l’invasione dei Longobardi in Italia, al comando del loro re Alboino. Ai violenti e aggressivi Longobardi Roma poté opporre solo la cultura. Di tutti i popoli germanici, i Longobardi furono quelli che meno risentirono dell’influenza romana, come civiltà e come cultura.
Alla morte di Alboino il paese fu spartito in ducati, dove ogni duca longobardo regnava, come un signorotto, senza eleggere nessun re, sino all’elezione di Autari come re di tutte le genti longobarde.
La conversione dei Longobardi alla religione cattolica si ebbe grazie al papa Gregorio Magno, che li riavvicinò alla cultura romana, anche se il riavvicinamento non fu di massa.
Un avvenimento centrale della storia dei Longobardi può essere considerato l’Editto emanato dal re Rotari nel 643. Oltre che dal diritto consuetudinario longobardo, l’Editto fu influenzato dal diritto teodosiano, dalla compilazione giustinianea, da fonti biblico-ecclesiastici e soprattutto dal diritto dei Visigoti. L’editto era composto da 388 capitoli con una netta prevalenza della materia penale, in particolare di prescrizioni a difesa della vita del singolo e della sua proprietà. L’attività legislativa di Rotari fu continuata dai suoi successori. Da ricordare il regno di Liutprando

 

L’egemonia dei Franchi e la nascita del feudalesimo

L’occupazione di Pavia nel 774 da parte dei Franchi di Carlo Magno, segnò la fine del regno dei Longobardi. Regno, però, che non fu distrutto, ma che subì un mutamento dinastico. Infatti, Pipino il Breve, padre di Carlo Magno, fu insediato a Pavia, capitale del regno, in qualità di luogotenente del re. Con la restaurazione dell’ Impero romano d’Occidente il regno longobardo mantenne la propria autonomia. Nei primi decenni del secolo IX prese il nome di Regnum Italiae.
Con la conquista del regno dei longobardi il dominio dei franchi si estendeva oramai tra la Spagna e il Danubio e dalla Danimarca al territorio che fu del regno longobardo. Era il compimento della politica espansionistica di Carlo Magno.
“Tutti coloro i quali non si rassegnavano alla morte dell’Impero romano o al suo esilio in oriente, coloro che idealizzavano l’antica Roma come il modello della pace e della giustizia, videro in questo germano l’uomo destinato a ridare un corpo al fantasma imperiale”.
La notte di Natale dell’800, con l’incoronazione di Carlo Magno per mano del pontefice Leone III prese vita il Sacro Romano Impero. La nozione di sovranità era inscindibile dal compimento di una missione religiosa: Carlo Magno si sentiva il difensore della Chiesa dai suoi nemici.
Bisogna dire che l’impero carolingio, pur se romano e cristiano nei suoi fondamenti spirituali, fu tuttavia un Impero germanico, dal punto di vista istituzionale e organizzativo. Reggeva ancora il vecchio concetto barbarico di Stato come esercito, come insieme di uomini liberi armati legati al proprio capo da un vincolo di fedeltà personale.
Questo vasto impero veniva governato con l’opera di numerosi funzionari locali di nomina imperiale, i Conti, a loro volta controllati dai Vescovi. Per questo concetto barbarico di Stato, ciascun regno riunito nell’Impero conservò amministrazione, istituzioni e leggi separate.
L’imperatore, durante il “Placitum generale”, grande assemblea dove tutti intervenivano, emanava delle norme chiamate comunemente capitularia, rese per iscritto. I capitolari, che erano soprattutto delle disposizioni che regolavano caso per caso le singole materie, non costituivano una articolata raccolta di norme giuridiche; infatti ciascun popolo dell’impero continuava a reggersi secondo il proprio diritto tradizionale (concezione personalistica del diritto).
Carlo Magno considerava il suo ruolo pari a quello del pontefice e a quello dell’imperatore d’Oriente.
In età carolingia le istituzioni della Chiesa e quelle statali si intersecarono l’una nell’altra. La società è inevitabilmente guidata dai due poteri (temporale e spirituale) coordinati. Ai vescovi erano affidate funzioni politiche ed amministrative; all’imperatore compiti di sorveglianza e di riforma della Chiesa. I rapporti tra pontefice e imperatore erano di stretta alleanza.
Il Papa obbediva a Carlo Magno. Sarà con Ludovico il Pio, nell’817, che si ritornerà alla sovranità ed alla indipendenza del pontefice, per cui l’imperatore non potrà più intervenire negli affari politici della Chiesa, garantendo in tal modo la libertà dell’elezione del papa. Dall’830 avremo una preponderanza del papa, che si attribuisce il potere di designare l’imperatore nella successione all’Impero.

Il feudalesimo

 

I Franchi, come abbiamo visto, non erano riusciti a fare proprio un concetto di Stato, né quello di res publica. Il Regno era considerato proprietà privata, e per consolidare questo Carlo Magno moltiplicò i benefici, ossia le donazioni di terre a tutti colori di cui voleva assicurarsi la fedeltà, legandoli a sé in un rapporto di vassallaggio. Incoraggiò anche i suoi vassalli a fare altrettanto coi loro sottoposti. Si creava così un legame di dipendenza tra un uomo e un altro, coi guerrieri che occupavano i gradi più alti della gerarchia sociale. Erano i prodromi del feudalesimo di cui occorre specificare i presupposti: il frazionamento del potere pubblico e del diritto di proprietà; il prevalere della campagna sulla città; la netta distinzione tra la classe dei signori e quella dei servi.
Le invasioni degli Arabi e la divisione dell’impero in tre parti accelerarono il processo di affermazione del sistema feudale, organizzato intorno al rapporto di vassallaggio e aventi al proprio centro il feudo. La maggiore diffusione del feudalesimo si ebbe coi successori di Carlo Magno. Esso si presentava come risultato della fusione di tre elementi: il vassallaggio, il beneficium e l’immunitas.
Il vassallaggio consisteva nell’assoggettamento volontario di uomini liberi ad un sovrano (o ad un signore). Alla fedeltà ed all’obbedienza del vassallo, corrispondeva sempre quello della protezione da parte del re o del signore. Il legame era perpetuo e durata per tutta la vita del vassallo e del signore. Spesso i vassalli erano servitori di bassa condizione (ma poi vedremo anche potenti personaggi) ed il loro legame era un impegno puramente personale, non condizionato alla concessione di terre in beneficio. 
Il beneficio consisteva nella concessione di un fondo, subordinata all’obbligo per il beneficiato di prestare determinati servigi a favore del concedente. Furono soprattutto i re Franchi a ricorrere a tale prassi, per ottenere i servigi dei loro soldati. Poiché le terre della Chiesa erano più numerose e ricche, fu la proprietà ecclesiastica ad essere più frequentemente concessa in beneficio. Non sempre il beneficio ricompensava servigi militari. La durata era temporanea e generalmente coincideva con la vita del concessionario. Con il capitolare di Quierzy si ebbe l’ereditarietà del beneficio: alla morte del beneficiario, però, il beneficium ritornava al signore o al re, che lo riattribuiva al figlio del vassallo, purché non avesse mostrato indegnità a succedere.
L’immunitas si sostanziava nel divieto fatto a qualunque pubblico ufficiale di entrare nei fondi privilegiati per esercitare funzioni giudiziarie, per riscuotere imposte o per eseguire arresti.
Tra i secoli X e XI vassallaggio e beneficio si legarono strutturalmente insieme e la loro convergenza si trasformò in vincolo di diritto (succederà con le milizie professionali poste a difesa delle città).  

IL REGNO DI SICILIA   (I Normanni)

I normanni sono una delle tante popolazioni barbariche che vagabondano per l’Europa, che si sono stabilizzati in Normandia (Francia del nord) e che ad un certo punto sono andati a conquistare l’Inghilterra e la Sicilia (meridione d’Italia).
Uno dei fattori del successo dei Normanni fu l'atteggiamento di tolleranza che essi ebbero nei confronti dei diversi gruppi etnici e religiosi stanziati nell'Italia meridionale. I capi normanni ebbero la capacità di utilizzare, sul piano politico e culturale, Arabi e Bizantini, ebrei, cristiani, Longobardi, promuovendo la fusione e l'assimilazione delle diverse esperienze e tradizioni.
I Normanni introdussero, o meglio portarono a maturazione, il sistema feudale; ebbero cura di impedire la formazione di potenti signorie, ma inquietanti fenomeni di anarchia feudale cominciarono subito a manifestarsi. Vigorosamente fu condotta la lotta contro le autonomie cittadine che, in quel tempo, si venivano affermando: il caso di Amalfi, che perdette insieme, cadendo sotto il dominio normanno, la sua indipendenza e la sua vitalità economica può essere considerato esemplare.
Ma perché i normanni vengono nel meridione d’Italia?
Nella parte orientale dell’Italia ci sono i bizantini; la parte occidentale è quella più caotica, perché è piena di ducati e di principati. In Sicilia dal IX sec., quando sono arrivati i Franchi, c’erano già gli arabi, e sono proprio i normanni quelli che riescono a scacciarli via dall’isola..
I normanni, avendo la fama di essere ottimi guerrieri, sono chiamati da alcuni signori campani che si fanno la guerra tra di loro. Così, con vari accordi, i normanni arrivano in Sicilia per aiutare alcune fazioni a combattere altre fazioni di altri principati. Sono guidati da alcuni capi militari, tra i quali si distinguono, in particolare, due fratelli, discendenti degli “Altavilla”, Roberto (il Guiscardo) e Ruggero (il Gran Conte), molto bravi, non solo perché sanno fare bene la guerra, ma perché cominciano a capire che, in una situazione di debolezza di tutti questi principati, loro si possono inserire a buon diritto. Così cominciano a diventare signori militari, e allo stesso tempo signori territoriali; cominciano a stanziarsi lì, ad inglobare le loro signorie, ad allearsi con l’uno o con l’altro. Si dividono i compiti: Roberto lavora in Puglia e della Calabria, mentre Ruggero lavora in Sicilia.
Roberto è molto bravo e comincia ad inglobare le signorie con cui prima era alleato, con cui si scontrava e comincia a sottometterle a sé con la forza. Ha, però, bisogno di una legittimazione politica che, nel 1059, chiede ed ottiene dal papa Niccolò II, mediante una investitura feudale. 
Il vantaggio è reciproco: la Chiesa legittima la sua superiorità istituzionale e mette una mano in meridione e Niccolò è il signore feudale, come papa, del meridione; Roberto il G. ha una legittimazione politica e feudale prestigiosa.
La stessa operazione la fa Ruggero il gran conte, il quale però è destinato a maggior gloria, perché fa un’operazione storica e di portata anche religiosa, cioè scaccia via gli arabi dalla Sicilia. Ed è proprio in questa occasione che Ruggero è chiamato “il gran conte” (= grande condottiero).
Anche Ruggero cerca una legittimazione, però il suo rapporto con il papato non funziona molto bene, poiché Ruggero non accetta volentieri l’intrusione della Chiesa nei suoi affari, soprattutto per le cariche ecclesiastiche, che vuole controllare personalmente.
Dopo varie affannosità diplomatiche, nel 1098 Urbano II concede una bolla pontificia, l’Apostolica legazia, che rimane in vigore sino a tutto il 1700, con la quale concede ai sovrani meridionali (in questo caso al duca Ruggero il gran conte) il legato (incaricato) apostolico. In altre parole, Ruggero il gran conte e suo figlio sarebbero stati emissari del papa per le nomine ecclesiastiche (una sorta di mandato provvisorio). I normanni, però, si appropriano di questo potere e lo conservano per tutte le generazioni a venire.
Arriviamo al regnum……
Il nipote di Ruggero il gran conte è Ruggero II d’Altavilla.
Nel 1127, il conte di Sicilia, e signore della Calabria, Ruggero II, prese il controllo del ducato di Puglia. Nel 1130, dall'antipapa Anacleto II, ebbe l'investitura del Regno di Sicilia. Ma le lotte fra i baroni e le città di Campania e Puglia, e il re normanno, si protrassero fino al 1139 quando ebbe il pieno dominio dell'Italia del Sud. Nel 1140 da Ariano Irpino promulgò le assise del regno.
Rimasero in piedi alcune delle precedenti strutture feudali, ma i figli prediletti del re, quelli che avevano ricevuto l'investitura, morirono uno dopo l'altro, e fu uno degli ultimi, Guglielmo I, a ricevere l'eredità del padre nel 1154. Subito si trovò a fronteggiare le ribellioni nel Sud, che continuarono sporadicamente fino al regno di Guglielmo II, suo figlio. Durante il regno dei due Guglielmo, la monarchia normanna si estese dall'Abruzzo all'isola. Nel 1194, l'imperatore svevo Enrico VI, in ragione del suo matrimonio con Costanza di Altavilla, unì la corona imperiale a quella di Sicilia. Quello stesso anno, vedeva la luce un bambino che avrebbe fatto molto parlare di se: Federico II, l'esponente più famoso della dinastia svevo - normanna.

 

Federico II di Svevia

Federico II di Svevia fu un uomo d’ingegno eccezionale, universalmente considerato superiore ad ogni altro personaggio contemporaneo. Fu letterato, statista, condottiero, legislatore; ma oggi è ricordato soprattutto per la mentalità libera, eclettica ed anticipatrice.
In ogni situazione egli fornì sempre un esempio di libertà interpretativa e di tolleranza ideologica difficilmente inquadrabile in una religione o, più in generale, in un movimento di pensiero organizzato.
Federico II fu al tempo stesso un uomo medievale e moderno: il Medio Evo si esprimeva in lui nella concezione del mito imperiale, forte di un potere universale che gli derivava direttamente da Dio; la modernità era presente nella sua apertura ad integrazioni culturali ed equilibri politici sempre nuovi. Senza discriminazione di razza e di fede, la sua Corte accolse tutti i principali uomini di cultura che in quel momento erano portatori delle teorie di maggiore avanguardia, attingendo soprattutto dalle più avanzate scuole d’Oriente; tant’è che i cronisti medievali e gli scrittori di ispirazione cattolica lo hanno più volte definito un Musulmano battezzato, appellativo polemico, se non addirittura denigratorio.
Nel 1224 fondò l’Università di Napoli, fonte di scienze, seminario di dottrine, crocevia culturale del Regno di Sicilia; ma essendo la prima istituzione statale e laica, riuscì ad attirare docenti da ogni parte dell’Impero.
Riordinò la Scuola Medica Salernitana, dove fu istituita la prima cattedra di Anatomia. La Corte sveva divenne così uno straordinario centro culturale e scientifico destinato ad essere ricordato, nella memoria dei posteri, come un’isola felice. Particolare menzione merita l’attività letteraria, dato che Federico II raccolse attorno alla Magna Curia la scuola che fu detta siciliana.
Sotto il profilo politico ed istituzionale Federico II non fu meno innovativo. La sua attività fu volta alla creazione di una monarchia assoluta ed illuminata, che avrebbe trovato concreta realizzazione, sia pure con le modifiche imposte dai tempi, solo nel'700; le sue leggi accolsero ed integrarono le più aggiornate elaborazioni del tempo, resistendo a secoli di evoluzioni giuridiche; le lotte con il Papato, spesso cruente, per affermare i diritti dello Stato laico, gli procurarono tensioni, incomprensioni e scontri non ancora del tutto rimossi all’alba del Terzo Millennio.
Federico II, con il suo seguito ed il suo governo, non risiedeva mai a lungo presso una stessa sede fissa. Anche se possedeva castelli in tutto il Meridione d’Italia e palazzi sontuosi nelle fedeli Cremona
e Parma, la sua era una Corte itinerante, unico esempio forse nella storia del Medio Evo cristiano.

 

 

 

 

 

Cavanna        (Riassunto del libro da pag. 19 a pag. 77)

Vicende storiche del concetto di dir comune nella teoria delle fonti fra medioevo ed età moderna.

Cap. 1  L’idea di Europa :realtà e mito.

Si può dire che l’idea di una civiltà europea sia nata con l’impero carolingio. La notte di Natale dell’800, con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno, avvenuta a Roma, per mano del pontefice Leone III, prese vita quel Sacrum Imperium, che per la prima volta nella storia rappresentava la struttura formale e politica di gran parte dell’Europa moderna. Restavano fuori solo i piccoli regni anglosassoni e tutta la penisola iberica.
Con Carlo Magno, un imperatore barbarico potentissimo, e la Chiesa di Roma ritorna a costruirsi l’idea della continuazione di Roma.
L’idea di Carlo Magno era la costruzione di un grande impero franco e cristiano in opposizione a Bisanzio.
Roma rimaneva, però, sempre il centro ideale della sua potenza. Essa, con il suo passato ed il suo ricordo, era il cemento che stringeva assieme la nuova compagine politica e rappresentava l’elemento chiave di un disegno divino volto alla diffusione della cristianità. Il nuovo impero, pertanto, si presentava come Res publica cristiana. L’Europa cominciava a trovare la propria identità. Il sacro impero si presentava come il frutto di una reciproca assimilazione di cristianità, romanità e germanesimo.
La Chiesa era stata la grande protagonista di questo processo. Il latino era la lingua sopranazionale usata alla corte del sovrano barbarico ed ad usarlo erano soprattutto gli ecclesiastici.
Questi esponenti del clero non venivano a costituire un’aristocrazia in senso sociale, bensì in senso culturale: costituivano cioè la “classe romanamente colta”.
La civiltà europea, dunque, prese origine dall’impero carolingio. Essa, tuttavia, non fu il risultato di un processo geografico, ma storico. Processo storico visto come mescolanza di elementi culturali greci, romani, germanici, legati dalla cristianità. Quest’unità dello spirito rimase anche quando l’impero carolingio si ridusse all’Italia e alla Germania.. Pur rimpicciolito, il nuovo impero romano-germanico vide in Roma il perno universale romano e cristiano: vincolo fra Roma ed impero non cessato neppure nell’epoca ottoniana e sveva. Le nascenti nazioni, pur ribelli alla supremazia dell’impero, non rifiutarono l’idea di Roma come simbolo unificante, a prescindere dall’impero stesso. L’impero fu visto come il rappresentante del mondo cristiano. All’impero furono negati il reale predominio politico e la possibilità di ingerenza nel governo interno dei singoli regni, ma a Roma fu conferita una superiore “auctoritas”. Fu la Chiesa la vera forza motrice. La Chiesa che scelse, la notte di Natale dell’800, di legarsi alla più potente forza temporale dell’Occidente cristiano.

Cap. 2   Le origini del diritto comune.

La concezione etico-politica del Sacro Impero non poteva non trovare espressione anche nel mondo del diritto. Dopo essersi affacciata in modo approssimativo nell’alto medioevo, è nel secolo XII che troverà la sua piena elaborazione dottrinale: è il “Rinascimento giuridico”, alle soglie del XII secolo con la nascita della scuola del diritto di Bologna.
La scuola di Bologna diventa sede di uno studio scientifico del diritto, a carattere universitario, lavoro dottrinale su tutta la compilazione giustinianea. Propagandosi in tutto l’Occidente, genera il sorgere di una giurisprudenza europea.
Per i giuristi bolognesi la normativa giustinianea rappresentava il diritto vigente: la “communis lex” dell’impero. Diritto che sarà diffuso in tutti gli altri regni grazie all’interpretatio italiana ed al suo prestigio. Esso diventerà l’universale “ius commune” della res publica cristiana. Grazie ai giuristi bolognesi nasce l’idea di una società cristiana non solo legata da una fede comune, ma anche da un diritto comune.
E’ nell’alto medioevo, barbarico e feudale, che si prepara il terreno, ma è dal XI secolo in poi che si pongono le premesse di quello che sarà definito ius commune.
Il mito di Roma caput mundi penetra nella coscienza giuridica altomedievale e si traduce non solo nell’idea della res publica sotto la guida del pontefice e dell’imperatore da esso designato, ma anche nell’idea, seppur confusa, di far convergere tutte le leggi dei vari popoli verso l’universale diritto di Roma.
Bisogna precisare che in Italia il diritto romano, tra la fine del X e la metà del secolo XI, appare completamente emerso dalle congerie delle leggi barbariche, dalle quali era affiancato secondo il sistema germanico della “personalità del diritto”.
Secondo il principio della personalità del diritto, le genti vivevano, anche in presenza d’invasioni di altre genti, ognuno secondo il proprio diritto, secondo la propria ratio. Tale principio si presenta in modo completamente opposto a quello della “territorialità del diritto”. Il primo è un classico elemento della cultura dei paesi germanici.
Ad un certo punto si assiste al ritorno del vecchio sistema della territorialità del diritto. Si fa strada la lex romana, significativamente più incisiva e più prestigiosa. L’idea nasce, come già detto, grazie alla scuola di Bologna.
E’ nel secolo XII, con il glossatore Piacentino, che è spiegata in modo lucido la teorica di quel principio che vede l’eccellenza nei precetti romani, le leggi emanate dai Cesari e dai loro successori, e che richiama direttamente l’autorità divina come fondamento della indiscussa legittimità delle norme dell’impero.
Nell’idea dell’unità cristiana il diritto romano, che è diritto dell’impero, diventa “unum ius”, cioè diritto universale. Il concetto di ius unum si sarebbe trasformato poi in ius commune.
Verso la fine del XII secolo l’impero appariva frazionato in tantissime entità politiche, tutte animate dalla naturale pretesa di indipendenza: ordinamenti monarchici, comuni, feudi, signorie territoriali, corporazioni. Da modesti comunelli o corporazioni artigiane o come cospicua entità politico-territoriale, come il potente Regnum Siciliae, la concreta struttura politico-sociale dell’impero post-feudale era caratterizzata da una pluralità di ordinamenti giuridici, con conseguente fenomeno di particolarismo (cioè mancanza di unità) nel mondo delle fonti del diritto.
I nuovi regni e i comuni cittadini si proclamavano addirittura non soggetti all’autorità imperiale, mentre contemporaneamente fuori d’Italia e Germania andavano strutturandosi forti Stati nazionali, che rivendicavano, entro i propri confini, lo stesso potere dell’imperatore. 
Ciò era dettato dalla crisi dello spirito feudale, intorno all’inizio del XIII secolo, e dalla nascita dei comuni liberi e della correlativa civiltà comunale. Bisogna ricordare, che è il periodo del rinnovato prestigio morale e politico dell’autorità universale della Chiesa (Conciliazione di Worms del 1112 come conclusione della riforma gregoriana della Chiesa e la lunga lotta per le investiture), delle crociate e del conflitto tra imperatore e comuni italiani.
E’ anche il momento, però del rinascimento giuridico della scuola di Bologna.
Come conciliare l’unum ius nell’unum impero?
Il problema si pone dalle esigenze locali di autoconservazione e autodisciplina. Le consuetudine locali si contrappongono all’autorità superiore dell’imperatore, del sovrano, che tende ad assoggettarle. Affianco alle consuetudini, inoltre, vengono a formarsi i complessi statuti comunali (piccoli codici con proprie procedure giudiziarie e proprie regole di diritto). E’ l’autonomia che ciascun ordinamento giuridico rivendica nei propri confini, senza disconoscere peraltro la superiorità della lex imperiale, che interviene là dove lo statuto tace. A volte gli statuti lasciano le consuetudini già formatesi in loco, altre volte le sostituiscono. La gamma degli statuti è infinita: statuti di comuni, soprattutto nell’Italia settentrionale e, anche se con ampiezza minore, statuti di castelli, di borghi rurali, di comunità feudali, ed ancora, statuti marittimi e statuti corporativi, ciascuno con le norme della propria organizzazione. Come si risolse tale problema?
Col conciliare lo ius commune coi vari diritti degli ordinamenti particolari e sono le “Questiones de iuris subtilitatibus”che lo spiegano.
Unum ius non vuol dire diritto unico, o meglio, diritto unico nell’impero, ma diritto unico dell’impero, per cui esso rappresenta lo ius commune contrapposto al complesso degli “iura propria”. Il diritto dell’impero è comune, in quanto una molteplicità di diritti particolari gli si collegano, in un rapporto di subordinazione e si riconducono tutti ai suoi generali principi. Pertanto, lo ius commune, è collocato dai giuristi in una assoluta posizione di preminenza gerarchica. Tale configurazione del XII e del XIII secolo sarà superata nei secoli XIV e XV, dove lo ius commune dovrà dare la precedenza agli iura propria, diventando così un diritto suppletivo. Esso, cioè, sarà accolto nei vari sistemi solo a titolo sussidiario. In più, accanto al diritto romano, come diritto comune, verrà a porsi il diritto canonico della Chiesa, diritto universale per eccellenza, diritto superiore ad ogni subordinazione gerarchica. L’idea del diritto comune era la naturale veste giuridica del più alto ideale di giustizia e di armonia politica del Medioevo. Ed è a partire dal ‘200 che si conclude la questione dei rapporti fra impero e Chiesa e della reciproca rilevanza dei due ordinamenti normativi, civile e canonico. Distinguere i due ordinamenti creò un plurisecolare conflitto dottrinale fra giuristi civili e giuristi canonici. Si arrivò a formulare il postulato della “ordinatio ad unum” delle due potestà supreme, due potestà sovrane e indipendenti, aventi ciascuna una propria e distinta “iurisdictio” e produttive rispettivamente di due separati corpi normativi, quello civile e quello canonico. Potere temporale e potere spirituale, dove le norme canoniche possono regolare i casi temporali sono nelle terre direttamente soggette al pontefice. Solo in quelle terre può succedere questo, altrimenti vige la divisione dei due poteri.
Quest’idea di superiore conciliazione fu resa dai giuristi medievali mediante la celebre espressione “utrumque ius”. Esso rappresentava il rapporto essenziale fra due mondi distinti, ma al tempo stesso congiunti: lo ius commune si sostanziava così in entrambi i diritti.
Il concetto di ius commune, inoltre, era collegato ai problemi pratici connessi alla pluralità degli ordinamenti giuridici.
In realtà (soprattutto in Italia e in Germania) la preminenza universale dell’imperatore ebbe un valore puramente formale, in quanto la giurisprudenza medievale costruì un fondamento teorico al carattere sovrano dei vari regni, consacrandolo sulla formula che “ogni re non riconosce nel suo regno un imperatore superiore”.
Ciò era riconosciuto anche ai grandi comuni cittadini nati nell’impero: “Ogni città aveva nel suo territorio tanto diritto quanto l’imperatore nel suo regno”.
I Comuni rivendicavano la potestà di darsi proprie leggi (statuti) e di applicarle con assoluta precedenza anche nei riguardi del diritto comune. Derivava da ciò il carattere suppletivo del ius commune, ma non di quello canonico, che non ammetteva deroghe e limitazioni.
Lo Statuto diventava un’eccezione al diritto comune ed era “ius proprium”, e di questo dovevano prenderne atto i giuristi, che legittimavano questa pretesa. Lo ius commune, però, benché sussidiario, non perdeva il suo posto di protagonista, perché esso si ergeva maestoso sugli schemi spesso lacunosi del diritto statutario. Lo ius commune, dunque, con la sua pretesa di colmare le lacune dello ius proprium, era trasfuso nella realtà quotidiana delle società comunali.
Fu elaborata la teoria cosiddetta della “permissio”, grazie alla quale la “potestas condendi statuta” sarebbe stata concessa ai Comuni dallo stesso imperatore (teoria fondata su un passo del trattato di Costanza, ove Federico Barbarossa riconosceva la legittimità dei “mores” delle città della Lega Lombarda).
Secondo Bartolo da Sassoferrato questa legittimazione rappresentava la necessaria manifestazione della facoltà di autogoverno di ciascun ordinamento, cioè la libertà per ogni organismo di autoregolarsi nel suo interno.
Baldo degli Ubaldi enunciava una teoria ancor più profonda: l’esistenza delle comunità politiche trovava la sua giustificazione nello stesso diritto naturale. Esse nascevano come fenomeno vitale spontaneo, senza derivare da alcuna fonte di potere, ragion per cui ciascuna comunità doveva reggersi con proprie norme.
Bisogna aggiungere che gli stessi giuristi erano diretti compilatori dei vari statuti e davano pur sempre la prevalenza al diritto comune sugli iura propria. tutto ciò conferiva ad essi una posizione di notevole prestigio e autorità nei confronti dei poteri organizzati e promotori dello ius proprium. Insomma, chi gestiva lo ius commune faceva parte di un prestigioso gruppo di potere privato alleato all’autorità politica.

Approfondiamo da altri appunti.
Ritorniamo un attimo alla teoria della permissio.
La teoria che parte dalla pace di Costanza è detta “teoria della permissio”, perché si basa sull’idea che i Comuni si possono dare gli statuti, perché l’imperatore glielo ha permesso (ha dato un privilegio).
Qual è lo svantaggio di questa teoria per i Comuni? La permissio, così come è stata concessa potrebbe  essere anche tolta, si pensa.
Questo problema è stato avvertito da molti giuristi, in particolare da Bartolo da Sassoferrato, il quale ha inventato la “teoria della iurisdictio”: bisogna evitare che l’imperatore, di punto in bianco, tolga la permissio, per cui, occorre, ancorare la potestà normativa a qualcosa di stabile. Questo si fa con un modello piramidale e si dice: la massima iurisdictio nel mondo l’ha l’imperatore, ma ciò non significa che gli altri non l’abbiano. L’imperatore ha la massima iurisdictio per tutto il mondo, però a livelli inferiori possono averla anche altre autorità, per esempio, il rex, il Comune e persino il pater familias: il rex ha la iurisdictio nell’ambito dei confini del suo regno, il comune l’ha all’interno delle mura o del distretto urbano, il pater familias l’ha all’interno del suo fondo agricolo e della sua famiglia. Quindi, la iurisdictio non è altro che un modello che si può adattare a scale inferiori, come delle scatole cinesi: la iurisdictio è la stessa, cambia solo l’ambito d’applicazione.
Qual è il vantaggio di questa teoria? Per togliere la potestà normativa al comune bisogna ammettere che cada l’imperatore, perché la iurisdictio l’ha l’imperatore, e questo non è possibile. L’imperatore non può togliere la iurisdictio, semplicemente perché la iurisdictio è la sua, anche se più grande, ma non si può negare che anche gli altri l’abbiano, anche se in ambiti territoriali molto più piccoli.

Cap. 3    Diritto comune e gerarchia delle fonti alla crisi del pluralismo politico medievale.

Occorre vedere ora come lo ius commune si situa nel quadro delle fonti giuridiche quale diritto nazionale o regionale, non più imperiale, facendo anche una distinzione fra i Paesi all’interno dell’area imperiale.
Nei Paesi estranei all’area italo-tedesca e svincolati dall’impero romanico-germanico, una volta divenuta estranea l’idea di appartenenza ad un “unum imperium”, con conseguente accrescimento del nazionalismo, lo ius commune fu applicato solo se accettato e fatto proprio quale parte del diritto nazionale del monarca (soprattutto in Francia e nella penisola iberica). Qui lo ius commune rimane in vigore, a titolo sussidiario, grazie al mero consenso dei sovrani, che lo fanno proprio e lo tollerano come consuetudine nazionale.
Diversa la situazione nei Paesi ancora collegati all’impero e in particolar modo in quelli italiani. Qui, pur legittimati gli iura propria, era stata salvata la suprema e unitaria autorità imperiale. Qui nonostante il fatto che Comuni e signori potessero legiferare, anche contro i princìpi dello ius commune, il diritto romano rimaneva il diritto dell’impero per antonomasia, anche se aveva assunto valore sussidiario rispetto agli ordinamenti positivi delle singole comunità: ne rappresentava pur sempre la “ratio”.
A partire dalla fine del secolo XV questa concezione va in crisi. La nuova posizione italiana diventa come quella dei paesi d’Occidente estranei all’impero, già dalla fine del XIII° secolo e l’inizio del XIV° (cioè già 200 anni prima). Questi regni si avviavano ad organizzarsi in quella forma che siamo soliti identificare con l’assolutismo monarchico.
Al pieno tramonto dell’età medievale, con il potere tipico dello stato signorile e principesco, a cui seguiranno i modelli assolutistici, corrisponde dunque lo svuotamento del significato di un “unum imperium” e di conseguenza di uno ius commune. Quest’ultimo diventa solo diritto sussidiario all’interno dello Stato principesco e non più legge universale dell’impero romano-germanico.
Il principato, oramai, costituitosi come sviluppo signorile sul pieno disfacimento politico delle autonomie comunali, tende ad affermarsi quale ordinamento sovrano e primario, con una politica di accentramento amministrativo, legislativo e giudiziario. Svuotati i vecchi privilegi feudali, controllata la Chiesa all’interno dello Stato, il princeps personifica lo Stato in maniera assolutistica.
Il principe, detto vicario, esercita poteri senza alcuna intromissione imperiale. Egli diventa la suprema fonte di diritto e le altre norme, derivanti da norme interne o esterne allo Stato, sono rilevanti solo se oggetto della sua approvazione. Si presenta, però, come legislazione lacunosa, non unificatrice, specialmente nel settore privato. A lui sono affiancati influentissimi tribunali (Rote, Camere, Senati, Consigli…) che tendono a sviluppare una giurisprudenza uniforme.
Il diritto principesco si erge come fonte su tutte le fonti: si presenta esso stesso come diritto comune (così, infatti, si è creato un equivoco, per cui è stato utile sempre specificare se ius commune imperiale o ius commune dei nuovi sovrani).
Il diritto comune, così tra i secoli XV e XVI diventa diritto positivo dello Stato in virtù dell’espressa accettazione del sovrano, ma si “particolarizza” e si “regionalizza”: è “comune” solo in ciascuna unità politica. Si creano così molti “diritti comuni”, si da poter utilizzare il termine di “diritto comune particolare”. Un diritto che nasce dalla potestà diversa di ogni principe.
Lo stesso accade in Germania verso la metà del XVII secolo. In ciascun ordinamento ove regni un monarca (tra questi anche in Francia, Spagna, Inghilterra, nella Lombardia spagnola della 2° metà del ‘500, ma anche nelle Repubbliche di Venezia e Genova) il diritto comune viene applicato in conformità allo spazio che la legislazione sovrana consente. Ciò comporta un differenziarsi del diritto comune da Stato a Stato.
Bisogna dire, però, che lo ius commune è pur sempre concepito in ogni ordinamento politico come sistema legale completo, l’unico capace di sopperire in modo uniforme alle insufficienze degli ordinamenti positivi che lo accolgono.
Lo svolgimento del diritto comune è ora affidato alle decisioni dei tribunali, dove la figura del giurista dominante è quella dell’alto magistrato, al servizio del principe, nel tribunale supremo dello Stato e dell’avvocato ammesso a patrocinare presso questo tribunale.

La codificazione del diritto della Chiesa

 

Primi tentativi di elaborazione del diritto canonico e riforma gregoriana.

 

A partire dai primi anni del sec. IX la Chiesa si trovò ad affrontare due problemi fondamentali. In primo luogo divenne pressante la necessità di affrancarsi dalle eccessive interferenze statali nelle questioni ecclesiastiche; in secondo luogo (ma questo era il problema maggiore), la Chiesa cattolica romana avvertì l’urgenza di contrapporsi validamente alla quella grande unità politica che era il rinnovato Sacro Romano Impero.

L’esigenza della Chiesa cattolica di affrancarsi dall’ingerenza dello Stato nelle questioni religiose fu alla base, inoltre, di un grande movimento rinnovatore che scosse la Chiesa in pieno secolo XI: la riforma gregoriana.  

Dopo l’anno Mille si assistette al rifiorire della vita religiosa. La Chiesa, oramai, avvertiva il bisogno di maggiori interessi politici e temporali, coi suoi tribunali supremi e con le sue collezioni canoniche, con l’esclusività del suo magistero e le sue preoccupazioni disciplinari.

L’asservimento degli ecclesiastici ai disegni politici degli imperatori aveva portato con sé come conseguenza il conferimento delle più alte cariche episcopali a uomini scelti più per le loro qualità politiche e di fedeltà all’imperatore che per la loro religiosità o moralità: si delineava, in una situazione di questo genere, lo scandalo della corruzione dei dignitari ecclesiastici.
Non bisogna dimenticare che l’imperatore considerava il proprio ruolo come assegnatogli direttamente da Dio, e perciò non meno sacro e originario di quello del papa.
Proprio a partire dall’ XI° secolo sorse un movimento di riforma monastica che si rifaceva alla regola benedettina. I riformatori rivolsero le proprie speranze verso il Papato, opponendo l’autorità del pontefice romano a quella dei propri vescovi. La battaglia per la riforma della Chiesa ebbe il suo maggiore sostenitore in Papa Gregorio VII (riforma gregoriana). Egli mirò alla moralizzazione del clero, a privare l’imperatore del diritto di nominare i più alti gradi della gerarchia ecclesiastica (lotta per le investiture) e a trasformare il Papato in una monarchia, in modo da agevolare la riorganizzazione interna della Chiesa.

Il Dictatus Papae e il Decretum.

Con il Dictatus Papae di Gregorio VII viene enunciato chiaramente il primato assoluto del potere spirituale su quello temporale. In particolare veniva sancita l’assoluta subordinazione dei vescovi al papa, al quale spettava di giudicarli e di deporli, o di trasferirli. A nessuno era concesso di giudicarlo, e solo al papa competeva la convocazione dei concili e l’approvazione delle norme canoniche. Solo al papa era dato di usare le insegne imperiali e di deporre gli imperatori; nessun contatto poteva aversi cogli scomunicati del pontefice ed era fatto divieto di trattenersi con loro nella stessa dimora.
Il nuovo prestigio politico della Chiesa richiedeva un sistema normativo che sapesse andare al di là delle questioni più propriamente dottrinali.
Attorno al 1140, a Bologna, per mano del monaco Graziano, vengono raccolti in un’opera dal titolo significativo Concordia discordantium canonum - ma più conosciuta successivamente come Decretum magistri Gratiani - decretali pontificie, canoni di concili, passi tratti da opere dei Padri della Chiesa, da fonti di diritto romano pregiustinianeo, dalla Lex romana Visigothorum, dai capitolari carolingi, ai quali si accompagnano le considerazioni personali di Graziano. Nucleo fondamentale di quel complesso normativo della Chiesa, che più tardi prenderà il nome di Corpus iuris canonici, il Decretum rappresentò un momento fondamentale per la codificazione del diritto canonico. Infatti, posteriormente ad esso furono emanate molte decretali pontificie, a testimoniare il prestigio sempre più crescente della Chiesa. L’opera di questo monaco era il frutto di un’iniziativa personale senza, perciò, alcun crisma d’ufficialità. A Graziano si deve il merito di aver per primo attuato una risistemazione ed eliminazione delle contraddizioni insite nel “mare magnum” delle fonti canonistiche. Egli fu animato da intendimenti scientifici e dalla necessità di separare il diritto canonico dalla teologia pratica e morale. Sebbene la sua opera risulti, al confronto con quella di Irnerio, più rudimentale, è da osservare che il suo lavoro fu arduo. 
La Chiesa, di fronte alla crescita di prestigio, di autorità e di diffusione del diritto romano, lo assunse definitivamente nel corpo delle proprie leggi, e riconobbe in esso uno ius commune. Parallelamente, i giuristi laici del XII secolo trovarono nel diritto canonico un validissimo sostegno alla loro concezione del diritto romano da contrapporre al diritto locale comunale.
Con l’espressione utrumque ius (l’uno e l’altro diritto) i giuristi medievali indicarono lo stretto legame tra i due distinti corpi normativi, che con pari dignità contribuivano entrambi a sostanziare quell’ordinamento, ad universalità duplice, che era lo ius commune.
Posteriormente al Decretum furono emanate numerosissime decretali pontificie che, in manoscritti, furono via via aggiunte al Decreto. Esse vennero usualmente denominate “decretales extravagantes” perché circolavano, appunto, al di fuori del Decreto. Si avvertì, pertanto, la necessità di raccogliere tali decretales in collezioni. Famose tra queste furono le Quinque compilationes (antiquae)

Le decretales di Gregorio IX, il Liber sextus e le Clementinae.

Il materiale normativo delle Quinque compilationes risultava difficilmente consultabile, a causa della sua enorme vastità e dell’imperfetto metodo con cui era stato inserito.
Con l’intensificazione dell’emanazione delle decretali pontificie si cominciò a sentire la necessità di redigere nuove raccolte e nel 1234 papa Gregorio IX promulgò la Decretalium Gregorii IXcompilatio, meglio nota come Liber extravagantium, o semplicemente Liber extra (poiché raccoglieva epistulae decretales non comprese nel Decretum di Graziano). Le Decretali di Gregorio IX ebbero forza di legge (abrogavano le Quinque compilationes), furono inviate alle università e fatte oggetto di studio e di elaborazione scientifica fino all’entrata in vigore del Corpus iuris canonici nel 1918. I giuristi che si dedicarono allo studio sistematico di tale opera furono detti “Decretalisti”.
Nel 1298 per opera del pontefice Bonifacio VIII si ebbe un’altra raccolta ufficiale: in quanto rappresentava il seguito dei cinque libri in cui era diviso il Liber extra, fu detta Liber sextusdecretalium Bonifacii papae VIII; ancora, nel 1317 sotto il pontificato di Giovanni XXII fu promulgata la terza raccolta ufficiale di decretali pontificie, le Clementinae (dal nome del papa Clemente V che l’aveva intrapresa e portata a compimento). Infine si ebbero due compilazioni d’iniziativa privata, le Extravagantes Iohannis XXII e le Extravagantes communes.
Nel XVI secolo un giurista francese, Jean Chappuis, riunì in un unico corpo queste consolidazioni di cui siamo venuti dicendo, e ilDecretumdi Graziano, ilLiber extra, ilLiber sextus, leClementinae, leExtravagantes Iohannis XXIIe leExtravagantes communescostituirono ilCorpus iuris canonici.

Cavanna    (Riassunto del libro da pag. 95 a pag. 103)

I caratteri intrinseci del diritto comune.

