Riassunto storia della letteratura italiana

Riassunto storia della letteratura italiana

 

 

 

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Riassunto storia della letteratura italiana

BREVE STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA E RIASSUNTI DEI SUOI AUTORI

 

Produzione letteraria in lingua italiana a partire dal XIII secolo, quando diverse forme di dialetti regionali

si danno una forma colta e iniziano a essere utilizzati nella redazione scritta di testi con evidenti finalità di

comunicazione artistica.

 

Agli inizi del Duecento, nella penisola italiana la lingua colta era il latino, mentre nella vicina area francese

si erano da tempo sviluppate delle letterature in lingua d'oce lingua d'oïl, cioè rispettivamente la linguaprovenzale e la lingua francese. È quindi comprensibile come l'avvio della produzione di testi letterari in volgare sia stato segnato da influenze linguistiche e tematiche di quelle letterature, oltre che dai modelli

persistenti del latino. E infatti la letteratura italiana si sviluppò in ambienti caratterizzati dalla cultura

retorica e giuridica latina. Inoltre il particolarismo politico e l'assenza iniziale di centri culturali omogenei o

capaci di un'egemonia costruttiva videro la nascita e lo sviluppo di volgari molto diversi tra loro nel

sistema linguistico, anche se presto si sarebbe delineato il primato della lingua e dei modelli toscani.

 

Dalle origini al Trecento

 

Gli influssi delle scuole di retorica latine, oltre che dei volgari di Francia, sono già visibili nella prima

esperienza di una lirica d'arte in volgare, dispiegatasi in Sicilia tra il 1230 e il 1266 alla corte sveva di

Federico II e di suo figlio Manfredi. Non a caso la scuola siciliana nacque a Palermo presso la corte del

centro politico più importante in Italia, allora in contatto con varie culture compresa quella araba. I "poeti"

erano funzionari di corte (notai, avvocati, giudici) dotati di un'ottima formazione retorica e in grado quindi

di comporre in volgare utilizzando la lingua locale modellata sull'illustre esempio del latino per riproporre

la tematica d'amore cortese secondo le forme della poesia trobadorica. I poeti più famosi di questa

scuola sono Giacomo da Lentini, cui è attribuita l'invenzione del sonetto (la forma metrica più importante

della tradizione italiana), Guido delle Colonne, Pier della Vigna, Stefano Protonotaro, Giacomino

Pugliese, Rinaldo d'Aquino. Pochissimi tuttavia sono i testi siciliani ancora oggi conservati in forma

originale. L'unico testo completo è una canzone di Stefano Protonotaro; il resto della produzione è giunto

a noi attraverso le copie fatte da amanuensi toscani. La fine della monarchia sveva con la battaglia di

Benevento (1266) segnò anche la fine dellamagna curia , l'ambiente politico e culturale in cui prese vita

la scuola siciliana.


La sua eredità fu ripresa in Toscana da un gruppo di poeti (il lucchese Bonagiunta Orbicciani, il

fiorentino Chiaro Davanzati) tra cui il più autorevole è Guittone d'Arezzo, che non soltanto trattò la lirica

d'amore secondo i modelli provenzali, ma adattò la canzone alla tematica morale e a quella politica,

fornendo in questo ambito un punto di riferimento per gli sviluppi successivi.

 

Nell'Italia settentrionale, a parte l'uso del provenzale come lingua poetica (Lanfranco Cigala, Sordello da

Goito e altri), si diffuse con successo la letteratura cavalleresca in lingua d'oïl, presto adattata ai volgari

locali con la costituzione di una narrativa, trasmessa in un ibrido linguistico, denominata letteratura

franco-veneta. I volgari settentrionali vennero impiegati inoltre per testi poetici di tipo didattico e

moraleggiante, come quelli di Giacomino da Verona, Uguccione da Lodi e del milanese Bonvesin de la

Riva.

 

Nell'Italia centrale, parallelamente alla diffusione di movimenti religiosi (contano in particolare, sul

versante letterario, quello dei flagellanti a Perugia e quello francescano), si diffuse una lirica religiosa. Il

testo più antico, precedente anche all'esperienza volgare siciliana, è ilCantico delle creature (detto

ancheCantico di frate Sole , forse del 1225) di san Francesco.

 

Seguì una vasta produzione, spesso anonima, di laudi, che si diffuse dall'Umbria nelle regioni vicine, dove

Particolarmente dipendente dalle scuole di retorica (come quella del bolognese Guido Faba) è all'inizio

l'elaborazione di una prosa volgare, legata ai modelli delcursus . La prosa fu impiegata nei

volgarizzamenti specie dal latino (ad esempio,Storie de Troia e de Roma

). Tra questi, rilievo particolare

assume laRettorica del fiorentino Brunetto Latini, che è volgarizzamento di parte delDe inventione di

Cicerone, destinato a fornire un modello di linguaggio alla classe dirigente in via di formazione all'interno

della civiltà comunale. Dal francese si tradussero invece soprattutto romanzi del ciclo bretone. Ma, verso

la fine del Duecento, comparvero importanti esempi di prosa narrativa oppure scientifica originale come –

rispettivamente – ilNovellino e laComposizione del mondo di Ristoro d'Arezzo.

 

Il Dolce stil novo

 

Sempre alla fine del secolo si configurò la fondamentale esperienza poetica di un gruppo di giovani,

perlopiù fiorentini, che, riprendendo la lezione del bolognese Guido Guinizelli, elaborarono un nuovo stile


(il Dolce stil novo) capace di reinterpretare la tematica amorosa di tipo cortese sulla base di un retroterra

scientifico e filosofico più ricco e moderno, con attenzione alla dimensione culturale e psicologica del

mondo cittadino comunale e, più in particolare, con una sensibilità linguistica più musicale e

coerentemente tenuta sul registro del piano e del "dolce".