 

Dagli inizi del XII° alla fine del XVIII° secolo si pose il problema di conciliare il rapporto tra il diritto comune (romano-canonico) ed i diritti locali scritti o consuetudinari. Il diritto romano-canonico fu universalmente presente e per questo fu detto comune, dove la fonte primaria è da attribuire senz’altro allo ius civile romano. Quello canonico ebbe, sicuramente, portata minore, anche se “l’equitas canonica” raggiunse una superiore capacità di penetrazione dei fatti umani. Fu, però, nell’età dell’assolutismo che l’espressione ius commune si riferì quasi esclusivamente al diritto romano.
Bisogna precisare che per ius commune dobbiamo intendere anche quelle norme romano-canoniche che la giurisprudenza dottrinale riuscì a sistemare, rispetto agli iura propria, nella vita sociale, nei secoli successivi alla scuola di Bologna. Cioè, la giurisprudenza medievale, rappresentando l’elemento coordinatore, e per questo fonte di diritto, riuscì, coordinando le varie fonti concorrenti, a contrapporre lo ius commune alla molteplicità dei diritti particolari, ovvero allo “ius novum”.
Pur essendo il testo giustinianeo il punto di partenza del diritto comune, occorre specificare che, ciò che intendiamo per ius commune non si ridusse solo alle norme contenute nei testi romano-canonici.
Su questi testi, che possiamo definire la base solida, fu costruita la piattaforma testuale e legale, sulla quale fu innalzato quell’edificio giurisprudenziale che fu la parte viva del diritto comune.
E’ bene chiarire, però, che il diritto comune non fu solo la dottrina costruita dalla giurisprudenza e accolta nella prassi, ma anche la sua stessa base legislativa, che non può essere assolutamente esclusa.
Questo perché il lavoro dottrinale non soffocò mai la rilevanza del testo legislativo di partenza.
Il “Doctor”, vero soggetto attivo, diventò indispensabile mediatore tra norma giustinianea e i consociati destinatari della norma.
Il diritto giustinianeo, dopo anni di silenzio, fu reso suscettibile di applicazione pratica.
Il diritto comune si presenta dunque come diritto giurisprudenziale, cioè diritto che trova la sua espressione grazie all’opera dei giuristi. La norma interpretata dal giurista si arricchisce d’autorità. Il giurista, però, deve lottare per creare diritto. Il giurista, infatti, può correggere il diritto, ma non è un legislatore. Egli è al servizio del diritto, ma non è il suo schiavo.
Il giurista non crea diritto, bensì lo riforma giorno dopo giorno; non lo rivoluziona, ma lo muta e lo plasma di continuo, mantenendolo al livello del presente attraverso il tempo”.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Comuni

Il comune cittadino italiano nel Medioevo

Connesso allo sviluppo dell’università si allinea lo sviluppo dell'istituzione cittadina per eccellenza, nell’Italia settentrionale, e cioè il Comune, che non ha una base territoriale vasta come le precedenti istituzioni, ma che è appunto per questo che può sviluppare al suo interno, al meglio, tutte quelle attività che man mano serviranno ad ingrandire le mura della stessa.
L’attività economica è affidata alle corporazioni che la dirigono in maniera di solito impeccabile.
Le istituzioni giuridico-politiche del Comune cittadino sono un tratto caratteristico di quei secoli.
A seconda delle città, possiamo trovare ordinamenti giuridici che sono al di là degli interessi personali ed ordinamenti che, invece, non riescono a discernere l’interesse pubblico dal privato.
Le prime norme scritte, dettate dall’autorità imperiale, vanno a sostituire le vetuste consuetudini che erano tramandate oralmente.
Proprio per questo motivo, alla oramai classica figura del notaio che interpreta a memoria le leggi, subentra e s’irrobustisce la nuova figura del “giurista”, come professionista che conosce il diritto giustinianeo quanto quello ecclesiastico e traccia con sicurezza le sue teorie (anche se non dobbiamo dimenticare le altre figure del nuovo diritto come i giudici, i consulenti, i procuratori, gli amministratori dei comuni, ecc. che, insieme ai primi, formano la corporazione giuridica).
Anche le autorità ecclesiastiche s’adoperano per lo sviluppo intenso dei Comuni, cosa che non accade dove il vescovo è ancora in possesso di territori vastissimi.
Ci sarà poi il Comune che, per posizione e per funzione di guida, arriverà a dominare una vasta zona d’influenza e a sottomettere altri piccoli Comuni dei dintorni (Milano e la sua provincia).
Le città s’ingrandiscono a vista anche se ogni Comune si sviluppa in maniera differente l’uno dall’altro, servendosi ora della chiesa ora dell’impero, senza mai escludere uno dei due, ai quali chiede aiuto in cambio della propria fedeltà.
Anche nel Comune, però, le qualità delle norme lasciano a desiderare, essendo utilizzate non equamente nei confronti di tutti i cittadini, ma dando spazio ad interpretazioni personali quando si tratta di persone eccellenti.
I primi rappresentanti, diciamo così legali, dell’istituzione comunale, erano i “Consules”, che organizzavano l’eventuale lotta e i poteri di cui si circondano (militari, fiscali, amministrativi e giudiziari). Il governo consolare è in ogni modo in mano a ricche famiglie nobiliari, ed è difficile trovare, all’interno di un’assemblea civica, un’unità d’intenti tra il popolo ed il console: spesso l’unità è frutto di manipolazioni e compromessi tra le varie fazioni della città (capitava spesso che una decisione fosse rimessa ad un esterno che nulla aveva a che fare con il problema trattato).
Il console generalmente non durava in carica per più di un anno, e ciò la dice lunga sull’effettivo potere che il console esercitava.
A coadiuvare i consoli troviamo di norma un consiglio detto di credenza, perché chi ne faceva parte era ritenuto un uomo degno di fede.
I Comuni, in realtà, disponevano dell’arengo o assemblea per dibattere i problemi inerenti l’ordinamento comunale e prendere le eventuali decisioni, che, una volta votate, venivano poi ampiamente codificate e redatte.

Due problematiche basilari nei rapporti tra comuni italiani e potere imperiale.

Innanzi tutto, bisogna porre il problema dicotomico sulla possibilità o meno di legiferare da parte (nel nostro caso) dei Comuni dell’Italia settentrionale e poi, susseguentemente, la seconda dicotomia sul riconoscimento o meno del valore del diritto statutario sul diritto romano imperiale.
Il trattare queste questioni, da parte dei giuristi dell’epoca, significava prendere una parte importante nella contesa, perché non si trattava di dare solamente una risposta a delle richieste particolari dell’imperatore e dei Comuni italiani, ma di esprimersi compiutamente sui diritti di sovranità o meno dell’imperatore stesso sulle civitas.
E’ anche opportuno chiarire che, in ogni modo, i Comuni non avevano alcuna intenzione di venir meno alle loro qualità di federati imperiali, ma solo di ottenere una propria disciplina esistente.
I giuristi erano quindi chiamati ad elaborare delle soluzioni derivanti dal diritto romano stesso.
In sostanza, dovrà essere lo stesso diritto romano a codificare efficacemente lo ius statuendi delle comunità italiche e a creare una nuova situazione legislativa nell’impero stesso.
Gaio, con il suo Omnes Populi, darà un aiuto insperato nell'affrontare questa nuova situazione giuridica, senza prescindere dal codice giustinianeo.
Attorno a questo libretto si cimentarono i più importanti interpreti del diritto nell’arco di tre secoli, da Irnerio a Bartolo di Sassoferrato, accendendo dispute magistrali sull’uso delle norme statutarie e sui diritti acquisiti o meno dai Comuni italiani.
Riportando il frammento gaiano è palese e risulta evidente immediatamente come Gaio esprima chiaramente il diritto comune a tutte le genti (in questo caso il popolo dell’impero) e un altro diritto proprio delle civitas: da qui, a trarre che ogni città poteva dotarsi di una propria legiferazione il passo era breve.
Era chiaramente ancor più palese che questo principio era in netta contraddizione con quello espresso nelle stesso codice giustinianeo e che diceva che solo all’imperatore spettava interpretare le leggi e solamente a lui spettava l’ultima parola sulle leggi da creare, a lui e solo a lui ci si doveva rivolgere e nessun altro aveva il potere di farlo.
Qui è espressa chiaramente la sovranità imperiale che pareva escludere, senza troppe discussioni ed in modo assoluto, qualsiasi altra fonte produttiva che non fosse quella dell’imperatore stesso.
Bisognava quindi superare questa difficoltà non certamente priva d’insidie.
"Ius commune" indicava il diritto romano imperiale concepito come elemento di un sistema organizzato di fonti giuridiche coesistenti nel quale esso, come diritto generale e universale, si coordinasse secondo certe regole ai diritti locali e particolari. Possiamo affermare, cioè, che il rapporto fra il diritto romano unum ius dell'impero e la molteplicità dei diritti particolari entro l'impero stesso fu all'origine dello ius commune.
Il Galasso a tal proposito osserva che nella concezione giuridica medievale, l'unum ius si contrappone al complesso degli iura propria di ciascun popolo e rappresenta lo ius commune, vale a dire quell'unità da cui la molteplicità di questi diritti deriva. In sostanza, l'impero e il suo diritto (ius commune) formano un tutto, a cui si collega in perfetta subordinazione l'insieme dei diritti e degli ordinamenti di ogni singola unità dell'impero stesso (ius proprium).
Il diritto comune è presentato quindi come superiore a qualsiasi altro diritto, onnicomprensivo ed universale, valido per ogni scopo ed ogni fine: presentazione del diritto in veste sicuramente gerarchica, così collocato dai giuristi, in cui il diritto comune è la sorgente donde derivano tutti i diritti particolari.
I giuristi medievali, affrontando il problema di far emergere un fondamento che potesse legittimare l’autogoverno, a pieni poteri, delle città comunali, padrone di uno ius proprium, e quindi per esse la possibilità di emanare norme giuridiche.
Nelle “Quaestiones de iuris subtilitatibus” si riconosceva lo ius proprium come preminente fra i poteri di un populus: ”ut legem condat, conditam interpretatur”. Da qui, a capire il perché i Comuni italiani rivendicassero con tanta bramosia e gelosia la potestà di darsi statuti propri, il passo è breve; questo anche se i detti statuti sarebbero andati contro o non avessero seguito lo ius comune.
Il problema fu risolto nel modo in cui abbiamo abbondantemente parlato a pag. 11 (potestas condendi statuta e teoria della permissio….)

Il rinascimento giuridico e le università.

Il senso di rinnovamento che permeava tutta la vita comunale fece sentire la sua influenza anche nel campo culturale e, soprattutto in quello giuridico, con la riscoperta del diritto romano giustinianeo nei suoi testi originali. Alla nuova società viene dato il nome di “rinascimento giuridico”.
Si può tranquillamente affermare che, il il rinascimento giuridico prese sostanzialmente corpo con Irnerio, col quale nasce la prima università, intesa in senso moderno, in Italia e sicuramente la prima in Europa, per gli studi giuridici (Bologna 1088, detta da allora sino ai nostri giorni la città dotta).
Bisogna dire che di Irnerio (10601130 ca.) si sa ben poco. Sappiamo che fu giudice e avvocato di corte feudale.Viene presentato dalla storiografia come colui che per primo illuminò le tenebre del diritto (lucerna iuris). Nn è possibile attribuirgli con certezza la paternità di alcuna opera: le Questiones de iuris subtilitatibus sicuramente non sono sue.
E’ chiaro, sin da ora, che la Scuola di Bologna sarà sempre al fianco dell’imperatore nelle dispute giuridiche, proprio per l’accentuarsi di quella peculiarità che si potrebbe chiamare elitarismo scolastico e quindi d’inserimento in quella fascia alta della popolazione che detiene il potere.
Questa affermazione è permeata di un’attenta visione dell’immagine che abbiamo d’Irnerio, quando insegna: egli non è un oratore che pubblicamente spiega le sue teorie all’interno della sua “Università”, ma è un oratore che raccoglie solamente quei discepoli o studenti pronti a recepire i suoi insegnamenti in modo interessato ed attento, pronti a seguirlo ovunque e tendenzialmente fedeli alla sua immagine.
Vediamo come si prepara un corso medievale.
Il maestro svolge le lezioni prevalentemente nella sua dimora, così da eliminare chiunque non sia di suo gradimento. Le lezioni avvenivano di mattina, quelle principali e di sera quelle minori.
In genere, questo contesto forma la cosiddetta comitiva, che altro non è che l’insieme degli studenti con il loro proprio professore che li chiama familiarmente “mei socii”.
Non esiste nessuna formalità per poter partecipare al corso se non, beninteso, quella di pagare una quota al maestro, detta collecta.
L’unico atto, diciamo così formale, era quello dell’esame finale per il giovane giurista in un luogo pubblico. I programmi variavano da maestro a maestro e da alunno ad alunno. La frequenza delle lezioni era obbligatoria per un certo numero di anni (da 4 ad 8).
La prima organizzazione di studi, quella irneriana, è un’organizzazione privata, molto elementare. Successivamente diventerà più complessa, ma all’inizio è un’associazione privata che vive nella città, come qualsiasi altra organizzazione spontanea del mondo comunale imprenditoriale. Così come esistono falegnami, banchieri, all’interno di corporazioni, esistono anche queste scuole, come società private di domini (insegnanti) e di socii (studenti).
All’interno della città vediamo, quindi, un’organizzazione privata delle scuole che, dopo una prima fase di reciproca tolleranza, viene ben presto conglobata dal comune, che si rende conto dell’importanza di questa scuola, perché l’arrivo in Italia di studenti, anche da altre parti dell’Europa, comporta un fortissimo incremento demografico e anche opportunità commerciali dei residenti.
Quindi, da una prima fase di organizzazione spontanea, il comune incentiva la presenza di maestri nelle proprie mura e, addirittura, attribuisce uno stipendio al docente, pur di farlo rimanere in città.
Questo per quello che riguarda il comune.
Ma l’organizzazione è anche all’interno dello stesso studium universitario, attraverso la forma stessa dell’Università (dal latino “universitas” = corpo collettivo di oggetti). Anche gli studenti non sono altro che un universitas, cioè un gruppo di ragazzi che si organizza.
L’universitas, in Italia, non è altro che l’organizzazione degli studenti. All’interno dell’universitas i giovani si raggruppavano in “nationes”, che designavano la provenienza della stessa area territoriale. Fra la metà del sec. XII e i primi anni del sec. XIII l’intera universitas bolognese risultava organizzata in due universitas: quella dei Citramontani,(che comprendeva gli studenti italiani divisi in 4 “nationes”(Campani, Toscani, Romani e Lombardi) e quella degli Ultramontani (comprendente 13 nationes d’oltralpe, tra cui quelle dei Francesi, Spagnoli, Tedeschi ed Inglesi).
Ogni anno era eletto, tra gli studenti, il rettore che concordava col maestro programma e collecta, e a lui competeva di vigilare sugli accordi presi.
Ampi poteri a studenti e professori derivarono dalla costituzione Habitaconcessa da Federico I Barbarossa.
Secondo alcuni (CALASSO, CAVANNA) la costituzione Habita fu concessa dall'imperatore nel 1158 durante la Dieta di Roncaglia, nella quale vennero convocati da Federico I i quattro dottori (Martino,Ugo, Jacopo e Bulgaro), da lui richiesti di fornire un parere intorno ai diritti che gli spetta­vano in quanto imperatore. I quattro dottori avrebbero ricevuto l'autentica Habitaquale compenso per il parere fornito.
La costituzione Habita attribuì ai maestri il potere giurisdizionale sugli scolari. (sia su questioni civili, che penali), in alternativa a quello esercitato dal vescovo. In seguito, ­tale potere passò dai maestri al rettore. Agli studenti riconobbe, inoltre, diversi privilegi: esenzione dalle tasse, salvacondotto in tutte le terre dell'Impero, sottrazione alla locale giurisdizione ordinaria, da rappresaglie per debiti (ciò significava che se un creditore bolognese, insoddisfatto di un suo credito vantato nei confronti di uno straniero, avesse ottenuto dall’ordinamento di quest'ultimo una formale lettera di «rappresaglia» in virtù della otteneva il diritto di soddisfare il proprio credito sui beni di qualsiasi concittadino del suo debitore, tale creditore avrebbe potuto rivolgersi a tutti, fuorché agli studenti).
La costituzione di Federico Barbarossa fu un atto normativo di enorme importanza.
La costituzione di Federico Barbarossa isolò l'ancora indifferenziato gruppo di dottori ed allievi dalla città. Un Comune che, in quei suoi anni di impetuosa crescita, mirava al fine opposto, quello di sottoporre alla sua gestione, alla sua norma, al suo giudice tutte le plurime realtà cittadine e feudali.
Con il tempo, tuttavia, il Comune riuscì ad imporre il proprio controllo sulle faccende interne dell'università. Dapprima iniziò con l'obbligare con giuramento i professori a non insegnare in altre città per un certo periodo; successivamente si assunse l'onere di sostenere col proprio bilancio le spese che la scuola comportava (offrendo edifici per le lectiones e sostenendo il pagamento dello stipendio dei professori); infine, avocò a sé il potere di imporre tasse agli studenti e di disciplinare con proprie norme la vita interna della scuola.
Sull'esempio delle scuole bolognesi (che durante la metà del secolo XII andarono moltiplicandosi ed acquisendo ampia notorietà), il movimento universitario si allargò; nell'Italia centro-settentrionale, spontaneamente o in seguito a spostamenti in massa da Bologna di maestri e allievi, sorsero numerose scuole universitarie dì diritto: a Vi­cenza (1204), Arezzo (1215) Padova (1222), Vercelli (1228) Siena (1246), Piacenza (1248) e Perugia (1308).
C’è da sottolineare che il modello universitario bolognese va distinto da quello parigino, che fu originariamente una corporazione di maestri, che escludeva gli studenti dal governo dell’università.
Questo fenomeno non succede solo con Modena, ma succede anche con Padova, Arezzo, Siena, Perugia, Vercelli, Vicenza e Piacenza. Tutte queste università nascono da movimenti migratori di docenti, da una parte, e di studenti dall’altra.
Nello stesso sec. XIII nasce la prima università di Stato d’Europa.
Federico II di Svevia, re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, infatti, fondò nel 1224 uno Studium a Napoli, destinato, nelle intenzioni dell’imperatore, a rivaleggiare con Bologna, come si deduce dal divieto imposto dall’imperatore ai suoi sudditi di recarsi a studiare fuori dal regno e, nel contempo, dall’invito rivolto a quanti volessero frequentare una qualsiasi facoltà di recarsi a Napoli.
Insegnarono in quest’università sia professori di origine meridionale, sia giuristi settentrionali.
Inizialmente oggetto di studio dell’università di Napoli non furono le costituzioni regie, ma il Corpus iuris civilis di Giustiniano.

I Glossatori e la scoperta del Corpus iuris

 

Grazie all'attività svolta dai Glossatori, furono riportati alla luce quei testi del diritto giustinianeo che per lunghi secoli erano stati dimenticati o fatti oggetto di manipolazioni maldestre durante tutto l'alto medioevo. Inizialmente il lavoro dei giuristi bolognesi fu di esplorazÍone conoscitiva, consistente nel fare piccoli, prudenti passi per volta prima di giungere alla padronanza completa di qualsiasi aspetto racchiuso nel corpus giustinianeo.
Si tenga presente che la partizione del Corpus iuris, utilizzata dai Glossatori e conservatasi fino all'età moderna, era diversa da quella data in origine da Giustiniano alle norme romane. Il Corpus medievale, infatti, si suddivide in cinque volumi. I primi tre contengono il Digesto; il quarto contiene i primi nove libri del Codice; il quinto i Tre libri finali del Codice, le Novelle e i quattro libri delle lstituzioni. Verso il 1250 i volumina verranno integrati dai Libri Feudorum, collezione privata di consuetudini feudali.
L'attività di interpretazione metodica e capillare dei testi giustinianei fu svolta dai Glossatori con un sentimento di profonda venerazione.
I testi giustinianei apparvero alla devota esplorazione di Irnerio e dei suoi discepoli come il con­densato di tutta la “legalis sapientia”:quei testi non contenevano “un”diritto, ma “il”diritto, le leggi emanate dagli imperatori per ispirazione divina. Agli occhi dei giuristi bolognesi il Carpus iurisfu autorità per eccellenza, verità dogmatica che non poteva essere discussa: esso fu l'intoccabile Bibbia del diritto.
In quanto densi di auctoritas, gli antichi testi erano collocati dai Glossatori in una dimensione senza tempo, astorica, per cui le leggi giustinianee erano leggi del presen­te. L'impero romano-germanico era la continuazione (ininterrotta) dell'antico impero romano e l'imperatore germanico, col suo potere legislativo, era la reincarnazione (senza soluzione di continuità) di Giustiniano.
Alla luce di queste considerazioni ben si può comprendere l'immane sforzo che i Glos­satori fecero per adattare alla realtà presente gli antichi testi giustinianei, attribuendo alle norme di questi una voluntas, una ratioche esse non potevano avere avuto. E ciò fu possibile perché essi non tennero conto della dimensione e della funzione storica che ogni norma ha e deve avere, ossia dell'obiettivo che il legislatore intende persegui­re quando crea un precetto. I Glossatori, attraverso la propria attività ermeneutica cre­devano di aver fatto propria la volontà di Giustiniano e ritenevano che quella volontà potesse, rendendosi libera dalla voluntasdel proprio autore, essere adattata al presente.
In pratica avveniva che la giurisprudenza bolognese, trovandosi ad applicare norme la cui originaria funzione storica impediva una loro au­tomatica applicazione alle concrete condizioni ­del presente ricollegava inconsapevolmentetali norme a situazioni della realtà contemporanea, fornendole intuitivamente di scopi attuali cui esse non potevano aver mirato e quindi di una volontà positiva che esse non potevano aver avuto. E ciò accadeva proprio perché ai giuristi sfuggiva la giustificazione storica della norma.
Attraverso la trasformazione del diritto giustinianeo in diritto vigente, sempre pronto essere applicato alla prassi quotidiana, il diritto romano fu assunto al rango di ius commune,ossia di diritto vigente a titolo universale, gerarchicamente sovraordinato a qualsiasi altra fonte e con valore suppletivo, nel caso in cui altre fonti non disponessero espressamente. L'attività ermeneutica, svolta dai maestri di Bologna, sui testi di diritto romano fu presa a modello e svolta in contemporanea dai giuristi canonisti (si pensi a Graziano) sui testi di diritto canonico.
Si pensi che nella stessa Bologna, in pieno secolo XII Graziano pubblicò il suo Decretum con cui diede inizio ad una nuova era di studi canonici e pose le basi della codificazione della Chiesa.

I principali strumenti tecnici in uso presso i Glossatori

Nella loro attività esegetica i Glossatori fecero ampio uso della glossa. Questa consisteva in una postilla con cui il maestro apportava un chiarimento alla literadel testo della norma durante la lecturadi essa agli allievi. Tale chiarimento veniva annotato a margine del testo o tra la linea e linea (si avevano, così, glosse marginali e interlineari); inoltre, il contenuto della glossa poteva essere grammaticaleo interpretativo. Con le glosse interpretative, in particolare, venne a crearsi all'interno della compilazione giustinianea una fitta rete di fili logici che collegavano organicamente tutte le parti e tutte le norme, facendo assumere alla codificazione giustinianea l'aspetto di un corpusorganico.
Altri importanti e raffinati strumenti ermeneutici usati dai Glossatori furono i seguenti:

  • regulae iuris, dette anche brocarda o generalia. Si trattava di preposizioni che, enunciavano principi o regole fondamentali;
  • distinctiones, ossia scomposizioni analitiche del punto di diritto da esaminare, fat­te allo scopo di illustrare tutte le possibili angolazioni di esso.
  • casus, consistenti in esempi di casi pratici a cui una norma poteva essere applicata;
  • dissensiones dominorum, consistenti nella esplicazione delle diverse e contra­stanti opinioni dei maestri sulle questioni di diritto più dibattuti;
  • summae, ossia opere di sintesi di un intero titolo o libro del Corpus iuriso di un argomento;
  • quaestiones, mediante il quale il maestro poneva al centro dell'attenzione un problema giuridico, introducendo le opinioni a favore e quelle contrarie espresse in merito ed esponendo la propria opinione (solutio).

La «Magna Glossa» di Accursio

 

Attraverso l'incessante attività interpretativa svolta, per più di un secolo e mezzo (1088 ca-1260), dai Glossatori sul Corpus iuris,si affermò l'idea che la conoscenza del diritto fosse patrimonio esclusivo di una classe di giuristi colta e prepa­rata e che all'amministrazione della giustizia dovessero essere preposte soltanto perso­ne istruite in diritto.
L'attività scientifica dei Glossatori godette di grande favore e importanza.
Il periodo di massimo splendore, che segnò tuttavia anche l'inizio della decadenza della scuola di Bologna fu quello che si ebbe nella 2° metà del sec. XIII con la Glossa di Accursio (1182-1260).
Accursio fu discepolo di Azzone e rivale dell'altro grande Glossatore, Odofredo Denari. lnsegnò per circa venti anni diritto civile a Bologna. Secondo la tradizione, avendo saputo che Odofredo stava scrivendo un libro sulla spiegazione e concordanza delle leggi, abbandonò la cattedra di Bologna per dedicarsi completamente all'elaborazione di un'opera che da tempo aveva concepito. Dal 1220 al 1234 diede vita ad un ampio apparato di glosse che fu denominato Magna Glossa o Glossa Ordinaria o Glossa Accursiana, sottoposta da Accursio a continui rimaneggiamenti fino ala sua morte.
Nella Glossa di Accursio, in cui confluirono circa 96.000 glosse tratte dalla migliore elaborazione dottrinale dei maestri precedenti, tutte le parti del Corpus iuris civilisvenivano corredate da una fitta rete di glosse, che fornivano un’ approfondita spiegazione di ogni singola parola dei testi legislativi.
Si trattava dunque di un gigantesco "commentario" perpetuo che accompagnava sistematicamen­te titolo per titolo, norma per norma e quasi parola per parola i libri legales.
Pur non essendo priva di lacune e contraddizioni, l'opera di Accursio ebbe grande influenza nella formazione dei dogmi e divenne irrinunciabile materia di insegnamen­to a corredo della compilazione giustinianea. Unitamente alle opere dei successivi Commentatori, venne recepita nei diversi paesi d'Europa come fonte di cognizione del diritto comune. Fu talmente grande il rispetto che la Glossa Accursiana suscitò nei giuristi pratici (avvocati e giudici), che si ebbe una graduale ma decisiva sostituzione della Glossa al testo legislativo.
In definitiva, nei tribunali la Magna Glossa assunse un fondamentale ruolo d’intermediazione nei confronti del Corpus iuris.
L’aequitas
Nel diritto medievale la parola chiave è equitas. Si tratta di un diritto antichissimo: è un concetto astratto filologico che emerge tra i giuristi civilisti (glossatori) e canonisti.
Parliamo dell’equitas civilis. Il diritto civile riguarda i cives, ovvero la vita secolare. Dato che coincide col diritto romano, di conseguenza “ius civilis”=”ius romanus”. Si dice che Bulgaro e Martino avessero due concezioni diverse della equità. Per Martino l’equitas è un sentimento di giustizia vago che ispira tutti i comportamenti, è un canone interpretativo da tenere sempre presente.
Bulgaro dice che l’equitas non può mai prevaricare il senso letterale delle parole. Se la legge fissa una certa regola l’equitas sceglie tra le interpretazioni quella più equa ma non può cambiare il senso della lettera della legge. Ciò ci fa capire la presenza di due stadi dell’equitas:

  • uno generico detto “equitas rudis” a cui si riferisce Martino (equità vaga);
  • uno detto “equitas costituta”, ovvero incarnatasi in norma scritta nella realtà giuridica (posizione più vicina a quella di Bulgaro).

L’equitas è uno strumento interpretativo che deve servire a temperare il “rigor iuris”, ovvero la rigidità del diritto. Se il diritto fosse rigoroso determinerebbe le ingiustizie. L’equitas serve ad interpretare la legge in maniera benigna (“benignitas”).
“Aequitas in rebus ipsis percipitur, quae, cum descendit ex voluntate, forma accepta fit iustitia”.
L’equità si percepisce nelle stesse cose, la quale (cioè l’equità), quando deriva da un atto di volontà racchiuso in una determinata formalità, diventa giustizia.
“L’equità si percepisce nelle cose stesse…:Le cose stesse rappresentano l’ordine delle cose naturali volute da Dio. L’ordine del creato è la forma di giustizia che Dio ha voluto.
Se in alto c’è un Dio e, sotto, gli uomini fanno la sua volontà, così in terra deve esserci un comando con gli altri uomini, che eseguono (a livello piramidale).
Si tratta di un’equità molto diversa dalla nostra: l’aequitas qui è una delle fonti dell’ordinamento giuridico interno. Non riguarda la legge, ma essa si percepisce nelle cose, è presente nella vita di ognuno (nel medioevo), perché segna l’ordine del mondo.
….“la quale, quando discende da un atto di volontà, una volta ricevuta una certa forma, diventa giustizia”.Quest’equità deve discendere da un atto di volontà, il quale non può essere l’atto di volontà di un privato, ma deve essere la volontà di una persona autorevole: l’imperatore, l’unico che può tramutare l’equità, come ordine universale, sostanziale, in una norma formale, con un atto autoritativo.
In questo modo l’equità diventa giustizia, diventa norma giuridica, cioè “forma accepta”.
La norma è vera e giusta perché è equa, non perché la fa l’imperatore in quanto tale: l’imperatore è l’unico abilitato a darle forma, ma nient’altro.
Quindi, la norma è razionale, perché racchiude la “ratio”: per l’uomo razionale, la ratio corrisponde alla natura e la natura è quella che crea Dio. Qui, l’equità e la ratio s’identificano.
Per S. Tommaso d’Aquino, per esempio, la razionalità è proprio l’accordo all’universo. Se compio un atto che si accorda con la legge universale, quello è razionale. In una facoltà di giurisprudenza, invece, la ratio è un’altra cosa: è la causa, ad esempio, di un negozio giuridico.
Una norma che non ha come causa l’aequitas divina, per l’uomo medievale, non ha fondamento.
Qui si apre un grosso problema.
La norma sta in mezzo all’aequitas e alla giustizia, cioè deve essere il tratto d’unione che è fatto dall’imperatore. Se l’imperatore oserà inserire una norma iniqua, nessuno potrà dirgli nulla, ma ne risponderà davanti a Dio, perché ha peccato (Tamen peccat)..
Il giurista non potrà prendere una posizione autonoma, ma solo segnalare il problema al sovrano o all’imperatore, e prendere eventualmente atto che questi ha commesso un peccato mortale.

La scuola dei Commentatori

La scuola dei Commentatori (così definiti dal commento, la tipica forma letteraria cui si espresse l'attività scientifica di questi giuristi) si sviluppò agli inizi del XIV secolo, e fu fortemente creativa fino alla prima metà del secolo XV.
Sebbene i Commentatori (detti anche Dialettici) fossero certamente consapevoli di essere diversi dai Glossatori (essi chiamavano i loro predecessori «antiqui»), tra le due scuole non vi fu una netta cesura: il commentonacque come originale e quasi naturale sviluppo della glossa.
Le differenze riguardavano il modo di insegnare e di esporre i testi giustinianei, nonché lo spirito con cui i Commentatori si dedicarono all'interpretazione del Corpus iuris. Il passaggio dalla Glossa al Commento ebbe luogo gradualmente durante un cinquan­tennio (1250-1300). Tale periodo è solitamente contrassegnato come età dei Post-accursiani. In effetti, dalla Glossa di Accursio in poi le varie scuole di diritto non fecero più ricorso ai testi giustinianei, ma commentarono la Glossa. I Post-accursiani, allontanandosi  ­dall'esegesi del diritto romano e non sentendosi più vincolati ai libri legales, intrapresero una nuova via e, nella individuazione di principi giuridici astratti, tennero conto di tutte le fonti del diritto (consuetudini, norme statutarie, diritto canonico), spianando la strada ai Commentatori.
I nuovi giuristi si interessarono alle meritevoli esigenze dettate dalla prassi quotidiana e, non più solo eruditi professori universitari, si trasformarono in “tecnici del diritto”, depositari di una tecnica innovativa e capace di adeguare costantemente le norme giuridiche ai nuovi rapporti sociali.
Attraverso il genere letterario del tractatusi Post-accursiani risistemarono ad uso della prassi forense fondamentali settori del diritto.
Attenti ai problemi della prassi quotidiana, i Commentatori diedero una compiuta sistemazione ai rapporti tra ius commune e ius proprium. Al primo essi attribuirono il carattere di diritto sussidiario, di ratio scripta, ossia di un superiore complesso di principi di giustizia da applicarsi ogni qualvolta una disposizione (ad esempio consuetudinaria o statutaria) non avesse disposto.
Erano, in definitiva, cambiati i tempi; infatti, mentre i Glossatori si erano dedicati alla costruzione di un ordine giuridico armonico, fiduciosi nella unicità e universalità dell’impero, i giuristi del XIV secolo si trovarono di fronte a nuove realtà sociali e politiche particolari e potenti (monarchia e principati) affermatesi nelle più grandi città dell’Italia centro-settentrionale. Essi si trovarono, così, a dover risolvere il problema dei rapporti tra diritto comune e diritti particolari e a fronteggiare l’esigenza di regolare e giustificare giuridicamente le Signorie, nel panorama della comunità internazionale.
I Commentatori, a differenza dei Glossatori, non ritennero più che, in caso di divergenza tra una norma di diritto romano e la nuova realtà contingente, fosse la prima a dover prevalere e a considerarsi comunque ancora applicabile. Essi sostituirono al procedimento esegetico nuovi schemi formali, incentrati su operazioni logiche di derivazione aristotelico-scolastica. Il tutto era accompagnato da un lavoro di trattazione sistematica delle norme e degli istituti giuridici. Fu proprio la prevalenza di questo spirito sistematico che contraddistinse il commento, che tendeva a un inquadramento logico-sintetico, e non esegetico, della materia giuridica.
La tecnica dei Commentatori consisteva nello scomporre la norma nelle sue parti logiche; quindi la si riassumeva, chiarendo man mano il contenuto dei passi in esame; in seguito si annotavano le possibili obiezioni, che a loro volta erano fonte di nuove discussioni. In questo modo, discutendo “questioni” e “distinzioni”, i Commentatori coglievano la ratio della norma, la volontà precisa che il legislatore aveva voluto esprimere al momento di emanarla. Una volta colta la ratio, ossia il principio ispiratore del precetto, quest’ultimo poteva essere applicato anche a casi nuovi e diversi.
Essi divennero, in tal modo, i migliori maestri della giurisprudenza europea.
Se i Glossatori trassero l’impulso a creare diritto nuovo dal testo giustinianeo, ai Commentatori, quest’impulso derivò dalla realtà socio-politica esterna, di cui essi ebbero una coscienza vivissima.

I maggiori esponenti della Scuola del Commento

Il nuovo metodo interpretativo introdotto dai giuristi del Commento fu un prodotto tipicamente italiano, sebbene destinato a diffondersi in tutta Europa e, per tale motivo, i contemporanei erano soliti definire questa nuova tecnica interpre­tativa “mos italicus”.
Tra i maggiori esponenti della Scuola del Commento, che fu particolarmente attiva sino alla prima metà del’400, vanno annoverati Cino Sighibuldi da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi.
Cino da Pistoia (127-1336) fu l'iniziatore del nuovo indirizzo di pensiero. Verso la fine del ‘200 si recò in Francia, ove fu allievo di Pierre de Belleperche e ove pare abbia conosciuto anche il maestro di quest'ultimo, Jacques de Revigny. Tornato in Italia e conseguita la “licentia docendi”, insegnò a Siena, Perugia, Napoli e forse anche a e Bologna. La sua opera maggiore fu la Lectura super Codice(1312 ca) in cui si avverte molto forte l'influenza del pen­siero francese.
Distaccandosi dai vecchi schemi interpretativi dei Glossatori e dall'incombente autorità della Glossa accursiana, egli utilizzò il metodo dialettico per frammentare il testo legi­slativovo, analizzarne ogni minima parte, ricomporlo nell'insieme ed estrapolarne la ratio, ossia il principio ispiratore valido per i casi concreti.
Ciascun buon giurista non doveva, secondo Cino, farsi dominare dalla dialettica, ma servirsene al solo scopo di individuare nella norma l'aequitas,ossia la giustizia che è segno della volontà divina.
L’equitasin talmodo individuata dai giurista non è ancora un precetto;affinché essa si traduca in norma cogente occorre l'intervento del legislatore. Tuttavia, il legislatore è, nel pensiero ciniano, pur sempre un essere umano e in quanto tale può commettere errori (per disattenzione o per interesse): di conseguenza, il diritto può non coincidere conl’equitas.
L’importanza dell'opera di Cino da Pistoia è nell'avere mostrato interesse non più alle sole norme del diritto giustinianeo, ma a tutte le norme giuridiche (dell'Impero, della Chiesa, dei Comuni, delle Signorie), e soprattutto alla normativa statutaria.
Le norme statutarie (così come tutte le altre norme) sono prese in con­siderazione da Cino solo al fine di valutarne i contenuti di giustizia sostanziale, ossia la loro maggiore o minore corrispondenza all'aequitas.Diritto comune e iura propria sono posti sullo stesso piano; entrambi sono animati dalla forza dell'aequitas.
Bartolo da Sassoferrato (1313-1357) modellò il suo pensiero su quello di Cino da Pistoia, del quale ebbe modo di ascoltare alcune lezioni a Perugia. La sua attività pro­fessionale fu molto intensa (fu professore, avvocato e, per un certo periodo, personag­gio pubblico nel Comune di Todi) e numerosissime furono le sue opere: scrisse i Com­mentariaal Digesto, al Codice e alle Novelle; molteplici Trattatisu tematiche partico­lari (ad esempio sulla tirannide), Consilia e Quaestiones.
L'universo giuridico, nella sua più ampia dimensione, comprensiva dello ius communee degli iurapropriaè, nel pensiero bartoliano, pervaso e mosso dalla forza vivificante dell' aequitas. Ius communee iura proprianon sono sullo stesse piano: è lo ius communeche, con la ricchezza dei suoi principi generali e delle sue figure giuridiche, ispira gli iura propriae consente loro di avere un'esistenza giuridica. Gli iura proprianon possono trascendere i limiti della loro colloca­zione e non possono oscurare la “verità” del diritto comune.
Il sistema così prefigurato da Bartolo finiva, dunque, col dare la prevalenza al diritto comune (gestito dal ceto dei giuristi) rispetto ai diritti particolari (manifestazione più diretta del potere politico).
Derivava in tal modo al giuristi (unici interpreti del diritto comune e depositari del sapere giuridico) una posizione di enorme prestigio sociale (possiamo dire che tale sistema difendeva gli interessi consortili e corporativi dei giuristi).
Il modello di Bartolo si diffuse in Europa e nel mondo. La sua opinione divenne indi­scutibile nelle scuole e nei tribunali e venne pedissequamente osservata dai giuristi successivi (cd. bartolismo).
L'ammirazione per Bartolo fu così grande che in molte università furono istituite cattedre per l'insegnamento della sua dottrina; in Spagna, in Portogallo e in Brasile venne addirittura emanata una legge che imponeva al giudi­ce di considerarsi vincolato, in caso d'incertezza, all'opinio Bartoli.
Baldo degli Ubaldi (1327 ca – 1400) fu allievo di Bartolo. Insegnò per circa un cinquantennio all'università di Bologna, Pavia, Pisa, Firenze e Perugia. Fu insieme giuri­sta canonista e civilista.
Anche Baldo, come tutti i giuristi del Commento, visse in un contesto politico caratte­rizzato dalla presenza di diverse Signorie emergenti nei maggiori Comuni dell'Italia centro-settentrionale.
Anche Baldo affrontò la questione del diritto statutario e della sua legittimazione nel panorama della comunità internazionale. Abbandonando la teoria della permissio,in base alla quale lo ius statuendidoveva considerarsi legittimo solo in virtù di un permes­so espresso o tacito dell'imperatore, egli sostenne il diritto di qualsiasi ente, che avesse ormai acquisito una precisa identità istituzionale, a darsi proprie norme indipendente­mente dal consenso accordato da un'autorità superiore.

La communis opinio

 

Con la morte (avvenuta tra la fine del ‘300 e gli inizi del’400) dei grandi maestri del Commento (Cino, Bartolo, Baldo, Decio etc.) la scuola iniziò una lenta ma progressiva fase di decadenza. Le opinioni dei grandi giuristi avevano assunto uno spiccato carattere autoritativo e gli interpreti successivi, nella loro mitizzazione di Bartolo e degli altri, finirono col limitarsi ad una continua ripetizione delle contrastanti opinioni che le “auctoritates” avevano espresso su ogni singola questione.
Per tentare di ovviare al problema si affermò, soprattutto a partire dalla seconda metà del Quattrocento, il rimedio della communis opinio. Si trattava d'un metodo in virtù del quale si ricercavano le opinioni di più giuristi, espresse su una medesima questione, e fra questi si sceglievano coloro che in maggior numero avessero sostenuto una tesi piuttosto che un'altra.
Va osservato che la communis opinionon sempre conduceva alla soluzione: i giuristi, infatti, si resero conto che su un mede­simo punto vi potevano essere più communes opiniones. Essisi affannarono, dunque, a ricercare dapprima la magis opiniocommunise, in seguito, l' opinio communissima. Ad ogni modo, si consolidò come generale la regola secondo cui i giudici dovessero osservare come legge la communis opinio, ogni qualvolta la legge o la consuetudine non avessero disposto.
In tal modo la communis opinio, ricercata dai giuristi, che ormai non erano più liberi interpreti, ma pedissequi ricercatori di opinioni altrui, divenne l'autoritaria fonte di produzione delle norme applicate nella prassi. In altre parole, essa si presentava come lo strumento di tipo legalistico, autoritario e impersonale con cui supplire nella direzione della certezza e dell'uniformità giuridica alle carenze e al silenzio dello Stato.

 

Giuristi trattatisti e consulenti

Intorno alla prima metà del Quattrocento il metodo di studio dei Commentatori (mos italicus) subì un forte calo qualitativo. Latecnica interpretativa di questi giuristi, infatti, si sostanziava in un metodo preciso ma complicato.
Il professore, in pratica, con considerazioni di carattere generale, inquadrava la norma in un ampio contesto; divideva il testo della nonna in più parti per analizzarle separatamente; poi ricomponeva il testo nella sua unità; faceva esempi di fattispecie concrete;rileggeva il tutto; spiegava le finalità di base della disposizione normativa; formulava il principio generale ispiratore della norma; formulava infine una serie di tesi e antitesi che davano luogo a distinzioni, eccezioni e questioni controverse.
Era un metodo estremamente pericoloso e di difficile utilizzazione, anche se magistralmente adoperato conduceva direttamente alla ratiodella norma. Alcuni giuristi del periodo successivo, infatti, nella venerazione dei loro predecessori, rischiarono spesso la ripetitività e la progressiva atrofizzazione.
Ad ­ogni modo, la tradizione del mos italicuscontinuò - a partite dalla fine XV secolo - con generi letterari diversi dal commento: i trattati ed i consilia.
Il tractatus, già noto ai giuristi del sec. XIII, consisteva in un'ampia monografia di un determinato settore del diritto. Esempio, trattati di diritto penale e processuale penale, che per loro natura si affrancavano dai principi ispiratori dello ius commune e, quindi, dall'influenza dei testi giustinianei.
Il crescente interesse per le esigenze della prassi fu,inoltre, alla base della sempre maggiore importanza assunta dai consilia.
La prima forma di “consi­lium" richiesta al giurista medievale fu il cd. consilium  sapientis iudiciale, ossia il parere che il magistrato del Comune (console, podestà) era costretto a richiedere al giurista di cattedra, al fine di risolvere la causa. In effetti i giudici comunali erano spesso soltanto uomini politici e non anche esperti di diritto, per cui si trovavano frequentemente nella necessità di essere ufficialmente assi­stiti da professionisti del diritto. Il consilium sapientisera vincolante per il giudice che lo riproduceva nella sentenza. 
A partire dalla fine del Quattrocento, nei consiliascritti e dati non più al giudice ma alle parti si concretò l'attività prevalente del giurista finalizzata alla prassi.
I consiliaforniti erano dotati di auctoritasnei tribunali, soprattutto perché provenienti da giu­risti dotti, di cattedra, dediti ad una prioritaria attività scientifica ed universitaria.
Verso la fine del ‘400 l'attività consiliare non fu più considerata secondaria e accessoria, ma principale ed il consiliumdivenne il genere letterario prevalente. Fu il momen­to d'oro del pragmatismo: tutti i giuristi di cattedra, civilisti e canonisti, maggiori e minori furono autori di consilia.

La giurisprudenza dei grandi tribunali

 

A partire dal secolo XVIsi affermò l'assolutismo dei principi e contemporaneamente la figura del giurista consulente passò in secondo piano.
Il sovrano assoluto, nella sua poli­tica accentatrice, libero da vincoli legali, aumentò la propria attività legislativa ed assunse su di sé tutti i poteri, compreso quello giurisdizionale. Per esercitare un maggiore controllo sull'attività dei giuristi e fare applicare in concreto il suo diritto, istituì supremi organi centrali del potere giudiziario. Nascono, così, i granditribunali, costituiti da giuristi consiglieri del principe, dotati d’elevata preparazione tecnica e più direttamente vincolati al potere politico.
La figura del giurista consulente, fu lentamente oscurata dalla potente casta di giureconsulti di Stato, ossia di giudici o membri di un tribunale istituito al fine di imporre ai sudditi le scelte del  sovrano.
In quanto rappresentanti della suprema autorità politica, i giu­dici dei grandi tribunali non poterono, inoltre, ritenersi vincolati al consilium del sin­golo consulente, e le communesopinionesrichiedevano ora, al fine di acquisire una forza vincolante, l'ufficiale conferma dei consulti delle supreme corti.
Successivamente le supreme corti di diversi Stati (ad esempio, la Sacra Rota per lo Stato pontificio,        la Rota fiorentina e il Sacro Regio Consiglio per il Regno di Napoli) attribuirono valore vincolante ai propri precedenti e le corti inferiori si adeguarono ai giudicati di quelle superiori.
La diffusa consuetudine di osservare le precedenti pronunce giudiziali favorì l'unifica­zione interna del diritto di ogni singolo Stato. Altra caratteristica delle corti fu quella di accogliere le soluzioni emanate da altre di Stati diversi, preservando, in tal modo, il carattere europeo del ius commune.Ciò avvenne perché i giuristi dei grandi tribunali, pur essendo scelti dal principe per applicare il suo diritto, godevano di ampia indipendenza e, soprattutto, si erano formati sulla base di studi giuridici sovrastatuali, che riconoscevano al diritto comune il valore di un diritto oggettivamente universale.
Si tenga comunque presente che, nonostante alcune tendenze di fondo comuni, la giu­risprudenza dei grandi tribunali europei nei secoli XVI-XVIII fu caratterizzata da ele­menti di difformità e talvolta anche di contrasto.

Il diritto comune in Europa

Premesse sul binomio storico “Europa e diritto romano”    ( Cavanna pag. 381-390)

Il diritto comune, nelle forme del “mos italicus”, sopravvive sino al momento della crisi finale, determinata dal prevalere dell’idea di codice.
Suo antagonista è stato, nei secoli XVII° e XVIII°, il diritto naturale. Era la nuova visione dell’ordine giuridico e della legalità come alternativa e sostituzione del diritto comune. Si chiudeva, in tal modo, il binomio Europa-diritto romano. Vediamo, dunque, le circostanze che hanno accompagnato nei singoli Paesi la diffusione di quel diritto comune che è stato adottato ed utilizzato su tutto il continente.
Il diritto comune, diffusosi in modo prodigioso in tutta Europa, si presenta come vero e proprio diritto europeo, anzi, come l’Esperanto del mondo giuridico. Il Corpus iuris di Giustiniano viene impiegato ovunque, in maggiore o minore misura, come ius europeum e grazie alla sua universalità può essere variamente adottato. Il diritto comune, nei vari Paesi del continente, assolse a quelle funzioni di normativa generale e completa che, data la mancanza in ciascuno di essi di un organico diritto nazionale, non erano altrimenti realizzabili.
Bisogna precisare, però che lo ius commune fu esportato in Europa grazie ai glossatori ed ai commentatori. Non fu il corpus iuris giustinianeo ad essere utilizzato nei tribunali, ma quel testo fu leggibile attraverso la glossa accursiana ed i grandi commentari successivi.
“L’antica legge” giungeva non sola, bensì accompagnata dall’interpretazione dei maestri italiani.
Occorre, inoltre, ricordare l’importante ruolo svolto dal diritto canonico, che fu uno dei principali veicoli di esportazione del diritto romano. Verso la fine del XII° secolo, infatti, la Chiesa aveva immesso nei tribunali vescovili un personale tecnico esperto di diritto e munito di poteri precisi. Nasceva così un’elaborazione scientifica dei testi romani e delle decretales papali.
L’opera della Chiesa fu molto importante nei Paesi poco romanizzati, come quelli germanici, e lì creò grosse brecce attraverso cui, poi, penetrò il diritto romano. Fu proprio presso le corti ecclesiastiche di questi Paesi che l’attività di consulenza raggiunse quel particolare livello tecnico, che solo la presenza del giurista di formazione scientifica poteva garantire.
Sotto questo aspetto i giuristi canonisti sono stati i più efficaci strumenti della cosiddetta “recezione” del diritto romano nell’Europa del Medioevo.

Il diritto comune in Francia

Il diritto romano, in Francia, si atteggiò in modo diverso, nel corso dei secoli. Durante i secoli V-VI, con la dominazione dei Visigoti e dei Burgundi, il diritto romano fu recepito, come già sappiamo, nella Lex romana Visigothorum e in quella romana Burgundionum, continuando a disciplinare la vita giuridica dei nuovi regni.
Con l’avvento dei Franchi, invece, il diritto germanico diventò preponderante. La legge romana continuò tuttavia ad essere applicata come legge personale delle po­polazioni soggiogate (in virtù del principio germanico della personalità del diritto) ed un notevole contributo alla sua conservazione le derivò anche dalla Chiesa, che nel suo diritto andava recependo i principi del diritto romano.
Con la nascita della società feudale sorsero numerose consuetudini (coutumes)osservate dall'intera popolazione del territorio, indipendentemente dalla propria appartenenza all'etnia latina o germanica. Ciascuna comunità locale elaborò proprie coutumespermeabili all'influenza del dirit­to romano e di quello germanico, con prevalenza ora dell'uno ora dell'altro.
Durante il sec. Xl, si creò in Francia una distinzione netta tra aree del nord e aree del sud.
Nel sud (territo­rio che dalla Borgogna giungeva fino al territorio di Bordeaux) il diritto romano giustinianeo fu accolto con valore di diritto comune, secondo il metodo d'insegnamento della scuola di Bologna. Divenne in tal modo pays de droit écrit(regione di diritto scritto). “Diritto scritto” era per antonomasia il diritto romano, dapprima il diritto teodosiano e poi, a partire dal XII sec. il diritto contenuto nel Corpus iurisgiustinianeo, che, grazie all’opera dei glossatori, venne accolto come diritto positivo e, quindi, come diritto comune rispetto alle consuetudini, nel senso che esso doveva applicarsi ogni qualvolta le consuetudini non avessero disposto o quando una loro interpretazione strettamente letterale non avesse offerto la soluzione del caso concreto.
Al nord, invece, le con­suetudini rifletterono costumi più prettamente germanici e la Francia settentrionale           divenne pays de droit coutumier (regione di diritto consuetudinario), poiché non riconobbe il diritto romano come fonte di diritto ufficiale e conservò il diritto locale, fortemente germanizzato e spesso espresso nella sola forma della consuetudine.
Nei paesi di diritto consuetudinario, invece, il diritto giustinianeo non venne riconosciuto come vigente “ius commune”,ma solo come complesso di superiori principi di giustizia e di razionalità giuridica a cui far ricorso qualora un'interpre­tazione estensiva delle consuetudini (prima locali, poi regionali e poi, a partire dal sec. XVI, di quella di Parigi) non fosse stata sufficiente.
I motivi della spiccata ritrosia delle regioni della Francia settentrionale a riconoscere ufficialmente al Corpus iurised alla relativa “interpretatio dei doctoresbolognesi” il valore di vigente ius communevanno ravvisati nella politica di accentramento del potere attuata dai re francesi fin dal sec. XIII e rivelatasi più consistente nei secc. XIV-XVI.
La monarchia francese riaffermò sempre la sua piena e assoluta indipendenza dall'impero: in Francia, più che altrove, valeva la formula “rex superiorum non recognoscens in regno suo est imperator(ilre che non riconosce l'autorità supe­riore dell'imperatore è a sua volta imperatore nel proprio regno). Per questo motivo il diritto romano, configurato come il diritto di un impero universale, turbava non poco le tendenze autonomistiche dei sovrani. A partire dal secolo XIII furono emanati numerosissimi provvedimenti regi, volti sia ad ostacolare la penetrazione del Corpus iurisnei paesi di diritto consuetudinario, sia a contenere gli effetti pericolosi esercitati dal diritto romano nei paesi di diritto scritto. In particolare, nel 1312 Filippo il Bello emanò un'ordinanza diretta a disciplinare lo studio del diritto civile e canonico all’università di Orleàns.
In tale provvedimento il sovrano dichiarò diritto del regno non il diritto scritto(cioè il diritto romano), bensì quello consuetudinario. Nelle regioni meridionali,­ in cui l'osservanza del dirittoscrittoera un dato di fatto, Filippo il Bello dichiarò il diritto romano vigente non per sé stesso, ma perché tollerato dal sovrano, che ne consentiva l'applicazione a titolo di consuetudine.
Bisogna ricordare che in pieno secolo XV non esistevano raccolte scritte ufficiali delle molteplici consuetudini, per cui nel 1454 il re Carlo VII sentì il bisogno di porre rimedio a tale disordine. Egli incaricò una commissione di giuristi dì procedere alla redazione scritta delle consuetudini locali. L'opera, che costituì un importante aspetto del processo di unificazione del diritto privato in Francia, sfociato nella codificazione napoleonica del 1804, ebbe termine verso la metà del Cinquecento.
Fra il 500 ed il 600 si creò, così, un “droit commun coutumier” nazionale, ossia un “droit francais”. In questo nuovo diritto la tradizione giuridica romanistica ebbe, nonostante tutto notevole peso.
Ciò si spiega in primo luogo tenendo conto del fatto che i commissari incaricati della redazione delle coutumessi erano pur sempre formati sui testi del Corpus iuris giustinianeo e molti di essierano favorevoli alla concezione del diritto romano quale diritto positivo comune in tutta la Francia.
Un momento fondamentale nella nascita di un “droit  commun”nazionale in collegamento con la tradizione romanistica fu l’emersione della “Coutume dl Parigi”, che rappresentò il droit coutumier per eccellenza. Ogni regola in essa contenuta era la risultante di mediazione tra le diverse coutumes.
Nel ‘600 e nel ‘700 la Coutume di Parigi divenne il testo base della giurisprudenza del Parlamento di Parigi, il più prestigioso organo giudiziario della Francia. Tale “Coutume” fu utilizzata come un vero e proprio corpus di diritto, per omogeneizzare i vari diritti locali e per far emergere un diritto français.

Il diritto comune nella penisola iberica.

Il diritto comune si diffuse nella penisola iberica, che si presentava divisa nei due regni di Aragona  e Castiglia ( avremo la fusione con gli Asburgo, conCarlo V), a partire dal sec. XII. Fu grazie agli studenti laureatisi nelle università italiane, che si ebbe la diffusione del Corpus iuris giustinianeo, accompagnato dall’interpretatio dei doctores bolognesi: la nuova cultura si diffuse a catena nei vari tribunali,  nelle curie ecclesiastiche e negli ambienti di governo.
Anche qui, però, quando l’auctositas del corpus giustinianeo, con i suoi concetti universalistici, cominciò ad investire la prassi, trovò l’opposizione dei ceti nobiliari e delle monarchie.
Le ostilità maggiori si ebbero dalla tradizionalista Aragona; infatti nel “Fueros de aragon” ( il codice del diritto generale del regno) il diritto comune non venne accolto come diritto sussidiario, ma fu dato al giudice il compito di risolvere secondo equità i casi non previsti. Fu solo grazie al diritto canonico, se il diritto comune poté ugualmente penetrare con la sua influenza nei tribunali.
Stessa resistenza si ebbe anche in Navarra, in Catalogna, e nei regni di Leon e di Castiglia (in questi due regni fu creato il Fuero Real, per uniformare un testo giuridico).
Per arginare il potere del diritto commune, ma anche per nazionalizzare tutto il diritto del regno, il re Alfonso X il saggio creò la compilazione legislativa “La legge delle sette parti”, che si presentava come corpus del diritto comune nazionale. Anche nella Legge, però, il diritto locale si combinò con diverse norme giustinianee e di diritto canonico, nonché con opere dei giuristi di diritto comune.
In tal modo il ius commune rimase vigente insieme alle tradizioni locali.

 

Il diritto comune in Germania

 

Anche nei territori germanici, così come in Francia e Spagna, l'ordinamento giuridico era largamente caratterizzato da consuetudini locali, spesso in contrasto con le leggi di produzione imperiale.
La prima fase di penetrazione del diritto comune in Germania si ebbe, tra gli ultimi anni del XII secolo e gli inizi del XIII, grazie al diritto canonico. La tradizione del diritto giustinianeo ebbe modo di diffondersi, soprattutto, attraverso le forme del pro­cesso canonico celebrato nei tribunali ecclesiastici e attraverso la pratica notarile. Fondamentale, ai fini di una prima penetrazione del diritto comune, fu anche l'affluenza di studenti tedeschi nelle Università italia­ne.
Bisogna precisare, però, che l'oggetto della recezione in Germania non fu tanto il diritto giustinianeo contenuto nel Corpus iuris, quanto piuttosto la sua elaborazione pratico-scientifica attuata dai Glossatori e dai Commentatori, vale a dire il mos italicus.
Il momento della recezione ufficiale del diritto comune si ebbe nel 1459 con un'ordinanza dell'Imperatore Massimiliano I, la quale istituì il Tribunale Camerale dell’Impero.
Con tale ordinanza si impose ai giudici di decidere le controversie, non solo applicando la legislazione imperiale, gli statuti e le consuetudini locali, ma anche il diritto romano e quello canonico.
Durante i secoli XVII e XVIII dalla tradizione scientifica del mos italicusebbe origine una fiorentissima giurisprudenza, volta ad elaborare soluzioni di adattamento comune alle esigenze della prassi tedesca.
Questa nuova pratica di rielaborare il ius commune con gli “iura propria” tedeschi fu denominata, verso la fine del sec. XVII, usus modernus pandectarum.

 

 

Riforma protestante e Controriforma

Il problema di una riforma della Chiesa era considerato fin dal medioevo uno dei principali problemi della cristianità occidentale. Da più parti, già nel corso del XIV secolo, era stata invocata la necessità di una rinascita dell'originario spirito cristiano e di un risanamento morale del corpo ecclesiastico.
La vita della Chiesa, all'inizio del 500, non si riduceva a un mero fatto spirituale, in quanto il clero possedeva enormi ricchezze e disponeva dl rendite vistosissime, ed in molti paesi, come la Germania, l’acquisizione del denaro e delle rendite da parte del papato aumentava in maniera scandalosa.
In una situazione di questo genere, la concessione delle indulgenze per la liberazione delle anime del Purgatorio, accompagnata da offerte di denaro alla Chiesa, assumeva sempre più l'aspetto di una vera e propria transazione finanziaria. Le stesse banche guadagnavano enormi cifre anticipando ai papi le somme loro necessarie e prendevano in appalto la vendita delle indulgenze. A ogni modo, fu un intreccio di cause che portarono verso la riforma prote­stante, cause con origini diverse e lontane.
La Riforma protestante poté attecchire e svilupparsi solo in quei paesi dove venne sostenuta apertamente dall'autorità laica, come negli Stati scandinavi, nei principati tedeschi, a Ginevra, e in una certa misura in Inghilterra. Essa non riuscì a sopravvivere dove i governi decisero di reprimerla, come in Spagna, in Italia, nei territori asburgici e, seppure non in modo definitivo, in Francia.
Con la pubblicazione delle 95 tesi teologiche (1517) da parte di Lutero in Germania, si è soliti datare l'inizio della Riforma. Il contenuto di quelle tesi, oltre a denunciare la forma irriverente in cui le indulgenze venivano concesse, metteva in dubbio il potere stesso del papa di concederle. L'aspetto più rivoluzionario delle affermazioni di Lutero stava nella negazione della bontà delle indulgenze.
Quasi in contemporanea al moto riformatore luterano, ebbe il suo sviluppo l'opera di riformatore francese Calvino a Ginevra. Egli fu profondamente convinto che l'opera della Riforma non poteva essere scissa da un rinnovamento culturale che iniziasse con la formazione di un corpo di ministri del culto moralmente irreprensibili e accuratamente istruiti. Seguendo le orme delle correnti religiose più radicali, Calvino rifiutò la subordinazione luterana della Chiesa allo Stato, sottoponendo anzi sia lo Stato sia società civile al giudizio del Vangelo. Nella sostanza, il calvinismo vagheggia una società di asceti che vivono nel mondo e in esso operano, attribuendo a ogni atto propria vita un valore religioso.

Secondo Lutero e Calvino sono tre le forme in cui si esplicita il diritto:

  • Il diritto divino, che viene direttamente da Dio, non può che essere eterno, immutabile e assoluto,  rappresenta la norma in base alla quale tutte le azioni umane devono essere giudicate.

Il diritto naturale che vincola, in modo funzionale, tutti gli uomini. È norma di giusti­zia vera e eterna, stabilita per ogni uomo, che intende conformare la sua vita alla volontà di Dio. Sono il peccato e la corruzione che spingono l'uomo ad alterare e a modificare il diritto naturale in modo da renderlo più consono ai suoi desideri e alla sua volontà decaduti.

Il diritto positivo, che viene promulgato e applicato dall'autorità secolare vera e propria.

La ragione umana deve essere in grado di produrre una legislazione tale da soddisfare le esigenze di convivenza dell'uomo, senza però entrare in conflitto con la legge divina. L'attività legislativa è però una professione per soli specialisti.
La risposta fu la convocazione del Concilio di Trento.
Con l’espressione Controriforma si sottolinea la dura opposizione al Protestantesimo.
Il Concilio di Trento (1545-1563) riaffermò la dottrina cattolica, il principio del libero arbitrio, il valore di tutti i sacramenti e l'autorità del pontefice. Inoltre, stabilì che solo la Chiesa, guidata dal pontefice, può interpretare le Sacre Scritture. Il Concilio riformò l'organizzazione della Chiesa e la  moralità del clero venne migliorata. Per combattere il protestantesimo venne potenziato il Tribunale dell'Inquisizione e fu redatto l'indice dei libri proibiti. Sorsero nuovi ordini religiosi. Particolare peso ebbe quello dei gesuiti: educatori, missionari, consiglieri di sovrani.

L’Umanesimo giuridico e la Scuola Culta

Verso la fine del XV° secolo la scienza giuridica italiana entrò in crisi. Le scuole di diritto, a causa degli ordinamenti signorili e principeschi, fortemente accentratori, esaurirono la loro vena. Per tale motivo, nel Cinquecento si affermò la scuola degli Umanisti (Umanesimo = scoperta dell’uomo): "Questi giuristi fecero parte del generale movimento intellettuale dell'epoca, e ne condivisero l'entusiasmo per il ritorno alle fonti, l'avversione per il barbarismo medievale (in particolare per il cattivo latino) e l'amore per il metodo filologico e storico volto a scoprire il vero significato dell'antichità classica e delle sue opere (La filologia è la scienza che studia la lingua e la letteratura di un popolo deducendola dai testi scritti.  I testi, inoltre, sono ricostruiti nella loro forma più vicina all’originale, indagandone la genesi e la struttura).
Gli illuministi valorizzano il Rinascimento come epoca nella quale è risorto il classicismo; il medioevo è un’età di mezzo.
I giuristi umanisti volevano ricostruire il diritto romano ed il ruolo che esso giocò nell'antichità, per cui era necessario liberarlo dai sedimenti e dai travisamenti medievali, e sviluppare un vero approccio storico. Lo strumento doveva essere la ricerca libera, il libero esame delle fonti e non più la forza vincolante dell’autorità e della tradizione. “Il mito non è più Giustiniano, ma l’epoca classica”.
Ricostruzione oggettiva del passato. L’antichità va interpretata nella sua oggettività e non in funzione delle esigenze della nuova epoca, perché se no la visione del modo antico viene filtrata.
L’uomo del rinascimento non considera più il diritto romano come ancora valido e applicabile, ma come diritto che riguarda ormai la storia e non può più essere riabilitato all’efficacia. Si noti l’affinità con la letteratura classica. Cambia dunque il modo d’avvicinarsi al diritto romano riconducendolo al proprio quadro storico: si tratta di quel processo nominato storicizzazione.
Questo fu ciò che essi si impegnarono a realizzare, e non vi è dubbio che raggiunsero una più profonda e più esatta comprensione del diritto di Roma e della società in cui esso operava. Produssero anche eccellenti edizioni critiche del Corpus. Ma mentre ciò era un grande servizio per la cultura, era di poca utilità per la pratica del diritto. Il diritto puro dell'antichità era applicabile solo all'antica Roma; i tribunali della moderna Europa potevano servirsene poco e preferivano il diritto romano così come i commentatori l'avevano adattato all'Europa in cui vivevano".
Tuttavia lo studio prodotto dai Commentatori abbinato a quello degli Umanisti, servì nel secolo successivo, creò una cultura giuridica che "penetrò nell'uso quotidiano dei Tribunali e modificò in diverse maniere la vita di tutti nel Continente (ed in misura minore in Inghilterra).

L’Umanesimo letterario

Abbiamo detto che l'Umanesimo germinò agli inizi del sec. XV nel mondo di letterati ed eruditi. Essi erano convinti assertori dell'indipendenza della ragione umana e della possibilità dell'individuo di dominare il mondo e di riconquistare la piena “naturalità”, quale si era manifestata al suo culmine nell'antichità classica. Il recupero del mondo antico poteva avvenire soltanto attraverso una comprensione del passato attuata storicamente, mediante l'analisi filologica degli antichi testi.
A questi letterati e cultori dell'antichità il Corpus iuris civilis, che per i giuristi costituiva il codice del diritto del presente senza limiti concettuali né temporali, appariva esclusivamente come un frammento di quell'antico mondo che essi intendevano fervidamente recuperare, come il prodotto specifico di un determinato momento storico.
Quel Corpus iuris, che dai giuristi era trattato alla stregua di un intoccabile e autoritario testo normativo, diventa per l'umanesimo letterario un puro monumento dell'antichità romana, una rag­guardevole testimonianza della sapienza latina da interpretarsi con l'imprescindibile sussidio di una cultura storica e filologica. Non più dunque un sacro compendio di norme imperative, da applicarsi nel presente senza discutere, ma un libro che dev'essere filologicamente storicizzato, cioè fedelmente recuperato nella sua veste originale di documento dell' humanitasantica.
Agli occhi degli umanisti fu degno di disprezzo il metodo con cui i giuristi medievali ed i bartolisti si accostavano agli antichissimi testi giustinianei. Tali giuristi erano definiti dai letterati “barbari, asini ignoranti, oche” perché, senza possedere un minimo bagaglio di nozioni storiche, erano febbrilmente preoccupati di costruire enormi appa­rati di glosse e di commentari usando un latino rozzo e scorretto, indegno del mondo classico.
Tra gli umanisti che nel corso del secolo XV diedero vita ad una produzione letteraria demolitrice delle tecniche utilizzate dalla giurisprudenza medievale e dai bartolisti ricordiamo innanzitutto lo storico e filologo Lorenzo Valla (1407-1457), profondo studioso del linguaggio tecnico del diritto.
Valla, studioso di letteratura latina si scandalizza quando sente dire da un giurista che un trattatello sugli stemmi delle famiglie gentilizie è più importante di un’opera di Cicerone. A  quel punto il Valla scrive una lettera polemica che ha come destinatario un altro umanista, la quale contiene una trascrizione (Libello antsbartoliano del Valla) dove egli si scaglia conto i giuristi del tempo e contro Giustiniano, che ha distrutto l’armonia delle scienze giuridiche romane con la sua compilazione. La critica a Giustiniano è di aver modificato i testi dei giuristi dell’età classica, mentre i giuristi del tempo sono definiti “oche” che non parlano la lingua latina, ma quella barbara.
L’opuscolo del Valla criticava l’opinione secondo la quale un trattatello di Bartolo sarebbe stato da anteporre a qualsiasi opera di Cicerone. Questa era la manifestazione di una mentalità molto diffusa secondo la quale le opere dei giuristi medievali fossero oltre che più utili, anche più importanti delle opere di cultura.
Accusa Giustiniano di aver approfittato della sua posizione per fare un cattivo servizio ai cittadini romani, e allo stesso tempo, distruggendo l’armonia della scienza giuridica, avrebbe reso indispensabili i prodotti della scienza giuridica medievale. Valla afferma che per colpa di Giustiniano sono sorti personaggi come Bartolo e Baldo, che si sono sostituiti ai grandi giuristi romani, utilizzando una lingua da barbari.
Lo scandalo del Valla concerne soprattutto il latino medievale che è un fenomeno degenerativo della cultura. Il suo comportamento è stato definito da storici autorevoli come frutto di una mentalità che si potrebbe definire illuminista.
Gli illuministi del 400 furono coloro che sminuivano il valore il valore del medioevo, visto dai razionalisti come un’età senza volto. La civiltà avrebbe subito un arresto di sviluppo con la caduta dell’impero d’occidente per riprenderlo solo dopo la fine del Medioevo. L’atteggiamento degli uomini come il Valla è tipico di coloro che assumono un atteggiamento “rivoluzionario” verso il passato.
Altro importante erudito fu Angelo Poliziano (1454-1494), che si deve considerare tra i più raffinati interpreti dell’umanesimo. Al vertice della cultura umanista assume una posizione equilibrata nella critica nei confronti dei giuristi medievali.
Poliziano in una sua opera fa riferimento a due redazioni del digesto: la Littera Boloniensis e la Littera Florentina pervenute agli umanisti:

  •  la Florentina non è altro che il codex conservato a Firenze risalente all’età di Giustiniano, VI secolo, quindi molto antico e prezioso (ultimamente consultabile).

      All’epoca d’Irnerio tale manoscritto si trovava a Pisa dove restò fino al 409, quando la città fu   sottomessa dai fiorentini; tutti furono sempre consapevoli dell’importanza di questo testo ereditato direttamente da Bisanzio.
-     la Boloniensis conteneva invece il Digestum sotto forma di lezione e diviso in tre parti: vetus, novum, infortiatum. Su questo testo lavorarono commentatori e glossatori ed era il più diffuso rispetto al primo che era il più antico.
Importante fu il paragone tra le due edizioni che fu fatto per la prima volta proprio dal Poliziano.
In questa sua lettera, Poliziano, dice che sono stati commessi errori di trascrizione del codice, soprattutto nelle edizioni elaborate nel medioevo, non solo perché gli studiosi furono ignoranti del latino classico, ma anche perché questi non conoscevano affatto la lingua greca utilizzata nei testi giustinianei.

Poliziano essendo un vero Filologo non è ispirato da una dura polemica nei confronti dei giuristi medievali ai quali riconosce invece l’impegno. Si rende conto che i giuristi come Accursio hanno dato molto per il loro tempo.

 

La scuola culta

Nei anni del Cinquecento la tendenza a storicizzare il diritto romano passò dal mondo dei letterati e degli eruditi al mondo dei tecnici del diritto. Particolare attenzio­ne fu rivolta al processo di formazione storica del Corpus iuris, considerato non più espressione pura del diritto romano classico, ma frutto di interpolazioni, alterazioni e rimaneggiamenti volute da Giustiniano. La feroce critica attuata dagli esponenti dell’Umanesimo giuridico alla compilazione giustinianea costituì un momento cruciale dello ius commune,perché per la prima volta veniva messa in crisi la validità del Corpus iuriscome diritto attuale e vigente, nonché la certezza e l'universalità dello­ ius commune.
La nascita di un indirizzo umanistico, specificamente giuridico, si ebbe con Andrea Alciato (1492-1550), fondatore della cd. Scuola Culta (culta giurisprudenza). Gli esponenti di tale scuola ritenevano che il giurista, come ogni uomo, dovesse provvedere ad una formazione completa attraverso lo studio di scienze diverse (soprattutto storia e filologia) e non meramente giuridiche.
Alciato si era formato alla Scuola del Commento ed era, quindi, profondo conoscitore del mos italicus. Tuttavia fu convinto assertore del metodo storico-filologico  e  ciò lo costrinse ad  abbandonare l’Italia
e a trasferirsi all'Università francese di Bourges. Proprio la Francia fu il centro propulsore del nuovo  indirizzo scientifico (mos gallicus ius docendi).
Altri esponenti del nuovo movimento scientifico (che, ricordiamo, sorse in Italia gra­zie all'influsso della cultura umanistica, ma poi sì sviluppò in Francia e da qui si propa­gò in tutta Europa come mosgallicus)furono Guglielmo Budé (1467-1540), Ulrico Zasio (1461-1535), Jacopo Cuiacio (1522-1590), Francesco Hotman (1524-1570), Ugo Donello (1527-1591), Dionisio Gotofredo ( 1549-1622),  Jacopo Gotofredo (1587-1652).
I giuristi della Scuola Culta irrisero l'opera dei Glossatori e dei Commentatori e criti­carono il loro metodo alla base. Le aspre invettive che gli esponenti del mos gallicusindirizzarono ai giuristi medievali non risparmiarono nemmeno Giustiniano, la cui autorità invece era riconosciuta come indiscutibile dai bartolisti.
Le critiche più gravi mosse dai giuristi culti al mos italicussono contenute nell'An­titribonianus, opera scritta da Francesco Hotman e pubblicata nel 1567. Hotman accusa Giusti­niano e Triboniano (il giurista incaricato dall'imperatore di procedere alla compilazione del Corpus iuris civilis)di aver manipolato e alterato l'enorme patrimonio giuridico classico, dando vita a quel monumentale apparato di errori ed antinomie che i giuristi medievali, barbari ignoranti, avevano venerato come una Bibbia.
Nell' Antitribonianus,Hotman afferma, inoltre, che il sovrano dovrebbe affidare ad una commissione di giuristi il compito di estrarre dal diritto romano gli elementi ancora vitali e di realizzare, sulla base delle consuetudini del regno di Francia, “uno o di volumi” di norme chiare e semplici, che riducessero la mole delle leggi e delle interpretazioni giurisprudenziali accumulatesi nel corso dei secoli ad opera degli interpreti della compilazione giustinianea.
Ildiritto giustinianeo era, secondo lo Hotman, ormai inattuale ed era inutile cercare di risuscitarlo per renderlo applicabile ad un mondo storico che aveva ben altre esigenze organizzative.
Il programma dello Hotman si risolveva in una drastica proposta di semplificazione in un codice di tutto il diritto francese, pubblico e privato, cioè in uno dei primi veri e propri progetti di codificazione (in senso lato) nazionale. Esso rivelava così che tanto accanito disprezzo giustinianeo mirava ad una nazionalizzazione del diritto e ad un’uniformità giuridica.
Le esigenze di armonia, di semplicità e chiarezza del sapere avvertite dagli umanisti del rinascimento indussero i giuristi della scuola culta ad adottare sul piano scientifico, accanto all'indirizzo storico-filologico un orientamento sistematico (visto come il frutto del libero spirito dell’uomo). In sostanza, i Culti aspirarono a collocare il diritto (le norme e gli istituti) in schemi sintetici ed eleganti, secondo un ordine, di distribuzione delle materie e degli argomenti, ritenuto più razionale e più valido del tradizionale ordine, che aveva presieduto la compilazione del Codice e del Digesto giustinianei.
Proprio per la preminenza data dai giuristi umanisti alla “persona” (ossia al soggetto del diritto) nelle loro trattazioni scientifiche, parte della recente storiografia ha individuato nei giuristi del se­colo XVI i precursori del giusnaturalismo moderno.

La difesa del mos italicus.Alberico Gentili

Nonostante i feroci attacchi dei giuristi culti, il mos italicus(e, quindi, il tradizionale metodo dogmatico utilizzato dai Glossatori e Commentatori nello studio e nell'inse­gnamento del Corpus iuris)riuscì a sopravvivere fino al sec. XVIII. In nessuna nazione d'Europa e neppure in ­Francia, il mos gallicusriuscì a prendere totalmente il sopravvento su di esso. In Italia e Germania, addirittura, il mos italicuscontinuò a predominare nelle scuole giuridiche.
Per comprendere i motivi per cui il mos italicusriuscì a sopravvivere in tutta Europa e a restare predominante soprattutto in Italia e Germania, si deve tenere innanzitutto presente che l'umanesi­mo era un movimento culturale perfettamente funzionale alla politica accentratrice dei moderni Stati assoluti.
La storicizzazione del diritto romano, attuata dai giuristi umanisti unitamente alla valorizzazione delle norme nazionali, serviva a rafforzare l'unità dello Stato e per questo si rilevava pienamen­te rispondente ai programmi d’unificazione delle potenti monarchie europee.
Laddove, come appunto in Italia e Germania, mancava un forte potere centrate, i programmi dell’Umanesimo erano invece difficilmente attuabili. L’Italia era divisa in diversi Principati e Repubbliche e l’ordinamento politico di ogni singolo Stato era privo della forza necessaria ad attuare, nel proprio interno, un’opera di unificazione giuridica che prescindesse dal diritto comune. In questa situazio­ne di particolarismo giuridico e politico l'unica possibilità di assicurare la certezza del diritto era quella di considerare il diritto romano come diritto comune vigente nei diversi Stati. Le medesime considerazioni valgono per la Germania. In defi­nitiva, osserva il Cavanna, “fuori di Francia, l'impiego del Corpus iuris,come intoccabile diritto positivo, era la condizione essenziale per la vita del diritto”.
Un'accorata difesa del mos italicusfu condotta dall'avvocato e docente di diritto civile ad Oxford Alberico Gentili (1552-1608). In seguito ad una profonda meditazione sul contrasto metodologico che separava i bartolisti dagli umanisti, Gentili, pur riconoscendo l'importanza dì una ricerca scientifica condotta con profonda e autentica comprensione storica del diritto romano e con padronanza del latino, confermò tuttavia la validità e la superiorità del­l' impostazione metodologica dei “bartolisti”. In sostanza, Gentili affermava che compito del giurista è quello di studiare il diritto e di utilizzarlo al fine di disciplinare i rapporti sociali.
L'esatta comprensione, da parte del giurista, dei “verba”del Corpus iurisnon deve costi­tuire un'attività fine a se stessa, mirante esclusivamente a tradurre elegantemente i testi romani ma deve servire da semplice supporto rispetto a quella che è la funzione prima­ria del giureconsulto: rendere le norme romane operanti nella realtà quotidiana e risol­vere sempre e comunque secondo giustizia i casi concreti. Ciò che si chiede al giurista non è la mera erudizione, ma un profondo senso giuridico, che gli permetta di rinveni­re la ratiodella legge, in modo da rendere quest'ultima riproponibile secondo le esigenze del momento.

Cavanna            (Riassunto del libro da pag. 192 a pag. 250)

Crisi e superamento del diritto comune

Cap 1.   La crisi del diritto comune e la situazione di particolarismo giuridico nell’Europa moderna (secoli XVI-XVIII)

Come sappiamo, lo ius commune si contrappose come blocco unitario ad una molteplicità di diritti locali e particolari, e fu utilizzato come “ratio iuris” per una loro interpretazione uniforme.
Il diritto come legge dello Stato sovrano, nonché l’immagine dello Stato come produttore esclusivo e autoritario della norma giuridica, anziché come conservatore di un diritto già precostituito, mandarono in crisi il diritto comune.
Lo Stato si poneva così come unica fonte del diritto: era la statualizzazione del diritto.
Il diritto comune, pertanto, era avvertito come sovrabbondante e controverso e lo stesso monopolio dei giuristi cominciava a vacillare, a scapito del legislatore statuale, garante della certezza del diritto. Il diritto comune diventava sussidiario a tutti gli altri diritti, sia a carattere generale, che particolare.
Impietosa fu l’opinione del Muratori sui giuristi dell’epoca nel suo “Dei difetti della giurisprudenza”. Il parere dei giuristi, che non fossero i pochi giureconsulti dei grandi tribunali statuali, diveniva “privata opinio” e l’antico pluralismo politico e sociale si traduceva in patologico particolarismo.
Furono questi inconvenienti che fecero strada al concetto di codificazione, che poggiava sull’idea laica e moderna di sovranità: la codificazione veniva, oramai, privilegiata rispetto alle soluzioni semplificate e di certificazione del diritto basato sulla tradizione.
Passaggio che avvenne per stadi e che giunse al termine solo al tramonto “illuminato” dell’assolutismo, con conseguente soppressione del pluralistico sistema di fonti dello ius commune.
Bisogna precisare che nel tardo regime di diritto comune si ha una straordinaria complessità della norma positiva in una situazione di particolarismo giuridico. Coesistono un diritto comune (romano-canonico-feudale), un diritto regio o principesco e più diritti particolari, con il diritto comune usato in modo sussidiario e più diritti particolari che hanno la precedenza su di esso. Il diritto canonico, invece, non ammette deroghe, non è sussidiario e si presenta autonomo.
Ora, è la lex superiore del sovrano o del principe ad avere la precedenza su tutte le altre fonti.
In Italia, dopo il XVI° secolo, erano pochi i territori con un ordinamento giuridico basato sul diritto generale dello Stato (al primo posto nella gerarchia delle fonti), consistente nei precetti di provenienza sovrana o in precetti prodotti da una precedente autorità di vertice nel territorio e fatti propri dal sovrano: erano quelli con corpi consolidati di legislazione (ducato di Milano, Regnum Siciliae di Federico II..). Tale legislazione si sviluppava con un’incessante crescita, ma in modo molto irregolare.
Si trattava di un immenso materiale legislativo prodotto da continue disposizioni, che andavano a sommarsi a quelle precedenti senza abrogarle.
In questa massa legislativa il diritto comune, grazie al “placitum principis”, interveniva in via sussidiaria a colmare le eventuali lacune della legislazione sovrana. Spesso capitava che il complesso del diritto vigente a titolo generale nel territorio dello Stato (diritto di provenienza sovrana affiancato dal diritto comune) fosse integrato anche dal diritto canonico, creando, a volte, non poche perplessità.
Non poche difficoltà, inoltre, venivano a crearsi quando il diritto generale operava solo in coordinamento coi diritti particolari: in questi casi, incertezza e conflittualità aumentavano. Non di rado succedeva che negli statuti di due comuni molto vicini tra loro, una stessa situazione giuridica fosse disciplinata in base a princìpi opposti.
La conservazione delle leggi municipali vecchie e nuove era caratterizzata dal disordine e da difficili condizioni di consultazione. Tale situazione ostacolava le giurisdizioni centrali, sprovviste di tutti gli esemplari statutari e di esemplari aggiornati (ci viene in mente il noto dottor Azzeccagarbugli).
Vediamo ora l’ordine delle fonti in riferimento alla precedenza che dovevano avere negli ordinamenti.
La precedenza assoluta spettava alla legislazione del sovrano, e solo se questa non disciplinasse il caso, il giudice era autorizzato ad applicare una norma diversa. Se non si rinviava espressamente al diritto comune o al diritto canonico, si applicavano le disposizioni statutarie o consuetudinarie locali; in mancanza di queste ultime, il diritto comune.
Questo schema, è bene precisarlo, per lo scarso reperimento delle leggi, era spesso disatteso.
Possiamo affermare, così, di trovarci di fronte ad un particolarismo giuridico, che caratterizza un ordinamento costituito da una pluralità di fonti che risultano lacunose, incerte e non produttive di un unico diritto positivo. L’ordinamento complessivo, unitario solo formalmente, di fatto si scomponeva in più diritti sostanzialmente differenti.
Tale scomposizione avveniva, in base ad un elemento di moltiplicazione oggettivo, a livello locale (territori diversi con aspetti legislativi diversi); in base ad un elemento moltiplicatore soggettivo, invece, la mancanza di unità giuridica si produceva anche in relazione allo specifico “status” sociale delle persone. Si creavano, cioè, una serie di diritti speciali, con una pluralità di situazioni e di privilegi corporativi o di status.
Si pensi che nel campo del diritto penale il fenomeno assumeva singolari dimensioni. Lo status personale del reo assumeva un ruolo importante, per cui uno stesso reato era represso a seconda della caratterizzazione sociale, religiosa, professionale del colpevole. Si profilava anche una pluralità di giurisdizioni, ciascuna competente a decidere di un certo caso esclusivamente in relazione allo status personale delle parti: si pensi alla molteplicità delle giurisdizioni corporative, commerciali, feudali, ecclesiastiche, con il risultato di un ampliamento dei conflitti di competenza. Non dimentichiamo che ai nobili influenti erano riservati privilegi d’ordine politico, fiscale e processuale e allo stesso modo, gli appartenenti al clero o al commercio godevano di altri privilegi. Ricordiamo che lo “Jus mercatorum” poneva una disciplina vantaggiosa per il soggetto commerciante.
A partire dalla seconda metà del sec. XVI lo Stato dovette fare i conti con queste situazioni, soprattutto quella mercantile, che contrastavano con i programmi assolutistici. Per tale motivo, le monarchie vollero limitare l’influenza politica della classe mercantile e creare una disciplina statuale e pubblicistica del commercio ed avocare a sé le antiche funzioni giudiziarie corporative.
La Francia offrì uno splendido esempio di realizzazione di questi programmi: la celebre Ordonnance du commerce del 1673, e la successiva ordinanza sulla marina mercantile, furono gli strumenti legislativi della lucida e vigorosa politica mercantilistica di Luigi XIV.
L’esempio francese rappresentò l’obiettivo d’altri Stati assoluti, anche se occorre precisare che la statualizzazione del diritto commerciale non fu ovunque così rapida. C’è da dire che anche la nuova disciplina commerciale, per il suo carattere di jus speciale, conservava privilegi per i commercianti.
Si comprende ora come lo Stato avesse l’idea di creare un diritto unico, che potesse eliminare gli ordini e i corpi sociali privilegiati, che rivendicavano particolari prerogative giuridico-politiche (battaglia, questa, che sarà combattuta soprattutto nel XVIII° secolo).
Per ciò che concerne la situazione germanica, qui si riscontra un assai accentuato particolarismo territoriale e personale. Si presenta via via meno unitario e l’unico elemento di equilibrio e di unità giuridica fra i diversi Stati (Prussia, Austria, Baviera) è l’uso pratico del diritto comune.
E’ naturale che questo particolarismo, nella vita del diritto dello Stato, creasse in ogni ordinamento una situazione caratterizzata da una mancanza di unità del diritto positivo, con una molteplicità di giurisdizioni particolari operanti spesso in modo difforme dalla prassi dei tribunali centrali. Tutto ciò creava disagio ed incertezza nella vita giuridica: si creavano così conflitti delle norme e inevitabili conflitti giurisdizionali. Incertezza, non solo nel singolo destinatario della norma, ma anche nello stesso giudice nell’applicazione o nell’interpretazione della norma stessa.
Per evitare la paralisi dei sistemi normativi l’unica forza idonea era l’arbitrio giudiziale, con il suo potere discrezionale. E’ da notare che i processi si presentavano lunghi, con liti interminabili. Si  usava il “precedente” per avere modelli di certezza, anche se il risultato non era sempre quello voluto. Il giudice, spesso imbarazzato, in difficoltà nell’ “interpretatio”, si affidava alle “communes opiniones”.
Il Muratori ne farà un quadro impietoso: “I giudici trattano le leggi a loro comodo per favorire chi vogliono nelle liti”. Occorre chiarire che il successo del Muratori è dovuto proprio a questa incertezza del mondo giuridico, oltre che alla conseguente insoddisfazione dell’opinione pubblica.
Bisogna ricordare che chi amministrava la giustizia, lo faceva in nome del sovrano e per questo era un privilegiato interprete della sua volontà. Il sovrano tollerava o addirittura attribuiva loro poteri arbitrari che permettevano a questi di giudicare svincolati dai rigori del diritto positivo, anche se era pur sempre richiesta una legalità impersonata dal principe ed espressa attraverso la sua preminente legislazione.
Non mancavano, però, gli esempi di opposizione da parte dei Consigli, Senati e Parlamenti, contro i vari interventi regi volti a ridurli sotto il loro controllo. Alla ricerca di una certa autonomia, i giudici paralizzavano spesso l’azione unificante del sovrano, disapplicandone la legislazione insabbiando le pratiche e facendo ostruzione ai provvedimenti.
In conclusione possiamo dire, dunque, che il diritto comune non rispondeva più al tradizionale assetto giuridico ispirato all’universalismo medievale, anche se, in questa crisi di certezza, esso continuava a costituire l’unico schema di organizzazione giuridica su cui il carente Stato assoluto potesse poggiare.