 

Alla costituzione del nuovo gusto e alla coscienza delle novità espresse dettero un contributo decisivo i

fiorentini Guido Cavalcanti e Dante. Questi narrò nellaVita nuova la sua storia ideale dell'amore

(costruita secondo le tappe dell'amore mistico verso Dio) e offrì un modello raffinatissimo di prosa d'arte,

quale connettivo delle varie liriche del testo. Il più giovane Cino da Pistoia concluse questa esperienza

stilnovistica aprendo la strada alla lirica di Petrarca.

 

Ancora in Toscana, a fianco dell'esperienza stilnovistica, si sviluppò un altro filone poetico, di tipo

realistico e burlesco (tenuto cioè su un registro espressivo non più "tragico", bensì "comico") e destinato a

un pubblico più ampio. Spiccano in quest'ambito i nomi del senese Cecco Angiolieri e di Folgòre da San

Gimignano. Ma la figura dominante, al punto da essere considerato il padre della lingua italiana, è Dante

Alighieri.

 

Dante, Petrarca, Boccaccio

 

Eccezionale sperimentatore di linguaggi, stili e generi letterari, Dante scrisse sia in volgare sia in latino, ma

affermò il primato del volgare come lingua letteraria anche attraverso il ripensamento dell'esperienza

poetica del Duecento compiuto nelDe vulgari eloquentia (1303-1305), trattato incompiuto di storia

della lingua, di retorica e di stilistica. Dotato di cultura enciclopedica, espresse nelConvivio (1304-1308)

l'intenzione di divulgare il sapere oltre la cerchia ristretta dei "chierici", gli intellettuali tradizionali, trattando

in volgare argomenti scientifici e filosofici. NelMonarchia (cui lavorò dopo ilConvivio ) Dante afferma la

separazione dei poteri tra Chiesa e Impero nelle rispettive sfere di competenza. L'idea di riproporre un

sapere enciclopedico sotto forma di viaggio verso la salvezza (viaggio in cui si proietta il mondo terreno

nell'aldilà e si commisura il disordine terreno all'ordine celeste) viene sviluppato nellaCommedia , poema

in terzine di endecasillabi, iniziato verso il 1307. E la terzina, come forma metrica, sarebbe stata

continuamente riproposta nel corso dei secoli fino a tutto il Novecento.

La fortuna di quest'opera

consentì la diffusione del toscano oltre l'ambito regionale, specie nelle aree settentrionali. Nonostante la

genialità di Dante e la ricchezza del suo plurilinguismo sperimentale, gli orizzonti mentali sono quelli del


A una nuova concezione della cultura e dell'uomo si aprì Francesco Petrarca attraverso un lavoro

appassionato e pionieristico di recupero della cultura classica e della lingua latina antica, sia di quella

ciceroniana (vagheggiata nel suo vasto epistolario) sia di quella virgiliana (riproposta nel poema in latino

Africa dedicato alla funzione civilizzatrice di Roma). Petrarca scrisse tutte le sue opere in latino con due

sole eccezioni, ma una di queste, ilCanzoniere , è opera di importanza fondamentale nella storia letteraria

italiana. Egli infatti, rielaborando il linguaggio della tradizione stilnovistica, riuscì a trasferire la sua

complessa introspezione psicologica e sentimentale in forme così perfette da costituire un modello

vincolante per secoli (grazie anche alla consacrazione cinquecentesca delle sue liriche) e da perpetuare

una tradizione di monolinguismo poetico fino a epoche recenti.

 

Meno rigoroso nelle scelte, ma più aperto alla comunicazione con un pubblico borghese, appare il

toscano Giovanni Boccaccio. ColDecameron egli impresse nelle forme narrative della prosa un incanto

comunicativo e, insieme, una forza di oggettivazione magica della realtà che le resero per secoli un

modello e un canone per la prosa, svolgendo la stessa funzione che Dante per un verso e Petrarca per un

altro svolsero nella lingua poetica.

 

Le opere di questi tre grandi del Trecento sono tutte scritte in volgare toscano, cioè la lingua destinata,

grazie anche alla funzione di canone delle opere stesse, ad affermarsi in Italia a scapito delle altre varianti

regionali e locali, che con rare eccezioni rimarranno compresse fino al Novecento, in una situazione

culturale completamente cambiata. Minori del Trecento

Anche per l'esempio trascinante del Boccaccio, la novellistica ebbe un grande sviluppo nel Trecento e

l'opera migliore è ilTrecentonovelle di Franco Sacchetti. Ricca è anche la letteratura in prosa, che

registra e riflette l'evoluzione della società contemporanea, e ancora una volta i testi migliori sono di area

toscana, grazie anche alla curiosa vitalità del mondo mercantile comunale: sono laCronica delle cose

occorrenti ne' tempi suoi di Dino Compagni, laCronica di Giovanni Villani, concepita come

espressione della famiglia Villani e continuata dal fratello e dal nipote, iCommentari del tumulto dei

Ciompi , attribuita a Gino Capponi (1350 ca. - 1421) e, fuori Toscana, l'anonimaCronica in dialetto

romanesco, di cui una parte è nota col nome diVita di Cola di Rienzo .

 

Nel quadro della produzione volgare del Trecento occorre considerare anche la letteratura devota,

molto diffusa e capace di forte comunicazione popolare: loSpecchio di vera penitenza del domenicano


fiorentino Jacopo Passavanti, l'Epistolarioe ilLibro della divina dottrina di Caterina da Siena e il

volgarizzamento di vite di santi del domenicano pisano Domenico Cavalca.