Cap 2.   Gli inizi del processo di superamento del diritto comune

Pur riducendo l’osservazione al solo secolo XVI, vediamo che il diritto comune è ormai condannato da un nuovo processo culturale rivolto sia ad un programma di politica del diritto formulato dall’autorità, sia ad una presa di posizione del ceto dei giuristi, sia al movimento d’opinione pubblica, che si alimenta attraverso le ideologie ufficiali del potere politico.
Occorre precisare, però, che il movimento d’opinione pubblica non espresse mai il suo atteggiamento attraverso manifestazioni ufficiali e collettive decisive ai fini di un radicale cambiamento, perché ad esso l’idea di “codificare il diritto” non fu chiara in tempi brevi.
Nel 1742 il Muratori descriveva i giuristi capaci anche di ovviare in qualche modo alla crisi di certezza  giuridica, mentre l’ambiente dei “pratici” (avvocati, notai, titolari di piccole giurisdizioni rurali e feudali) è visto immobile e conservatore con nessun interesse a cambiare , perché essi nella gestione del diritto comune continuavano da avere posizioni di potere, di prestigio e di indipendenza. Anche il giurista è sempre legato al diritto vigente, ma lo è per sua natura, per cui, se rivoluzione ci deve essere, la riforma deve essere riservata al legislatore. Il giurista non è contrario, ma sollecita il legislatore.
Se si guarda bene, la prima sfida al diritto comune è stata la communis opinio, con con la quale un meccanismo maggioritario di opinioni fa scaturire una risposta democratica con presunzione di verità. Anche la tendenza dei grandi tribunali ad attribuire autorità vincolante ai propri precedenti, provoca un evidente fenomeno di consolidazione normativa del materiale giurisprudenziale.
Tutto ciò spiega come l’idea radicale di ridurre il diritto ad un chiaro, semplice sistema unicamente legale, si presenti alla coscienza giuridica europea e sono le élites di giuristi che sollecitano questo.
Hotman diceva che era necessario creare in Francia un ordinamento giuridico del tutto semplificato, grazie ad un maneggevole corpo normativo.
Lo steso diceva in Italia Giovanni Nevizzano D’Asti, come anche il penalista Deciani.
Si appellavano all’autorità politica perché attuasse una politica chiarificatrice nel quadro delle fonti e della dottrina. Era la denuncia del diritto comune, nella speranza di un diritto nazionale.
Lo stesso fa Conring nell’ambiente culturale germanico del secolo XVII.
Erano voci purtroppo ancora isolate. Maggiori ed incisive critiche al diritto comune sarebbero giunte invece nel XVIII° secolo soprattutto sulla base delle nuove correnti di pensiero giusnaturalistiche ed illuministe. 

Cavanna                (Riassunto del libro da pag.296 a pag. 318)

Riflessioni conclusive sulla politica assolutistica del diritto nel settecento  preilluministico

Abbiamo visto che lo Stato perseguiva il suo obiettivo: la razionalizzazione del sistema giuridico, cioè il processo di semplificazione (se non l’unificazione) delle fonti normative e l’autoritaria riconduzione a sé (cioè al sovrano) dell’intera attività di produzione e di applicazione del diritto.
Abbiamo anche visto che diventava importante potenziare la legislatura sovrana, a scapito delle fonti normative tradizionali, secondo il principio che “unica fonte del diritto era il monarca”.
Bisogna dire, però, che il diritto comune, pur statualizzato, nazionalizzato e territorializzato, pur parzialmente eroso dalla legislazione sovrana, pur privato del suo fondamento politico ed autoritario, restava sempre il pilastro unitario su cui reggere gli equilibri di legalità formale e di pacifica convivenza dello Stato.
Pur tuttavia si generò, in termini drammatici, il problema dell’unità e della certezza giuridica.
Era crisi profonda. Il pluralismo dei diritti locali e speciali, integrati dallo jus commune, diventerà particolarismo. Il diritto romano-comune appariva controverso e poco praticabile. Il potere dei giuristi diventava strapotere.
La stessa autorità assoluta, che aveva tolto potere ai giuristi, si trovava da sola ad amministrare la crisi, il diritto, in parte osteggiata da quello stesso ceto che intendeva conservare le proprie prerogative.
Fatto sta che fra la logica della teoria assolutistica, secondo la quale unica fonte del diritto è la volontà del sovrano, e gli interventi d’unificazione legislativa “concretamente” attuati da monarchi, che parzialmente tolleravano lo jus commune gestito dai giuristi, si creò contraddizione o quantomeno una notevole sproporzione.
Il monarca cercava di promuovere un ordinamento uniforme e quanto più possibile semplice, tale da essere applicato in modo inequivocabile e tassativo. Ciò comportava la creazione di un nuovo sistema giuridico autosufficiente, senza il sussidio del diritto comune, ed inoltre ciò comportava la riduzione dell’ordinamento giuridico ad un complesso normativo “unico”, uguale per tutti i consociati, livellati, in tal modo, come giuridicamente eguali.
Solo che, mentre l’ambiente dei giuristi manifestava solidarietà con la politica di semplificazione giuridica dei governi assoluti, l’ambiente culturale ed avvocatesco (avvocati, notai, giuristi preposti a minori giurisdizioni) restava immobile, costituendo un grosso ostacolo alla politica d’accentramento legislativo e giudiziario.
Si andava dall’ostruzionismo attivo di molti supremi collegi, alla non collaborazione dei piccoli operatori giuridici. Non era un’opposizione anti-assolutismo, bensì corporativismo, difesa consortile.
Anche parte dell’opinione pubblica capace di esprimersi (gruppi sociali organizzati), manifestando tendenze provincialistiche alla gelosa conservazione delle consuetudini e dei diritti locali, non agiva in favore di un diritto semplice e certo.
Da non dimenticare, infine, l’opposizione conservatrice dei ceti ecclesiastici e nobiliari, finalizzata alla sopravvivenza dei loro privilegi.
E’ da dire, però, che nessun sovrano assoluto poté mai concedersi il lusso di programmare sul serio una radicale soppressione dei privilegi che alla nobiltà e al clero derivavano dal particolarismo.
Vedremo che solo dalla seconda metà del ‘700, e solo in taluni ordinamenti europei (non in Francia, ad esempio, e non in molti Stati italiani), l’assolutismo tenterà di riformulare il diritto in modo completamente nuovo, usando la soluzione della codificazione quale programma di governo.

 

 

Ludovico Antonio Muratori           (lezione in classe)

Il Muratori ci conduce verso la codificazione del diritto. Il suo libro è di grande importanza, perché illustra qual’ era lo stato della giurisprudenza (e non come doveva essere) individuandone i mali. La giurisprudenza non è vista come scienza esatta e non si assiste alla sua esaltazione, come invece avviene in altre opere.
Notiamo un legame molto evidente con il Principe del Machiavelli (che riguarda i rapporti tra Stato e politica). I due libri riguardano la realtà politica, non soffermandosi sulle forme e sulla teoria. Era il periodo in cui la politica era molto sporca (il fine giustifica i mezzi, diceva il Machiavelli come critica al periodo).
In questo quadro, l’opera si presenta contro il formalismo del momento che precede l’illuminismo (periodo che raccoglie alcune tendenze umanistiche e giusnaturalistiche e che precede l’illuminismo). Nella realtà italiana, questo nuovo fermento pre-illuministico si manifesta come rivolta contro il formalismo, dominante nella realtà italiana, nonostante l’opera di Niccolò Machiavelli. Per formalismo bisogna intendere il divario tra teoria e pratica: esaltazione della giurisprudenza come una scienza in grado di produrre certezze, quando in realtà la certezza nella pratica non si raggiungeva e si realizzavano situazioni di ingiustizia; esaltazione acritica idealistica di princìpi in contrasto con una prassi che andava per un verso completamente opposto.
E’ la rivolta degli intellettuali. Nel ‘700 altri autori seguono l’opera del Muratori. E’ la visione antiformalistica: individuare nella prassi i mali della giurisprudenza.
Il piccolo testo del Muratori suscitò molte polemiche, anche perché proveniva da uno dei maggiori eruditi italiani, stimato in tutta Europa per le sue vastissime conoscenze in tutti i campi del sapere.
Non ci si poteva attendere una resa incondizionata da parte della giurisprudenza, ma la sua reazione, all’accusa del Muratori, bisogna dirlo, testimoniava una certa vitalità della stessa.
Le stesse polemiche riproposero, sotto certi aspetti, lo scontro tra il “mos italicus ” e il “mos gallicus”.
Si laureò presso l’università di Modena nel 1694, a circa 22 anni, e benché avesse una formazione prettamente giuridica si dedicò prevalentemente all’erudizione, favorita dal bibliotecario della biblioteca di Modena. L’autore degli Annali d’Italia (la sua opera più importante) non trascurò mai il diritto occupandosi prevalentemente di statuti locali. Già nel 1721 in una lettera autobiografica aveva avuto modo di manifestare il suo dissenso nei confronti della giurisprudenza, che a suo dire era in preda all’ignoranza, alle variazioni e al capriccio dei tribunali, degli avvocati e dei giudici. L’opera fu redatta in breve tempo ed ebbe un’immediata fortuna. Fu dedicata al Papa Benedetto XIV e ebbe subito un notevole successo, tanto che alle due edizioni veneziane nel 1742, se ne aggiunsero ben presto altre due edizioni, una a Napoli e l’altra a Trento. Ma quest’opera ebbe anche molte computazioni, afferma Enrico Solmi (uno degli studiosi del Muratori). Secondo Solmi era la prima volta che qualcuno aveva avuto il coraggio di accusare la giurisprudenza e mettere a nudo le sue nefandezze. C’erano stati simili accenni, ma non si era mai arrivati a dire tanto e da parte di un personaggio così qualificato, culturalmente così preparato. Diceva il Solmi che “qualcuno aveva avuto il coraggio di scalfire l’idolo della giurisprudenza”.
Una prima risposta all’opera di Muratori si ebbe da parte dell’avvocato Quercini di Venezia, che pubblicò un opuscoletto in risposta; ma fu solo una risposta debole che lo stesso Muratori giudicò non meritevole di un contraddittorio.
Più solide furono le contestazioni mosse dalla scuola napoletana, da parte di Pasquale Cirillo e di Francesco Rapolla. Occorre dire che la giurisprudenza napoletana godeva di grande prestigio, anzi si può affermare che la giurisprudenza napoletana era la migliore d’Italia, e che aveva un rilievo europeo. La giurisprudenza napoletana, insomma, rappresentava una grande tradizione, una grande scuola.
Il Rapolla vedeva il Muratori come un giovane inesperto, utopista e giurista improvvisato. “Conservatore per scetticismo”, concordava col Muratori sui mali della giurisprudenza, ma non ne condivideva la fiducia nei rimedi che avrebbero privato i giuristi (i veri giuristi) del loro ruolo essenziale. Diceva Rapolla: una nuova codificazione va bene, ma non potranno sparire tutte le interpretazioni. Quindi, perché cambiare? Perché far sparire tutte le dissertazioni e le interpretazioni giurisprudenziali? Non è meglio, dunque, rimanere così?
Il Muratori fu precursore della codificazione, un tradizionalista con qualche riserva, un cauto illuminista. Il Cavanna dice che non fu un vero e proprio illuminista ma, abbastanza tradizionalista, poiché la soluzione che propone per risolvere i problemi della giurisprudenza non va a deporre il sistema del diritto comune. Egli non propone una codificazione delle leggi, non propone l’abolizione del diritto romano, non proporre l’abolizione del diritto comune in chiave sussidiaria, ma propone una codificazione di soluzioni giurisprudenziali, in un contesto abbastanza tradizionale. Altri dicono, invece, che il Muratori è proiettato verso il futuro, verso la codificazione e che la storia gli ha indubbiamente dato ragione (esempio Enrico Solmi). Per il professore, il maggior pregio del Muratori è stato quello di aver sollevato il velo che copriva la giurisprudenza, denunciandone non solo la competenza, difetti e nefandezze. Va segnalato che il Muratori non parla delle sentenze, dei giudizi, degli avvocati e dei magistrati. Vede la giurisprudenza come scienza al pari della medicina e della teologia morale. Questo è un aspetto significativo dell’opera del Muratori: il fatto che il Muratori non consideri la giurisprudenza come attività giudiziaria, ma come scienza.
Dice il Muratori nell’inizio della sua opera: “Giusto è bene che chi professa una scienza od arte l’affini e la lodi, ma non si può perdonarlo se troppo la stima ed esalta, perché questo è un lodare se stesso col pretesto di esaltare le gioie della sua professione.”
“Dei Difetti della Giurisprudenza” è quindi un’opera innovativa, importante, perché svela i difetti della giurisprudenza, e per la prima volta ne mette a nudo i difetti.
Il ceto forense ha una grande forza e sa opporsi ai tentativi di codificazione, tendendo a lasciare la situazione tradizionale, poiché esso fondava il suo potere proprio sull’incertezza del diritto.
Bisogna dire che questo periodo è caratterizzato da una fase in cui i sovrani fanno dei tentativi per uniformare il diritto, per mettere al primo posto, tra le forme del diritto, la legge, che deve essere la forma primaria del diritto (sappiamo che così non è, che non è sempre stato così, anzi che nel medioevo la legge è stata per tanto tempo accantonata; hanno prevalso gli usi, le consuetudini, etc..). Occore anche sottolineare che questo avviene dove lo stato è forte, dove le monarchie hanno una maggiore forza e hanno un maggior controllo sul territorio e sui corpi intermedi (avviene in Francia con le ordonnances di Luigi XIV).
In Italia abbiamo nel 1729 una famosa e importante combinazione che è data dalle costituzioni piemontesi di Vittorio Amedeo II. Si tratta di una consolidazione perché ammette ancora l’integrazione del diritto comune, ma anche dei diritti locali. In mancanza di una legge dello Stato è chiaro che si ricorra prima di tutto al diritto particolare e poi al diritto comune. Bisogna precisare che l’opera del Muratori è successiva alle costituzioni piemontesi.
A Modena, nel 1771, non a caso dove ha operato Ludovico Antonio Muratori, troviamo un'altra importante compilazione (consolidazione): il codice Estense (Le costituzioni modenesi), più evoluto rispetto alle costituzioni piemontesi, fa un notevole passo avanti, perché non contempla la possibilità di un’integrazione da parte del diritto locale, mentre solo il diritto comune viene applicato in via sussidiaria. Questo è forse quello che tra le consolidazioni più si avvicina all’idea di codificazione come la intendiamo oggi. È chiaro che l’influenza del pensiero del Muratori è molto presente nella compilazione commissionata dal duca Francesco III, venuta alla luce nel 1771.
E’ bene sottolineare che il Muratori non contraddice la giurisprudenza in quanto scienza, ma il modo, l’uso che si è fatto di essa.
La contrapposizione alla giurisprudenza nasce dal fatto che i giuristi si sono sostituiti ai legislatori, gli interpreti sono diventati parti certe. Questo è quello che non va, non la giurisprudenza, la scienza in sè; ci sono dei difetti eliminabili e dei difetti ineliminabili della giurisprudenza, ma essa deve esistere.
Questo è il senso della contrapposizione alla giurisprudenza. Però va detto anche che a fine ‘700 abbiamo due tipologie di ideologia “antigiurisprudenziale”: l’ideologia, che possiamo ricondurre al Muratori, che non investe la giurisprudenza come scienza in sé, ma l’uso distorto che di essa fanno i giuristi. L’altra ideologia è quella che pretende di fare a meno della giurisprudenza, a tutto vantaggio del potere politico; cioè non ci deve essere nessuna mediazione tra la volontà del legislatore e il cittadino/suddito/società. La mediazione crea evidentemente difficoltà, problemi, incertezze, mentre il diritto può arrivare direttamente al popolo.
Le Costituzione modenesi, per esempio, prevedono il ricorso ad una commissione legislativa, in caso di contrasti interpretativi e dissensi sulle stesse costituzioni, per risolvere il problema giurisprudenziale. Diciamo che è un intervento importante, perché afferma la prevalenza del potere politico, perché la commissione legislativa rappresenta il sovrano (in questo caso il duca di Modena), rappresenta lo Stato che interviene a sciogliere i problemi interpretativi. Non è più il giurista, né il sistema giurisprudenziale, oramai abilitati solo a giudicare, ad offrire la soluzione ad un caso controverso, ma è il potere politico che individua la soluzione e riporta il tutto nell’ambito della sfera del governo.
Torniamo al Muratori, tenendo presente che la sua opera si colloca in mezzo alle due compilazioni (costituzioni piemontesi e costituzioni modenesi).
Il Muratori afferma che i legislatori devono riappropriarsi del potere “usurpato” dai giuristi. Egli non ha la chiara visione di una codificazione, come la intendiamo noi oggi, ma ha quella dell’intervento dei principi nei problemi giurisprudenziali. L’interpretazione deve essere autentica.
I difetti che inquinano la giurisprudenza sono, secondo il Muratori, “intrinseci”, quelli non modificabili e “estrinseci”, quelli eliminabili.

  • Primo difetto intrinseco: Il primo vien dalle leggi stesse. Dovrebbero queste esser chiare, con termini ben esprimenti la mente del legislatore, cioè così come volute dal legislatore. La chiarezza della legge è un fattore importantissimo, ma purtroppo non sempre è così, e capita che leggi interpretate da “sottili osservatori” diventino ancor meno chiare. 
  • Il secondo interno difetto nasce dal fatto che le leggi non possono prevedere tutti i casi che la realtà presenta, per cui il diritto è in partenza insufficiente [Questi difetti sono ineliminabili da parte della giurisprudenza, ma eliminabili da parte del sovrano che dovrebbe provvedere ad una esatta legislazione].
  • Il terzo interno difetto consiste nello scoprire, ed interpretare la volontà ed intenzione degli uomini, che possono variare da uomo a uomo. Occorre, cioè, l’umanità degli operatori del diritto.
  • Il quarto difetto vien dalle teste, cioè da gl’intendimenti de’ Giudici. Non si può dire, a quante debolezze, a quanti capricci, a quanta varietà sieno sottoposti gli uomini.[Il diritto dipende dai giudici, anch’essi condizionati da passioni, debolezze e virtù, come tutti gli uomini].

I difetti estrinseci, invece, sono secondo il Muratori quelli che si possono eliminare. Sono anch’essi molto gravi e si possono concentrare intorno a questi due punti essenziali:

  • Il caos oceanico delle interpretazioni dottrinali e giudiziali ha ormai soffocato i testi legali di Giustiniano (già essi oscuri e complicati), e le opinioni private dei giuristi sono diventate leggi al posto di quelli.
  • L’applicazione del diritto è necessariamente arbitraria, in quanto si basa sulla discutibile scelta compiuta dal giudice tra le varie opinioni ed è condizionato dalle deplorabili acrobazie degli avvocati.

Il problema è quindi quello di riuscire a limitare e bloccare il torrente delle opinioni dottrinali e la libertà incontrollata dei tribunali.
Secondo il Muratori gli avvocati non devono utilizzare nei tribunali le opinioni della dottrina, ma essere obbligati uniformarsi sul nudo testo della legge. Occorre l’intervento legislativo del sovrano. Potrebbe nominare una commissione di giuristi e di esperti con il compito di compilare un piccolo codice nel quale poter reperire la soluzione delle questioni comunemente più difficili, con l’obbligo di attenersi rigorosamente ad esso.

 

DEI DIFETTI DELLA GIURISPRUDENZA

L’operetta di Ludovico Antonio Muratori, Dei difetti della Giurisprudenza, pubblicata nell’autunno del 1742, la quale suscitò già nel tempo suo un vivace fervore di polemiche, forma anche oggi argomento di lettura interessante, ed è tuttora un libro utile alla scienza e all’applicazione del diritto.
Nasceva essa in un periodo di tempo, in cui la confusione delle leggi e della scienza giuridica aveva raggiunto l’estremo. Verso la metà del secolo XVIII, infatti, si erano accumulate le leggi destinate a regolare i rapporti giuridici, e si erano moltiplicate le opinioni dei giureconsulti, sulla base dello studio approfondito del diritto romano e del diritto canonico; ma non si erano ancora formati i codici moderni, che erano destinati a portare certezza al diritto e orientamento tra le contrastanti opinioni. Accanto alle nuove leggi dei principi, emanate man mano che se ne sentisse l’esigenza, vigevano tutti i testi delle leggi antiche e nuove, che lo sviluppo della civiltà aveva portato ad una pratica applicazione. Vi erano poi gli statuti delle città e delle classi, tuttora in vita, oltreché i decreti e le grida delle varie magistrature locali. E tutte queste leggi, a cominciare da quelle dei testi giustinianei, erano commentate e discusse in poderosi apparati di giuristi e di pratici, che venivano continuamente allegati nelle scuole e nei tribunali, come elementi indispensabili dello studio e dell’applicazione del diritto.
L’opera del Muratori, che si proponeva di indicare gli errori e i danni di questa confusione delle leggi e della giurisprudenza, e che cercava le vie per raggiungere una maggiore precisione legislativa e giurisprudenziale, rispondeva pertanto ad un momento storico particolare. La descrizione dei danni e dei pericoli della molteplicità delle leggi; l’esame approfondito di quella che si può chiamare la psicologia forense; la ricerca dei rimedi per ovviare a questi danni e a questi pericoli sono tutti elementi vivi per la scienza e per la pratica del diritto; onde il libro del Muratori, salvo per alcune opinioni troppo personali, è anche oggi di viva e palpitante attualità.
L’opera sollevò subito altissimo interesse, ma sollevò soprattutto numerose confutazioni. Parve che il Muratori avesse toccato un idolo.
L’avv. Antonio Querini di Venezia pubblicò subito una verbosa risposta, intitolata La giurisprudenza senza difetti che da sè medesima si difende contro il trattato del signor Lodovico Antonio Muratori,la quale tuttavia apparve debole e meschina.
Più solide, ma anche più rispettose, furono talune confutazioni della scuola napoletana, per l’indole sua tradizionalista, ma ricca di dottrina e di argomentazioni. Cominciò subito il noto giurista Giuseppe Pasquale Cirillo, con un volumetto intitolato: Osservazioni sul Trattato di L. A. Muratori; ma soprattutto intervenne il dotto professore e giurista Francesco Rapolla, che già aveva sollecitato coi suoi scritti l’interesse del Muratori, con un’opera intitolata: Difesa della Giurisprudenza, in cui rimproverò, con moderato rigore, gli eccessi della critica muratoriana alla definizione ulpianea del diritto, e in cui difese con efficacia le elucubrazioni della giurisprudenza, dichiarandole necessarie ad un esame analitico delle verità.
La scuola napoletana difendeva le ragioni di un passato, che costituiva, col suo vasto patrimonio, un baluardo di protezione di una civiltà matura, che stagnava tuttavia nella sua mediocre esistenza. Ma il Muratori, condannando quel passato, additava agli Italiani il dovere di una nuova visione del diritto, più semplice e più adattata alle possibilità ormai mature di un profondo rinnovamento.
La critica del Muratori è profonda e minuta, quanto è semplice la determinazione dei rimedi per una limpida ed efficace applicazione del diritto. Sotto questo aspetto, la critica è la parte più originale e più vitale dell’operetta “muratoriana”.
Nel rapido sviluppo delle condizioni della civiltà, sotto la protezione di forme giuridiche ereditate dal passato e rispettate, si sente tuttavia il bisogno di nuove leggi, bisogno facilmente soddisfatto. Di qui si passa immediatamente alla complicazione del diritto, per cui le norme giuridiche si moltiplicano e si affastellano, producendosi un ingombro, che nuoce spesso alla chiarezza e alla certezza del diritto. Allora gli esperti, chiamati a patrocinare o a giudicare l’applicazione, divenuta difficile, del diritto, escogitano nuove regole d’ermeneutica, sempre più complicate, donde si genera sempre maggiore l’oscurità del diritto.
Contro questo stato di cose, non vi era che un rimedio radicale: semplificare l’ordinamento legislativo, semplificare le regole dell’applicazione del diritto.
Egli andava oltre, e chiedeva addirittura la codificazione; ossia una serie di risoluzioni emanate dai principi, che ponessero fine a tante vane controversie e indicassero la via sana della giurisprudenza.
È questo il fine principale dell’opera del Muratori; e, per questo, tale opera è viva oggi, come fu viva allorché uscì, nel 1742, nel tempo dei difetti più gravi della giurisprudenza.
L’opera del Muratori è l’elogio più alto, costruito per la semplificazione delle leggi, col metodo delle risoluzioni legislative, opportune a rompere l’incertezza del diritto, che nasce dalla molteplicità delle opinioni.
Del resto, il tempo ha dato ragione al Muratori. Per quanto la giurisprudenza del diritto comune e la molteplicità delle leggi servissero a difendere, in Italia e in Europa, un patrimonio civile, che si temeva di vedere disperso, tuttavia il progresso del diritto richiedeva la semplificazione e la codificazione, che, in sostanza, erano volute dal Muratori.
È noto che l’opuscolo del Muratori esercitò una spinta notevole alla compilazione dei codici, e non soltanto in Italia. Nel Piemonte, dove già si erano avute le Costituzioni di Vittorio Amedeo II del 1729, si sentì il bisogno di una revisione, ai tempi di Carlo Emanuele III, in cui le tendenze codificative furono meglio accentuate; e si ebbe la nuova revisione delle Costituzioni del Re di Sardegna,ripubblicate nel 1770. Negli Stati estensi, dall’opera del Muratori trasse il duca Francesco III la spinta alla formazione delle sue Costituzioni del 1771, che furono uno dei primi esempi di codice; ed è noto che il libro del Muratori servì come fonte per la compilazione del codice, perché molti suggerimenti vi furono accolti in forma legislativa.
Più tardi il cammino verso i codici si fece sempre più facile e affrettato; e già nel secolo XIX la codificazione giunse a dominare tutto il vasto campo della giurisprudenza.
L’esigenza primordiale del diritto, come fu avvertito dal Muratori, è la certezza. Nulla nuoce di più alla vita del diritto che la confusione. Le regole legislative più efficaci sono anche le più semplici. Naturalmente, anche nel sistema dei codici, vi sono imperfezioni ed errori; ma questi sono facilmente superati dal pregio della sicurezza.

 

 

                                                                                   Enrico Solmi

 

 

 

 

 

 

Francisco De Vitoria e le premesse al giusnaturalismo
Per introdurre l’argomento del giusnaturalismo, occorre parlare della “seconda scolastica”.
La scolastica è quella che ha inventato S. Tommaso d’Aquino (filosofo medievale del XIII secolo, cattolico) che si basa sulla riscoperta di Aristotele.
Seconda scolastica, perché nei primi anni del 1500, in un’università spagnola (Salamanca) si riprende la scolastica di S. Tommaso, una scolastica, però, rinnovata.
Siamo agli inizi del 1500; c’è la scoperta delle Americhe; c’è l’umanesimo giuridico, il quale produce una nuova visione del corpus iuris, non più come diritto caduto dal cielo, ma come un testo che ha una sua verididicità e che va ricondotto alla sua verità storica. In questo periodo si spezza l’idea dell’universalismo imperiale (l’imperatore c’è ancora, ma non è più quel mito di unità che era per gli uomini del medioevo), cioè manca l’idea universalistica.
Si spezza anche quella che è la peculiarità del medioevo, cioè la visione dell’unità religiosa: nel 1400 Lutero e Calvino, con la riforma protestante, criticano profondamente alcuni aspetti della religione cattolica. Alla metà del 1500 la chiesa cattolica risponde con il Concilio di Trento, dove i vescovi di tutta Europa cercano di rispondere, argomento per argomento, a tutte le critiche della riforma luterana.
Quindi, nel 1500 si deve abbandonare l’idea di unità religiosa; non c’è più l’unità dell’universalismo imperiale; non c’è più l’unità geografica, perché si scopre che ci sono altri mondi sconosciuti; non ci si può più fidare della visione storica medievale perché c’è l’umanesimo che fa capire delle cose nuove; c’è il pluralismo delle monarchie, ormai fortissime, radicate e ormai perfettamente autonome, che frantumano l’unità politica astratta dell’impero.
Una data molto importante è quella del 1453: la caduta di Costantinopoli, ex Bisanzio, capitale dell’impero d’Oriente, presa dai turchi ottomani, una popolazione non cristiana. Cade un altro mito, cade anche la capitale d’oriente, la capitale della civiltà bizantina.
Perciò vediamo che con la seconda metà del 1400 il medioevo è tramontato definitivamente.
Per quanto riguarda l’aspetto che, culturalmente, influenza direttamente anche le idee del diritto, vediamo innanzitutto un filosofo, Francisco De Vitoria (1492/1546) che studia a Parigi e si imbeve delle idee umanistiche (siamo nel pieno periodo dell’umanesimo). Filosofo ed intellettuale torna in Spagna, a Salamanca, e comincia a diffondere le sue idee, riscuotendo molto successo, probabilmente perché nel suo ambiente sono pronti a recepirle, sia perché l’epoca è quella giusta (epoca dell’umanesimo e delle scoperte geografiche), sia perché la Spagna è il primo paese colonizzatore.
Si è creata una nuova situazione: sino ad allora si pensava che esistesse un unico imperatore, un unico papa e dei testi (bibbia per i religiosi; corpus iuris per la società laica) unici che valevano per tutto il mondo.
Il problema culturalmente cambia quando si va in un’altra parte del mondo, che si credeva non esistesse, e si scopre che una parte altrettanto grande del mondo non sa assolutamente nulla di impero romano, né di Giulio Cesare, né di Bisanzio, né tanto meno del corpus iuris e si tratta di un intero continente che va dall’Alaska alla Patagonia.
Questa scoperta mette l’uomo occidentale in una profonda crisi, perché tutto ciò in cui credeva o che faceva finta di continuare a credere, non esiste. I punti di riferimento, che potevano essere Dio, o il pontefice, o l’impero, non è che non esistano, ma bisogna ripensarci, perché questo nuovo mondo mette tutti in una contraddizione enorme.
Ricordiamo che De Vitoria si espresse senza nessuna remora nei confronti dell’imperatore Carlo V e del Papa. Prese posizione sugli Indios, negando che il pontefice potesse cedere il dominio degli indigeni a terzi, per la carenza di potere che il vescovo di Roma aveva sulle terre ed indirettamente sugli indigeni.
Il frutto di questo ragionamento è che le terre in cui vivono gli Indios sono di loro proprietà, posto che la stessa è un diritto naturale innato spettante ad ogni uomo, non negando tuttavia ai conquistadores il diritto alla catechesi o all’impedimento delle pratiche barbare ed incivili come i sacrifici umani, utilizzando solo come ultima risorsa la forza.
De Vitoria non è solo un giurista, e la prima cosa che ci vuole far capire è che deve essere tutto collegato ad un programma di rigenerazione religiosa ed afferma che la teologia, per quelli della seconda scolastica, è la madre di tutte le discipline: il diritto non è altro che una sottospecie della teologia, perché solo la teologia può spiegare tutto.
Ma perché è importante il teologo?
Perché il teologo ha gli strumenti, che non può avere il giurista, di interpretare la natura (per questo parleremo poi di giustnaturalismo) intesa come volontà divina.
Qui siamo nel passaggio tra il medioevo e l’età moderna, perché il medioevo ci aveva insegnato che c’era la volontà divina, cioè l’aequitas (che è giustizia divina). Qui il discorso si fa ancora più ampio: la volontà divina non è solo quella dell’equità, ma è la natura, l’intera creazione della natura e se guardiamo bene la natura, come teologi, possiamo vedere la volontà di Dio.
Se la natura è volontà divina, il diritto deve sottostare alla natura: quindi il diritto non è altro che espressione della volontà divina stessa, ragion per cui, per conoscere questo, dobbiamo essere innanzitutto dei teologi, secondo il De Vitoria.
Il teologo, inoltre, aggiunge: “la fonte e le origini delle città e delle repubbliche non sono state determinate dall’uomo e non sono da annoverare tra le sue opere, cioè le opere umane: derivano, invece, dalla natura che ha apportato questa misura razionale, cioè la ratio a tutela e preservazione dei mortali”. Il discorso è chiaro, dice chiaramente che non è stato inventato nulla, perché ci si organizza a degli ordinamenti giuridici che non provengono da invenzioni umane, né tantomeno dall’imperatore.
L’imperatore non ha mai imperato sulle Americhe, quindi tutta la costruzione medievale crolla, perché il diritto imperiale non è più universale, perché le nuove Americhe non lo conoscono. A questo punto, dunque, bisogna alzarsi di un livello, cioè bisogna parlare di natura.
Quindi, quel punto di riferimento universale, che prima era il diritto universale (ma che alla fine si è rivelato solo un diritto europeo), adesso è la natura, cioè il creato: il dominus non è più l’imperatore, ma è Dio stesso. Se è Dio il primo uomo politico che governa il mondo, capiamo perché il teologo è la professione principe rispetto al giurista.
De Vitoria ha avuto successo, perché è un teologo che, prima di Grozio e di tutti gli altri, ha dato risposta ad un interrogativo che avevano tutti, cioè cosa fare ora che ci sono nuovi mondi e come risolvere il problema di legittimare la colonizzazione selvaggia che viene fatta di questi.
De Vitoria dice: “noi siamo teologi e sappiamo leggere la natura: Dio parla attraverso la natura”. Questa natura, afferma, ci fa vedere che nel mondo naturale non tutto è uguale: ci sono persone che hanno certe virtù e devono esercitarle attraverso il comando, mentre ci sono altre persone che non hanno queste virtù, o che addirittura la loro razionalità è spenta dall’errore, da false credenze e quindi non hanno nessun diritto e devono essere soggette a rieducazione o ad assoggettamento.
Quindi, in natura ci sono, naturalmente, degli uomini inferiori.
Questo discorso sugli uomini inferiori avrà come momento particolarmente vivo una discussione con ripercussioni europee fra due polemisti, intellettuali di grande livello, universitari di Salamanca: Ivan De Sepulveda e Bartolomeo De Las Casas. Entrambi vivono nel primo ‘500 e si combattono a suon di libelli. De Sepulveda scrive “Le cause della giusta guerra…” ( in questo periodo c’è un aspro dibattito sulla giusta o ingiusta guerra tra filosofi e giuristi). Questa è un’epoca di grandi carneficine, sia in America, sia in Europa, quindi uno degli argomenti preferiti dai giuristi era la guerra giusta, perché la guerra si divide in giusta ed in ingiusta, perciò bisognava sempre, in qualche modo, giustificare la guerra. La loro disputa si conclude nel nulla: essi sono convocati dal pontefice, fanno una “quaestio” sui “pro e i contra” tra i due aspetti, però alla fine il pontefice non da una “solutio”, cioè non da ragione né all’uno, né all’altro.

GIUSNATURALISMO

Giusnaturalismo, dal latino ius naturale, ovvero "diritto naturale".
Dottrina filosofica e politica basata sul riconoscimento dell'esistenza di un diritto naturale e razionale universalmente valido, considerato il fondamento di ogni diritto civile. Già presente in embrione in molte dottrine filosofiche antiche o medievali che riconoscevano l'esistenza di un diritto di natura, il giusnaturalismo propriamente detto si affermò fra il XVI e XVIII secolo, parallelamente alla formazione degli stati moderni e al progressivo modificarsi dei rapporti fra suddito e sovrano. Suo presupposto è il riconoscimento dell'esistenza di uno stato di natura, reale o solo ipotizzato, dominato dalle leggi naturali, cui gli uomini avrebbero spontaneamente rinunciato attraverso un contratto sociale per dare vita a una società organizzata. Tale schema teorico svincolava l'autorità da qualsiasi investitura religiosa o sacrale, attribuendo al singolo individuo la possibilità di cedere in parte i propri diritti, in modo razionale e volontario, attraverso l'uso del contratto.

La nascita del giusnaturalismo, con le sue teorie nei secoli XVII e XVIII, rivoluziona il modo di pensare il diritto. L’uomo come essere sociale è esposto alla violenza e privo di difesa, gli si impone naturalmente una rinuncia in tutto o in parte a diritti a favore della società con la stipulazione di un contratto, un patto con cui si trasforma lo stato da naturale a sociale che assicura delle garanzie e un minimo di protezione.
Il diritto naturale esiste nello stato di natura anteriore allo stato sociale ed è un diritto soggettivo che spetta a qualunque persona, diversamente inteso dalla soprannaturalità: solo al cospetto di un sovrano illuminato ne sarebbe possibile una traduzione positiva, fonte di stabilità, trovando origini e limiti nello Stato stesso.
Secondo il giusnaturalismo moderno preesiste a qualsiasi istituzione politica e sociale un complesso di regole autoevidenti di giustizia e un insieme di diritti e di valori morali universali che hanno il loro costante fondamento nella natura razionale dell’uomo e di cui quest’ultimo non si priva al suo ingresso in società.
Tale diritto (naturale), in quanto conforme alla ragione ed alle tendenze socievoli dell’uomo è di per sé razionale e universalmente valido.
Il ragionamento affonda le sue radici nell’idea dell’uomo razionale, capace di cogliere le norme autoevidenti di giustizia nel loro valore, dietro al quale si nasconde la critica ad un sistema giurisprudenziale e giuridico rimasti immutati da secoli, sordi alle esigenze pratiche.
Alla concezione giusnaturalistica si contrappone la concezione giuspositivistica del diritto, che venne compiutamente formulata con la codificazione napoleonica, secondo cui è diritto solo il diritto positivo, ossia quel complesso di norme contenute nella legge emanata ufficialmente dall’autorità legislativa costituita.
Occorre precisare che il giusnaturalismo ammette la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, e sostiene la supremazia del primo sul secondo; il positivismo, invece, non ammette distinzione fra i due diritti e afferma che non esiste altro diritto che il diritto positivo.
Norberto Bobbio sottolinea come giusnaturalismo e positivismo siano inconciliabili, poiché in linea di principio c’è un dualismo fondato sulla logica: non avrebbe senso un diritto naturale teorizzato se fosse già presente nell’ordinamento. Il positivismo oltretutto è monistico, nel senso che considera solo ciò che è vigente e nient’altro.
Nel secolo XVII, tuttavia, si giungerà al superamento della dialettica contrapposizione tra concezione naturalistica e concezione positivistica del diritto. Infatti, nell’età illuministica si riterrà possibile positivizzare i superiori postulati del diritto naturale, riformulandoli una volta per tutte per iscritto, in un codice infallibile, certo e intoccabile.

Ugo Grozio (1583- 1645), olandese, è ritenuto il fondatore sia del diritto internazionale che del giusnaturalismo, appartenente alla corrente moderata, vive nell’Europa segnata dagli scontri.
Nel 1625 scrive “de iure belli ac pacis” in cui emergono i principi generali sintetizzabili nella massima “pacta sunt servanda”  ossia il rispetto dei patti stipulati: sosterrà la necessità a che vi siano poche regole autoevidenti valide anche per il diritto regolante i rapporti fra Stati. 3 sono i fondamentali:

  • Pacta sunt servanda: rispetto degli accordi presi.
  • Rispetto della proprietà altrui: con il corollario della restituzione del maltolto.
  • Obbligo del risarcimento: per i danni derivanti da propria colpa.

Non considera più le leggi di derivazione religiosa utili ad individuare precetti universali, afferma che sono dei princìpi corrispondenti alla natura dell’uomo, funzionanti anche se Dio, inteso come autorità religiosa, non ci fosse; non è una proclamazione di ateismo, bensì la separazione dei termini fra Dio e natura, sganciando il concetto di diritto naturale da quello di diritto divino, posto che il diritto e l’organizzazione sociale sono una creazione artificiale dell’uomo e, quindi, validi anche in una società atea o meglio laica.
Secondo il giurista olandese il diritto naturale, fondato sulla ragione dell'uomo e sul suo fondamentale istinto sociale, preesisterebbe allo “ stato civile”, ossia alle istituzioni politiche e sociali. Partendo dall'assunto che il diritto naturale è razionale ed univerale, perché fondato sulla natura razionale dell'uomo, Grozio ritiene di poter dedurre da questi precetti di natura generale infinite norme, via via più particolari, utili a disciplinare compiutamente la vita della società.
Nello stato di natura presociale dominerebbe, secondo Grozio, la pacifica convivenza, il rispetto reciproco dai patti e lo stato indiviso dei beni a disposizione. La società civile avrebbe dunque origine, secondo il giurista olandese, quando lo stato di natura, già precario di per sé diventa impraticabile a causa dell'assottigliarsi delle ricchezze naturali a disposizione, del conseguente aumento dei bisogni individuali e dell’accrescersi dell'egoismo dei singoli. Lo stato civile nascerebbe, allora, quando gli uomini decidono di meglio tutelare la propria sfera d'interessi delegando ad un sovrano, mediante un contratto (patto sociale), il potere di garantire e di fare rispettare tassativamente la propria situazione personale e patrimoniale.
Lo Stato ed il suo potere fondano, così, la loro legittimazione su tale contratto, in cui vengono fissati e limitati sia i diritti di ciascun consociato sia i poteri del sovrano stesso.
Attraverso il ricorso all'idea di uno Stato fondato su una convenzione da parte dei singoli, con cui questi ultimi rinunciano liberamente ad una parte delle loro libertà per assoggettarsi spontaneamente al potere del sovrano e vederecosì meglio garantita la propria situazione giuridica, Grozio  si guadagnò il favore dei sostenitori dell'assolutismo. Con le sue teorie, infatti, egli non intese criticare o demolire il principio di autorità, ma anzi lo rafforzò e lo giustificò.
La tesi fondamentale del Giusnaturalismo, ossia l’affermazione che la transizione dallo stato naturale allo stato civile si compie mediante un patto o un contratto era l’argomentazione necessaria e sufficiente a giustificare e legittimare la sottomissione dei sudditi al potere sovrano.

Thomas Hobbes (1588- 1679) coltiva un pensiero profondamente diverso da quello dei suoi contemporanei continentali.
La sua opera più conosciuta è il Leviathan del 1651, una trattazione coerente e completa dell’assolutismo, il cui titolo evoca la figura di un mostro marino già presente nella Bibbia, che fagocita e domina ogni cosa, paragonato infine allo stato.
Il suo spunto parte dal desiderio di pace degli uomini, prima di tutto a livello personale, implicitamente alla sicurezza dei beni e della vita che lo stato di natura non solo non garantisce, ma nel bellum omnium contra omnes ogni uomo è addirittura lupo per l’altro (homo homini lupus).
La sottoscrizione di un contratto sociale è un atto indispensabile ad evitare la propria distruzione e preservare la pace, dando vita ad un artificio mediante il quale si cedono interamente i propri diritti al sovrano. E’ una sorta di contratto a favore di terzi, in cui i doveri ricadono interamente su colui il quale pone in essere l’obbligazione, escludendo da ogni vincolo il sovrano e privando il suddito di ogni pretesa nei suoi confronti, lasciandogli godere solo dello spazio e della libertà che il monarca gli vorrà concedere. Come si nota, quello hobbesiano è un contratto solo fra i sudditi e non come quello groziano, tra sudditi e sovrano.
La secolarizzazione della dottrina influisce sull’origine del potere del sovrano, la cui fonte non è più considerata il diritto divino, ma il contratto con cui gli uomini sono usciti dalla precarietà dello stato di natura; l’elemento trascendente che già Grozio non considerava necessario alla sua teoria, viene meno in maniera definitiva in quella di Hobbes.
L’attribuzione dei diritti ai sudditi e le decisioni che il sovrano compie non sono passibili di valutazione, perché giuste per definizione; è infatti la legge a dire cosa sia giusto, ed è perciò stesso giusta, spiegando da sola la propria rettitudine. E’, così, legittimo ciò che è concesso, ingiusto ciò che è vietato. La legge, che non può essere irretroattiva né incerta, concede di fare al singolo tutto ciò che non sia espressamente vietato, postulando una sorta di prima teoria liberale (aspetto positivistico della teoria di Hobbes).
Discende da questa considerazione il volontarismo giuridico, ossia il ritenere l’interpretazione fornita dal regnante l’unica valida, con l’esclusione di tutte le altre ad essa non conformi.
Il sovrano, non avendo partecipato al contratto ed avendo conservato “il diritto naturale su tutto”, non ha limiti di sorta: il diritto in tal modo viene ad identificarsi “sic et simpliciter” nella legge positiva, che è la manifestazione insindacabile del sovrano.
Il momento in cui la legge e la volontà superiore può essere conosciuta dal popolo è quello della promulgazione.
Il precedente giudiziario vincolante è un limite formale, eccessivamente restrittivo, della capacità del re a stabilire ciò che è concesso e ciò che è vietato.
La razionalità delle leggi e dei comportamenti viene applicata in particolare al diritto penale, in cui anche la vendetta non è reputata un semplice desiderio di sangue, ma collegata all’autoconservazione.
La finalità del diritto penale è la prevenzione, l’evitare mali futuri che si manifesta talvolta come irrazionale e spropositato. Le pene stesse sono mali inflitti a chi ha fatto od omesso di fare ciò che è vietato dalla legge, che ha il compito primo, su cui è calcolata l’efficacia, di educare i sudditi all’obbedienza.
Per Norberto Bobbio la concezione di Hobbes è in partenza giusnaturalistica ed in arrivo positivistica.

John Locke (1632- 1704) riprende il pensiero di Grozio e di Hobbes, concependo però un’idea di stato forte ancorché non assoluto, capace di garantire le libertà individuali e nel contempo di positivizzare i diritti naturali.
Secondo Locke la natura dell’uomo non è violenta ed aggressiva, anzi ciascun individuo nutre istintivamente nei confronti dei propri simili sentimenti di tolleranza e di simpatia. Nello stato di natura gli uomini hanno la possibilità di esercitare liberamente i diritti naturali di libertà, di proprietà, di autodifesa senza danneggiarsi reciprocamente.
Il contratto sociale serve a dare stabilità all’incertezza naturale e a fondare uno Stato democratico, rafforzato dal patto stesso, che vincola il sovrano nelle sue azioni. E’, dunque un contratto bilaterale, grazie al quale i sudditi hanno il diritto non solo di pretendere il rispetto dei termini dell’accordo, ma anche di risolverlo per mezzo del diritto di resistenza nei casi di invasione e tirannide.
Esprime l’idea di una volontà di stato eguale a quella dei cittadini, in cui il potere legislativo è superiore e separato dall’esecutivo. La legge è uno strumento che serve a trasformare i diritti astratti del cittadino in norma, salvaguardandoli dall’ingerenza del sovrano e nel contempo segnandone con precisione i poteri.
Il diritto privato è la traduzione del diritto naturale tutelato dallo Stato, considerato più alto del diritto pubblico, riassumibile nei concetti di uguaglianza, sicurezza e proprietà.
Particolarmente innovatrice è la tesi di Locke sul carattere naturale del diritto di proprietà, diritto proprio di tutti gli uomini indistintamente, in quanto è fondato sul lavoro personale e sul legittimo possesso dei suoi frutti.
Ma l’aspetto forse più significativo dell’opera del filosofo inglese va ricercato nell’analisi degli organi di Stato. Egli afferma, per esempio, il principio della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), che il successivo liberismo svilupperà in modo assai fecondo, e il primato del potere legislativo. Potere legislativo che è solo “fiduciario” delegato in vista di determinati fini che, se non raggiunti o non tenuti nella dovuta considerazione, consentono alla comunità stessa di destituire questo potere legislativo.
In definitiva, il pensiero di Locke conduce alla piena teorizzazione della concezione liberale dello Stato, in virtù della quale a quest’ultimo è affidato il compito di approntare le condizioni necessarie al libero esplicarsi dell’azione umana nella società.

Samuel Pufendorf (1632- 1694) è il primo docente di diritto naturale in Europa, in una facoltà di lettere. E’ autore dell’opera  “De iure natura et gentium”, prima concezione sul diritto internazionale.
Attraverso il suo pensiero, le teorie del diritto naturale risalenti a Grozio ed Hobbes ebbero una larghissima diffusione in tutta Europa.
Dice che “per conoscere le leggi è necessario conoscere il legislatore”, poiché il comando è un elemento di volontà che dal superiore discende all’inferiore perché questi regoli il proprio comportamento di conseguenza.
Le norme hanno come costante una parte precettiva ed una sanzionatoria in cui tutte le azioni non esplicitamente vietate sono concesse, in un nuovo e diverso modo di far emergere il diritto.
Dio ed il sovrano sono gli autori della norma per quanto riguarda il diritto divino ed il diritto positivo, con la separazione fra morale e diritto, che passa anche attraverso la conoscenza che se ne può avere, sia essa la rivelazione o la ragione. Lo scopo della norma sarà diverso rispetto alla sua origine, avendo come centrale la preservazione dei beni terreni il diritto positivo e la salvezza dell’anima quello divino.
Secondo Pufendorf il diritto naturale (imposto da Dio) proviene da uno stato di natura dominato da una certa razionalità. Il diritto civile (imposto da un sovrano) sorge invece da una contrattualità umana e non può mai essere in contrasto con il diritto naturale, poiché il diritto civile (o positivo) non è nient’altro che il diritto naturale fatto valore dalla forza coercitiva dello Stato.
Sarebbe possibile riunire e ridurre ad unità l’intero ordinamento proprio perché è un insieme di comandi coattivi (imposti coercitivamente), basati su regole razionali autonome e distinte.
Le norme morali hanno per oggetto condotte interne dell’individuo, quelle positive azioni esterne: la problematica si focalizza più intensamente nel diritto penale, dove vi è ancora commistione fra morale ed azione e dove maggiormente si sente la necessità di abrogare le fattispecie che non si concretizzano in un’azione.
La dottrina di Pufendorf si apre alla visione di uno Stato assolutistico illuminato: il monarca riceve dal contratto sociale il potere di tutelare con i propri precetti i diritti naturali dell’uomo e la sua volontà, espressa dalle leggi che egli emana, è senz’altro buona ed utile allo scopo perché è razionale.

Christian Thomasius ( 1655- 1728) è il primo titolare di cattedra di diritto naturale presso una facoltà di giurisprudenza. Il punto chiave della sua filosofia è la distinzione, non la separazione, fra scienza giuridica e morale. L’uomo ricerca la felicità che ottiene solo mediante la pace, esterna ed interna, un valido criterio utilizzabile anche per la valutazione delle sue azioni: si avranno così azioni buone per la pace interiore, giuste per quella esteriore e medie, se irrilevanti per ognuno dei due stati.

  • Honestum: sono le azioni buone oggetto della scienza morale, che mirano ad essere come si vorrebbe fosse ogni altra persona (regole di virtù e saggezza, quindi puramente morali).
  • Decorum: sono gli atti che permettono una buona convivenza sociale, come il galateo, la pietà, la carità, l’altruismo; è fare ciò che si vorrebbe gli altri facessero a te.
  • Iustum: sono i comportamenti giuridicamente rilevanti distinti dagli altri poiché coercibili, è il non fare ciò che non si vorrebbe gli altri facessero a te.

La gerarchia delle azioni muta secondo il bene che la società vuole raggiungere, sia esso il male evitato o la elevatezza morale.
Lo stato di natura non è da turbare, poiché bastano poche regole ed azioni giuste per mantenerla: è una sorta di avanguardia del liberalismo.
Per quanto riguarda il diritto penale, compone “de criminae bigamiae” in cui dubita della possibilità che l’adulterio sia effettivamente un illecito, trasferendo la questione dal piano morale a quello della pace sociale.
Sulla stessa linea, “de criminae magie” teorizza una violazione penale solo quando le pratiche magiche degenerino in truffa, ed in “an eresia sit crimen” in cui limita allo scompenso della tranquillità sociale la configurabilità del reato.
Ben 60 anni prima di Cesare Beccaria prende posizione sulla tortura, da rifiutare soprattutto nei Paesi di tradizione cristiana.

Leibniz (1646-1716) poliedrico filosofo e matematico, è un conservatore contrapposto a Pufendorf  e Thomasius, anche se è un innovatore dal punto di vista metodologico, per il procedimento matematico della costruzione normativa. Pur vivendo lontano dalla realtà pratica, si interessa dei problemi ad essa attinenti: per la risoluzione dei casi dubbi normalmente decisi dalla sorte, dalla simpatia o semplicemente rimasti indecisi, in cui vi siano due proposizioni contraddittorie, le alternative che si pongono secondo Leibniz, sono la falsità di una o di entrambe.
Arriva però a sancire la completezza del sistema giuridico, perché è possibile risolvere ogni caso, dato che qualunque norma è una proposizione grammaticale la cui certezza può essere affermata grazie al ragionamento certo e dimostrabile, con passaggi logici fondati su un processo deduttivo discendente da assiomi già noti e veri.
Il diritto positivo, secondo Leibniz, può essere considerato una scienza esatta.
Il procedimento può essere trasferito su scala più ampia fino ad essere ispirazione dell’intero ordinamento legislativo: come avviene per i principi matematici che vengono preventivamente chiariti, poi regolati e solo infine dettagliati, così con poche e brevi norme si possono regolare a cascata tutti i casi della realtà, poiché deduttivamente da una norma vera non può che discenderne una altrettanto vera, quando siano già fornite le eccezioni e i principi generali, senza problema alcuno di sicurezza.
Egli stesso sperimenta sul Corpus Iuris questo metodo, riuscendo ad ordinarlo e ridurlo ad un solo foglio di precetti cardine semplici, estrapolati dalla combinazione dei casi.
La giurisprudenza non è distinguibile dalla morale, essendo esercizio di un valore altissimo come quello della giustizia, una virtù positiva che apporta del bene.
Si possono così sintetizzare tre gradi di giustizia:

  • Minimale: di pura utilità, in cui si applica il diritto stretto, edificato sul principio del “neminem ledere”, esiste in natura.
  • Giustizia in senso proprio: in cui si mette in atto la giustizia commutativa, per il gusto di fare del bene nella società civile.
  • Giustizia per amore di Dio: è la virtù massima, in cui si pratica la giustizia distributiva o equitativa, che conferisce a ciascuno il suo, ossia l’uguale all’uguale ed il diverso al diverso.

Christian Wolff: non è un discepolo di Leibniz pur riprendendone il pensiero, scegliendo consapevolmente di essere conservatore. Vede lo Stato come portatore di valori e giustizia, nonché parte della sfera privata dei sudditi al punto da influenzarne le scelte.
Al centro del sistema, c’è l’uomo naturale ed astratto, privato di tutti gli elementi ulteriori, nudo nella sua unicità, così concepito titolare di diritti naturali, e destinatario delle norme-proposizioni.
Ancora prima dei diritti vengono tuttavia i doveri, per adempiere i quali il sovrano fornisce delle istruzioni, implicitamente sostenendo la prevalenza del diritto privato sul pubblico.
Quello che è concesso al singolo in conformità a un diritto naturale è lecito a ciascuno, cioè a tutti, con il limite che si trova nel diritto dell’altro. E’ una visione razionalista.
Poiché per Wolff, il diritto positivo è un prolungamento del diritto naturale che deve volgere al bene e alla sicurezza comuni, esiste un preciso obbligo dello Stato di procurare il bene comune, ovvero la possibilità, in una prospettiva rovesciata, di un’invasione del sovrano nella vita dei sudditi.
C’è da chiarire che, i rappresentanti tedeschi e olandesi della scuola naturale giustificavano la pienezza dei poteri del monarca proprio con la grandezza del compito cui egli doveva assolvere, la cura del bene pubblico e la felicità dei sudditi.
Come si può notare le consuetudini e il volere divino vengono messe in secondo piano da una dottrina giuridica incentrata su un ordine normativo sistematico, uniforme e razionale; i rapporti tra l’autorità e i sudditi, a partire da quel momento, devono essere garantiti da normative di carattere impersonale.

Jean Domat (1625- 1696). Nella sua opera fondamentale, “ Le leggi civili nel loro ordine naturale”, esprime  il suo sogno dottrinale, consistente nella risistemazione organica e razionale del diritto civile dell’intera Francia, che al tempo in cui egli scrive versava in una situazione di estremo disordine. L’idea principale del giurista francese era quella di dare vita ad un corpo unitario, razionale ed ordinato del diritto francese (o meglio romano-francese) rispondente, cioè, alle caratteristiche naturali del diritto (linearità, semplicità ed estrema fruibilità).
Individua rispetto al diritto francese “l’esprit”, lo spirito normativo presente in tutte le leggi, dimostrando inoltre la corrispondenza del diritto romano, ripulito dalle incrostazioni sedimentatesi nei secoli, a quello naturale, in base alla sua razionalità. Classifica le norme in immutabili (le leggi naturali, eternamente valide) ed arbitrarie (le leggi emanate da un’autorità, che possono essere abrogate o modificate nel pieno rispetto delle leggi naturali), identificando nel diritto privato vicino al diritto naturale le prime, e nel diritto pubblico le seconde.
I princìpi primi delle leggi naturali sono deducibili intuitivamente, poiché l’uomo le ha nel suo intimo, ricavabili ugualmente con l’uso della ragione. Questi pochi generali principi sono l’amore verso Dio ed il prossimo: la novità è che egli prospetta la possibilità di esporli in lingua francese.
La struttura del diritto privato è concepita con un libro preliminare diviso in 3 titoli: regole del diritto, persone e cose. Il diritto pubblico venne, invece, sistemato in quattro libri.

Pothier (1699-1772), come anche Domat, ispirerà non poco i redattori del codice civile francese, con la sua dottrina. Le sue idee saranno, dai redattori francesi, trafuse interamente nel codice.
In perfetta aderenza con la sistematica giusnaturalistica, ovunque l’opera diede vita ad una costruzione di diritti soggettivi, razionalmente e totalmente rapportati alla persona (soggetto di diritto) considerata quale esclusivo destinatario e fruitore del diritto (elabora così la riduzione ad unità delle fonti senza nemmeno l’intervento del sovrano).

E’ importante sottolineare che da Pufendorf in poi si parla di razionalismo giuridico (in Germania e in Francia).

Consolidazioni e compilazioni

 

I primi tentativi di codificazione: le consolidazioni

 

Grazie all'impulso innovatore, conferito dalle istanze del giusnaturalismo, si assiste nei primi decenni del Settecento in tutta Europa a vari tentativi di raccogliere e risistemare ­le leggi, eliminando quelle superflue e riunendo in un'armonica unità il necessa­rio. Tali raccolte consistevano in collezioni di leggi e sentenze preesistenti, attuate per iniziativa privata di singoli giuristi oppure su richiesta ufficiale del sovrano, ed avevano l’obiettivo primario di favorire il reperimento delle leggi nella pratica forense.
( Sul territorio italiano, il primo tentativo di unificare il diritto può essere considerato quello di Carlo Tapia, giurista napoletano, reggente della Cancelleria (una delle maggiori magistrature del Regno di Napoli) e fautore del costituzionalismo, il quale tra il 1605 ed il 1643 pubblicò il Codice filippino, una raccolta di costituzioni, di capitoli e di prammatiche in onore di Filippo III. Tuttavia, il suo rimase un semplice tentativo, un lavoro privato, dal momento che non ottenne l'approvazione del sovrano).
Accanto alle compilazioni che si limitavano ad una raccolta organica di materiale preesistente ­vanno ricordate anche compilazioni (volute da sovrani) che assunsero valore di testi ufficiali, in quanto contenevano anche nuovi precetti.
Tutte le compilazioni effettuate sul finire del XVII secolo e soprattutto nella prima metà del XVIII riunivano in maniera organica e per materie un 'immensa varietà di norme emanate in tempi diversi ed eliminavano quelle che ormai apparivano superflue. Il principale carattere distintivo tra compilazioni e codici veri e propri è dato dal fatto che le compilazioni non prescindevano del diritto comune, che veniva tenuto in vita e considerato conte punto di riferimento ogni qualvolta il sistema compilativo necessitava di essere integrato. In sostanza, nelle compilazioni mancavano i requisiti tipici dei codici veri e propri: la non eterointegrabilità e la com­pletezza, perché esse non si sostituirono al diritto comune, anzi Io riconobbero come  proprio fondamento precostituito e si inserirono nel pluralistico sistema di fonti da cui il diritto comune stesso risultava costituito. I codici, invece, non ammettono di essere inte­grati da nessun'altra fonte e trovano in sé stessi la propria completezza; sostituendosi completamente, per le materie che disciplinano, al diritto preesistente.
Soltanto a partire dal terzo decennio del Settecento i tentativi di raccolta legislativi assunsero per la prima volta apertamente l'aspetto di lotta contro il particolarismo giuridico, contro “l'interpretatio”dei giuristi colti ed a favore della “lex”(Secondo Viora le consolidazioni si distinguono dai codici in quanto non conterrebbero nuovi precetti, bensì materiale legislativo preesistente).

Le consolidazioni-raccolta in Italia (secoli XVII -XVIII)

Durante i secoli XVII e XVIII in Italia vennero elaborate numerose consolidazioni uso forense, ossia di giudici ed avvocati nei processi, che possono da noi essere suddivise in due categorie:
a)  quelle compilate su iniziativa di giuristi privati e rimaste prive di valore ufficiale. Trattasi di compilazioni di leggi e di massime giurisprudenziali, aventi lo scopo di rendere più agevole la loro individuazione durante i processi (cd. consolidazioni-raccolta);
b)   quelle elaborate su espressa disposizione del sovrano e da questi pubblicate come leggi dello Stato (compilazioni ufficiali).
Le consolidazioni più diffuse e di maggiore successo furono quelle che raccoglievano ed ordinavano le norme secondo un criterio cronologico e secondo la loro derivazione da una stessa fonte (ad esempio, norme contenute nei soli statuti comunali o solo in ordinanze regie) e non, invece, quelle derivanti da fonti diverse disciplinanti una stessa materia.
Tra le più importanti consolidazioni-raccolta possiamo ricordare il “Novissimum statutorum ac Venetorum legum volumen”,pubblicato nel 1729, contenente gli Statuti dei dogi veneziani emanati in materia civile e penale, nonché le “Leggi criminali del sere­nissimo Dominio veneto” contenente tutte le norme (non solo statutarie) emanate in materia penale a Venezia dalla fine del sec. XIII alla metà del XVIII.
Il Conflictus iureconsultorum inter se discrepantium fu elaborato nel XVII secolo a cura del siciliano Paolo Francesco Perremuto.
Il Codex Fabrianus (1606) contiene la giurisprudenza del Senato di Savoia. In tale Codex, che è strutturato secondo lo schema utilizzato nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, ogni singola decisione della Corte sabauda è supportata da un commento chiarificatore del contenuto.
Il Gridario Parmense, del 1814, raccoglie in ottantasei volumi bandi, grida ed ordini emanati a partire dal 1200 nel Ducato di Parma.
La raccolta degli editti dei Duchi della reale casa di Savoia (1679),  relativa a norme emanate dai principi di Savoia in più di cento anni di regno.

Le consolidazioni-raccolta in Francia, Spagna e Germania

 

Anche in Francia le compilazioni curate su iniziativa di giuristi privati avevano il mero scopo di risistemare l'immensa e disordinata varietà di materiale normativo in vigore facilitare, in tal modo, la pratica forense. I compilatori non erano animati dall'intento di creare nuove leggi (abrogando quelle preesistenti e sostituendole con altre), bensì di rendere possibile rinvenire durante i processi la norma da applicare al caso concreto. Tra le più importanti consolidazioni ­pubblicate in Francia tra i secoli XVII e XVIII ricordiamo innanzitutto il Codice Enrico III, espressamente commissionato dallo stesso sovrano. Esso contiene una raccolta (lacunosa) di ordinanze regie inserite in ordine cronologico.
Il Codice Enrico IVconsistente in un sommario del diritto giustinianeo, cui furono aggiunte alcune consuetudini locali ed ordinanze regie.
Il Codice Marillac(1629, dal nome del compilatore Michel Marillac) commissionato dal sovrano Luigi XIII, doveva avere il valore di fonte legi­slativa ufficiale, con l'intento di chiarificare e risistemare alcune branche del diritto. Il risultato fu però inferiore alle aspettative, in quanto l'opera risul­ta priva di carattere innovativo.
In Spagna l'attività compilativa dell'enorme materiale normativo si sviluppò non tanto su semplice iniziativa di giuristi privati, ma soprattutto su espressa commissione dei sovrani (in particolare della dinastia degli Asburgo e dei Borboni, che attuarono nella penisola iberica una politica accentatrice del diritto sia dalla fine del Quattrocento). Abbiamo due consolidazioni-raccolta, una del 1567 commisionata daFilippo II di Asburgo, ed un’altra commissionata dal re Carlo V di Borbone.
Per quanto riguarda la Germania, può ricordarsi, fra le numerose consolidazioni-raccolta elaborate nei secoli XVII e XVIII, il Codex Augustus, un compendio elaborato nel 1724 su espressa commissione di Augusto Federico I di Sassonia.
In definitiva, come osserva Cavanna, nella nascita di questi imponenti compendi legislativi non mancava l'influenza di alcuni ideali illuministici, quali quello della linearità, semplicità e chiarezzadel diritto. Tuttavia, è anche vero che tale compilazioni non erano ispirate dall'intento di troncare in maniera netta con la legislazione vigente e dare vita ad un nuovo sistema di norme, ma solo dall'esigenza di «conservare in condizioni di migliore reperibilità, ordine e certezza la normativa vigente» Affinché vi fosse il segno di un profondo mutamento nell'assetto giuridico e soci per prima cosa doveva essere eliminato del tutto dalla norma giuridica quel carattere di benevola concessione del sovrano, che era ancora la caratteristica delle legislazioni dell'epoca. Inoltre, alla prima attuazione di un diritto nuovo, che rompesse con le incertezze del passato si frapponeva la scarsa volontà politica e sociale di porre fine all'ineguaglianza civile delle classi, ceti ed ordini. A tutto ciò i tempi non erano ancora maturi.

Le grandi compilazioni ufficiali in Francia

 

Le ordinanze di Luigi XIV

Nella Francia secentesca rivestono un'importanza particolare le ordinanze (ordonnnances) ­emanate dal sovrano Luigi XlV (il Re Sole, perché come il sole illumina e guida la vita del Paese) le quali, anche se non animate dall'esigenza di rinnovamento assoluto del diritto che ispirerà le codificazioni "rivoluzionarie", si distaccano nettamente dalle semplici consolidazioni-raccolta.
Le suddette ordinanze s’inserivano nell'ambito della politica assolutistica e accenta­trice di Luigi XIV.
Il programma politico di Luigi XIV, elaborato ed attuato attraverso l'infaticabile ap­poggio del suo ministro Colbert (1619-1683) consisteva nell'unifica­zione totale del diritto, nel raggiungimento dell'unità giuridica nazionale A tale scopo venne istituito un Consiglio generale per la riforma della giustizia, presieduto dallo stesso sovrano e composto da Colbert e da altri valenti giuristi.
Nel 1667 fu emanata la prima ordinanza: l'Ordinanza civile per la riforma della giu­stiziache imponeva a tutte le Corti del regno di uniformarsi ad essa nello svolgimento dei processi; Nel 1670 vide la luce l’Ordinanza criminale, che uniformava i procedimenti penali. Al 1673 risale l'Ordinanza sul commercio, che raccoglieva il regolamento generale del commercio. Infine, nel 1681 fu emanata l'Ordinanza sulla marina; che elaborava l'insieme delle consuetudini e delle norme statutarie sul diritto emanate nel corso dei secoli. Tale ordinanza, che espressamente abrogava le ordinanze, le consuetudini, le leggi, le norme statutarie e le usanze diverse o contrarie a quelle in essa contenute, ispirerà i compilatori del codice commerciale dell’800 e del codice italiano della navigazione del 1942.
Pur non potendo essere annoverate nell'ambito delle vere e proprie codificazioni, le ordinanze di Luigi XIV sono da collocarsi, come asserisce Cavanna, allo stadio di un avanzato ma non concluso processo verso la codificazione. Dei codici, infatti, esse presentano i caratte­ri essenziali: la linearità, la chiarezzae la sistemazione organicadelle norme.
Ciò che manca alle ordinanze di Luigi XIV per poter essere considerate dei veri e propri codici è, in definitiva, il carattere di unicità, esclusività e non eterointegrabilità. Un codice, infatti, deve chiudere necessariamente il complesso di norme raccolte entro un sistema completo, che il legislatore deve considerare esaustivo e non integrabile da altre fonti. Le ordinanze di cui sopra, invece, non si presupponevano come complete, ammettendo la possibilità che i casi non espressamente disciplinati da esse potessero essere regolati da altre norme.

Le ordinanze di Daguessau

Le ordinanze emanate dal procuratore generale e cancelliere Daguessau (1688-1751) durante il regno di Luigi XV si rivolsero alla materia civile, in qualche modo trascurata dalle ordinanze di Colbert. Ad una prima ordinanza sulle donazioni(1731) fecero seguì una sui testamenti ed una sui fedecommessi.
A differenza delle ordinanze secentesche, quelle emanate durante il regno di Luigi XV non disciplinavano interi settori del diritto, ma si interessavano alla disciplina di singoli istituti di diritto privato, ed inoltre, si ponevano come obiettivo fondamentale l'eliminazione delle discordanze tra le diverse opinioni giurisprudenziali esi­stenti in merito a questi istituti. Daguessau pensava alla raccolta in un solo codice di tutte le leggi che dovevano servire alla felice risoluzione delle controversie nei processi, consapevole sia del­l’estrema varietà e contraddittorietà delle consuetudini locali, sia della conseguente difficoltà dei giudici di reperire agevolmente la norma da applicare al caso concreto.
L’opera del cancelliere francese costituisce, ad ogni modo, uno dei tanti tentativi par­ziali di razionalizzazione del sistema giuridico francese, destinato a non incidere più di tanto sulla situazione generale.
Le grandi compilazioni ufficiali in Italia

Le costituzioni piemontesi

A partire dal terzo decennio del Settecento i tentativi di raccogliere ed accorpare orga­nicamente le leggi in compilazioni sistematiche assunsero per la prima volta, apertame­nte, l'aspetto di lotta contro il particolarismo giuridico, contro l'interpretatioafavore della lex.
A questo proposito vanno senz'altro ricordate le Leggi e Costituzioni di S. M. il Re di Sardegna, promulgate da Vittorio Amedeo II nel 1723 (in prima edizione) e nel 1729 (in seconda redazione) e più comunemente qualificate come Costituzioni piemontesi.
Esse ottennero anche una terza revisione nel 1770, per volontà di Carlo Emanuele III.
A giudizio del Deguessau taluni sovrani europei avevano mostrato di saper riordinare ammirevolmente il diritto dei loro Stati, emulando così Giustiniano e il re di Castiglia Alfonso il Saggio e dando alle nazioni un esempio che la Francia avrebbe dovuto seguire. Tra le imprese legislative ch’egli reputava degne d’essere prese a modello, Deguessau annoverava la recente legislazione del re di Sardegna.
L'intento di Vittorio Amedeo II era quello di promuovere l'unificazione politica del suo regno, basandola sull’unificazione legislativa. Quest'ultimo obiettivo era, secondo Vittorio Amedeo, attuabile attraverso un'opera di semplificazione e d’ammodernamento della normativa vigente, che culminasse in un corpo organico di leggi. E’ alla politica legislativa di riorganizzazione, accentramento e svecchiamento delle strutture pubbliche sabaude, che, quindi, vanno ricondotte l’origine e la funzione delle Costituzioni Piemontesi. L’idea di una semplificazione e di riammodernamento della confusa e sovrabbondante legislazione vigente si inseriva, così, nel programma riformistico vittoriano.
Esso comportava inoltre una ristrutturazione di fondo dell’apparato centrale (stabilizzazione del Consiglio di Stato, delle segreterie di Stato, del Consiglio generale delle Finanze); una politica ecclesiastica di tipo giurisdizionale; un rigido controllo dei tribunali; una serie di interventi economico-finanziari atti a ridurre il potere feudale e i privilegi nobiliari, attraverso una pianificazione tributaria, una programmazione del catasto e l’incameramento di un cospicuo numero di feudi.
La redazione delle Costituzioni venne affidata ad abili giuristi e venne attuata con l’osservanza di rigidi criteri (impartiti dallo stesso Vittorio Amedeo) di chiarez­za, coerenza ed omogeneità sistematica.
Grande fu l’influenza esercitata sul re da Andrea Tommaso  Platzaert, suo zelante Segretario di Guerra
Nell'edizione del 1729 esse risultano composte da sei libri, ciascuno suddiviso in titoli e paragrafi, dedicati rispettivamente alla materia religiosa (e alla condizione degli ebrei), alla struttura dell'ordinamento giudiziario, alla procedura civile, al diritto ed alla procedura criminale, alla materia civile (ad es. suc­cessioni, prescrizioni, tutela e curatela), al diritto feudale ed ai diritti del fisco.
Le Costituzioni piemontesi non possono definirsi una vera e propria codificazione, sebbene abbiano introdotto riforme importanti nell'ambito della normativa preesisten­te, sostituendosi al diritto comune in molti settori e sebbene facessero espresso divieto ai giudici ed agli avvocati di citare nei processi le opinioni dei “doctores”. Tuttavia, esse tolleravano l’integrazione suppletiva del diritto comune, così come anche degli Statuti locali e della giurisprudenza delle corti.

I progetti legislativi nel regno di Napoli

 

I tentativi di raccolte legislative attuati nel Regno di Napoli, a partire dai primi decenni del Settecento, dimostrano che vi era un sostanziale nesso tra la volontà di riforma del sistema giuridico e la volontà di riorganizzare lo Stato su basi più razionali.
Il Regno divenne grande centro di riforme sia sotto Carlo III di Borbone, che nel 1734 venne incoronato re di Napoli, ponendo così fine a circa un secolo e mezzo di egemonia spagnola nel meridione d'Italia, sia durante i primi anni del regno (1759-1804) di suo figlio Ferdinando IV.
Carlo III fu ispirato nel suo progetto di riforma legislativa, dal ministro Bernardo Tanucci, il quale ritenne necessario attuare una preliminare opera di snellimento e di riorganizzazione razionale delle magistrature. Lo scopo era quello di sostituire ai vecchi organi giudicanti, espressione degli interessi di forze politiche (baroni, feudatari, ecclesiastici) in conflitto con il potere del sovrano e contrari a qualsiasi tentativo di riforma e d’innovazione, una magistratura centralizzata e più facilmente gestibile.
Il tentativo ben presto si mostrò fallimentare, dal momento che si scontrò con la rigida resistenza dei ceti interessati, arroccati nella strenua difesa dei propri privilegi.
In sostanza, la situazione in cui il diritto del Regno di Napoli versava ai tempi di Carlo III era estremamente caotica, sia a livello teorico, che pratico.
Coadiuvato dal Tanucci, Carlo III intraprese, contemporaneamente ad un'attività di rac­colta e di unificazione in un unico codice delle norme giuridiche del regno, una politica anticurialistica. Quest'ultima culminò nel 1741 con la stipulazione di un concordato con la Santa Sede, in cui venivano notevolmente ridotte o addirittura abolite le secolari esen­zioni fiscali delle proprietà ecclesiastiche; il diritto di asilo veniva limitato alle sole chiese (e ­non più ai conventi o ad altri luoghi considerati di pertinenza della chiesa) ed era consentito solo ai colpevoli di reati non gravi; la giurisdizione ecclesiastica venne note­volmente limitata, così come venne ridotto il numero dei sacerdoti ammessi nel regno.
Per quanto riguarda la realizzazione di un codice legislativo, essa venne affidata dal Tanucci al giurista Pasquale Cirillo nel 1740.
Venne da questi approntato, dopo circa trent'anni di lavoro un Codex legum Neapolita­narum, dal titolo Codice Carolino che, tuttavia, si rivelò ben presto un fallimento.
In seguito al fallimento di tale iniziativa non si parlò più di codificazione per parecchio tempo. Il diritto comune, dunque, pur farraginoso e privo delle garanzie di imparzialità e di giustizia tornò ad essere considerato insostituibile.
Tuttavia, l'opera riformatrice del ministro Tanucci continuò anche quando nel 1759(in seguito alla incoronazione di Carlo III a re di Spagna) la corona passò al minorenne Ferdi­nando IV. Soprattutto, l'azione di Tanucci fu rivolta a limitare e ad assottigliare il potere del ceto feudale.
Importante fu il provvedimento con cui veniva imposto ai baroni di limitare il numero dei fedeli armati e di denunciare alla Corona i loro nomi, per rendere possibile un controllo da parte dello Stato, scongiurando così il pericolo che tra essi venissero reclutati dei malviventi, a scapito della pace sociale.

I progetti legislativi nel Granducato di Toscana

 

Nel 1737 il governo del Granducato di Toscana era passato dall'inerzia delle ultime generazioni dei Medici alla dinastia degli Asburgo-Lorena che, nella persona di Francesco Stefano (duca di Lorena e marito di Maria Teresa d'Austria) aveva portato una ventata di più ampio respiro culturale.
La situazione giuridico-economico-sociale cui si trovò di fronte Francesco Stefano era estremamente caotica. A livello giuridico si assisteva alla sostanziale mancanza di uni­tà giuridica e ad un intricato particolarismo ed intreccio tra diritti feudali e comunali e tra giurisprudenza di tribunali ordinari e speciali. A livello economico e sociale la situazione era gravemente compromessa dalla sussistenza del regime feudale, ed in genere, del predominio dei ceti abbienti su quelli meno abbienti.
Animato, dunque, da entusiastiche idee di riforma dell'organizzazione giudiziaria, il sovrano affidò nel 1745 a Pompeo Neri, professore di diritto pubblico a Pisa, il compi­to di elaborare un codice che, sull’esempio delle costituzioni piemontesi, raccogliesse tutte le leggi del Granducato. Pompeo Neri, ritenendo che un codice di leggi toscane dovesse limitarsi ad assolvere una funzione meramente suppletivadel diritto comune, considerò più opportuno lasciare inalterato il sistema delle fonti ed il rapporto tra diritto comune e diritto statutario, consuetudinario e giurisprudenziale, procedendo ad una semplice raccolta e coordinamento del materiale legislativo a disposizione.
Il Granducato di Toscana conobbe, tuttavia, nel ‘700 un periodo di vaste riforme delle leggi col figlio di Francesco Stefano, Pietro Leopoldo (salirà al trono imperiale d'Austria col nome di Leopoldo II).
Egli rese meno disumane le procedure penali ed abolì la tortura e la pena di morte.
In campo giurisdizionalista si devono a Leopoldo l’abolizione di numerosi privilegi ecclesiastici ed un tentativo di riforma religiosa che, tuttavia, non ottenne il consenso sperato evenne presto abbandonato.
Alla base dei progetti di riforma legislativa attuati sia nel Regno di Napoli che nel Granducato di Toscana vi era il pensiero e l'opera di Ludovico Antonio Muratori.

Le Costituzioni modenesi del 1771

 

Nella seconda metà del Settecento anche la situazione legislativa del piccolo Ducato di Modena era caratterizzata, così come quella di altri stati italiani, da un estremo particolar­ismo. Accanto al diritto comune avevano rilievo soprattutto l'imponente corpo di norme di diritto statutario locale e la vastissima produzione, susseguitasi a partire dai primi anni del XVI secolo, di norme principesche (ordini, decreti, gride). A questa situazione di estrema incertezza del diritto decise di porre rimedio Francesco III che regnò nel Ducato di Modena dal 1737 al 1780.
Già nel 1755 Francesco III aveva pubblicato una ordinata raccolta delle proprie guide e decreti, momento preliminare di quell’intenso lavorìo legislativo che avrebbe portato alle Costituzioni.
Nel 1759 il programma per un organico testo normativo, che racchiudesse in termini di certezza e uniformità il diritto del ducato, era pressoché messo a punto (in questo disegno molto importante fu l’esempio della precedente esperienza sabauda).
Nel 1768 Francesco III commissionò a cinque insigni giuristi (tra i quali ricordiamo Bartolomeo Valdrighi e il criminalista Giuseppe Maria Galafassi) il compito di compilare un codi­ce che non solo riducesse ad “uniformità”le diverse leggi e norme statutarie, ma al tempo abrogasse quelle ormai disapplicate da tempo e ne creasse di nuove, più rispondenti alle ­mutate esigenze ed in grado di risolvere le più comuni controversie nei tribu­nali. Il sovrano, con tale politica, rivendicava a sé l'esclu­siva facoltà di produrre un diritto che si poneva con autorità al di sopra di giudici e consociati.
Francesco III, inoltre, impose che nel caso di dubbia interpretazione di una norma si facesse ricorso non all'arbitrio dei giuristi, bensì all'interpretazione (autentica) fornita dal Consiglio di Giustizia(magistratura suprema posta al di sopra dell’apparato giudiziario), voluto e creato dallo stesso sovrano e in immediato contatto funzionale con questi.
Nel 1771,dunque, dopo circa due anni di lavoro frenetico da parte della commissione vide la luce il “Codice di leggi e costituzioni per gli Stati di S. Altezza Serenissi­ma” (cd. Codice Estense),che era sistematicamente ripartito i cinque libri: il primo era dedicato principalmente alle strutture giudiziarie del ducato e alla procedura civile; il secondo al diritto privato; il terzo a materie feudali e finanziarie; il quarto e il quinto contenevano norme di procedura e di diritto penale.
il materiale normativo intelligentemente unificato e amalgamato in questi cinque libri era stato tratto da varie fonti: non solo dalla serie di gride ducali (soprattutto dalla raccolta del 1755) e dalla parte ancora viva del  diritto statutario modenese, ma anche dalle stesse Costituzioni Piemontesi e dal saggio “Dei difetti della giurisprudenza” del Muratori.
Diceva Francesco III: Le leggi costituiscono l’anima, la regola e il fondamento della società umana e dei Governi; purtroppo, però, la loro molteplicità ne rende difficile l’osservanza e la loro oscurità dà luogo ad interpretazioni arbitrarie. Per tale motivo volle dichiaratamente eliminare quei guai che caratterizzavano la situazione giuridica del ducato: le molteplicità, le antinomie, l’oscurità e l’incertezza delle norme; la mutevolezza e la contraddittorietà delle sentenze; la litigiosità dei sudditi e la lunghezza delle cause; il formalismo sofistico degli avvocati.
La funzione politica del nuovo testo legislativo è chiara: limitare il potere esercitato dai ceti sociali privilegiati, dai tribunali e dalla sofistica opinione dei giureconsulti, per rinsaldare il potere sovrano. “La nuova legge - dichiara il sovrano - dovrà essere osservata come “unica Sovrana Legge fondamentale”, in tutti i nostri domini, da qualunque persona e ceto, di che stato, qualità prerogativa e condizione esser si voglia”.
Bisogna dire, però, che l’autorità del sovrano doveva spesso fatalmente fare ancora i conti con una pluralità di centri sociali e professionali di potere ch’essa non aveva avuto la forza di disarmare completamente e che aveva dunque interesse a considerare alleati.
E’ stato osservato che Francesco III aveva rotto col passato, ma a metà: cioè aveva colpito il clero, ma aveva perpetuato i privilegi dei feudatari e ancora accanto ai tribunali pubblici sorgevano tanti fori speciali e i tribunali dei signori mediati; inoltre, era rimasto alleato dei giuristi, importanti interpreti del diritto comune, pur ammesso in forma sussidiaria.
Anche se il codice Estense risulta un'opera eccellente dal punto di vista della tecnica di elaborazione, tuttavia non abolì radicalmente il diritto preesistente, perché ammet­teva che, in via sussidiaria, venisse integrato dalle norme di diritto comune. Rispetto alle Costituzioni piemontesi, che ancora ammettevano il ricorso agli Statuti, si compie un passo avanti.