 

LaCommedia di Dante favorì lo sviluppo di una poesia didascalica e dottrinale, di cui gli esponenti

principali furono Francesco Stabili detto Cecco d'Ascoli col poema in sesta rimaAcerba , e Fazio degli

Uberti col poema allegorico in terzine ilDittamondo . La tradizione cortese e giullaresca combinata con

la lezione dei "poeti comici" e degli aspetti comici del linguaggio dantesco trovò la sua espressione

migliore nella ricca produzione nel banditore del Comune di Firenze Antonio Pucci, che fu anche uno dei

primi autori di cantari. Il Quattrocento

L'affermarsi dell'Umanesimo e il recupero dei testi classici vissuti come modelli di letteratura e di vita da

una parte rafforzarono l'educazione letteraria, svilupparono una nuova coscienza storica, dettero vita alla

scienza moderna della filologia, e dall'altra contrassero lo sviluppo della letteratura volgare a beneficio di

La letteratura in volgare della prima metà del Quattrocento, molto ridotta sul piano della quantità e

modesta nei risultati, continuò nella sostanza la tradizione trecentesca.

Nella lirica proseguì l'imitazione

petrarchesca, diffusa anche fuori Toscana. In quest'ambito, particolare rilievo hanno le liriche dal raffinato

andamento popolareggiante del veneto Leonardo Giustinian, che impiegò un fondo dialettale veneto

reimpastato sul modello toscano. In Toscana i risultati più originali sono i sonetti del fiorentino Domenico

di Giovanni detto il Burchiello, che riprese la tradizione dei "poeti comici" sviluppando il gusto delle

associazioni fino ad approdare alnonsense .

 

La letteratura religiosa continuò con i sermoni del predicatore francescano san Bernardino da Siena, ma

soprattutto con le laudi e le sacre rappresentazioni (Feo Belcari), che si svilupparono a partire dalla metà

del secolo e che videro anche il contributo di scrittori laici come Lorenzo de' Medici.

 

Nel corso del Quattrocento continuò la fortuna dei cantari, che non vennero più destinati unicamente alla

recitazione, ma acquistarono una dimensione letteraria e, per questa via, si aprirono alla nuova forma del

poema cavalleresco italiano a partire da Luigi Pulci. La ripresa del volgare

Il linguaggio del sapere umanistico fu per tutto il secolo il latino, e i testi in volgare rispondevano, come


nel caso di Ficino (Sopra lo amore ovvero Convito di Platone), all'intenzione di assicurare una più

ampia divulgazione. Tuttavia, poiché nella Firenze umanistica la funzione sociale e di civile convivenza del

linguaggio era molto sentita, a partire dalla seconda metà del XV secolo il rapporto subalterno del

volgare rispetto al latino aveva cominciato a rovesciarsi. Fatto emblematico ne è il "certame coronario"

indetto a Firenze nel 1441 da Leon Battista Alberti per rilanciare la dignità letteraria del volgare. Ed è

significativo anche il fatto che questo artista abbia scelto il latino per i suoi scritti più personali e il volgare

per quelli attinenti alla dimensione civile e sociale. Certo è che nel secondo Quattrocento si verificò,

ancora a Firenze, una grande fioritura della poesia volgare.

 

La continuità della tradizione fiorentina popolare, a cominciare da quella dei cantari, è rappresentata, in

modo originale, da Luigi Pulci, che dette la massima prova del suo bizzarro ingegno in un poema eroico, il

Morgante , composto infatti di ventotto cantari. Egli, appartenente alla cerchia medicea, fu spesso ai

limiti dell'eresia sul piano ideologico, e aperto a uno sperimentalismo disinibito sul quello linguistico. Un

registro linguistico amplissimo, capace di riprendere e riproporre la tradizione toscana, caratterizza le

opere di generi e stili diversi di Lorenzo de' Medici, che seppe rivitalizzare gran parte della tradizione

volgare. A lui spetta anche il merito di aver organizzato a Firenze il centro culturale più ricco di fermenti

culturali nell'Italia del suo tempo. Figura fondamentale per i destini del volgare letterario fu il Poliziano,

scrittore perfettamente bilingue che innestò sul volgare letterario del Trecento il sistema linguistico del

latino e fissò così, soprattutto con leStanze per la giostra (1475-1478), un modello linguistico e stilistico

destinato a durare e a concorrere alla costituzione del classicismo letterario. Importante è anche la

Favola di Orfeo (1480), la prima opera laica del teatro italiano (e "favola" ha qui il valore tecnico di

"rappresentazione teatrale"), anche se costruita secondo i modi strutturali della sacra rappresentazione.

 

La vitalità del volgare non riguarda solo l'area toscana. Nell'Italia padana si sviluppò una letteratura

aristocratica e cortigiana che, pur facendo riferimento alla più autorevole tradizione toscana, mostrava un

libertà nelle scelte linguistiche degli stili e dei temi che costituirono un retroterra per le successive

formazioni mistilingui di tipo maccheronico e pedantesco. Il centro più creativo dell'area padana fu la

Nell'area meridionale dell'Italia ebbero rilievo le esperienze della Napoli aragonese. Qui alcuni umanisti si

erano raccolti nell'Accademia fondata dal palermitano Antonio Beccadelli detto il Panormita


(1394-1471) e guidata, dopo la sua morte, da Giovanni Pontano.

Quest'ultimo, lo scrittore di maggior

rilievo del gruppo di umanisti, scrisse le sue numerose opere in latino, ma offrì una lezione di umanesimo

antiretorico e capace di interpretare il presente. L'altro grande scrittore della Napoli aragonese fu Iacopo

Sannazzaro: con l'Arcadia, opera mista di prosa e di versi, fondò un paesaggio spirituale che nel

Settecento avrebbe avuto fortuna europea. La ricerca linguistica del Sannazzaro era orientata verso il

pubblico più vasto delle corti italiane e dunque muoveva in una direzione antiregionalistica. Tracce

dialettali, nonostante l'invasività delle forme toscane, si trovano invece nella prosa delNovellino

(pubblicato postumo nel 1476) di Tommaso Guardati detto Masuccio Salernitano.

 

In ogni caso, se la prosa volgare dell'inizio del Quattrocento mostrava chiaramente tracce dell'area di

provenienza, alla fine del secolo il processo di omogeneizzazione linguistica rendeva quelle tracce

sbiadite, a meno che non ci fosse l'intenzione di marcare una particolare tradizione espressiva locale.

 

Il Cinquecento

 

Il secolo del Rinascimento è un secolo non soltanto ricchissimo sul piano della produzione letteraria eartistica, ma anche complesso e di contrastante fisionomia. È il secolo in cui maturarono i frutti delle conquiste e perfino delle utopie (linguistiche) dell'Umanesimo, in cui si consolidò un sistema normativo

relativo ai generi letterari e alle regole interne a ciascun genere, in cui, attraverso la questione della lingua,

si definì un canone linguistico destinato a durare a lungo. Il volgare si istituzionalizzò come "nazionale"

(cioè valido per tutto il territorio della penisola), definì le regole della propria identità (con una

grammatica) e divenne "l'italiano", tanto che le parlate regionali regredirono a dialetti. La cultura del

Cinquecento fu una cultura fondamentalmente laica che ebbe nelle corti i suoi principali centri di

produzione. Luoghi di grande aristocraticità intellettuale le corti signorili dell'Italia rinascimentale

svilupparono la tendenza a dare una rappresentazione idealizzata della realtà. Eppure è anche il secolo in

cui, soprattutto a partire dalla seconda metà, si manifestarono inquietudini espressive nuove (età del

manierismo), in cui ai canoni del classicismo aristocratico si contrapposero sperimentalismi radicali con la

costruzione di ibridi linguistici, in cui la lingua letteraria toscanizzata subì la sfida di scritture dialettali, in cui

la Chiesa riprese il controllo della cultura e lo esercitò in modo da vincolare ancora di più a un'ortodossia

espressiva intellettuali che dipendevano – e introiettavano la dipendenza

– dai vari mecenati, mentre si esibivano gli avventurieri della penna.

 

Almeno due elementi, tuttavia, caratterizzano tutta la letteratura (ma anche l'arte) del Rinascimento: la


tensione verso l'equilibrio e la perfezione formale, ricercati adattando i modelli classici alla lingua volgare

e rendendo quest'ultima il più possibile simile alle lingue antiche (fissate cioè in forme letterarie e separate

dal parlato); e la tendenza alla codificazione, cioè la tendenza a fissare codici di comportamento letterario

(e non solo) validi per tutti i ceti colti presenti nei centri di cultura, vale a dire le corti delle signorie

italiane. Questi due elementi costituiscono quello che si chiama il "classicismo".

Il primo Rinascimento

 

Nella prima metà del secolo un evento fondamentale per il destino (almeno fino all'età del Romanticismo)

dell'italiano letterario fu la sua riduzione entro il rigido ambito dei testi scritti, con l'eliminazione del parlato

e l'emarginazione dei serbatoi linguistici regionali, per poter così meglio garantire l'ortodossia linguistica.

Questa scelta prevalse a conclusione di un grande dibattito sulla questione della lingua, quando si impose

il canone propugnato dal veneziano Pietro Bembo, che è anche l'autore della prima vera grammatica della

lingua italiana contenuta nelleProse della volgar lingua (1525). Secondo tale canone, venne stabilita la

superiorità del fiorentino degli scrittori del Trecento e si indicarono come modelli della poesia e della

prosa rispettivamente Petrarca e Boccaccio, così come nella lingua latina si erano stabiliti come modelli

Virgilio e Cicerone. Le altre due soluzioni proposte, all'interno del dibattito sulla lingua, erano quella di un

ibridismo cortigiano (cioè la lingua letteraria intesa come risultato degli apporti delle corti delle varie

regioni d'Italia) e quella del toscano parlato. La discussione sui canoni e sui modelli linguistici rientrava in

una tendenza più generale, razionalistica e regolistica, del Rinascimento (tipica quella della definizione dei

generi letterari) e si esprimeva in un gusto normativo che investiva le varie sfere del comportamento

dell'intellettuale, che coincideva col cortigiano. Questo gusto razionalistico anima due trattati importanti: il

Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione e ilGalateo (1558) di Giovanni della Casa. Entrambi i

testi ebbero una grande fortuna in ambito europeo, specie in Spagna e in Inghilterra, e contribuirono alla

formazione del perfetto gentiluomo. La poesia e la prosa

Nell'ambito della lirica, territorio di dominio petrarchesco, spiccano leRime (1558) del già ricordato

Giovanni della Casa, pervase da un'inquietudine nuova e capaci di registrare le dissonanze della vita

attraverso un uso originale dell'enjambement. Accenti personali hanno anche le rime di Michelangelo

Buonarroti, nelle quali l'imperfetta disciplina letteraria mette meglio in evidenza il temperamento


dell'autore, meno cedevole verso le convenzioni liriche del tempo.

 

Nella società cortigiana del Cinquecento la donna acquistò un peso maggiore che in passato e contribuì

alla vita culturale. Le scrittrici adottarono il linguaggio petrarchesco, il codice lirico dominante,

impiegandolo come strumento di comunicazione sociale, oltre che come espressione personale. La loro

appartenenza a regioni diverse documenta la diffusione del petrarchismo attraverso Bembo: romana era

Vittoria Colonna, emiliana Veronica Gambara, lucana Isabella Morra (1520- 1546) e veneziana Gaspara

Stampa.