Consolidazioni e codificazioni. Considerazioni riassuntive

 

Alla luce di quello che è emerso fino a questo punto possiamo considerare tre le propo­sizioni cardine e fondamento del pensiero giuridico della prima metà del XVIII secolo:
-         la legge deve essere assolutamente chiara;
-         ogni tipo di interpretazione deve essere guardata con sospetto;
-         occorre diffidare dei giudici, dei dottori e delle scuole.
Tutte queste idee saranno poi destinate a confluire e a caratterizzare il cosiddetto illuminismo giuridico e l'epoca delle codificazioni.
Utilizzando lo schema del Cavanna, è possibile distinguere fra:
- consolidazioni-raccolte private, vale a dire raccolte di materiale legislativo o giurisprudenziale attuate per iniziativa privata (o anche su commissione dei pubblici poteri, senza per questo assumere valore legale) e destinate soprattutto a facilitare il reperimento del materiale normativo da parte degli operatori pratici del diritto;
     -  consolidazioni, cioè corpi di norme, gran parte delle quali già vigenti, ordinate e  sistemate secondo criteri razionali e organici, cui viene riconosciuto valore legale;
neocompilazioni, ossia corpi di norme radicalmente nuove, che però disciplinano solo in parte una certa materia senza pretese di completezza;
     -  codificazioni vere e proprie.
Queste ultime non possono essere confuse con le consolidazioni, non solo e non tanto perché contengono materiale legislativamente nuovo, bensì perché completamente nuove sono la teorie a delle fonti e l’immagine complessiva dell’organizzazione politico-sociale che ne costituiscono il fondamento e il presupposto culturale e ideologico.
Ciò che manca alle consolidazioni, invece, è la pretesa di completezza e uniformità proprie dei codici moderni; tali raccolte non eliminano il diritto comune ed i vari diritti particolari, ma si affiancano ad essi. Il codice moderno, rifiuta l’eterointegrabilità in virtù della sua completezza, per cui la soluzione di ogni caso concreto deve essere ricercata “solo” all’interno del diritto codificato.
Il Codice si rivolge, poi, ad un destinatario unico, fornendo una disciplina uniformemente valida per tutti i soggetti che operano nell’ordinamento giuridico; le consolidazioni, invece, presuppongono e riflettono pur sempre una società divisa in ceti, ordini, corporazioni, ciascuno dei quali geloso dei propri privilegi e delle proprie immunità.  
Conclusione riassuntiva: il percorso sino alla codificazione

Quale era la situazione dell'ordinamento giuridico alla fine del XVI° secolo (1500)?
Per avere una idea sintetica di cosa si intendesse per "Diritto vigente" nel Rinascimento e nelle epoche successive, fino ai primi anni del XIX° secolo quando iniziò l'età delle "codificazioni", occorre precisare che la tradizione giuridica nel nostro continente è stata caratterizzata storicamente dal Diritto Romano, che dopo la caduta dell'impero fu dimenticato per molti secoli. In seguito avvennero due episodi fondamentali e cronologicamente precisamente datati, e cioè l'incoronazione dell'imperatore Carlo Magno nella notte di Natale dell'anno 800 D.C., e la fondazione della Università di Bologna (Studium) che si fa risalire all'anno 1088, che determinarono un vero e proprio "Rinascimento giuridico" con la riscoperta e l'attuazione del Diritto Romano.
Anche se l'impero di Carlo Magno (Sacro e Romano) non durò che pochi decenni, quello che possiamo considerare un primo fenomeno di "Europa Unita" ebbe il merito di creare una unità spirituale fondata su alcuni principi comuni che sempre caratterizzeranno in seguito la civiltà occidentale; inoltre si fece largo l'idea che l'impero, con unico regime politico e unica fede dovesse anche avere un unico diritto.
Solo più tardi però il diritto romano fu pronto per essere impiegato nel medioevo, quando cioè l'opera interpretativa dei Giuristi Bolognesi permise di considerare un diritto vecchio di secoli, come diritto vigente. Iniziò così l'epoca del "Diritto Comune", età che si protrae, come già accennato, fino agli inizi del 1800. L'ordinamento di ogni territorio, all'inizio nell'ambito dell'impero unitario poi in conseguenza della disgregazione di quest'ultimo in unità sempre più piccole (specie in Italia) a livello di ogni Feudo, Libero Comune, Signoria e infine Stato Nazionale, era, in sostanza, composto da due corpi principali:
- lo jus commune,
- gli jura propria di ogni comunità.
In pratica ogni entità più o meno autonoma dall'Impero, nel corso dei secoli, si arrogò la facoltà di emanare norme giuridiche che rispondessero alla esigenze specifiche della propria comunità civile.
Ho riassunto così, in poche righe, un complesso fenomeno che si è sviluppato per almeno sei secoli, in cui assistiamo ad una autentica "esplosione" della quantità di atti aventi valore normativo, che si sono via via accumulati nel corso del tempo in maniera disordinata, disorganica  e spesso contraddittoria.
Tra 1500 e 1600 si affermerà poi lo Stato Nazionale e la lunga "crisi" del Diritto Comune si accentuerà. All'antica concezione del diritto come “ratio scripta” rivelata nel Corpus iuris, si sostituisce via via quella della statualità del diritto e del primato della legge “positiva” come manifestazione della volontà di un forte sovrano, controllore di uno stato unito e centralizzato.
Tale stringata premessa, spero comprensibile a tutti, era necessaria per poter capire il fenomeno delle "Consolidazioni".
Dunque la situazione dell'ordinamento era di grande confusione e il problema più sentito dagli operatori del diritto come dall'opinione pubblica si rivelava quello della "certezza del diritto".
La soluzione drastica sarebbe stata quella di modificare radicalmente l'ordinamento rendendo le norme uniche e valide per tutti, senza più prevedere trattamenti giuridici particolari e privilegiati per taluni gruppi sociali, ma la codificazione, sarebbe stata possibile solo nel clima politico, sociale successivo alla Rivoluzione Francese del 1789; perciò dal 1500 al 1700 assistiamo, da parte dei sovrani più intelligenti, ad un'opera di semplice raccolta e riordino del diritto vigente nel territorio dei propri Stati (abbiamo esempi in Francia, Spagna e paesi germanici) e, dal punto di vista che più ci interessa, in Italia, in particolare, abbiamo esempi, in tal senso, negli Stati "regionali" del Regno del Piemonte, Regno di Napoli, Granducato di Toscana e Ducato di Modena.     

DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE AL CODE NAPOLEON

Diritto e politica nella rivoluzione francese

Capitolo I.
L’interpretazione della Rivoluzione: un problema.

Il Cavanna propone una chiave di lettura diversa delle cause che hanno portato alla Rivoluzione. Intanto, dice, occorre vedere chi “non” ha fatto la Rivoluzione.

  1. La Rivoluzione, che ha abbattuto l’assolutismo monarchico, non è stata innescata da forze che       combattevano il regime del privilegio, bensì da quelle che lo difendevano.

 Ciò vuol dire la Rivoluzione non nasce come movimento che vuol rovesciare la monarchia assoluta, anche se alla fine ne decreterà la liquidazione. Sono i Parlamentari, sospesi nel 1771, ma rimessi incautamente al loro posto dal generoso ma incoerente Luigi XVI, che assestano il primo colpo micidiale alla monarchia.

  1. La Rivoluzione non è stata preparata né provocata dalle ideologie dell’illuminismo.

Basti pensare all’antidemocratico Voltaire, animato dall’idea dell’alleanza fra l’assolutismo e l’élite degli adepti della Ragione, e a Rousseau, che nutriva orrore per la violenza e che non concepiva il terrore dell’eliminazione fisica dell’avversario politico, per escludere, dunque, l’ipotesi citata.
Il secolo illuminato aveva partorito, in fin dei conti, una rivoluzione né prevista e né desiderata.
L’illuminismo, quello degli alti livelli letterari, dunque non volle né causò la Rivoluzione, mentre si può addebitare un contributo all’indebolimento delle basi dell’ancien régime ai moltissimi filosofi “falliti e diffamatori” che sfogavano le loro frustrazioni descrivendo soltanto i supposti vizi dei detentori del potere.

  1. La Rivoluzione non fu fatta dalla borghesia né ebbe natura di classe

La borghesia, che è da inquadrare intanto nel contesto di un’economia agraria, non è alleata del popolo ed aspira anzi ad accedere alla nobiltà che, per tal motivo, non ha intenzione di combattere.

Il Cavanna parla anche della natura “circostanziale” di una Rivoluzione senza regista.
E’ la questione che nasce alla riunione degli Stati Generali (attraverso cui i tre ordini della società dei governati -Clero, Nobiltà e Terzo Stato- possono dar voce alle proprie doglianze) sul numero dei rappresentanti del Terzo Stato e sul “voto per testa”, cioè senza distinzione di ceto. Concesso il raddoppio dei rappresentanti del “Terzo”( i deputati sono 1200 e il Terzo Stato, da solo, ne conta 600), la nobiltà si presenta irriducibile sul punto del “voto di testa”.
I deputati del Terzo Stato, a questo punto, adducendo la ragione che essi da soli rappresentato la quasi totalità dell’intera Nazione, prendono l’inaudita delibera di proclamarsi Assemblea Nazionale e, costituiti in tale nuova struttura unitaria che supera la tripartizione per Stati, autorizzano con decreto la riscossione delle imposte.
Madame de Stael osserverà più tardi che tale delibera è di per sé una Rivoluzione.
Il 27 giugno Luigi XVI, mentre a Parigi e nelle campagne esplode la violenza per l’aumento del prezzo del pane, ordina al clero ed ai nobili di riunirsi al Terzo Stato. Il 9 luglio l’Assemblea Nazionale si proclama Costituente.
Tutto ciò fa capire che la Rivoluzione in sé non ha un regista. Essa non è la messa in opera di una programmata lotta di classe, ma nasce da una scelta dei non presaghi Parlamentari (la riunione degli Stati Generali), prosegue sulla questione della procedura di votazione ed ha come detonatore la scelta effettuata dal Terzo Stato. “In questa Rivoluzione, dunque, non voluta né immaginata, gli artefici del 1789 vi sono scivolati dentro senza averne essi stesso coscienza”.
Quanto al seguito degli avvenimenti, si sa che le rivoluzioni hanno andamento a valanga: una volta rottosi il consenso iniziale, la lotta aumenta in modo esponenziale.

Il suo andamento, dice sempre l’autore, ha una progressione a parabola.
Dalla sua origine sino al suo culmine (9 Termidoro anno II: 27 luglio 1794) la Rivoluzione si sviluppa attraverso l’opera dell’Assemblea Costituente, e via via dell’Assemblea legislativa, della Convenzione Girondina e della Convenzione Giacobina. In questi cinque anni la Rivoluzione avanza con un’impressionante succedersi di impennate riformiste, ma subito dopo il 9 Termidoro (che segue la caduta di Robespierre e la fine del Terrore instaurato dalla Convenzione giacobina) entra nella fase discendente della reazione e del riflusso. Con la Convenzione Termidoriana e con il primo, secondo e terzo Direttorio, si ritorna verso la tradizione, nell’ansia di porre oramai fine alla Rivoluzione: fine che avverrà con il colpo di Stato del 18 Brumaio anno VIII ( II novembre 1799) che inaugura il Consolato e con esso la dittatura di Bonaparte.

In qualsiasi modo la si voglia intendere, la Rivoluzione ha un punto fermo: il suo carattere è quello politico-giuridico. La Rivoluzione sacralizza il diritto: è il culto del diritto che, come strumento messianico, serve a rigenerare la morale dell’uomo. E’ l’idea di costruire un uomo felice e totalmente nuovo: nuovo e felice perché restituito alla natura, perché reintegrato dalla legge nei suoi diritti naturali (libertà, uguaglianza, proprietà) ed educato infine dallo Stato legislatore ad esercitare questi diritti come cittadino virtuoso. Religione della legge dunque.
Felicità pubblica però: i diritti del cittadino, integrato nello Stato, sono dissolti nella legge statuale. Il cittadino pertanto è subordinato alle ragioni della politica. Il diritto quindi è anche visto come asservimento della politica.
Sacralizzazione ed, allo stesso tempo, asservimento alla politica del diritto: è un fenomeno che stupisce ancora oggi chi riflette sulla Rivoluzione.

Si è già detto che la rivoluzione parte nel momento stesso in cui si costituisce l’Assemblea Nazionale.
Ed è col discorso iniziale tenuto dall’abate Sieyès ai deputati (che rappresenta un teorema: a) Il Terzo Stato per questione numerica rappresenta la Nazione; b) la Nazione è sovrana; c) il Terzo Stato rappresenta la volontà nazionale) che la Francia esce politicamente dal “vecchio” regime e fa il primo passo in quello “nuovo”.
Il secondo passo è quello della preparazione di una Costituzione che deve essere accettata dal re. La Costituente sa però che è indispensabile redigere una Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che faccia da preambolo alla Costituzione stessa.
Tale Dichiarazione rappresenta il risultato di un miracoloso equilibrio tra chi vede i diritti fondamentali dell’uomo come un “a priori” di diritto naturale e chi, invece, vede l’inviolabilità di tali diritti sancita “a posteriori” dalla legge positiva.
Il compromesso si realizza così: i diritti dell’individuo, sia che essi siano naturali o civili, hanno bisogno della legge dello Stato che li eriga a barriere inviolabili. E’ la legge che ha l’ultima parola: importante quindi è costruire un legislatore virtuoso, necessariamente rispettoso dei diritti degli individui.

Capitolo II. 
La legislazione rivoluzionaria nel campo della giustizia

Con il varo della Costituzione (3 settembre 1791) l’Assemblea Costituente, facendo propria la fondamentale teoria della tripartizione dei poteri del Montesquieu, sancisce il primato del potere legislativo, con l’attribuzione del monopolio di quest’ultimo ad un’Assemblea eletta che rappresenta la Nazione. L’autorità è la legge: il re regna per mezzo di essa ed è in nome della legge che può esigere obbedienza. In questa monarchia costituzionale (avrà due anni di vita) la legge si sostituisce al re, cui è riconosciuto unicamente un diritto di veto.

La legge ora, però, va difesa. Difesa contro tutte le forze del vecchio regime: l’alta magistratura in primo luogo e lo stuolo degli uomini di legge poi.
La legge ha bisogno di essere chiara e certa per essere compresa da tutti i cittadini e deve essere inattaccabile da parte del giudice e sottratta ai cavilli avvocateschi. E’ la subordinazione del giudice alla legge.
Il primo provvedimento è la “messa in vacanza illimitata dei Parlamenti”, che pone fine al tradizionale binomio potere di ceto/funzione giustizia.
Fatta in tal modo tabula rasa, prende vita il référé legislatif, meccanismo attraverso il quale il potere del diritto è riservato esclusivamente al legislatore (interpretazione autentica come sola forma ammissibile di interpretazione).
I tribunali non potranno emettere regolamenti e si rivolgeranno al legislatore ogni qual volta ritengano necessaria l’interpretazione di una legge o l’emanazione di una legge nuova.
In ordine alla Cassazione, poi, rende obbligatorio il rinvio degli atti processuali all’Assemblea legislativa quando, dopo due cassazioni successive e relative allo stesso caso, la decisione di un terzo tribunale in ordine al caso stesso sia impugnata in quanto analoga alle due precedenti.
L’istituzione del référé legislatif è dunque strettamente connessa al principio della separazione dei poteri.
per ciò che concerne le procedure di conciliazione nel campo della giustizia civile una legge del 1790  concede ai privati la facoltà di sottoporre qualunque loro vertenza civile ad arbitrato: il giudizio di semplici cittadini non professionisti ai quali si richiedono solo probità e naturale buon senso, può risolvere la controversia, non in base alle leggi, ma in base all’equità (l’importante è tenere lontana la gente dalla litigiosità artificiale, cioè dai cavilli e dai garbugli avvocateschi e procedurali).
Con lo stesso spirito sono istituiti i giudici di pace, disseminati in 6000 cantoni del paese, anch’essi giudici d’equità per le cause minori.
Viene anche contemplato un tribunale di famiglia, composto da un numero variabile di parenti, con sentenza impugnabile presso il Tribunale distrettuale, su ogni controversia nata in seno al gruppo familiare o fra pupilli e tutori (competenza estesa in seguito anche al divorzio).
Contro la pronuncia del tribunale distrettuale può essere interposto appello davanti a uno dei sette tribunali distrettuali più vicini (il cd. appello circolare che sostituisce l’appello ordinario).

La Costituente rifonda la Cassazione come “guardiano supremo della legge” posto a servizio e a difesa del potere legislativo: “tribunale della legge e non delle parti”.  Essa, con i suoi 42 giudici, ha il compito di annullare ogni giudizio che contenga una contravvenzione espressa al testo di legge. Essendogli precluso il giudizio nel merito della causa, cassa la sentenza viziata ed enunciando il principio di diritto da seguirsi rinvia le parti di fronte a un tribunale distrettuale. Come abbiamo già detto, dopo due cassazioni relative allo stesso caso, ha l’obbligo di “riferire” sulla causa ulteriormente pendente al corpo legislativo, richiedendone l’interpretazione autentica.
Il Tribunale di Cassazione (diverrà “Corte” nel 1804) è dunque null’altro che il braccio difensivo del potere legislativo: non è il giudice dei cittadini, ma il protettore della legge, il sorvegliante ed il censore dei giudici, in una parola, esso é situato fuori dell’ordine giudiziario e al di sopra di questo.

Il sistema della giurisdizione è a tre gradini.
In ciascun comune è collocato un Tribunale di polizia municipale, per pene che prevedono l’ammenda o la prigione fino ad otto giorni.
Per pene sino a due anni (furti, omicidi colposi, vagabondaggio…), o punibili con sanzione pecuniaria, in ciascun capoluogo di ciascun cantone è collocato un Tribunale di polizia correzionale, presieduto da un giudice di pace. 
A pronunciarsi sui crimini (con sentenza impugnabile in Cassazione) è destinato infine un Tribunale criminale insediato nei capoluoghi di dipartimento, la cui configurazione preannuncia l’odierna Corte d’Assise.
Il funzionamento di quest’organo è decisamente complesso.
L’istruzione preparatoria viene avviata, nel luogo in cui il crimine è stato commesso, dal giudice di pace, che può spiccare il mandato d’arresto nei confronti del prevenuto.
Nel capoluogo del distretto un magistrato del tribunale criminale completa la fase istruttoria, presiedendo una giuria d’accusa composta da otto cittadini sorteggiati, che si pronunciano sul rinvio a giudizio dell’imputato (atto d’accusa).
Nel capoluogo di dipartimento (ne esistono 83) siedono: il presidente del tribunale affiancato da tre giudici eletti; i componenti del pubblico ministero (il commissario del re e il pubblico ministero); 12 cittadini sorteggiati componenti la giuria di giudizio.
Qualora i giurati si siano formati il libero convincimento della sussistenza del fatto, della commissione dello stesso da parte dell’imputato, dell’esistenza o meno della volontà criminosa in lui, essi si pronunciano sulla colpevolezza dell’accusato. A tal punto i giudici deliberano sulla pena.
Occorre dire che l’idea della giuria popolare è scaturita dalla convinzione dell’utilità della partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia, oltre che dall’accentuata diffidenza nei confronti della classe giudiziaria e del ceto dei giuristi in genere, accusati di arbitraria manipolazione della legge.
Qui si profila un nuovo nodo conflittuale: l’ala sinistra dell’Assemblea, capeggiata da Robespierre, concepisce la giuria perfettamente idonea a funzionare anche in campo civile. Le preoccupazioni tecniche connesse alle difficoltà del diritto civile, però, fanno adottare la proposta favorevole all’istituzione della sola si giuria penale.
Altro nodo da sciogliere è quello di decidere se avere un processo penale totalmente orale o in parte scritto, cioè consacrare in verbali le deposizioni dei testimoni in istruttoria e le successive risultanze dibattimentali.
Importante dibattito sulla questione con diverse soluzioni prospettate: alla fine prevale la tesi (legge approvata dalla Costituente) che le deposizioni vengano verbalizzate, ma non trasmesse alla giuria di accusa, che si pronuncia sul rinvio a giudizio in base all’audizione dei testi. Il dibattimento avverrà poi totalmente in forma pubblica ed orale, alla fine del quale il presidente del tribunale formula le tre questioni di rito della giuria.
Questa legge formula il principio del libero convincimento del giudice, seppellendo per sempre, in Francia, il sistema delle prove legali: la legge chiede alla giuria di cercare, nella sincerità della propria coscienza, interrogando se stessi nel silenzio e nel raccoglimento, quale impressione abbiano fatto sulla loro ragione le prove prodotte contro l’accusato e i mezzi di difesa. La legge chiede loro se hanno un libero convincimento: il loro giudizio è inappellabile.

Tra le altre importanti innovazioni nel campo della giustizia una nuova legge sancisce il principio della elezione diretta dei giudici da parte del popolo (il sovrano potrà nominare a vita solo le persone esercenti il pubblico ministero). La nomina è temporanea: da due a sei anni, ma rinnovabile.
Ma, la Rivoluzione, preparando un colpo distruttivo, pensa anche al mondo degli avvocati, ritenuti da molti un branco di sciacalli che campa sulla litigiosità altrui: un decreto del 1790 sopprime l’Ordine degli avvocati ed istituisce la figura del difensore d’ufficio, la cui funzione, totalmente gratuita, è liberamente esercitabile da qualunque cittadino. In quest’opera “purificatrice” sono liquidati anche i procuratori e chiuse le facoltà di giurisprudenza.

 

Capitolo III  
La legislazione rivoluzionaria nel campo del diritto privato dalla Costituente alla Convenzione: il “Droit intermédiaire”.

Se la rivoluzione deve rigenerare l’uomo restituendolo alla natura e trasformandolo in cittadino cosciente dei propri diritti, la codificazione da intraprendersi deve rigenerare il sistema dei rapporti privati rifondando la società in base ai diritti dell’uomo.
Ecco dunque come si spiegano l’origine e l’evoluzione del cosiddetto droit intermédiaire, cioè di quella legislazione civilistica rivoluzionaria che separa l’ancien régime dal code Napoléon.
Sul principio di base dell’eguaglianza civile si pongono in anticipo i princìpi di un successivo codice civile, attraverso l’emanazione di parziali leggi di riforma, intese a rinnovare settori del diritto privato.

Bisogna tener presente che tale produzione legislativa riflette quel tipico andamento a parabola dell’intero fenomeno rivoluzionario.
Riassumendo storicamente bisogna ricordare che il primo atto ufficiale della rivoluzione fu l’Assemblea Nazionale Costituente (1879), nata con il preciso intento di dare un volto alla Francia. Sciolta nel 1891, l’Assemblea Costituente lasciò il posto all’Assemblea Legislativa (ottobre 1791-settembre 1792). Anche questa Assemblea, tuttavia, non riuscì a dominare una situazione che si faceva sempre più drammatica, per cui furono indette nuove elezioni, questa volta però a suffragio universale.
Nacque così la Convenzione Nazionale, che avrebbe dovuto per prima cosa elaborare una nuova Costituzione a carattere democratico ed egualitario.
Il 20 settembre 1792 venne proclamata ufficialmente l’abolizione della monarchia in Francia e l’instaurazione della repubblica.
La Convenzione fu mossa da due correnti di punta, quella dei Girondini e quella dei Giacobini, contrapposte più da una lotta di potere, che da una diversità ideologica.
Dal giugno 1793 la Convenzione, dopo una serie impressionante di epurazioni, si verticizzò in capo alla vincente fazione dei Giacobini, o meglio in capo al massimalista plotone assembleare del giacobinismo, quello dei Montagnardi: erano costoro, adesso, gli interpreti della volontà del popolo.
Istituito un “Comitato di salute pubblica” e istituzionalizzato il “Terrore”, i Montagnardi governarono la Francia a regime di partito unico: era la dittatura personale di Robespierre, sostenuta nelle avrie regioni del Paese dai “sans-culottes”, gruppi di attivazione quotidiana del Terrore.
Era l’ideologia giacobina: creare condizioni di “unanimità”, con le buone e con le cattive, facendo tacere chi era dissenziente. Creando un’intimidazione perenne nei confronti dell’avversario politico la decisione unanime divenne “volontà del popolo”.
Sarà tra il 1793 ed il 1794 che la Convenzione si libererà di Robespierre: momento culminante della Rivoluzione chiamato Termidoro. La successiva Convenzione Termidoriana, segnalatosi per le sue misure antiterroristiche e antigiacobine, sopravviverà sino al 1795, quando cedette il posto al regime del primo, secondo e terzo Direttorio.
Il codice civile nascerà un decennio dopo Termidoro, e questo dimostra, dice il Cavanna, che un buon codice civile non si può fare nel bel mezzo di una rivoluzione.
Il droit intermédiaire si sostanziò comunque in una produzione normativa cospicua, anche se spesso frammentaria, turbata dalla violenza, improvvisata ed anche velleitaria.

Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti”: è la massima solenne sonoramente scandita dell’art. 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789.
Liberi significa non essere sottomessi all’autorità di nessun altro uomo.
Nella notte del 4 agosto l’Assemblea nazionale aveva soppresso i privilegi feudali, e quindi scompariva la feudalità.
Scompariva così il medievale “servaggio della gleba”, uno stato di soggezione servile che vincolava la persona alla terra e si manifestava principalmente nella forma della “manomorta”: il servo non poteva trasmettere in eredità il fondo in suo possesso ai suoi figli. Costoro dovevano versare un’imposta di successione al signore, che addirittura poteva nuovamente impossessarsi dell’immobile se il servo decedeva senza eredi in linea diretta.
Da sottolineare però, che se la Costituente si adoperò nell’abolizione del servaggio della gleba, per ciò che concerne la schiavitù, totale negazione del valore della persona umana, essa restò muta. Rimase così pienamente autorizzata la tratta dei neri d’Africa nelle colonie francesi d’America sino al 1848.

Per ciò che concerne la libertà di culto, direttamente in sintonia con la libertà di pensiero, i protestanti e gli ebrei, sino ad allora discriminati (soprattutto i secondi, costretti a pagare tasse per poter circolare, per godere di accoglienza e di protezione, oltre che a dover lavorare personalmente i propri fondi senza l’ausilio di dipendenti cristiani) finalmente, intorno al 1789, cominciarono ad emanciparsi. Furono restituiti i beni a loro confiscati ed ammessi agli impieghi pubblici: erano così abolite le istituzioni che ledevano la libertà e l’uguaglianza dei diritti.
Sembra dunque che ai suoi esordi la Rivoluzione riesca a realizzare un “accordo della religione e della libertà”, ma è solo un momento illusorio.

E’ già con l’Assemblea Costituente che si assiste ad una sostituzione di ogni culto con una religione rivoluzionaria: sono abolite le decime ecclesiastiche e comincia la confisca delle proprietà immobiliari della Chiesa, che vengono messe in vendita a colmare il deficit pubblico. E’ la trasformazione dei beni ecclesiastici in beni nazionali e dei parroci che diventano salariati statali.
Viene decretato il divieto dei voti monastici e la soppressione degli ordini religiosi.
E’ approvata, inoltre, la costituzione civile del clero: diminuzione del numero di vescovi, parroci,  diocesi e parrocchie; elezione dei primi da parte dei cittadini; riduzione allo status di pubblico funzionario di ogni religioso ed obbligo per tutto il clero di prestare fedeltà alla Nazione alla costituente. In Francia vengono, così, a trovarsi due cleri, uno “costituzionale” ed un altro dichiarato “refrattario” e destinato alla sostituzione.

Nel 1792 si assiste pertanto alla laicizzazione dello stato civile e viene varata la disciplina del divorzio. 
Il matrimonio è dichiarato atto puro e semplice contratto disciplinato dalle leggi dello Stato; la tenuta dei pubblici registri è affidata alle autorità comunali.

E’ la “scristianizzazione”: dissolvendo la Chiesa nella Nazione, allo Stato è trasferita la sacralità della devozione cristiana. Scristianizzazione che comincia prima con provvedimenti legislativi e poi con violenza intesa a farli accettare ad ogni costo. Sono abbattuti campanili, saccheggiate e chiuse molte chiese, distrutte immagini sacre. I preti, infine, sono derisi e sottoposti a cerimonie di abiura.

Nel 1793 la Convenzione adotta il famoso e nuovo calendario repubblicano. L’uomo ora è solo cittadino, ragion per cui il calendario cristiano, coi suoi martiri, non ha più ragione di esistere.

Nel ’73 il delirio delle celebrazioni pagane tocca il suo apice: il vescovo di Parigi si spreta davanti all’Assemblea e a Notre-Dame viene celebrata la prima festa civica, vista come il trionfo della “Ragione”su secoli di pregiudizi.
Nel ’74, però, è Robespierre in persona ad arrestare la spirale della scristianizzazione. A Maggio la convenzione decreta l’instaurazione del culto dell’Ente Supremo ed è riconosciuta l’immortalità dell’anima. E’ questo un modo per Robespierre di appoggiare il suo “Terrore” ad un’ortodossia e di ancorare la Rivoluzione ad una religione di Stato.
Sarà dopo l’esecuzione di Robespierre che riapriranno molte chiese e la Convenzione Termidoriana sarà costretta a concedere la libertà di culto.

L’idea di libertà, concepita come diritto alla piena autonomia nello svolgimento del proprio lavoro, ispira la Costituente che, con due misure legislative, prima liquida le antiche corporazioni, viste come sistema di privilegio, e poi vieta ogni nuova associazione fra cittadini esercitanti lo stesso lavoro o la medesima professione (legge proposta dal deputato Le Chapelier).

Il matrimonio è laicizzato pienamente: atto creatore della famiglia, esso è solo un contratto civile (art. 7 della Costituzione del 1791), regolato dalle leggi dello Stato.
In nome della libertà individuale, il matrimonio, depurato dagli impedimenti della Chiesa e dalle ordinanze regie, comporta per la sua stessa logica il divorzio. Soppressa la separazione, la legge recita che solo il divorzio potrà separare i due coniugi.
Esso è previsto in tre ipotesi: a) per mutuo consenso; b) per incompatibilità di umore e di carattere di uno dei coniugi (anche se in questo caso i coniugi dovranno sottoporsi per ben tre volte al giudizio del tribunale di famiglia, che tenterà una riconciliazione nell’arco dei sei mesi); per una di queste sette cause allegata da uno dei coniugi: demenza, delitto, sevizie o ingiuria grave, sregolatezza notoria di costumi, abbandono del coniuge per due anni, emigrazione, condanna a pena afflittiva o infamante, assenza per più di cinque anni congiunta a mancanza di notizie.
La Convenzione disporrà, nel 1974, che la separazione di fatto superiore a sei mesi attestata da un atto notorio è sufficiente per il divorzio.
Tra il 1793 ed il 1795 i divorzi si contarono a migliaia.

La Rivoluzione, tra il 1792 ed il 1794, in nome dei princìpi di libertà e d’uguaglianza, distrugge dalle fondamenta la vecchia famiglia patriarcale. E’ sulla famiglia strutturata intorno alla figura dominante del padre, riverito dai figli (questo riporta alla mente l’obbedienza dei sudditi verso il loro sovrano), fondata sul matrimonio autorizzato dalle due parentele, quasi sempre preceduto da solenni convenzioni nuziali obbedienti al gioco dei rispettivi interessi (donazioni e clausole ad hoc per la gestione economica del loro ménage e la destinazione dei loro averi) ed unificata intorno ad un patrimonio del quale il padre può disporre sovranamente per testamento, che si abbatte la Rivoluzione.
Bisogna ricordare che nella vecchia famiglia il testamento era normalmente utilizzato per concentrare il grosso dei beni familiari nelle mani di un discendente privilegiato (di regola il primogenito, contro ogni principio egualitario). Spesso, inoltre, esso era affiancato dalla sostituzione fidecommissaria, che vincolava l’erede a conservare e a trasmettere a sua volta i beni o una parte di essi ad un terzo beneficiario, di regola, con lo stesso meccanismo, il suo primogenito. Questo modo di fare, oltre che creare una radicale disparità tra i successibili, creava un’immobilità di capitali in perpetuo, sottratti sia alla libera disponibilità del padre che al commercio ed al fisco.
Nel 1747 un’ordonnance del cancelliere d’Aguessau, aveva disposto che le sostituzioni fidecommissarie non operassero oltre la seconda generazione.
Bisogna precisare però che, anche se gli anni decisivi sono quelli che vanno dal 1792 al 1794, già nel 1791 erano state pronunciate dure requisitorie contro la patria potestà e la libertà di testare.
“Dite ai padri che il loro potere deve racchiudersi nell’essere saggi, teneri e virtuosi”, aveva detto Mirabeau. Era la battaglia contro il dispotismo paterno ed il testamento, fonte di abuso domestico, mostruosa ineguaglianza delle quote successorie, insulto ai diritti dell’uomo.
Certo era il diritto romano che permetteva ai padri di premiare il figlio “rispettoso” e punire quello “ribelle”, ma ora, cambiati i tempi, non potranno più tenere i figli sotto uno stato di soggezione.
Nel figlio ribelle ora viene visualizzato il giovane patriota e nel padre autoritario il nemico della Rivoluzione. E’ il premio per i giovani che ora si comportano da patrioti: la maggiore età viene abbassata da 25 a 21 anni.
Due decreti del 1792 proibiscono le sostituzioni fidecommissarie.
Ora c’è da lottare per il testamento. Nel ’93 la Convenzione proclama che “la facoltà di disporre dei propri beni, sia a causa di morte, sia tra vivi, sia per donazione contrattuale in linea diretta è abolita”.
Cade in questo modo anche il temuto potere dei padri di diseredare il figlio, mentre già da tempo è stato ridotto al minimo il diritto di incarcerazione, che non può più essere applicato ai figli che hanno superato i vent’anni e non può comportare che un anno di detenzione.
In un’altra seduta del ’93 si proclama che non ci sono più figli bastardi, dando così l’avvio ad una serie di misure volte a parificare figli legittimi e figli naturali.
Si discute anche di adozione: possibilità per chiunque di adottare sino a dodici bambini, col solo limite dell’età dell’adottato, stabilito in sedici anni (questo potrà creare un frazionamento maggiore della proprietà attraverso l’aumento dei successibili).
Si parla anche di matrimoni privati: si progettano misure per il riconoscimento delle unioni di fatto e per la tutela dei figli che ne nascano.
C’è infine il primo progetto di codice civile presentato da Jean Jacques Régis de Cambacérès, ma questo, così come gli altri due presentati in seguito, saranno affossati.
In pieno Terrore però andranno a segno due famigerate leggi successorie della Convenzione, che avranno valore retroattivo: a) i figli naturali sono ammessi alla successione con parità di diritti; b) la disponibile, cioè la quota spettante all’erede decaduto, è resa a limiti minimali (1/10 o 1/6 dei beni del de cuius a seconda che ci siano o meno figli di quest’ultimo); inoltre la successione intestata è regolata secondo il criterio della più rigorosa eguaglianza fra i figli.

Per ciò che concerne l’eguaglianza dei sessi e libertà della donna bisogna precisare che nell’ancièn regime il marito è il capo della società tra marito e moglie e dispone di un diritto di potestà sulla persona della moglie. Una condizione di inferiorità e di sottomissione accettata come naturale dalla donna. Inoltre, la regola universale seguita è quella secondo cui l’amministrazione dei beni familiari è confidata in esclusiva al marito, che né è padrone e signore assoluto. Questo rappresenta l’incapacità di agire della donna coniugata, fondamento stesso della potestà maritale. Nulli sono gli atti inter vivos stipulati dalla donna sposata: ella non può obbligarsi, donare, alienare, acquistare a titolo gratuito o oneroso, costituire ipoteche, stare in giudizio, senza l’espresso consenso del coniuge. Unica eccezione la donna, autorizzata dal marito ad esercitare il commercio, nei contratti stipulati per lavoro.
Bisogna sottolineare che il diritto della Rivoluzione muta la vita della donna solo sul fronte del divorzio e su quello della parità successoria, mentre nulla cambia per ciò che concerne la sua incapacità d’agire e la potestà maritale. Questo però era bastato a far amare la Rivoluzione alle donne, che vi parteciparono in diverse manifestazioni.

In meno di cinque anni la Rivoluzione modifica la proprietà con due grandi innovazioni:

  1. la unificazione strutturale del diritto di proprietà;
  2. la sua ridistribuzione a nuovi e molteplici soggetti proprietari.

Intanto bisogna dire che la proprietà era già considerata, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, un diritto sacro ed inviolabile, di cui nessuno può essere privato se non per necessità pubblica, legalmente constatata. Inoltre, senza proprietà non si è neppure cittadini attivi, né elettori, dal momento che il diritto di voto è concesso a partire da un certo livello di contribuzione fiscale.
E’ la proprietà che viene a prendere forma dopo ciò che è stato solennemente decretato la notte del 4 agosto 1789 e di cui abbiamo già parlato: “L’Assemblea nazionale distrugge interamente il regime feudale”.
Per capire meglio cosa succede bisogna vedere come si presentava il regime giuridico della proprietà prima della Rivoluzione.
La Francia si presenta agricola al 90%. Inoltre, 1/3 della terra è esente da imposizione fiscale perché di proprietà della Corona o della grande nobiltà o degli enti ecclesiastici. Questa massa di terreni in parte è lasciata incolta; in parte è popolata da una folla di braccianti, giornalieri o stagionali, o di coltivatori non proprietari che campano con ciò che rimane loro del raccolto dopo aver versato il canone.
C’è poi il grosso delle terre coltivate del Paese su cui risiede una moltitudine di piccoli e piccolissimi proprietari, da cui occorre distinguere quelle terre dette “alloidali”, sfruttate da famiglie contadine a titolo di dominio pieno, cioè senz’alcun vicolo di soggezione signorile e con solo l’onere, comunque gravoso, del prelievo fiscale e della decima ecclesiastica.
Rimane infine l’immensa maggioranza degli altri appezzamenti che rappresentano la grande Francia “paysanne”: sono le terre signorili. Sono terre occupate da piccoli proprietari, ai quali il fondo è stato concesso, in epoca remota e in perpetuo, da un signore feudale. Essi ed i loro eredi godono di un dominio utile, cioé pieni poteri e diritti d’esazione che sono i più vari: tasse, censi, manomorta, monopoli di caccia e pesca, canoni in denaro. Questo dominio è incontrastata proprietà; ma, affianco a questa proprietà se ne affianca un’altra: il dominio diretto rimasto in capo al signore feudale (direttario) in forma di rendita fondiaria: una rendita assicurata dai versamenti in denaro o in natura dell’utilitarista. Siamo di fronte, così, a due distinti diritti di proprietà esercitati in convivenza sullo stesso bene.
Il dominio utile, a volte non è sufficiente alle necessità di sussistenza della famiglia contadina che lo esercita, perché oltre alle pretese (spesso vessazioni) del direttario, il contadino deve fare i conti con una molteplicità di condizionamenti derivanti alla sua proprietà dai diritti della comunità. Per esempio la gestione del fondo deve essere compatibile con quella dei beni comunali, oppure il fondo non può essere recintato, per la dare la possibilità di transito a bestiame diretto al pascolo.
Ora si capisce come tutto questo non poteva più essere sopportato, e se a questo sopraggiunge, come avviene all’inizio del 1789, un cattivo raccolto, un rialzo del prezzo del pane e oggettive condizioni di carestia, allora tale situazione diventa esplosiva.
La gente inferocita insorge e chiede non solo la diminuzione del prezzo del pane, ma anche la soppressione di tutto ciò che rende difficile la loro stessa sopravvivenza.
L’Assemblea Costituente risponderà con la messa al bando della feudalità e porrà le condizioni concrete perché la Dichiarazione, a fine agosto, possa definire la proprietà sacra ed inviolabile.
Cadono così i diritti che traggono vita dal potere del signore come tale piuttosto che come direttario. Cadono così i privilegi onorifici esteriori (il diritto all’omaggio per esempio); cadono il servaggio della gleba, la manomorta, le corvées, le varie figure di servitù personale, i monopoli di caccia e di pesca, cade, infine, la decima ecclesiastica.
La Costituzione decide non per l’abolizione, ma per la riscattabilità di questi diritti. Con il riscatto, consistente nel versamento di una quota pari a 20 o a 25 volte il canone annuo, l’utilitarista diventerà unico proprietario del bene.
Per la troppa indulgenza riservata ai signori, tuttavia, varie rivolte contadine creeranno il caos.
Alla fine tutti i diritti riservati al signore dalla stipulazione di contratti per il riscatto dei beni riscattabili, saranno aboliti. Nasce così la proprietà.

Le proprietà immobiliari della Chiesa, confiscate e divenute pertanto beni nazionali, sono messe in vendita al pubblico. Questa vendita favorirà la divisione delle grandi proprietà in piccoli lotti, aggiudicabili all’asta a prezzo “politico” e a pagamento dilazionato.
Sarà poi imposto lo sfruttamento collettivo delle terre comuni, ma l’opposizione dei contadini renderà facoltativa la divisione dei beni comunali. Nei villaggi in cui si realizzerà la divisione la terra sarà ripartita indistintamente fra tutte le persone ivi domiciliate.
Infine vengono messi in vendita i beni degli emigrati, cioè di quelle persone che si erano allontanate e rifugiate nei vari Paesi europei, persone che erano viste come nemiche del popolo.

Tutto questo favorisce una crescita numerica delle piccole proprietà ed un accesso al diritto di proprietà da parte di famiglie non proprietarie, anche se bisogna dire che i più grossi acquisti di beni nazionali sono fatti dalla nobiltà, dai grandi coltivatori e dalla agiata borghesia esercitante il commercio: operazioni di accaparramento che rendono i già ricchi ancora più ricchi.
Si innalza di rango la borghesia, che costituisce il nuovo notabilato con la nobiltà superstite, non più contrassegnato dai privilegi di sangue, ma grazie al denaro investito nelle rendite fondiarie.
E’ l’aristocratizzazione di una borghesia provvista di ricchezza fondiaria, mentre dall’altra parte c’è la borghesizzazione una nobiltà che passa dal regime del privilegio a quello del denaro.