 

La letteratura del Rinascimento toccò i vertici, nell'ambito della poesia e della prosa, con tre autori di

grande forza e originalità: Ariosto, Machiavelli e Guicciardini. Ludovico Ariosto, con l'Orlando furioso

(iniziato come continuazione, nella stessa corte, dell'Orlando innamoratodi Boiardo), trasformò la

materia cavalleresca, che era genere di largo consumo negli ambienti cortigiani e popolari, in una sorta di

racconto fantastico capace di interpretare l'uomo, la sua natura, i suoi comportamenti, racconto di ironica

leggerezza che disvela e insieme accetta l'irrazionale, la forza del sogno e la normale realtà dei singoli. Le

tre edizioni dell'opera (1516, 1521, 1532) documentano la sofisticata elaborazione del testo a piena

realizzazione dei principi linguistici di Bembo: il fatto che la lingua letteraria come toscana sia stata

teorizzata da un veneto e realizzata da un ferrarese è una delle dimostrazioni dell'accettazione a livello

nazionale del primato toscano. Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini ampliarono la funzionalità

La definizione dei generi letterari passò attraverso un dibattito contiguo alle discussioni sulla lingua e ai

dibattiti su poetica e retorica, attraverso i quali prese avvio la critica letteraria. Una forte spinta alla sua

configurazione fu data da una prima traduzione latina (1498) dellaPoetica di Aristotele, a opera di

Giorgio Valla, e da una seconda (1536) di Alessandro de' Pazzi, accompagnata dal testo originale di

Aristotele. Come ha osservato lo studioso Giorgio Ferroni, la nuova critica si reggeva "sulla cooperazione

di poetica e retorica e su una tendenza alla specializzazione e tecnicizzazione del discorso". Tra i numerosi

critici (Francesco Robortello, Vincenzo Maggi, Sperone Speroni ecc.) spicca il modenese Ludovico

Castelvetro (1505-1571), al quale si deve il maggiore commento cinquecentesco allaPoetica aristotelica.

 

Il teatro

 

Questo dibattito teorico pesò, in particolare, sulla definizione del genere tragico, che sarebbe rimasto il


più regolato, solenne e autorevole fino a tutto il Settecento. Le sue disputatissime norme finirono col

blindarlo in spazi in cui le innovazioni erano ardue, e certamente l'unico grande tragico della nostra storia

letteraria, Vittorio Alfieri, lo si trova solo alla fine del Settecento. Le tragedie di Gian Giorgio Trissino o di

Luigi Alamanni (1495-1556) hanno per noi solo valore storico, e anche quelle di Giambattista Giraldi

Cinzio, innovative soprattutto per il ricorso al modello di Seneca, col seguito di cupe atrocità che esso

comporta, appaiono datate.

 

Di molto maggiore libertà compositiva e insieme di migliore fortuna hanno goduto le commedie. La

commedia è al centro dell'invenzione del teatro moderno, che assunse a modello – nella trama e nella

configurazione dei personaggi – gli autori latini (Plauto e Terenzio) per proporre agli occhi della società

aristocratica le trame della vita quotidiana. Spetta ad Ariosto il merito di aver iniziato il nuovo teatro

umanistico (La Cassaria, 1508;I Suppositi , 1509) e di aver prodotto conLa Lena (1528) uno dei testi

più indipendenti e capaci di maggior presa. Un vero capolavoro è laMandragola (1518 ca.) di

Machiavelli, in cui gli schemi e le convenzioni tradizionali del genere costituiscono gli snodi in cui si

articola un'amara rappresentazione di come, per usare un'espressione delPrincipe , "l'uomo non è se non

vulgo". Uno dei testi maggiori del teatro italiano del primo Cinquecento è laCalandria (1512) del

Bibbiena (1470-1520). A questi si possono aggiungere le commedie di Pietro Aretino (La cortigiana,

1524;La Talanta , 1542) e il testo anonimo diLa Venexiana (1530 ca.). Tra sperimentazione e tradizionalismo

I modelli classicistici trovarono opposizione soprattutto nell'Italia settentrionale, che produsse esperienze

linguistiche e letterarie estranee al classicismo aristocratico, anche se per alcuni versi frutto dell'avanzata

maturità dell'Umanesimo. L'area di questo sperimentalismo è quella lombardo-veneta tra Mantova e

Padova, e i primi tentativi risalgono alla fine del XV secolo. Si tratta della produzione "macaronica". Il

Con Teofilo Folengo, il maggiore degli scrittori maccheronici, questa lingua attenuò gli elementi e le

funzioni parodistiche e divenne un mezzo espressivo in grado di rendere una realtà diversa da quella del

mondo aristocratico e per la quale il linguaggio classicistico era nella sostanza inadatto. L'opera (Opus

macaronicumoMaccheronee , 1517) di Folengo ruota attorno alBaldus , poema in esametri che passò

dai 17 libri della prima redazione (1517) ai 25 libri dell'ultima e che ebbe 4 edizioni, di cui l'ultima

postuma a conferma della fortuna del volume e delle soluzioni linguistiche che lo caratterizzano. I testi di


Folengo non solo erano in grado di rappresentare la realtà contadina, assente nell'italiano aristocratico,

ma esprimevano un'esigenza di novità e svolgevano un ruolo anticonformistico. La poesia maccheronica

non rimase un caso isolato, ma fu all'origine di una tradizione che nelle regioni settentrionali (anche in

Piemonte) si prolungò per tutto il Seicento.

 

Un'altra forma sperimentale fiorita nella regione di Padova (centro universitario) è la poesia "pedantesca"

 

o "fidenziana" di Camillo Scroffa (1526-1565), anch'essa di origine dotta, che consiste, rovesciando il

sistema maccheronico, nel latino italianizzato nel lessico e nella grammatica con alterazione dei termini in

forme superlative o diminutive.

Negli stessi decenni si sviluppò il teatro dialettale (in pavano, cioè nel padovano del contado) di Angelo

Beolco detto il Ruzante. In questo teatro irruppe il mondo contadino con una capacità di

rappresentazione e di denuncia inedite. Opere comeBetìa (1524- 1525),Parlamento de Ruzante ,Bilora

eLa Moscheta (tutti del 1529) costituiscono non solo una prova linguistica del tutto nuova, ma anche uno

dei documenti più alti del teatro italiano, come dimostra l'ininterrotta fortuna teatrale di queste opere.

Ruzante, con Goldoni, è il miglior talento della commedia italiana di tutti i tempi. Nell'ambito del teatro

dialettale rientra anche la già citata commedia anonimaLa Venexiana .

 

All'area anticonformista, sia pure su un altro registro, compatibile con il sistema della cultura

aristocratica, appartiene un vero e proprio avventuriero della penna, il già citato Pietro Aretino,

spregiudicato e temuto ("flagello dei principi") per il suo individualismo anarchico, ma attento a sfruttare

bene gli spazi offertigli dal potere. Oltre a essere un commediografo di talento, è autore di pamphlet

polemici e irriverenti. La sua sperimentazione linguistica raggiunse gli effetti più clamorosi nel dialogo (

Ragionamenti, 1534-1536) e nelle lettere, entrambe forme letterarie di grandissimo impiego nella cultura

cinquecentesca.

 

Una variante dell'anticonformismo letterario è quella espressa, in direzione antipetrarchista, da Francesco

Berni: i suoi sonetti (spesso caudati) ridicolizzano le sdolcinate convenzioni dei rimatori petrarcheschi.

 

Allo sperimentalismo linguistico cui si è accennato e all'evoluzione interna di generi letterari come la

commedia fece riscontro invece il tradizionalismo espressivo in altri ambiti. Ricca fu la novellistica,

soprattutto in Toscana, ma subalterna al modello del Boccaccio: Agnolo Firenzuola, Anton Francesco

Grazzini detto il Lasca, Matteo Maria Bandello e il più indipendente Giovan Francesco Straparola (fine

del XV secolo - dopo il 1557).


Storiografia e autobiografia

 

Nell'ambito della storiografia – a parte un gruppo di storici soprattutto fiorentini (Donato Giannotti,

Benedetto Varchi) di diverso livello rispetto a Guicciardini e Machiavelli – Giorgio Vasari inaugurò un

Il secondo Rinascimento e il manierismo

 

Il secondo Cinquecento costituisce, come già detto, una seconda fase del Rinascimento caratterizzata

dal ruolo che la Controriforma ebbe nell'ambito letterario, con l'impegno della Chiesa a controllare e

indirizzare lo sviluppo della cultura (controllo spesso interiorizzato, come nel caso di Tasso) e con la

crescente perdita di potere e di autonomia degli intellettuali laici. A ciò si aggiunse la progressiva tendenza

verso un classicismo esteriore che trasformò i modelli e i principi in regole e precetti. Ne sono

testimonianza le già ricordate discussioni sui generi letterari, soprattutto attorno alla poetica di Aristotele,

con un progressivo irrigidimento delle posizioni e un prevalere di quelle professorali su quelle creative

(rientra in questo contesto anche la riscrittura dellaGerusalemme liberata da parte di Tasso sotto la

pressione di critici come Speroni). A questa tendenza si affiancò, e si intrecciò, la propensione a

combinare motivi disparati e a far emergere sensibilità nuove o in un rapporto dialettico con i canoni.

Rientrano nel nuovo gusto, detto anche manieristico, l'inquieta pensosità di certi lirici e perfino aspetti

dell'anticonformismo già ricordato.

 

L'intellettuale che, con le sue irrequietudini e attraverso temi e soluzioni stilistiche nuove, meglio

interpretò questa età è Torquato Tasso. I segni del cambiamento si trovano già nello scarto che esiste tra

il suo poema "eroico", laGerusalemme liberata (nel 1575 fu completata, ma la prima edizione,

incompleta, risale al 1580), e la tradizione del poema cavalleresco culminata con l'Orlando furioso. Le

differenze sono attestate anche dalle polemiche e dalle scelte di gusto nate dal confronto tra le due opere.

Inoltre i temi di Tasso e la loro diversa organizzazione strutturale rispondevano a una sensibilità tragica

nuova – che privilegiava l'approfondimento psicologico e sentimentale a scapito della descrizione

dell'azione – e interpretavano gli ideali controriformistici di rivincita della fede cristiana sul male e sugli

infedeli, ideali ravvivati dopo la battaglia di Lepanto (1571). Quanto alle scelte stilistiche, esse si

esprimono attraverso una forte valorizzazione retorica del linguaggio che manifesta la tendenza al

contrasto e alla contraddizione, in un contesto linguistico totalmente "tragico". Tasso è anche autore di

una favola pastorale, l'Aminta(1573), scritta e rappresentata per la corte estense. Testo esemplare di un


genere drammatico che ebbe molta fortuna fino al Settecento, rappresenta una proiezione ideale del

faticoso mondo della corte in un ambiente naturale da paradiso terrestre, in cui potesse liberarsi quel

bisogno edonistico di una società che aveva interiorizzato i motivi della riforma cattolica, ma alla quale

occorreva la poesia come esperienza di abbandono al sogno, anche per via musicale. La musicalità come

momento forte della comunicazione poetica è un'altra caratteristica della sensibilità manieristica, e ancora

una volta rimane insuperata, sotto questo profilo, l'opera lirica (vediMadrigali) di Tasso.

 

La favola pastorale trova un altro grande esempio nelPastor fido di Giovanni Battista Guarini, che con

quest'opera tenta un compromesso tra commedia e tragedia ("tragicommedia"), manifestando una

tendenza alla fusione dei generi e delle arti che comparve con l'età del manierismo, ma che sarebbe

diventata connotato evidente del gusto del nuovo secolo. Il Seicento

 

 

Le ragioni del nuovo si reggevano anche sui cambiamenti intervenuti nello spazio fisico e mentale. Con le

scoperte scientifiche, connesse al nascere della scienza moderna, e col nuovo pensiero filosofico

(Giordano Bruno e Tommaso Campanella) si andava delineando la nozione di infinito, con conseguente

difficoltà a misurare e immaginare la natura con i vecchi sistemi e con la possibilità di espandere, oltre il

solito spazio finito, i dati del reale. Le caute metafore del gusto classicista corrispondono ai certi e

misurati confini della natura; le metafore ardite ed esibizionistiche del gusto barocco, capaci di collegare

punti immaginativi tra loro lontanissimi, corrispondono alla nuova idea di natura e a una spiritualità ardita

ma inquieta, che cerca il consenso non nella regola bensì nel giudizio del pubblico e che trova sicurezza

nel sentirsi riconosciuta e accettata.