 

Capitolo IV
La codificazione penale rivoluzionaria

I caratteri generali del diritto penale praticato intorno alla metà del ‘700 in Francia: ufficialmente il diritto ha le sue fonti nella legislazione sovrana e nelle coutumes regionali, in realtà si risolve in un complesso di autonome pratiche giurisprudenziali.                                                                                 
Il  sistema criminale in uso non si sostanzia in un apparato tassativo di reati e pene, gerarchicamente ordinato secondo univoci criteri di proporzione fra crimine e sanzione.
La determinazione e la graduazione delle pene sono normalmente affidate all’arbitrio del giudice, secondo una sua valutazione discrezionale del reato e delle relative circostanze.
Un sistema che non risponde a criteri di legalità e che non possiede neppure  requisiti di unità, in quanto  varia a seconda delle aree del regno e a seconda dello status sociale del reo o dell’offeso.
La pena è vista come castigo esemplare, uno strumento deterrente in ragione della sua severità (di qui l’uso indiscriminato della pena di morte, spesso accessoriata con operazioni da macello).
Per amore di verità, bisogna dire che nell’ultimo trentennio del secolo alcuni giudici ed avvocati d’alto livello cominciano a fare proprie le idee umanitarie e legalitarie dell’illuminismo penale. Questo crea un’inversione di tendenza con un vistoso calo delle condanne a morte, una generale flessione dell’impiego della tortura e relativa preferenza accordata alla meno severa pena straordinaria irrogata dal giudice “secondo coscienza” ed infine un vistoso calo delle più arcaiche pene mutilanti.
Lo stesso Luigi XVI vuol modificare il processo penale, proponendosi di riformare in più punti l’Ordonnance criminelle. Le più importanti innovazioni che si vogliono imporre alla prassi delle corti del regno sono: per le condanne a morte occorrono tre voti di maggioranza anziché due; la presunzione d’innocenza per l’indagato; le sentenze devono essere motivate; abolizione dell’interrogazione dell’imputato sulla sellette (sgabello di legno sul quale, seduto, l’imputato risponde, senza difensore, di fronte ai giudici che lo sovrastano dai loro scanni posti in alto); abolizione della tortura preliminare. Cose che il sovrano intende far entrare in vigore con regio editto. Ottime intenzioni –dice il Cavanna- mentre nubi tempestose si addensano sulla Francia.

Per comprendere lo spirito animatore della codificazione che la Rivoluzione è riuscita a realizzare nella sua fase costituente e perché il primo codice che la Francia abbia avuto sia stato di diritto penale occorre tener conto che la questione penale  assume un rilievo assolutamente centrale. Nel bel mezzo di una rivoluzione sicuramente non si può fare un buon codice civile, ma è altrettanto vero che ogni rivoluzione comincia la sua marcia partendo dal campo della giustizia penale.

E’ significativo che fra le 17 enunciazioni delle Dichiarazione dei diritti del 1789, diversi articoli presuppongano un cambiamento profondo della giustizia penale.
La chiave dell’intero disegno programmatico è nell’art 16 che pone la “separazione dei  poteri” a fondamento della costituzione del nuovo Stato. Separazione che vuol dire restringere le funzioni del monarca al solo ambito esecutivo, nonché la rigorosa subordinazione del giudice alla legge. L’art 5 afferma che solo le azioni che arrecano danno alla società sono da proibire e non altre; l’art 7 che richiama il principio di legalità delle incriminazioni: nessuno può essere accusato ed arresto se non nei casi previsti dalla legge; l’art 8 che proclama oltre la legalità delle pene, la irretroattività della legge penale: nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto; l’art 9 parla della presunzione d’innocenza; l’art 6 afferma l’uguaglianza dei consociati di fronte alla legge; infine l’art 10 afferma al laicità del diritto penale.

Vediamo ora il processo formativo del codice penale della Rivoluzione.
Esso è in gran parte il frutto del  criminalista Lepeletier, seguace di Beccaria, che diverrà deputato della Convenzione. Voterà a favore della condanna di Luigi XVI, ma sarà assassinato come regicida da una guardia fedele al sovrano e sarà sepolto al Panthéon, come primo martire della Rivoluzione. Si deve subito precisare che il codice penale del 1791 è diretto a reprimere solo i gravi delitti, meritevoli di pena afflittiva o infamante, di competenza dei tribunali criminali, che comportano l’intervento della giuria popolare. La repressione dei delitti meno gravi e delle contravvenzioni viene separatamente disciplinata da una legge di poco anteriore.
E’ opportuno esaminare il progetto del codice penale rivoluzionario a tre stadi diversi: quando è stato presentato alla Costituente, quando poi è stato discusso in seno alla stessa Costituente ed infine quando è stato approvato e promulgato.
Il progetto di codice viene presentato da Lepeletier alla Costituente il 21-22 maggio 1791, introdotto da un ampio “Rapport” esplicativo.
Il Rapport si presenta come un documento molto interessante, soprattutto se lo si pone in relazione con l’alltro progetto da lui elaborato, quello sull’ “educazione nazionale”
Nel suo Rapport, Lepeletier indica subito i benefici che da questo codice penale trarranno, non tanto la generazione corrente, bensì quelle future.
Questo perché Lepeletier ha in mente un progetto di educazione collettiva di tipo spartano: prelevare dalle famiglie tutti i bimbi al di sopra dei cinque; trattarli secondo  un uniforme modello di virtù repubblicana, addomesticandoli a vivere  tutti i giorni sotto una rigida regola esatta. Così facendo diventeranno virtuosi, uomini davvero libero privati della necessità di delinquere: “con questa clonazione pedagogica non ci sarà neppure bisogno di un diritto penale per queste macchine della bontà”. Leeletier, dunque, sogna una società senza diritto penale, creata attraverso un’educazione morale dei cittadini, dove non ci sia più spazio per le infelicità e le afflizioni.
Il diritto penale quindi si presenta ora una terapia dolorosa ma provvisoria: terapia in quanto la pena, essenzialmente temporanea, deve avere una funzione rieducativi col recupero sociale del punito; dolorosa in quanto la pena apporterà, pur se minima, una certa sofferenza; provvisoria in quanto nella nuova società, coi suoi cittadini virtuosi formati ad opera dello Stato educatore, il crimine è destinato a scomparire.
Lepeletier presenta così alla Costituente il progetto di un sistema punitivo che deve essere sostituito subito dopo da un altro sistema, quello educativo.
Un uomo due progetti, dice il Cavanna, quello del Codice presentato alla Costituente e quello educativo presentato poi postumo in nome di lui da Robespierre. E’ soprattutto la carica di utopia: l’utopia della legalità perfetta del diritto penale, l’utopia della moralità perfetta della società che verrà a formarsi. Lepeletier si presenta come un visionario che in nome di una felicità universale non si rende conto di voler creare qualcosa che sa di inferno: il pazzesco internato infantile, un lager dove in nome della libertà e dell’uguaglianza vengono plasmate e riprodotte in fotocopia le volontà e le coscienze.
Però, poiché il suo progetto penalistico è divenuto codice vigente, mentre il suo piano di istruzione collettiva si è arenato, non dobbiamo valutare il criminalista per  ciò che avrebbe voluto fare, bensì per quello che ha fatto, che non è sicuramente immeritevole di rispetto.

Riproduciamo la sintesi riassuntiva del Rapport, che ha diversi punti di contatto con  Beccaria.
La formula di Lepeletier è questa: “ Le pene siano umane, giustamente graduate, in rapporto esatto con la natura del delitto, eguali per tutti, esenti da ogni arbitrio giudiziario; correggano le inclinazioni morali del reo, promuovendone l’abitudine al lavoro; che la loro durezza diminuisca con l’avvicinarsi del termine fissato, e infine che siano temporanee.
Pene, quindi, caratterizzate dai principi della umanità, della proporzionalità con il reato, della legalità, dell’ uguaglianza per tutti i cittadini, della educatività, della temporaneità, del rigore al decremento progressivo. Nella depenalizzazione di crimini come quelli di eresia, di lesa maestà divina, di magia…, è anche proclamato il principio della laicità della pena.
Lepeletier distingue le pene in afflittive e infamanti.
Le pene afflittive sono unicamente detentive, si riducono a tre e permettono al condannato di lavorare: 1. Detenzione in catene in cella buia di isolamento con giornate lavorative di intervallo; 2. Detenzione in cella di isolamento non buia con lavoro volontario e remunerato quotidiano; 3. Detenzione semplice con lavoro in comune con gli altri detenuti.
Le pene infamanti, invece, consistono nella degradazione civica (con successiva esposizione alla gogna), per gli uomini, nella semplice gogna per le donne. Dopo un certo periodo di espiazione è prevista la riabilitazione del punito (battesimo civico).
Come si nota, non troviamo né la pene pecuniarie, né i lavori forzati, in quanto il lavoro non è mai imposto, ma solo proposto e né le  pene corporali in genere. E’ escluso per Lepeletier il “marchio” e anche il “bando”.
Infine, con fedeltà a Beccaria, il progetto respinge la pena di morte, vista come immorale, inefficace, diseducativa, ingiusta in caso di errore giudiziario.
Inoltre il progetto propone il sistema della pene fisse: non l’ arbitrio del giudice, ma una pena fissa e determinata per ciascun delitto. I giurati devono giudicare la verità del fatto e il tribunale deve applicare la legge.
“Legalità intesa come fissità della pena  in qualità e quantità”: è questo il “codice fisso di leggi che si devono osservare alla lettera” presentato da Lepeletier alla Costituente. Ciò riduce il codice ad una sorta di rubrica elettronica e il giudice una specie di “risposta vocale” anch’essa elettronica, che fa ricadere sul legislatore il compito di predeterminare non solo la pena ordinaria per ogni singolo reato, ma anche un elenco di eventuali circostanze aggravanti, connesse al reato stesso, con relativa indicazione degli aumenti di pena.
Sembra strano ma la Costituente approverà questa soluzioni senza compromessi, ma non approverà l’ abolizione della pena capitale.

L’ Assemblea fa proprie tutte le massime poste dal relatore: entra così nel codice il principio della temporaneità delle sanzioni definitive (con successiva riabilitazione del reo), della proporzionalità, della personalità, dell’ uguaglianza e persino quello della legalità-fissità della pena. Anche i tipi di pena proposti da Lepeletier, pur se con qualche ritocco, sono accolti dalla Costituente.
I condannati ora, detenuti nelle celle buie di isolamento sono impiegati (con palla di ferro al piede) nelle case di forza e nelle miniere, e il loro impiego diviene una pena durissima di utilità sociale.
Il grande dibattito si accende sulla questione della pena di morte. La maggioranza dei deputati parte dall’ idea che la pena di morte non possa essere abolita, perché, anche se orribile, rimane pur sempre il più valido dei deterrenti. Così infatti accade: la pena di morte non è abrogata.
Si discute anche sulle modalità delle esecuzioni capitali: il rito deve essere pubblico, ridotto alla semplice privazione della vita, ma senza alcun inasprimento corporale accessorio.
Ma quale strumento utilizzare? Il medico e deputato Guillotin aveva già proposto due anni prima una macchina capace di troncare le teste. Così nasce la ghigliottina, che subito viene sistemata in Piazza della Concordia.

 Il progetto di Lepeletier diviene codice vigente nell’ ottobre del 1791: 225 articoli in tutto, suddivisi in due parti: prima parte, “Delle condanne”, seconda, “Dei crimini e della loro punizione”.
Ora viene da chiedersi come funziona il codice penale della Costituente, lungo i 19 anni della sua vigenza, nella prassi giudiziaria. La sua applicazione si rivela subito “difficoltosa” per i problemi creati dalla messa in pratica del “sistema delle pene fisse”, inteso a paralizzare l’ arbitrio giudiziario. Risulta, inoltre, “limitata” perché la varie norme per la punizione dei reati, rimangono sulla carta e sono  sostituite da una fittissima legislazione eccezionale contemplante un’ ampia serie di crimini definiti come controrivoluzionari, applicabile da appositi tribunali criminali straordinari.
Per comprendere la difficoltà nell’applicazione del codice, o meglio nell’applicazione delle pene fisse, basti pensare alle pronunce del verdetto da parte delle giurie popolari. In caso di dubbio o silenzio del codice si esprimono quasi sempre a favore dell’indagato, rifiutandosi spesso di considerare le circostanze aggravanti o non riconoscendo l’intenzionalità del reato:  giurie che per evitare conseguenze durissime di un verdetto ortodosso danno vita ad assoluzioni aberranti.

Vediamo ora quello che è stato denominato “Terrore giudiziario”.
E’ soprattutto nel biennio 1793-1795 che quella parte del codice penale dedicata agli attentati alla sicurezza interna ed esterna dello Stato è soppiantata da un “diritto penale d’eccezione”,  messo in opera dalla Convenzione con l’istituzione di tribunali rivoluzionari, che giudicano con procedura straordinaria.
Nel 1793 non siamo già al terrore giudiziario, ma siamo di fronte al suo primo germe: la giustizia straordinaria è vista si come dolorosa alternativa, ma inevitabile per la salvezza dello Stato e della sua rigenerazione. Come esempio valga la posizione di Robespierre al processo contro Luigi XVI: si mostra contrario alla pena capitale, ma “il re rappresenta la monarchia e come tale egli deve morire perché occorre che la patria viva”.
Il secondo germe è rappresentato da quelle misure terroristiche attuate in via giudiziaria anche contro chi non rappresenta un vero pericolo per la società: gli emigrati, quelli che, indotti dalla Rivoluzone, hanno abbandonato la Francia sono qualificati per decreto come “sospetti” di congiura; gli stessi preti refrattari sono qualificati allo stesso modo. I sospetti sono dei criminali potenziali, “formano una categoria a parte”, che anche se non hanno commesso reati, potrebbero commetterli. Dal 1793 questa categoria si allarga sempre più finché la famigerata Legge sui sospetti istituisce una vera e propria  lista delle persone definibili come sospetti: tutti quelli che, sia per la loro condotta, sia per le loro simpatie, sia per i loro scritti, sia per le loro relazioni, si sono mostrati partigiani della tirannia, ora sono nemici dello Stato. Allo stesso modo sono considerati quelli che non hanno partecipato attivamente alla Rivoluzione, quelli che pur non avendo fatto nulla contro la libertà, non hanno fatto nulla per essa. Sono una marea: a tutti questi non può essere rilasciato il “certificato di civismo” e possono reputarsi passibili della confisca dei beni e sistemati nella sala d’aspetto della ghigliottina.
Per essere sospetti non occorrono prove, in quanto “l’esistenza dei loro reati si avverte moralmente”, dice Robespierre. La prova morale dunque è sufficiente: La legge del 22 Pratile anno secondo ( 10 giugno 1794) semplifica al massimo la procedura seguita dal tribunale rivoluzionario. Tale legge non parla più di sospetti, ma di “nemici del popolo”. Esiste solo la presunzione di colpevolezza: basta una denuncia e non si ha diritto neppure alla difesa. Alcune volte non c’è nemmeno l’interrogatorio dell’imputato ed  inutili sono testimoni e istruttoria. Entro le ventiquattro ore c’è la sentenza: assoluzione o morte. E’ il momento che i critici chiamano del Grande Terrore, per distinguerlo da quello “ordinario” istituito dai Giacobini nel 1793.

Vediamo ora quali sono gli organi di applicazione di questo diritto penale “extra codicem” creato dai rivoluzionari della Convenzione. Schematizzando al massimo questi organi sono:

  1. il Tribunale criminale straordinario di Parigi;
  2. i Tribunali criminali ordinari;
  3. i Comitati rivoluzionari, o popolari, occupati da militanti di provata fede patriottica, istituiti in vari dipartimenti del Paese, soprattutto in quelli che ospitavano focolai di insorgenza;
  4. le Commissioni militari, incaricate soprattutto a reprimere le manifestazioni reazionarie di rilievo (come a Marsiglia, Tolone, Lione, Nantes).

Mentre con la legge sui sospetti i condannati a morte sono il 24% dei processati, ora con il “grande terrore” questa percentuale aumenta in modo vertiginoso. Lo spettacolo delle carrette della morte, adibite al trasporto alla ghigliottina, per le vie di Parigi diventa abituale.
La Rivoluzione in questo modo rinnega i diritti dell’uomo, da essa proclamati nel 1789.
Spesso la storiografia per cercare una ragione discolpante del Terrore ha parlato di “circostanze esterne alla Rivoluzione”, spiegando la spietatezza della situazione politica con l’assoluta necessità di salvare la Repubblica dai pericoli della guerra alle frontiere e da quelli di una guerra civile che minacciava di propagarsi da talune aree della Francia. Ciò però non regge perché la guerra civile è scongiurata e le frontiere oramai sono libere. E’ un tentativo di assolvere il Terrore con il ricorso allo stato di necessità, per non ammettere che la Rivoluzione si rivolge contro i diritti dell’uomo.

Per comprendere meglio la questione occorre considerare cos’è stato il governo rivoluzionario, cioè il regime politico, sotto la Convenzione giacobina e quale è stata la sua dottrina teorica.
La Convenzione nel 1793 vota frettolosamente una democratica “Costituzione dell’anno I”, che però rimarrà solo sulla carta, mai applicata. “E’ il momento in cui l’autorità pubblica non ricava la propria legittimità da una costituzione…..ma dall’essere conforme alla Rivoluzione”: così scrive il Furet. In altre parole l’espressione governo rivoluzionario allude ad una contrapposizione tra rivoluzione e costituzione. La costituzione, cioè, in quel momento è solo d’impaccio: il governo rivoluzionario ora, ancor prima dei diritti individuali, deve tutelare la salute pubblica.
“La costituzione non può essere attuata perché essa non consentirebbe la violenza necessaria a reprimere gli attentati contro la libertà”. Violenza necessaria intesa come Terrore giudiziario, dittatura centralizzata che incute la paura di morire ghigliottinati.
Gli organi di attivazione del governo rivoluzionario sono due: il Comitato di salute pubblica di dodici membri, tra i quali Robespierre e Saint-Just, che esercita la sua sconfinata autorità su tutti gli organi amministrativi, e il Comitato di sicurezza generale, delegato alle funzioni di polizia politica. Poco tempo dopo sarà il primo ad essere onnipotente, col suo dittatore Robespierre.
E’ questo dunque il governo rivoluzionario che sospende l’ordina costituzionale per poter attuare il Terrore giudiziario. E’ sulla salvezza del popolo, o meglio della salute pubblica, che si fonda il nuovo governo, dice Robespierre. Occorre chiedersi, però, cosa sia il popolo per Robespierre.
“Il popolo non si identifica con l’insieme di tutti i cittadini (come proclama la Costituzione), bensì solo dei virtuosi”, cioè di quelli che, venerando la patria, appoggiano la Rivoluzione.
“Il Terrore, pertanto, serve ad annientare fisicamente i nemici del popolo”, dunque ha una “funzione salvifica”. “Amputare la parte malata” per far si che nella libertà rinasca la “pars sana” della nazione. E’ la rigenerazione civile e morale dell’uomo, la retorica rivoluzionaria.
Qualcosa però succede: in seno agli stessi giacobini si creano fazioni e tensioni. Robespierre si sente il padrone di tutta la Francia e sente la minaccia di queste fazioni: eliminatele, solo la sua rappresenta il popolo, e lo dichiara. Aiutato da Sint-Just e Couthon compone nuove liste di proscrizione, nuovi elenchi riservati di candidati alla ghigliottina. Vuole “punire i traditori” e si dimostra un campione di cinismo nel servirsi della calunnia, dell’ambiguo gioco del sospetto, della retorica del complotto, della strategia dell’intimidazione, dell’abuso di potere. Una figura paranoica che predica una verità morale, ma che attua una condotta amorale.

E’ l’8 Termidoro. Robespierre in una sua requisitoria attacca tutti come al solito: un discorso intessuto di  minacce studiatamente velate.
Coloro i quali cominciano a temere per le loro teste, e sono tanti, capiscono che non possono più aspettare: devono reagire. Il 9 Termidoro, al grido di “abbasso il tiranno”, Robespierre è arrestato coi suoi due fedelissimi. E’ accusato di aver creato una dittatura personale: è dichiarato fuori legge e può essere giustiziato senza processo. E’ il 10 Termidoro: sul patibolo salgono lui e 22 suoi fedeli
Ora bisogna smontare il sistema del Terrore: viene liberato immediatamente circa mezzo migliaio di “sospetti” ancora detenuti; c’è il rimpasto dei due Comitati, quello di salute pubblica e quello di sicurezza generale; è abrogata la legge del 22 Pratile; sono processati alcuni attivisti del Terrore; è soppresso il Tribunale criminale straordinario di Parigi;  è chiuso il club dei giacobini; i girondini superstiti sono richiamati alla Convenzione, ora divenuta Convenzione Termidoriana.
Smontare il Terrore significa anche caccia ai giacobini: è una carneficina passata alla storia col nome di “Terrore bianco”.
Termidoro è dunque il momento di partenza che porta dal totalitarismo giacobino verso l’autoritarismo napoleonico. E’il momento che rivela la stanchezza della rivoluzione. E’ il momento del disincanto per gli ideali e i simboli rivoluzionari.
“Non è la fine della Rivoluzione, ma l’inizio della sua fine”.

Il 22 agosto 795 nasce la Costituzione dell’anno III, preceduta da una “Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino”, ove però i diritti, da cui è scomparso quello alla “felicità”, sono le attribuzioni, non più naturali, delle quali l’uomo gode in società.
Viene attribuito il voto ai maggiori di anni 21 che paghino un’imposta diretta.
La novità fondamentale è l’istituzione del bicameralismo: il potere legislativo è affidato ad un Consiglio dei Cinquecento, che in esclusiva propone leggi ad un Consiglio degli Anziani (250 membri oltre i 40 anni). Entrambi i Consigli sono rinnovati ogni tre anni.
Il potere esecutivo è attribuito a un Direttorio esecutivo di cinque membri, eletti dai due consigli, privo di iniziativa legislativa.
I ministri, meri funzionari tecnico-amministrativi, sono nominati e revocati dal Direttorio, ed ad esso sono subordinati.
Quanto al potere giudiziario, la Costituzione recita che le funzioni giudiziarie non possono essere esercitate né dal Corpo legislativo, né dal potere esecutivo. Allo stesso modo i giudici non possono interferire nell’esercizio del potere legislativo né fare alcun regolamento.
Due mesi dopo nasce il Codice dei delitti e delle pene ( in realtà è un testo di procedura penale). Dei 646 articoli di questo codice, 596 riguardano il processo.
Certo alcune norme di diritto penale sostanziale le contiene: il delitto è definito “il fare le cose che sono proibite dalla legge”.
I crimini contro la sicurezza dello Stato e gli attentati contro la Costituzione sono puniti con la pena di morte “fino a quando tale pena sussisterà”.
Il più eminente artefice di tale codice è Philippe Antoine Merlin de Douai (leggi Merlen d Duè).
Il lavoro di Marlen, giurista di primaria grandezza, è ritenuto un capolavoro legislativo dal punto di vista tecnico e teorico.
Inizia a delinearsi con chiarezza quella bipartizione tra istruttoria scritta e segreta e dibattimento orale e pubblico che costituirà un punto fermo delle successive codificazioni in materia.
Lo spirito che anima il codice è nelle parole del Merlen durante la relazione sul progetto fatta alla Convenzione: Conservare la Costituzione repubblicana che il popolo francese ha accettato. Per raggiungere questo scopo è necessario reprimere l’anarchia, stabilire il regno della legge e garantire la sicurezza delle persone e della proprietà. In poche parole conferire alla polizia e alla giustizia tutta l’attività, tutta la forza possibile….
E’ un codice garantista e Merlen vuole lasciarsi alle spalle il Terrore giudiziario.
Il codice “prelude ad una rinascita del pubblico ministero”: l’azione, essenzialmente pubblica, è esercitata in nome del popolo  da funzionari ad hoc.
La fase istruttoria è segreta ed i verbali delle deposizioni dell’accusato possono essere letti in dibattimento se emergono delle contraddizioni tra ciò che è stato dichiarato davanti al funzionario e ciò che si dichiara in aula davanti al giudice, con conseguente sanzione del teste contraddittorio. Novità importanti a favore del garantismo, come quella che attribuisce al giudice un potere discrezionale, per accelerare la verità.
Pur garantendo il diritto alla difesa, nuovi elementi di rigorismo sono introdotti per rendere più funzionale l’azione penale e reprimere in modo più efficace la criminalità, cresciuta a livelli esponenziali.

Capitolo V
I tentativi rivoluzionari di codificazione civile sino a Termidoro.

E’ all’inizio dell’estate del 1793 che, in seno al Comitato de Legislazione (48 componenti sotto la presidenza di Cambacérès) iniziano concretamente  i lavori per la redazione di un progetto organicamente compiuto di codice civile. Al fianco di Cambacérès compaiono altri giuristi, compreso Merlen, ma è lui che lavora come una bestia, lui il factotum, il motore dell’intera impresa.
In soli due mesi il progetto è pronto e viene discusso lungo sedute scaglionate tra 22 agosto al 3 novembre.
Accenniamo a qualche notizia di Cambarérès.
Un uomo astuto, retorico, arrivista. Un animale politico sempre al centro dell’attenzione, ma che si mimetizza al primo accenno di pericolo per la propria testa. Ambizioso e vanitoso, sino a quando la situazione non comporta rischi, perché è in questi frangenti che appare goffo, se non grottesco.
Basti pensare che quando è chiamato a votare dalla Convenzione sulla sorte di Luigi XVI, in un primo momento si mostra poco propenso a giustiziarlo, ma quando comincia a temere che il suo comportamento possa essere motivo di sospetto da parte degli estremisti,  sale alla tribuna e propone che il re sia ucciso entro le ventiquattro ore.
Dopo questo episodio la presenza di Cambérès nell’aula della Convenzione diminuisce di molto, sino al suo ritorno in  occasione  della discussione del suo progetto.
Il testo si presenta nella classica composizione in tre libri: persone e famiglia, cose e contratti.
Un testo impregnato delle idee giusnaturalistiche.
Dove il testo si presenta rivoluzionario è sicuramente nella sezione dedicata al diritto familiare: sparisce la patria potestà; cade la potestà maritale; divorzio semplificato; amministrazione comune dei beni dei coniugi; apertura ai figli naturali (riconosciuti volontariamente dal padre e non adulterini) e agli adottivi; trionfo della successione legittima con parità tra figli.
Quanto alla proprietà, prudentemente Cambérès non pone in discussione l’ aureola di inviolabilità conferitale nel 1789.
Il contratto è retto dalla volontà delle parti: ha forza di legge fra i contraenti.
Infine, inserisce il principio della responsabilità civile: responsabilità del fatto illecito che produce danno ingiusto.
Il dibattito scorre con poche riserve da parte dell’assemblea e sembra filare verso una rapida approvazione del progetto. Ma il 3 novembre tutto si capovolge: il suo progetto viene liquidato. E’ ritenuto troppo complesso, troppo “giuridico”: occorre una commissione di sei filosofi non giuristi per semplificarlo.
Probabilmente non è questo il motivo della sua bocciatura. Dietro c’è il veto politico del Comitato della Salute pubblica, che, spinto da Robespierre, sta varando il “governo rivoluzionario”, con tanto di Terrore giudiziario. Adottare un codice civile in questo momento significa porre fine alla Rivoluzione.
Cambérès, aiutato da alcuni giuristi, prepara il suo secondo progetto, snellendo il primo: il 9 settembre 1794 lo ripresenta alla Convenzione giacobina.
Un codice breve, divenuto quasi un terzo del precedente, sempre nella classica composizione di tre libri. Abbandonato ogni tecnicismo terminologico, le norme si presentano come epigrammi ben scanditi : I beni sono mobili o immobili; Chi causa danno è tenuto a risarcirlo…..ecco due esempi di stringatezza precettiva.
In generale questo secondo progetto riassume e radicalizza la sostanza del primo, con soli piccoli cambiamenti (un esempio è quello riguardante la potestà maritale dissolta: Il domicilio della  moglie è quella del marito).
Cambérès presenta il suo progetto con queste parole: “Tutti i diritti civili si riducono dunque ai diritti di libertà, di proprietà e di contrattare”.
Sfortunatamente però Cambérés presenta il suo nuovo progetto in un momento sbagliato, cioè  due mesi dopo la caduta di Robespierre, quando la Convenzione Termidoriana ha iniziato i suoi lavori di smantellamento del Terrore giudiziario: il progetto è ritenuto corto ed incompleto, troppo giacobino, per cui è liquidato.

La codificazione napoleonica

Capitolo I
Da Termidoro a Brumaio: verso il Code Napoléon

Il capitolo parte con una domanda sulla quale ancora  oggi si discute: il “code civil” rappresenta l’opera di quattro anni o di quattro secoli? E’ l’opera di un solo uomo o il capolavoro complessivo di più eroi?
Certamente occorreva sciogliere i legami che univano il Code civil  con la Rivoluzione: esso andava presentato, pertanto, come creazione esclusiva di Napoleone.
Un’altra cosa è altrettanto certa. Il testo del 1804 affonda le sue radici nel clima politico-culturale post termidoriano. Il Code civil, nonostante si sia cercato di tacere del lungo travaglio che conduce al testo del 1804, rappresenta davvero il frutto finale di un’opera collettiva realizzata nell’arco di un decennio.
Per voler essere più chiari: il codice del 1804 non può essere concepito, unicamente e riduttivamente, quale manifestazione della volontà di un solo uomo. Esso rappresenta invece, nel bene e nel male, il risultato del lavoro di molti “eroi”, colti e tecnici, che, come vedremo, hanno progettato quel codice che tuttora resta un mito della codificazione.

E’ il 10 Termidoro anno II. Occorre ritornare alla normalità dopo il Terrore: bisogna eliminare l’eredità del regime giacobino.
Occorre ricostruire la società stessa ed il primo luogo da riedificare è la famiglia. “Nessuno può essere un buon cittadino se non è un buon padre, un buon marito, un buon figlio”.  
La famiglia rappresenta la stabilità, per cui si crea un attacco reazionario alla legislazione giacobina: sono presi di mira il divorzio, che si pensa ottenuto con troppa facilità, la figura del pater familias, che, ubbidito dai figli e dalla moglie, deve essere ricollocato al vertice del governo domestico, e infine la figura dei figli naturali, che devono essere distinti dai legittimi (alcuni pensano di reintrodurre il termine “bastardi” per loro).

E’ questo il clima  psicologico, culturale e politico entro il quale Cambacérès e i suoi colleghi si apprestano ad elaborare  il terzo progetto di codice civile, presentato in aula il 12 giugno 1796.
Questo nuovo testo, che si presenta subito più accurato e meno compendioso rispetto ai precedenti, conserva alcuni istituti già introdotti dalla legislazione rivoluzionaria: il divorzio, visto sempre come diritto di libertà dell’individuo; il divieto di esercizio dell’azione di riconoscimento della paternità; l’atteggiamento di sfavore nei confronti del testamento. Nello stesso tempo però, impone al solo marito la gestione della comunione familiare, e cosa ancora più reazionaria, ritorna  a segnare un profondo solco tra figli legittimi e figli naturali. I primi hanno diritto, se riconosciuti dopo il matrimonio e in concorso coi legittimi, a metà della porzione ereditaria spettante a  questi ultimi (basti pensare che prima l’eguaglianza tra di naturali e legittimi era stata salutata come un atto di giustizia !!). Anche l’adozione viene ridimensionata: possono adottare solo i coniugi senza figli. Il divorzio si può ottenere solo dopo quattro mesi ed infine nella disciplina delle successioni la facoltà di disporre viene ampliata in linea collaterale.
Il progetto dunque segna un “dichiarato ritorno all’antico”. Anche stavolta però mostra essere superato dagli eventi: i deputati appaiono desiderosi  di affrontare solo le questioni in materia di divorzio e di filiazione naturale. Cambérès, deluso, getta la spugna.
Il suo progetto, però, sarà tenuto in molta considerazione negli anni a venire.

Abbiamo notato come nascono alcune radici teoriche di quello che sarà il code Napoleon: ostilità verso il divorzio e figli naturali, rinnovato favore per il testamento e riaffidamento della gestione familiare al solo marito. Sono gli anni che vanno dal 1794 al 1797.
Dal 1797 l’idea del codice civile viene abbandonata momentaneamente.
“Il progetto di codice generale non può dunque ragionevolmente fissare l’attenzione del Corpo legislativo” dice Portalis, il giurista che poi sarà scelto da Napoleone per portare a termine l’impresa codoficatoria, l’artefice del Discorso preliminare al codice napoleonico.

Spostiamoci ora nel campo del diritto penale.
Si sente l’assoluta necessità di riformare il codice penale del 1791. Il testo di Lepeletier è giudicato troppo lacunoso,  mite e utopistico: occorre abolire il principio della temporaneità delle pene e potenziare gli aspetti intimidatori.
“E’solo attraverso l’idea di una morte cruenta e disonorevole che bisogna colpire il delinquente” dicono in molti: l’aspetto umanitario e garantistico del codice penale sembra oramai lontano.
E’ un conclamato ritorno all’ancien régime.
Anche il diritto processuale è preso di mira ed è soprattutto l’istituto della giuria ad essere posto sotto accusa: i giurati, minacciati non si presentano al processo o assolvono l’accusato.
L’allarme sociale è alto e i deputati si fanno carico dell’inquietudine dell’opinione pubblica.

Cerchiamo di capire le cause di questo riflusso conservatore.
Siamo di fonte a molti politici che hanno vissuto la terribile esperienza del Terrore, che li ha segnati nell’anima: il loro, pertanto, è un giudizio di dolore.
Il 1789 aveva costituito l’avvio della felicità, ma ben presto si è passati dall’illusione al disincanto.
Si ritorna a respirare il pensiero di Hobbes: “tutto è preda di tutti”.
L’esaltazione del “buon selvaggio” era stata pura fantasticheria. Un illusione riformare e rieducare  l’uomo, attraverso le leggi, a riacquistare la propria natura; una pura follia credere di rigenerarlo con lo strumento della legislazione. Occorre invertire la rotta: l’uomo è “naturalmente” malvagio.

E’ il giudizio negativo sulla natura umana e sulla pura bontà dell’uomo, che non è solo dei giuristi. In questo periodo, infatti, gli Idéologues, stanno conducendo una violenta campagna contro Rousseau e contro il suo “contratto” (mentre elogiano Machiavelli). Per loro, l’uomo selvaggio non è  per niente buono.
Il più illustre fra gli idéologues, Cabanis, studia la natura umana attraverso l’analisi (analyse).
Per Cabalis ogni fenomeno umano deve essere ricondotto alla fisiologia, alla corporeità.
La condotta dell’uomo, però, può variare in base al sesso, al clima e soprattutto in base all’abitudine. L’uomo, infatti, disposto all’imitazione, è generalmente portato ad imitare e a reiterare certi comportamenti. Pertanto, il maestro attraverso le pratiche pedagogiche ed il legislatore, attraverso la tecnica legislativa, possono educare e governare l’uomo condizionandone le abitudini. La figura del legislature quindi assume grande importanza perché può programmare la condotta dell’uomo: è lui il Grande Burattinaio, mentre l’uomo è la marionetta.

In questo periodo iniziano anche ad essere divulgate le idee del filosofo inglese Bentham.
Dice Bentham: “Il legislatore deve guidare la condotta dei cittadini sfruttandone gli automatismi psichici”. Per capire a cosa allude occorre fare l’esempio del padre che fa testamento.
Il padre può servirsi del testamento per ottenere rispetto e gratitudine dai figli, attraverso la logica del binomio pena/ricompensa. Poco importa se i sentimenti di devozione filiale  siano indotti da un calcolo utilitaristico, ciò che conta è che la disponibile serva a dirigere le inclinazioni degli uomini e far loro acquisire nuove e buone abitudini.
Per chiarire meglio: il legislatore è chiamato ad orientare la condotta dell’ uomo  sfruttandone le pulsioni, tenendo conto che il motore principale dell’agire individuale è l’interesse.
Per far questo, però, occorre che la legge sia formulata in maniera chiara e semplice e sia dotata del requisito di “completezza”, cioè che si presenti come unica forma di diritto.

Ritorniamo ai progetti di codice civile.
E’ il 1798 e il traguardo della codificazione civile sembra raggiungibile. Una nuova commissione, presieduta da Jean-Ignace Jacqueminot, viene costituita: essa lavorerà per gradi, approvando una legge per volta (allo stesso modo opererà il legislatore napoleonico).
Prima di parlare del lavoro di questa equipe, è opportuno prendere in considerazione i tentativi fatti, in questo periodo, a titolo personale da alcuni tecnici del diritto.

Il primo di siffatti progetti viene compilato da Guy-Jean Baptiste Target, colto e celebre avvocato già dai tempi dell’ancien régime, aperto alla cultura dei lumi.
In lui si nota il clima post-termidoriano: differenze tra figli legittimi e naturali; autorità genitoriale, col potere di far incarcerare i figli indocili; la donna incapace di agire; i figli minori di 25 anni devono avere l’autorizzazione dei genitori per sposarsi; adozione solo per  i coniugi senza figli; il divorzio scoraggiato e disincentivato. Possiamo parlare dunque di un diritto di famiglia all’insegna della reazione.
La proprietà è sacra ed inviolabile, ma sorvegliata (è la tendenza che si consoliderà nel regime napoleonico).
E’ reintrodotto il carcere per i debiti.
Il legislatore deve servirsi delle pulsioni degli individui per orientare la condotta sociale. Deve entrare nel cuore degli uomini e le leggi devono rendere questi meno infelici e più utili alla società. Il legislatore deve attenersi, pertanto, solo al criterio dell’utilità.

Alla figura di Target si può affiancare quella di Jean Guillemot (personaggio già noto poiché ha fatto parte della commissione che ha redatto il terzo progetto di Cambacérès). Questi, rifacendosi a Bentham, afferma che se l’ordine regna nelle famiglie, sarà facile introdurlo anche nello Stato: occorre pertanto ristabilire la patria potestà e il testamento. L’uomo, per Giullemot, è dominato dall’egoismo, dalla ricerca del piacere, dalla violenza delle passioni e si muove solo per interesse personale. Il legislatore deve saper sfruttare questa cupidigia a favore dell’interesse pubblico.
Il testamento come mezzo ricattatore per ottenere rispetto e se ciò non basta la diseredazione: manovre squallide per il padre, ma utili.
E per finire occorre allargare il solco tra figli naturali e figli legittimi.

Ritorniamo a parlare del progetto Jacqueminot.
E’ il 21 dicembre 1799, un mese dopo il colpo di Stato del 18 Brumaio (9 novembre).
Jacqueminot presenta alla Commissione legislativa dei Cinquecento un parziale ma corposo progetto di codice civile, che rappresenta il lavoro della Commissione del 1798. Nove titoli e circa novecento articoli preceduti da un rapporto.
Nonostante sia un progetto incompleto (in quanto si sostanzia nella disciplina del diritto di famiglia, delle successioni e delle donazioni) e in più non  sottoposto a discussione, esso può essere considerato il più rilevante contributo post-termidoriano  alla codificazione civile, in quanto la maggior parte delle disposizioni in esso contenute saranno trasfuse, al limite con qualche ritocco, nel code civil.
Lo affermerà Portalis nel discorso preliminare al progetto napoleonico: “Gli utili lavori della Commissione Jacqueminot hanno indirizzato ed abbreviato i nostri”.
Occupiamoci ora del contenuto di questo progetto di codificazione.
Secondo Jacqueminot i tempi nuovi impongono la creazione di “abitudini virtuose”, richiedono l’adozione di misure legislative volte a rendere gli uomini “più facili da dirigere”.
La pace dello Stato è garantita dall’unione delle famiglie ed occorre pertanto mettere un termine allo scandalo dei continui divorzi: sono le parole usate nella presentazione del suo progetto.
Ritroviamo i canoni reazionari: restituzione della patria potestà, con possibilità di far incarcerare il figlio ribelle; il testamento per ottenere il rispetto dei figli, secondo la logica utilitaristica; la donna, in consonanza con l’atmosfera mentale e culturale del momento, posta in un soffocante stato di incapacità d’agire (non può stare in giudizio senza l’assistenza del marito, non può testare, non può donare, non può alienare o accettare senza il consenso del marito, deve seguirlo ovunque egli ritenga opportuno stabilirsi).
Per ciò che concerne il testamento, ora la quota disponibile è innalzata ad un quarto (con Cambacérès era solo un decimo).
Possiamo affermare, a questo punto, che è grazie a questo gruppo di giuristi ( Cambacérès, Target, Guillemot, Jacqueminot) se il “code Napoleon”si colloca ad un livello di assoluta eccellenza tecnica, superando per precisione, chiarezza  e rigore i codici d’area germanica contemporanei.

In conclusione possiamo dire che a partire da Termidoro prendono via via corpo taluni programmi di politica di ispirazione tipicamente reazionaria rispetto alla legislazione giacobina. Uomini di legge profondamente segnati dal Terrore, che hanno maturato convinzioni irrimediabilmente pessimistiche: Hobbes, col suo “Leviathan” offre la più convincente risposta al loro disorientamento spirituale.
Come abbiamo potuto notare il code civil non nasce dunque da un progetto, ma dai  progetti dei  quattro giuristi prima citati.
La codificazione napoleonica, pertanto,comincia spiritualmente prima di quanto si sia in genere abituati a pensare: il suo fondale ideologico è Termidoro.

Capitolo II
Il code civil

Il 18 Brumaio anno VIII (9 novembre 1799) si consuma il colpo di Stato. Napoleone rappresenta l’uomo d’ordine che la Francia aspetta dal 1795. Reputato uno “strumento docile” dai sostenitori del colpo di Stato, il Generale invece si mostra subito per quello che è: dittatore, orgoglioso e senza scrupoli. Sa manipolare le speranze e le paure  degli altri con le lusinghe, l’intimidazione o la forza. Un uomo che capisce subito l’importanza di legare a sé gli uomini.
Poiché ha compreso l’importanza di raccogliere attorno a sé gli uomini di legge, Napoleone sceglie con oculatezza i suoi fedelissimi. Sono stati professionisti della giustizia durante l’ancien régime ed hanno lo stesso “corredo cromosomico”: sono stati ad un passo dal patibolo durante il Terrore; sono contrari all’idea dell’uomo buono; ritengono essenziale il ripristino della sicurezza e dell’ordine.
Citiamo quattro famosi membri della commissione napoleonica: Jean-Etienne Marie Portalis, Jacques Maleville, Felix Bigot de Préameneu, François Tronchet. Napoleone, inoltre, mantiene nelle loro cariche presso il Tribunale di Cassazione anche alcuni famosi giuristi che si erano compromessi con la Rivoluzione: è il caso di Cambacérès, Merlin ed altri che ora di colpo esibiscono le vesti dei  “reazionari” convinti.
Tra Napoleone e i giuristi si crea un’autentica alleanza. Napoleone vuole istituzionalizzare il suo potere, i giuristi ambiscono al ritorno del loro ruolo sociale perso con la Rivoluzione.
I giuristi sollecitano il ripristino della tradizione: patria potestà, potestà maritale, testamento. Sollecitano, in definitiva, il ribaltamento della legislazione giacobina.
Le rispettive aspirazioni convergono nell’idea del code civil. Per Napoleone ciò è il mezzo per glorificare il suo trionfo, per i giuristi è il ritorno ad un monopolio di ceto. In più esso rappresenta stabilità sociale e salvataggio della tradizione giuridica. Occorre, sia per Napoleone che per i giuristi, sigillare nel code civil ciò che di positivo e di utile la Rivoluzione ha portato con sé: i postulati di libertà ed uguaglianza di fronte alla legge vi vengono proclamati.