 

Il gusto barocco assunse evidenza e sicurezza nel giro della generazione successiva alla morte di Tasso,

periodo che fu peraltro il più creativo e il più disinibito di tutto il Seicento: mentre il manierismo aveva

ricercato giustificazioni teoriche agli scarti dettati da una sensibilità diversa, gli scrittori del barocco

offrivano giustificazioni decise ma sbrigative, centrate sull'idea che la poesia debba procurare piacere

attraverso la meraviglia. E tale obiettivo fu raggiunto ricorrendo agli effetti sensuali del linguaggio, alla

combinazione inedita di elementi del reale attraverso una traslazione spregiudicata di immagini (metafore)

e l'individuazione di "concetti", cioè immagini mentali acute e stimolanti che mostrano le cose sotto

angolazioni inedite. Si tratta di un gioco letterario in cui si combinano immaginazione e intelligenza, e in cui


si ricorre a tutte le risorse della retorica fino a dispiegare una sorta di ingegneria linguistica, artificiosa ma

suggestiva. Il rischio è che non solo la tensione civile e quella etica si spengano, ma che anche la funzione

conoscitiva si dissolva. Eppure la dignità di quell'operazione può stare proprio nell'intuire che non c'è

nulla da conoscere, che il vero e il falso sono contigui e scambievoli e che la parola è più vera della realtà,

all'interno di un non-senso generale che equivale al senso – tanto diffuso e ossessivo – della morte.

Il Seicento non fu un secolo omogeneo né dal punto di vista del suo divenire storico attraverso i decenni,

né dal punto di vista geografico. Il secolo della letteratura barocca si può dividere in tre fasi

corrispondenti ciascuna grosso modo a un trentennio: la prima fase, coincidente con l'età di Giambattista

Marino (1569-1625), fu la più innovativa e anticonformista; nella seconda si consolidarono i modi del

barocco; nella terza il barocco si fece convenzione e cominciò a mostrare i segni della crisi. Anche sul

piano della geografia della letteratura, alcune regioni o aree culturali mostravano maggiore resistenza al

gusto barocco (Toscana e Veneto), perché lì era più solida la tradizione rinascimentale; altre aree, nuove

e in alcuni casi periferiche (come il Friuli), si aprirono alla sensibilità e alla ricerca del barocco. Del resto

nel Seicento anche l'organizzazione culturale si modificò: i centri culturali non coincidevano più con le corti

signorili degli stati regionali ma, all'interno del processo di rifeudalizzazione dell'economia italiana, anche la

cultura si disseminò, e in qualche modo si allargò, in centri minori sparsi ovunque.

 

Maggiori elementi di continuità con la tradizione rinascimentale si trovano in intellettuali in cui la tensione

 

 

 

La poesia

 

Il gusto barocco trovò un campo di applicazione privilegiato nella lirica, col suo rifiuto del linguaggio

normale. Si tratta di una vasta produzione senza capolavori. Un posto a parte occupa l'opera di

Giambattista Marino, tanto celebre da essere chiamato come poeta di corte e a Parigi. Il suo testo

maggiore, l'Adone, di proporzioni enormi (quasi tre volte laDivina commedia ), è un poema

antinarrativo, che si sviluppa per digressioni attraverso una rete di analogie che evocano la realtà

sottoponendola, transitoriamente, alla curiosità di tutti i sensi. Già la sproporzione fra la trama esile e la

dispersione senza fine delle immagini dice la distanza dai modelli del Cinquecento. Marino portò al limite

estremo la figura del letterato cortigiano che si avvale della sua penna per ottenere vantaggi e gloria, e

fece anzi dei riconoscimenti del pubblico il criterio di verità estetica della sua opera. Tuttavia il suo culto


della metafora e l'ingegnosità mostrata nel costruire concettini e arguzie fecero di lui un maestro per i lirici

del Seicento. Inoltre le qualità melodiche della sua poesia contribuirono allo sviluppo del melodramma e

avrebbero trovato, nel Settecento, la continuazione migliore nelle opere, certo non barocche, di

Metastasio.

 

La dissoluzione del genere epico narrativo in un grande castello lirico è un caso di quella anticlassica

tendenza alla mescolanza dei generi che caratterizza il secolo. Ad Alessandro Tassoni, figura di letterato

dissacratore, si deve il merito di aver creato conLa secchia rapita il modello del genere eroicomico, un

tipo di poema che, a parte gli intenti parodistici, si struttura sull'alternanza continuamente variata di serio e

comico.

 

A conclusione del secolo si ricorda l'opera di due poeti che ebbero fortuna nel Settecento per la

tendenza a conservare il senso della misura e della razionalità classicistiche in opposizione al concettismo

del Marino. Si tratta anzitutto del savonese Gabriello Chiabrera, che si segnalò e venne in seguito

valorizzato per la sensibilità metrica. I suoi risultati migliori stanno nella struttura dellaCanzonetta ,

configurata sul modello lirico di Anacreonte e giocata su versi brevi, dalla musicalità lieve e fuggevole.

L'altro poeta è il ferrarese Fulvio Testi che, nella ricerca di una poesia eroica, rifuggì dal gusto sensuale

della metafora barocca e predilesse parole brevi e solenni. La prosa narrativa

Rispetto alla preziosità artificiosa della poesia, la prosa manifesta un maggiore interesse per l'attualità e la

vita degli uomini e comporta alcune delle sperimentazioni più interessanti del secolo. Nel corso del

Seicento si diffuse il romanzo in prosa che, anche quando è ambientato in luoghi esotici o fantastici,

riproduce ambienti contemporanei riconoscibili e predilige tematiche erotiche e sensuali. Uno di questi

romanzi è quell'Historia del cavalier perduto(1634) di Pace Pasini (1583- 1644) che qualcuno (il critico

Giovanni Getto) ha voluto indicare come il "manoscritto" trovato e riscritto da Manzoni neiPromessi

sposi .