Vediamo ora le tappe che porteranno alla promulgazione, il 21 marzo 1804, del code civil.
Il 12 agosto 1800 (24 Termidoro anno VIII) Napoleone, primo Console, incarica Tronchet, Bigot Premeneu, Portalis e Maleville di approntare “il più velocemente possibile” il codice civile. Hanno a disposizione quattro mesi, ma anche i progetti sino ad allora elaborati ed in particolare quello di Jacqueminot, che ripropongono con qualche minima variazione lessicale.
Nel mese di gennaio 1801 il progetto è pronto.
Solita tripartizione gaiana, 2400 articoli circa,  con il diritto di famiglia all’insegna della reazione. Restaurata la patria potestà; la moglie sottomessa al marito; disparità fra figli legittimi e figli naturali. A tutto ciò si aggiunge un’ulteriore virata conservatrice: l’adozione non è ammessa ed il divorzio concesso solo in pochissimi casi, previsti dalla legge. Il regime ipotecario è improntato sulla generalità e sulla segretezza.
Importantissima è la disposizione che affronta il problema del rapporto tra il codice e il diritto anteriore.  Leggiamola:
“A partire dalla pubblicazione del presente codice il diritto romano, le ordinanze, le consuetudini  generali o locali,  gli statuti,  i regolamenti  cesseranno di  avere forza di legge generale o particolare nelle materie che costituiscono oggetto del presente codice, conformemente a quanto illustrato nel libro preliminare”.

L’iter legislativo previsto dalla Costituzione dell’anno VIII prevede che il progetto di legge sia discusso prima presso il Consiglio di Stato, sotto la direzione dei Consoli, poi presso il Tribunato, composto da 100 membri, che lo discute ed emette un parere. Infine passa al Corpo Legislativo, di 300 membri, che lo approva o lo respinge, senza discuterlo o modificarlo: dopo aver ascoltato le relazioni dei consiglieri di Stato e dei tribuni ciascuno si esprime con un si o con un no.
Importante è il ruolo dei consiglieri di Stato, che discutono e limano il progetto elaborato dal famoso quartetto.
Napoleone vi partecipa spesso. Dirà nel memoriale di Sant’Elena: “la mia vera gloria non è nelle battaglie vinte, bensì nel mio codice, che vivrà in eterno”.
L’iter formativo del code civil si rileva alquanto difficoltoso, poiché il Tribunato e il Corpo Legislativo respingono alcuni titoli del codice.
Bonaparte non si perde d’animo e procede all’epurazione dei deputati più riottosi. In questo modo il codice così può procedere sino alla sua approvazione del 21 marzo 1804.

Non si può parlare del code civil se non si parla e si analizza  il celebre discorso preliminare al codice di Portalis.
Ha scritto il Beignier: “il discorso preliminare non espone come si crede abitualmente le idee contenute nel Codice, ma piuttosto quelle che il suo autore avrebbe voluto vedervi dentro”.
In tutti i modi soffermiamoci su quei passaggi del discorso che mettono in luce il desiderio del Portalis di ricucire le ferite provocate dalla Rivoluzione tentando di conciliare, mediare tra il vecchio e il nuovo.
Il nostro giurista, definito il filosofo della Commissione, conosce i classici e soprattutto apprezza Montesquieu, il pensiero del quale viene riadattato alle contingenze del momento.
Nelle parole del Portalis il codice rappresenta l’architrave della nuove società francese. Una società squassata dalla Rivoluzione, o meglio da quella parte della Rivoluzione che ad un certo punto ha perso di vista i diritti dell’uomo. In altre parole, durante al fase più radicale della rivoluzione il diritto privato è stato asservito alla ragion di Stato, concepito come diritto pubblico.
Dice Portalis:  “Ora  la Francia respira e Napoleone è il pacificatore”.
Napoleone ed il codice sono così saldati insieme: il primo ha portato la pace, il secondo la garantirà.
In che rapporto si pone il code civil rispetto alla realtà presente,  passata e futura?
Qui Portalis compie una mediazione con le sue personali convizioni.
Sì al codice, ma ad una condizione. Non si può non approfittare dell’esperienza del passato e di questa tradizione di buon senso, di regole e di massime, che è arrivata sino ai nostri giorni e che costituisce lo spirito dei secoli.
Ciò che un tempo era nuovo oggi è antico. “L’importante è imprimere alle nuove istituzioni quel carattere di permanenza e di stabilità che possa loro garantire il diritto di divenire antiche”.
Una seconda condizione per redigere un codice:  non avere l’ambizione di poter disciplinare e prevedere tutto. Poiché le lacune saranno inevitabili, solo in questo caso si potrà ricorrere al diritto naturale e alle consuetudini.
E il rapporto tra codice e giudice?
Partendo dal presupposto che il codice non possa provvedere a tutti i casi possibili, il giudice-interprete, “arbitro illuminato e imparziale” potrà decidere secondo equità.
Rassicurando gli interlocutori che non vogliono cancellare tutti i princìpi della Rivoluzione, Portalis evidenzia come sia indispensabile la figura dell’interprete per la società e per il funzionamento del codice stesso.

Quanto alla struttura del code Napoléon, esso si articola in 2281 disposizioni ripartite in un titolo preliminare e in tre libri. Nel primo viene regolata la materia dei diritti personali, del matrimonio, della filiazione, dell’adozione e della tutela; il secondo contiene la disciplina dei beni, della proprietà, dell’usufrutto, uso abitazione e delle servitù; il terzo raggruppa la normativa sulle successioni, sulle donazioni tra vivi e il testamento, i contratti e le obbligazioni, le garanzie reali delle obbligazioni, i delitti e i quasi delitti, i rapporti patrimoniali fra coniugi, i singoli contratti, l’espropriazione forzata e le cause di prelazione tra i creditori, la transazione.
Lo stile è asciutto e conciso (la sua concisione è stata elogiata persino dal celebre Stendhal).
Sul problema delle fonti i tecnici della codificazione civile cercano di realizzare una tendenziale unità fra esperienza giuridica dei paesi di droit écrit con quella delle regioni di droit  coutumier.
“Un compromesso per non rompere l’unità del sistema e non urtare tutto lo spirito generale”, scrive Portalis.

A proposito del rapporto tra giudice e legge, l’art 4 del code civil dispone che “se un giudice ricuserà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui come colpevole di denegata giustizia”. Il giudice quindi è obbligato a decidere.
Ma come deve comportarsi nel caso di una fattispecie nuova o di una lacuna realmente esistente?
Deve far ricorso all’equità, vista come ritorno al diritto naturale o agli usi accolti dalla legge positiva. Ma questo significa far ritorno all’arbitrio giudiziale dell’ancien régime: per scongiurare tale pericolo la Commissione ha predisposto adeguate contromisure al riguardo.
Il giudice pur ricorrendo al diritto naturale è vincolato alla norma. Non può pronunciarsi per via  di disposizione generale: la sentenza ha efficacia solo fra le parti.
Il giudice deve cogliere il genuino significato della norma nella sua applicazione al caso concreto, ma (art 5) se la legge è chiara deve attenersi alla lettera senza pretese di penetrarne lo spirito. L’art 7 vieta al giudice di ammettere eccezioni che non siano espressamente previste dalla legge.
Tuttavia, le disposizioni che visualizzano il giudice come ministro di equità sono cassate. Portalis cerca di difendere le sue posizioni, ma deve fare marcia indietro cercando di chiarire che l’equità a cui fa riferimento si riduce, in sostanza, ad un’equità che si ricava dalla legge.
L’art. 4 viene ad assumere pertanto un aspetto squisitamente legalistico: circostanza che fa eclissare il diritto naturale e fa decollare il  positivismo giuridico.
Così scrive Norberto Bobbio: “l’art 4 viene interpretato nel senso che si debba sempre ricavare dalla legge stessa la norma per risolvere qualsiasi controversia”.

Analizziamo ora il contenuto del codice guardando innanzitutto al diritto di famiglia e a quello successorio. La Rivoluzione, come ben sappiamo, si era scagliata contro la patria potestà ed il testamento. La patria potestà era stata vista come una limitazione della libertà dei figli, sottomessi al soffocante potere del padre, ed il testamento come strumento di ricatto effettuato dal padre per tenere a freno i figli indocili: il figlio indocile rappresentava “l’enfant” della Rivoluzione, mentre il padre il nemico di essa. La stessa Rivoluzione aveva abbattuto i privilegi dei figli maschi rispetto alle femmine, del primogenito rispetto ai cadetti, dei figli legittimi rispetto a quelli naturali. Crollato il potere maritale era nato il divorzio, reso possibile, oltre che per le sette cause riconosciute dalla legge, anche dal semplice consenso, o dalla incompatibilità d’umore o di carattere, o da una separazione superiore ai sei mesi.
Orbene, nel Codice del 1804 ritroviamo molte delle disposizioni rivoluzionarie (diritto civile, divorzio, uguaglianza successoria dei figli e diritto di costoro ad una quota legittima sull’eredità), ma Napoleone realizza una rigorosa restaurazione  della patria potestà, la puissance paternelle, vista come tramite d’autorità fra società ed individuo. Dice il Portalis: “La patria potestà è una sorta di magistratura. Il padre riassume i poteri direttivi e correttivi sino alla facoltà di far incarcerare il figlio ribelle. Inoltre, occorre la  necessaria autorizzazione dei genitori per il figlio minore dei venticinque anni che vuole contrarre matrimonio”.
Anche il testamento rinasce. Al padre è riconosciuta dal codice la facoltà di disporre di una parte del proprio patrimonio (variabile sondo i figli: ½ dell’asse ereditario se alla successione concorre un figlio solo, 1/3 se due figli, ¼ se più figli). Con siffatta quota disponibile il padre riacquista il potere di poter premiare il figlio virtuoso.
L’arretramento rispetto alla Rivoluzione si manifesta anche su altri fronti.
Per difendere la famiglia legittima si riapre la disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali. Questi ultimi sono fuori dalla società ed è scoraggiato il loro riconoscimento da parte del padre (alla società non interessa che siano riconosciuti i “bastardi”, affermerà Napoleone). Tuttavia, a loro è riconosciuta, se legalmente riconosciuti, solo 1/3 della quota spettante al figlio legittimo se concorrono con altri figli legittimi (in caso contrario la quota è più alta).
Il divorzio, visto come rimedio estremo, è ridimensionato. Esso è ammesso solo in pochi casi tassativamente previsti dalla legge. In particolare il codice ne ammette tre: l’adulterio (diverso se a commetterlo è l’uomo o la donna); condanna a pena affittiva o infamante; eccessi, sevizie o ingiuria grave. Il divorzio per mutuo consenso  può essere chiesto solo dopo due anni di matrimonio ed escluso dopo vent’anni dall’istituzione del vincolo. Non possono chiederlo gli uomini minori di 25 anni e le donne minori di 21, o se la moglie ha raggiunto i 45 anni. Occorre il consenso dei genitori o degli ascendenti di entrambi gli sposi; il consenso deve essere manifestato quattro volte nell’anno ed infine i divorziati potranno risposarsi solo dopo tre anni, con l’obbligo di riservare ai figli la metà dei beni familiari. Come si nota, tutto questo scoraggia totalmente lo scioglimento coniugale.
Ed ora la potestà maritale: l’obbedienza della moglie  al marito è un “omaggio reso al potere che la protegge”. La donna è incapace d’agire per la sua stessa costituzione. Le è impedito ogni atto giuridico di qualche importanza economico-sociale senza l’autorizzazione dl marito. Il domicilio è quello del capo, del marito. Il marito amministra tutto, i beni e i costumi della moglie. Essendo più “forte”deve proteggere il più debole. “La moglie si muove all’ombra del marito”.
Se la moglie commette adulterio, il marito  invoca questa causa per il divorzio; se a tradire è l’uomo, la moglie può chiedere il divorzio solo se il marito introduce la concubina nella casa familiare. Il tradimento della donna, presupponendo che produca effetti più pericolosi, è punito con la reclusione in una casa di correzione da tre mesi a due anni.

La disciplina della proprietà rappresenta il fulcro dell’intero codice. Dice Portalis: “La proprietà è il diritto sul quale si fondano tutte le istituzioni.  E’ l’anima di tutta la legislazione perché elemento costitutivo dello stesso essere umano”.
Ricordiamo che il famoso articolo 544, tanto esaltato dalla cultura liberal-borghese dell’ Ottocento definisce la proprietà il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta. La stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 la definiva “diritto sacro ed inviolabile”: definizione riecheggiata dai lavoratori del codice.
Occorre dire però che una più attenta lettura dei lavori preparatori del codice ci dice che i giuristi napoleonici non attribuiscono alla proprietà i caratteri di un primordiale diritto naturale che lo Stato deve riconoscere. Sottolinea Portalis: “Non è nel diritto naturale che deve si devono cercare le regole della proprietà. Essa nasce dal lavoro  in seno alla società. Essa è sacra e inviolabile certo, ma non concepita senza una legge la generi. Lo Stato deve garantirla e sorvegliarla. Lo Stato deve inoltre regolarla e limitarla. Il privato può disporre e godere dei suoi beni nella maniera più assoluta, purché non ne faccia un uso proibito dalle leggi o dai regolamenti.
Il codice, ostentando il mitico carattere dell’assolutezza della proprietà, intende così escludere ogni possibilità di rinascita del tradizionale regime signorile di dominio sulla terra.
Coloro i quali hanno acquistato i beni nazionali, con la Rivoluzione, a prezzi “politico” sono rassicurati: sparisce ogni ombra di precarietà dal titolo di acquisto di questi piccoli “nuovi ricchi”.

Veniamo ora alla disciplina dei contratti e al diritto delle obbligazioni.
L’art 1134 recita: “Le convenzioni legalmente formate hanno forza di legge nei confronti di coloro i quali le hanno posto in essere”. L’articolo sembra voler dire che è la volontà dei privati, e non la legge, che dà forza vincolante al contratto ed è di per sé norma per le parti e regola applicabile dal giudice. Possiamo dunque dire: è il  principio che i contratti, stipulati nei termini richiesti dalla legge dello Stato, obbligano le parti a rispettare gli impegni assunti.
Il timore, però, che la labile volontà degli individui non possa garantire la sicurezza dei commerci e degli affari interni allo Stato porta il legislatore a munire i contratti della stessa forza costrittiva della legge. In poche parole: ai privati è concessa la libertà di contrarre, ma il loro impegno è reso obbligatorio dalla legge statuale. Questo è nell’intuizione dei redattori del codice, al contrario di quanto ha stipulato,  l’art 1134.
L’art 1135, poi, dice che il contratto impegna i contraenti  a rispettare “oltre” a ciò che essi hanno voluto, anche “tutti gli effetti che l’equità, gli usi o la legge riconnettono all’obbligazione secondo la natura di essa.
Dice il Portalis: “Il contratto può tutto, ma ci sono regole di giustizia che sono anteriori ai contratti stessi”. E’ questa la filosofia del codice: non abbandonare ai costumi e incanalare nelle leggi la volontà dei privati, perché “senza leggi, le ingiustizie non avrebbero limiti” e “il più forte detterebbe legge sul più debole”.
E’ opportuno soffermarsi su una disposizione nell’ambito della disciplina delle obbligazioni e dei contratti. E’ dettata dall’art 1138: la proprietà può essere trasferita per effetto del solo consenso manifestato dalle parti. E’il principio del consenso traslativo: il compratore acquista il diritto di proprietà dal venditore nel momento in cui si sia convenuto sul prezzo e su la cosa, quantunque non sia seguita la consegna, né  sia stato pagato il prezzo (ricordiamo che in tempi lontani per trasferire la proprietà occorreva la consegna).
Durante l’ancien régime nei paesi di diritto scritto e in molti di diritto consuetudinario il passaggio di proprietà avveniva per effetto della “traditio ficta”, e  cioè dando per avvenuta la consegna attraverso l’inserimento nel contratto di un’apposita clausola di spossessamento. In altre avveniva con la presa di possesso nell’antica forma dell’investitura signorile. La maggior parte della dottrina continuava a ritenere la consegna essenziale per la produzione dell’effetto reale.
Ora, invece, basta il semplice consenso. Il contratto è sufficiente a trasferire la proprietà.

Ora, cerchiamo di intuire le radici filosofiche del codice civile.
Ci si chiede come mai quasi tutti i giuristi si siano lasciati suggestionare da tali orientamenti?
I giuristi appaiono persuasi che il legislatore debba conoscere essenzialmente l’essere umano in ogni suo aspetto e dirigere le sue passioni egoistiche verso l’interesse generale. Egli deve far in modo che ogni cittadino ubbidisca alle leggi credendo di obbedire alla sua volontà. Proprio perché convinti di essere conoscitori dell’animo umano i giuristi sono persuasi di poter condizionare la condotta dei destinatari delle norme. A questo serve anche il testamento: pene e ricompense nelle mani del padre. L’interesse come il timore sono l’inizio della “saggezza”.
“E’questa l’atmosfera che si respira nel Consiglio di Stato, nel tribunato e nel Corpo legislativo. Non sono tendenze antropologiche spiritualiste”.  
Sono le concezioni degli idéologues, insieme a quelle di Bentham, che fanno breccia nel pensiero dei giuristi. Ma a ben guardare l’idea che l’uomo è dominato dall’interesse e che il legislatore deve sfruttare ciò per il bene comune apparteneva anche  al pensiero di Pascal e di Domat.
In conclusione, secondo il pensiero dei giuristi del Consolato e dell’Impero gli uomini sono egoisti: spetta alla legge intervenire e dirigerne al meglio il comportamento agendo su talune passioni come il “timore” e la “speranza”. Questo è il perno dei dibattiti.

Per finire ci si chiede come mai, anche se Napoleone, ad onta delle proteste di rispetto dell’autonomia contrattuale e della proprietà privata, ha perseguito una politica dirigistica di un sovrano assoluto, e il suo codice non nasce come “carta” dell’individualismo liberale, i giuristi dell’Ottocento hanno celebrato questo codice come un monumento?
Bisogna dire che il code civil, decennio dopo decennio, ha subito trasformazioni, caricandosi di sonorità liberali e umanistiche non previste dal suo autore, grazie alla sua straordinaria capacità di flessibilità. Il code civil si è effettivamente rifatto da sé, caricandosi dei contenuti culturali e dei valori sociali propri delle realtà economiche-politiche che via via gli sono divenute contemporanee.
Del resto lo aveva detto anche Napoleone a Sant’Elena: “I codici dei popoli si fanno col tempo”.

Capitolo III
Il seguito della codificazione napoleonica.

Vediamo ora il diritto penale, dal code criminel al codice del 1810.
Siamo nel 1801. I crimini dilagano e gli amministratori pubblici sono in allarme. Il Governo nomina una commissione di giuristi ed incarica loro di presentare entro agosto un progetto di codice criminale. Il testo, rifinito molte volte, vedrà la luce solo nel 1810 e sarà promulgato il 1 gennaio dell’anno dopo.
Ai giuristi il mite codice del 1791 appare oramai inutilizzabile: adesso occorre un codice che sia altamente difensivo della dilagante criminalità. Occorre intimidire e sono da  reintrodurre: il taglio della mano prima che il boia li metta a morte per gli autori di efferati crimini; il marchio a fuoco; la confisca dei beni; le pene perpetue; la pena di morte per il furto aggravato.
Anche la cornice che deve accompagnare l’esecuzione dei giustiziati deve essere lugubre per terrificare chi assiste. I criminali, inoltre, saranno inumati il più vicino possibile al luogo in cui è stato commesso il crimine. Un cartello dispregiativo segnalerà la loro sepoltura.
Sparito l’umanitarismo di Beccaria, è il ritorno all’ancien régime ed il più ascoltato del momento è Bentham.
Questo il clima in cui prende il via il codice penale di Napoleone.
Target nella sua introduzione al codice dice: “La vera saggezza rispetta l’umanità, ma non le sacrifica la sicurezza pubblica”.
Le pene esemplari sono concepite quali irrinunciabili strumenti di controllo sociale.
L’uomo è egoista e d aggressivo: la legge deve o renderlo virtuoso o renderlo incapace di nuocere.

Tale progetto però viene messo da parte per quasi sette anni, sia perché Napoleone è impegnato militarmente, sia perché i giuristi sono divisi sul problema relativo alla giustizia penale.
Si riparte nel gennaio 1808. Le asprezze del vecchio progetto sono mitigate: la mutilazione solo nei confronti dei parricidi, il marchio solo in pochi casi, il corpo del giustiziato è reso alle famiglie. Vediamo ora il contenuto del codice.
Esso si struttura in quattro libri preceduti da cinque scarne disposizioni preliminari.
Nelle disposizioni preliminari troviamo sì il divieto di retroattività, espressione dell’irrinunciabile principio di legalità, ma Napoleone lo disattende. Il 3 marzo 1810, infatti, Napoleone istituisce delle nuove “Bastiglie”  dove incarcerare i soggetti che si ritiene opportuno non portarli davanti ai tribunali, né lasciarli liberi. Sono arrestati non solo avversari politici, ma anche i pericolosi assolti per insufficienza di prove e tanta gente contigua alla delinquenza:prostitute, imbroglioni persone senza stato e non domiciliate.
Una disposizione si colloca perfettamente nella cornice autoritaria del codice: il tentativo è punito con la stessa pena del reato consumato.
Le sanzioni vengono distinte a seconda che il reato commesso sia un crimine, un delitto o una contravvenzione. Per i crimini sono previste pene afflittive e infamanti o solo infamanti (morte, lavori forzati, carcere , deportazione, degradazione …). Per i delitti, classificati come tali in quanto comportano una pena correzionale, le pene sono minori (prigione, sorveglianza, interdizione a tempo dei diritti civili o di famiglia…). Per le contravvenzioni sono previste la prigione (da uno a cinque giorni), l’ammenda e la confisca speciale.
“Gli uomini condannati ai lavori forzati saranno impiegati nei lavori più faticosi e trascineranno una palla al piede o saranno legati a due a due”, recita l’art 15.
Come si nota il principio della temporaneità delle pene del codice del 1791 viene abbandonato.
Il codice del 1810 , rispetto al vecchio codice, abolisce solo la cella di isolamento. Sono ridotti i casi di pena di morte ma, aumentano in modo vertiginoso quelli che prevedono i lavori forzati.
Sono abolite le pene fisse: il legislatore introduce un minimo ed un massimo edittale.
I complici di un crimine o di un delitto  sono puniti con la stessa pena degli autori di questo crimine o delitto, salvi i casi in cui la legge dispone diversamente.
Passiamo ad analizzare la parte speciale.
Dalla lettura dei lavori preparatori si nota come i reati contro la “cosa pubblica” siano ritenuti i più gravi. “Tutti i delitti contro la sicurezza dello Stato sono puniti oltre che con la pena di morte anche con la confisca generale dei beni”. Inoltre, sono puniti come reati il vagabondaggio e l’accattonaggio, previsti come fatti sintomatici di pericolosità.
Difesi e tutelati la proprietà, il matrimonio civile e l’autorità del padre.
Il codice penale francese si differenzia da quello austriaco per il suo stile imperativo e per l’estrema concisione precettiva.
“Il codice penale è un patto di guerra, bisogna tremare leggendolo; bisogna che tutto sia terribile, fino allo stile impiegato per la sua redazione”.

Il problema della sicurezza sociale è allarmante: occorre riformare il codice penale, ma anche quello della procedura criminale. Dal 1802 il progetto viene lungamente rielaborato dalla sezione di legislazione del Consiglio di Stato: è promulgato il 16 dicembre 1808.
Il principale terreno di scontro concerne la giuria popolare.
Per i fautori dell’abolizione la giuria rappresenta un “elemento di disfunzione” del sistema repressivo. Anche se prima il giudizio era rimasto a lungo positivo, è col regime napoleonico che la situazione muta rapidamente. Napoleone stesso limita l’impiego della giuria, da un alto affidando la repressione dei crimini più efferati ai Tribunali speciali, sottraendoli al “jury”, dall’altro permettendo al Senato di sospendere per un periodo di cinque anni, nei dipartimenti ove ciò risulti necessario, l’attività dei giurati.
Dal 1803 la giuria è sottoposta ad aspre critiche: è l’artefice dell’impunità dei maggiori crimini. Non si possono affidare al suo giudizio le sorti dell’accusato, né tantomeno quelle della società.
Nonostante ciò, la giuria ha i suoi difensori, soprattutto fra quelli che hanno fatto parte delle assemblee rivoluzionarie. Essi replicano che i difetti della giuria sono ben compensati dai vantaggi e che l’istituto non ha potuto funzionare in condizioni di normalità. Nella giuria c’è la “certezza morale”, che pone un freno alle “intime convinzioni del giudice” entro un complesso di regole precostituite.
E’ la prima seduta: gli abolizionisti devono cedere.
L’esito di questo duro confronto si ha nel 1808. La soluzione inevitabile è quella compromissoria.
Il Consiglio di Stato dispone il mantenimento della sola giuria di giudizio, composta da cittadini estratti a sorte da una lista compilata dal prefetto, mentre le funzioni in precedenza svolte dalla giuria d’accusa vengono assunte da una Chambre de conseil (Camera di consiglio) istituita presso ciascuna corte d’appello e composta da tre magistrati togati.
Inoltre è resa stabile l’istituzione dei Tribunali speciali.

Il problema della sopravvivenza della giuria si chiude, dunque, con un accomodamento.
Ora vediamo la struttura complessiva del codice del 1808. Un codice in cui i due momenti fondamentali che scandiscono la procedura possono essere ricondotti a due modelli distinti, o addirittura contrapposti: un codice che possiamo definire “bifronte”. Una fase istruttoria ispirata ai canoni del processo inquisitorio e una fase dibattimentale caratterizzata dai requisiti propri della procedura accusatoria.
Nasce il cosiddetto “processo misto” che sarà destinato ad influenzare nell’800 e nel ‘900  larga parte degli ordinamenti processuali europei.
La fase istruttoria segna il ritorno ai modelli dell’ancien régime e più precisamente all’Ordonnance criminelle di Luigi XIV. Vediamola nel dettaglio:

  1. l’istruzione preparatoria è segreta e senza contraddittorio. Attivata dal pubblico ministero essa è condotta dal giudice istruttore. Questi ha facoltà di interrogare l’imputato, ma può nascondergli i fatti di cui è accusato. Interroga in segreto i testimoni senza comunicarlo all’indagato. L’indagato potrà avere copia dell’intera documentazione istruttoria solo alla prima udienza dibattimentale;
  2. la seconda fase è dominata  dal “principio della scrittura”, nel senso che vengono verbalizzati gli interrogatori dei testimoni (la Chambre de conseil infatti delibera l’accusa in base alla sola lettura dei verbali istruttori);
  3. questa fase della procedura si caratterizza per l’assenza del difensore e ciò rende il testo napoleonico più severo dell’Ordonnance criminelle che, anche se in rari casi, permetteva la presenza dell’avvocato difensore.

Nella fase dibattimentale, invece, si ha la conferma delle garanzie introdotte dalla legislazione rivoluzionaria. Tornano, infatti, i caratteri del procedimento accusatorio a suo tempo delineato dalla Costituente. Il dibattimento è concepito coma la fase in cui sono tutelati i diritti dell’imputato:

  1. tutto si svolge all’insegna dell’oralità. Le udienze sono pubbliche a pena di nullità;
  2. si svolge la difesa tecnica ed il contraddittorio. Imputato e difensore introducono i testi a discolpa e possono controinterrogare quelli a carico. Replicano all’accusa e a loro è concesso il diritto all’ultima parola;
  3. dopo il riassunto delle questioni da parte del presidente, i 12 giurati decidono, su loro libero convincimento, inappellabilmente sul fatto, a maggioranza.

Occorre precisare però che la distinzione tra le due fasi è meno netta di quanto possa sembrare. C’è la possibilità nella fase dibattimentale di contestare ai testimoni eventuali difformità rispetto alle dichiarazioni offerte in fase istruttoria. Inoltre possono essere lette durante la fase dibattimentale  le eventuali dichiarazioni rese nella fase istruttoria dagli assenti, che non sono pertanto suscettibili di verifica in contraddittorio. Tutto ciò determina un’inevitabile preponderanza della procedura scritta.
Non possiamo non parlare  anche della severa disciplina della detenzione preventiva, pressoché obbligatoria per i presunti autori di crimini: è l’indebolimento delle garanzie processuali.

Fra tutti i codici napoleonici quello di procedura civile, redatto troppo in fretta, è quello meno discusso.
Nel 1790 il sistema era stato molto razionalizzato e snellito. I gradi di giurisdizione erano stati ridotti a due, era stato creato il giudice di pace ed era stato accolto l’arbitrato, visto come il mezzo più ragionevole per porre termine alle liti tra cittadini. Erano stati introdotti elementi di garanzia quali la pubblicità, la gratuità del processo e l’obbligo della motivazione della sentenza.
Nell’attesa del nuovo codice di procedura civile i Costituenti avevano deciso di mantenere in vigore l’Ordonnance civile del 1667 e i regolamenti successivi.
Il rinnovamento è sentito urgente nel 1793. Occorre necessariamente semplificare la giustizia civile: senza avvocati, il giudice che delibera in pubblico ad alta voce, termine del processo entro un mese. E’ un fallimento: è peggiore del male che vuole guarire. Il cammino verso la codificazione deve riprendere il suo cammino. Un nuovo progetto del codice è pronto nel 1797: è quello di Jean Guillemot, che però si arena.
Giungiamo così al momento napoleonico.
Nel 1800 nuovi provvedimenti reintroducono la figura dell’avvocato. Nel 1802 è istituita la commissione governativa incaricata di redigere il codice: sono quattro magistrati e un docente. Il docente, che è anche avvocato, è Pigeau.
Il lavoro della commissione viene discusso nel 1805 dal Consiglio di Stato che lo suddivide in sei leggi: il 1 gennaio 1807 il codice è promulgato.
Il codice si articola in due parti. La prima disciplina la procedura davanti ai tribunali (ripartita in cinque libri),  l’altra regolamenta le procedure speciali (tre libri).
Il codice napoleonico prevede tre tipi di procedimento. Uno di fronte al giudice di pace, uno dinanzi ai giudici di primo grado e l’ultimo è quello che riguarda le procedure speciali.
Davanti al giudice di pace si svolge un processo sommario con contraddittorio delle orale delle parti. Per le materie che non sono di sua competenza, il giudice di pace funge da conciliatore tra le parti. Se non ci riesce  invita le parti a farsi giudicare dagli arbitri, e se esse si rifiutano le rimette al tribunale civile.
Il processo di fronte ai tribunali inferiori ( che diventa eventualmente l’appello per  le sentenza emesse dal  giudice di pace)  è improntato al principio della scrittura nel quale si inseriscono momenti di trattazione orale: scambio di memorie difensive scritte e arringa orale. Alla fine gli atti sono rimessi al giudice che decide (può deliberare anche senza prove). E’obbligatorio avere l’avvocato, anche se c’è la possibilità di difendersi da soli. Quest’ultima ipotesi è vietata se il tribunale si accorge che l’imputato è inesperto o poco chiaro nell’esposizione.
Le udienze sono pubbliche e le sentenze devono essere motivate.

Parliamo infine del Codice di commercio.
Occorre dire che nel momento della promulgazione del codice di commercio napoleonico, la Francia è l’unico Stato europeo che da più di un secolo ha conosciuto una vera legislazione commerciale. Basti ricordare le ordonnaces di Colbert (quella del commercio del 1673 e quella della marina del 1681) che avevano trasposto per la prima volta le consuetudini marittime e commerciali in un testo legislativo.
Occorre altresì accennare ad un tentativo di riforma dell’ordonnace du commerce avvenuto dieci anni prima della Rivoluzione, che, anche se non aveva prodotto un testo, fu preso in considerazione nella preparazione di quello del 1807.
Nel 1801 il primo progetto. Il diritto commerciale viene per la prima volta concepito in senso oggettivo: è il diritto degli atti del commercio e non il diritto dei commercianti.
Un secondo progetto è presentato nel 1803. Dopo un anno il Consiglio di Stato avvia il dibattimento che si conclude, dopo una lunga pausa,  nel 1807.
Riguardo al fallimento le soluzioni legislative sono durissime nei confronti del fallito. Per lui è previsto l’arresto immediato, salva la possibilità di poter provare una sua condotta incolpevole.
Rapido invece è il dibattito sul diritto marino.
Concludendo occorre precisare che il ruolo svolto dal codice del commercio del 1807 è stato enorme, in Francia e in Europa , per almeno due terzi del XIX secolo. Non soltanto la Francia lo ha conservato dopo la caduta di Napoleone, ma anche molti Paesi che erano stati parte dell’impero francese lo hanno mantenuto dopo il 1815, come per esempio il Regno Lombardo-Veneto, la Toscana e Genova.

    


Sin qui il riassunto, ma consiglio vivamente una attenta lettura a ciò che segue.

 

Il progetto costituzionale della Repubblica napoletana del 1799

 

“Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male […]. Quando una costituzione non riesce, io do sempre torto al legislatore; come appunto, quando non calza bene una scarpa, do torto al calzolaio”.

Così Vincenzo Cuoco efficacemente sintetizzava il proprio giudizio sul progetto costituzionale discusso e approvato a Napoli a pochi mesi dalla proclamazione della Repubblica, il quale ricalcava in modo alquanto evidente il modello della Costituzione francese dell’anno III. La critica che il Cuoco muoveva al testo napoletano era in realtà rivolta al costituzionalismo rivoluzionario italiano nel suo complesso, i cui arteficiavevano introdotto degli ordinamenti identici a quelli sperimentati in Francia senza tenere in minimo conto le esigenze concrete delle loro popolazioni, commettendo pertanto l’errore di vedere nelle costituzioni null’altro che una sovrastruttura da imporre al popolo a proprio arbitrio, anziché concepirle quali il prodotto naturale e spontaneo della sua coscienza storica. Pertanto, pur non negando che il progetto costituzionale del Pagano fosse “migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina”, il Cuoco non poteva evitare di giudicarlo comunque “troppo francese e troppo poco napoletano”.
Tale giudizio influenzò notevolmente il modo in cui la storiografia italiana, per lungo tempo, si è accostata alle cosiddette costituzioni giacobine, a lungo considerate – senza eccezione alcuna – nulla di più che delle scolastiche imitazioni dell’originale francese e, pertanto, non meritevoli di alcun interesse specifico.
La vicenda della Repubblica napoletana, però, fu nel complesso assai dissimile da quella delle altre Repubbliche sorte nel triennio 1796-1799, soprattutto per l’attiva partecipazione dell’intellettualità locale e per il maggior grado di autonomia concesso dalle autorità politiche e militari francesi al governo. Tra i numerosi patrioti meridionali che, alla notizia della proclamazione della Repubblica napoletana, partirono immediatamente da Milano – ove avevano trovato asilo politico- alla volta della capitale meridionale, vi fu l’avvocato Francesco Mario Pagano, già docente di diritto penale all’Università di Napoli e celebrato autore di importanti saggi, il quale, giunto a Napoli il 1° febbraio del 1799,venne subito invitato dal governo provvisorio a far parte del Comitato di legislazione incaricato di redigere la Costituzione della Repubblica; compito, quest’ultimo, che di fatto sarà svolto in via esclusiva proprio dal Pagano.   

Il 1° aprile 1799, Pagano diede alle stampe il progetto di Costituzione dopo aver lavorato nei due mesi precedenti a modificare le leggi borboniche. Ispirato da Filangieri e Campanella, Pagano aveva abolito i fedecommessi con i quali i patrimoni feudali passavano al primogenito senza che la proprietà possa essere divisa e diffusa in favore di tutta la società; abolì le servitù feudali, il testatico (una tassa demenziale imposta per il solo fatto di esistere attaccata da Campanella oltre due secoli prima); abolì la tortura e le carcerazioni segrete; abrogò tutte le tasse sugli alimenti popolari. Inoltre la sua riforma complessiva di tutto l’ordinamento giudiziario, previde che ogni cittadino fosse dotato di difesa legale anche non potendosi permettere un avvocato.

La Costituzione della Repubblica Partenopea doveva essere stesa da una commissione di cinque giuristi di cui fece parte anche il nostro Mario Pagano. Oggi sappiamo con certezza che il filosofo di Brienza (PZ) la scrisse interamente da solo. Il progetto costituzionale anche se ispirato al modello francese ha una propria impronta; si può dire che fosse più napoletana che francese.
La prima parte è dedicata ai diritti e doveri. A differenza della “Carta dei diritti” francese non include i soli diritti dell’uomo ma anche quelli del popolo, del cittadino e dei magistrati. I diritti sono elencati come norme legislative e non come indicazioni di tipo filosofico e morale, come in Francia. La carta dei doveri è del tutto nuova: si ispira al pensiero napoletano del Settecento (Genovesi e Gravina) e non a Robespierre il quale si rifiutò di inserire anche i doveri nella propria costituzione, per paura che potesse essere restaurata una sorta di autorità; i doveri saranno inseriti in Francia solo nel 1795. Pagano, ispirato dalla concezione del Genovesi e non da quella francese del ’95, sostiene che l’uomo in quanto portatore di istanze morali, se deve essere libero, deve farsi portatore di doveri. I doveri nascono dal principio di uguaglianza; poiché tutti gli uomini sono uguali e simili tra di loro, ciascuno deve comportarsi nei confronti dell’altro come si comporterebbe verso di sé: deve avere lo stesso senso di solidarietà e gli stessi affetti che ha verso se stesso. Sono presenti il dovere del rispetto verso l’altro, di soccorrere gli altri e nutrire i bisognosi. L’articolo 20 ci sembra quasi precursore del pensiero mazziniano: “E’ obbligato ogni uomo d’illuminare e d’istruire gli altri”. L’articolo 26 ci mostra invece il dovere dei Funzionari, dunque chi detiene il governo dello Stato: “Ogni pubblico Funzionario deve consecrare sé, i suoi talenti, la sua fortuna, e la sua vita per la conservazione e per lo vantaggio della Repubblica”. Il cittadino deve, con le proprie opere, collaborare al mantenimento dell’ordine sociale. Per questo ha obbligo di prestare servizio militare.
Sono interessanti due diritti fondamentali: quello dell’uomo a migliorarsi (art 2) e quello del cittadino ad essere premiato in proporzione ai suoi meriti (art 11).

Un altro aspetto intorno al quale è possibile ravvisare nel Progetto costituzionale napoletano il contributo originale del pensiero del Pagano è il tema dell’educazione pubblica. Difatti,  mentre la Costituzione termidoriana si limitava ad occuparsi della sola “istruzione”, il titolo X del Progetto riguardava al tempo stesso la “educazione e la istruzione pubblica”. Il Pagano, pertanto, riteneva che la Repubblica dovesse dedicare tutte le sue cure al problema dell’educazione, mentre la Costituzione francese - così si legge nel Rapporto – pur non avendo negletta l’istruzione, aveva avuto riguardo più alla parte intellettuale di essa che a quella morale, cioè all’educazione vera e propria. E in altro passo il Pagano, dopo aver sostenuto l’influenza decisiva dell’educazione sulle stesse istituzioni politiche, rimproverava al Montesquieu di non aver saputo comprendere che l’educazione dovesse essere parte integrante della Costituzione. Nel Progetto, chiara è dunque la distinzione fra l’educazione pubblica - che comprendeva “esercizi ginnici e guerrieri”, lo studio del catechismo repubblicano, spettacoli teatrali volti a “promuovere lo spirito della libertà”; è peraltro da ricordare che il Pagano fu egli stesso autore di drammi patriottici), nonché delle “feste nazionali per eccitare le virtù repubblicane” -  e l’istruzione che comprendeva invece lo studio di tipo nozionistico e che doveva essere impartita nelle scuole primarie e superiori. L’importanza attribuita dal Pagano all’educazione pubblica è infine testimoniata dall’avere egli indicato, nell’ambito dei doveri dell’uomo, il “dovere di istruire e gli illuminare gli altri”, ritenendo che tale dovesse essere il compito di ogni uomo colto.

Passiamo ora ad esaminare gli articoli relativi all’organizzazione dei poteri dello Stato. Nel Rapporto del Comitato di legislazione al governo provvisorio redatto dallo stesso Pagano con lo scopo d’illustrare i principi-cardine del suo progetto costituzionale, il giurista affermava che quella che la Repubblica napoletana si apprestava ad adottare era senz’altro “la costituzione della madre repubblica francese”, ma aggiungeva che il Comitato di legislazione “riflettendo che la diversità del carattere morale, le politiche circostanze e ben anche la fisica situazione delle nazioni richiedono necessariamente de’ cangiamenti nelle costituzioni […]”, aveva deciso di apportare talune modifiche alla Costituzione della “repubblica madre”, non soltanto riguardo al modo d’intendere la libertà e i diritti dei cittadini, ma anche relativamente all’organizzazione del potere.
Anche nell’organizzazione giudiziaria la Costituzione napoletana si discostava da quella francese, giacché per evitare spese e spostamenti, disponeva che gli appelli nei giudizi civili si presentassero non al tribunale di un altro dipartimento (come prevedeva il testo francese), ma a una diversa sezione dello stesso tribunale; variazione giustificata dal Pagano con l’osservazione che il sistema francese fosse “fuor di dubbio incomodo assai e dispendioso ancora ai litiganti, soprattutto ai poveri che si dovranno recare per ottenere giustizia nella centrale di un dipartimento per più giorni forse distante dal luogo della loro dimora”.

Alla preminenza data dal Pagano, come abbiamo avuto modo di osservare,  all’educazione, si ricollega l’istituto della Censura, del tutto assente nella Costituzione del Direttorio.
La censura serve a prevenire gli attacchi alla democrazia e che i costumi sfarzosi non prevalgano sulla miseria e giungano ad offendere il cittadino.
L’esigenza di porre in essere degli efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di usurpazione del potere, costituisce inoltre il fondamento ideologico di quella che, fra le numerose novità introdotte dal Pagano nel suo Progetto rispetto al modello francese, è forse la più politicamente rilevante: l’Eforato, organo che lo stesso Cuoco non poté fare a meno di definire “la parte più bella del Progetto del Pagano”. Tale istituto (il cui nome rievoca quello di una magistratura dell’antica Sparta) era disciplinato dal titolo XIII del Progetto al quale era stata data dal Pagano l’intitolazione di “custodia della Costituzione”
Gli efori invece devono vigilare sull’equilibrio ed il regolare funzionamento dei tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo e giudiziario; sono i garanti della Costituzione.
Al fine di svolgere equamente tale funzione di “bilancia dei poteri” è pertanto indispensabile che la carica di membro dell’Eforato sia incompatibile con qualsiasi altra funzione pubblica e che gli efori non possano in alcun modo, neanche per mezzo di delegati, esercitare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario.

 

                                                                                                                                Franco

 

 

Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/1anno/Italiano/Riassunto%20Storia%20del%20diritto%20italiano%201.doc

e http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/ITALIANO%202/Storia%20del%20dir.%20italiano%202%20-parte%202-.doc

e http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/ITALIANO%202/Storia%20dir.%20Italiano%202%20-terza%20ed%20ultima%20parte-.doc

Sito web da visitare: http://studiando.altervista.org/

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