 

I romanzieri furono numerosi e godettero di buona fama anche all'estero. La lingua impiegata era ormai

La prosa barocca era un prodotto della cultura laica della prima generazione barocca; ma poi i gesuiti,

impegnati nel controllo della produzione e della trasmissione culturale, ne fecero uno strumento

importante del proprio intervento nella società per definire comportamenti e scelte. E i risultati migliori


della prosa del Seicento sono nelle opere del padre Daniello Bartoli, autore dell'Historia della

Compagnia del Gesùoltre che di molte opere devozionali. La sua capacità di conciliare precisione e

artificio avrebbe destato anche l'ammirazione di Leopardi.

 

In parallelo alla prosa in lingua, nel Seicento ebbe un sensibile sviluppo la letteratura dialettale, per il

peso delle tradizioni locali o per gusto bizzarro. Si tratta pur sempre di letteratura prodotta dall'alto, macapace di registrare aspetti della vita popolare. È letteratura che in ogni caso non ambisce a porsi come alternativa a quella nazionale e accetta quindi la posizione subalterna.

Le prove dialettali più interessanti e

corpose sono quelle napoletane, ma vanno registrate quelle romanesche (il poemaMeo Patacca , 1695,

di Giuseppe Berneri), quelle bolognesi, quelle veneziane e quelle milanesi. Quella napoletana è legata ai

nomi di Giulio Cesare Cortese (1575-1627), che si dedicò soprattutto alla poesia, e di Giambattista

Basile, noto soprattutto perLo cunto de li cunti (1634), cinquanta fiabe destinate ai piccoli e scritte in

una lingua manipolata in modo assai personale. Un posto a sé occupa il bolognese Giulio Cesare Croce,

la cui fama è legata aLe sottilissime astuzie di Bertoldo (1602) e aLe piacevoli e ridicole semplicità

di Bertoldino (1608), che hanno nutrito a lungo l'immaginario popolare, ma che esprimono valori

moderati e l'accettazione della scala sociale. La saggistica

Nell'ambito della prosa il Seicento può vantare un'importante produzione storiografica che si ispirava alla

linea politico-diplomatica dellaStoria d'Italia di Guicciardini. Ma il capolavoro del secolo è l'Istoria del

concilio tridentinodel frate veneziano Paolo Sarpi. L'opera, edita a Londra nel 1619 (in Italia solo nel

1689-90) venne subito inserita nell'Indice dei libri proibiti per la battaglia condotta dall'autore contro il

sistema ecclesiastico in nome del valore autonomo delle strutture statali.

 

Nel Seicento proliferarono gli scritti sulla politica che ponevano al centro dell'attenzione gli interessi

dell'organismo statale (il concetto della "ragion di stato"). E per riflettere sui meccanismi del potere

dispotico venne recuperato il pensiero di Machiavelli e l'opera storica di Tacito. L'interesse per questo

storico ("tacitismo") trova espressione anche nella traduzione, in gara per concisione con l'originale latino,

della sua opera per mano di Bernardo Davanzati (1529-1606). Fra i trattatisti politici si segnalano i nomi

di Ludovico Zuccolo (1568-1630), Paolo Paruta (1540-1598), Traiano Boccalini e il gesuita Giovanni

Botero, che pubblicò il trattato politico più famoso del tempo,Della ragion di stato (1589).

 

A fianco della trattatistica politica si sviluppò sul fronte letterario una trattatistica barocca, per precisare,


approfondire e sistemare sul piano teorico e in termini retorici la grande avventura del nuovo gusto. Uno

dei primi testi è quello dell'emiliano Matteo Peregrini (1595 ca. - 1652); ma il testo più importante èIl

canocchiale aristotelico (1654) del torinese Emanuele Tesauro (1592- 1672): le infinite possibilità

combinatorie della metafora divennero in lui un modo per celebrare la ricchezza della realtà e la

superiorità del tempo presente sul passato. Il teatro

Una delle costanti della cultura barocca è il senso della teatralità della vita, connesso a quello della vanità

La vitalità del teatro nel Seicento va ben oltre quella dei testi drammatici, che sono modesti in Italia

rispetto all'Europa: in Francia (Corneille, Racine, Molière), in Spagna (Lope de Vega, Calderòn de la

Barca), in Inghilterra (Shakespeare e il teatro elisabettiano) abbondano grandi testi, a fronte dei quali

l'Italia può vantare poco. Ma l'Italia tra Cinque e Seicento vide nascere, svilupparsi e passare poi in

Europa forme teatrali fortemente spettacolari non dipendenti dal controllo della parola. Un caso è quellodella Commedia dell'Arte, teatro profano del corpo e della maschera. È un teatro di professionisti che, organizzati in compagnie girovaghe, comunicano con la bravura tecnica e l'espressività del corpo,

improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. Gli attori indossano la maschera per

tipizzare qualità psicologiche o regionali del personaggio, e anche il linguaggio impiegato nella

comunicazione orale è spesso una mescolanza di forme regionali di aree contigue, un plurilinguismo

stereotipato. La prima compagnia di comici professionisti si formò a Padova nel 1545. Le compagnie

girovaghe, che raggiungevano il popolo più comune nei centri più disparati e anche più piccoli, ebbero

particolare successo nel Seicento e per buona parte del Settecento.

 

Un altro caso è quello del dramma per musica (per il quale in seguito si sarebbe utilizzato il termine

"melodramma"). Tutto aveva preso avvio nel tardo Cinquecento dalla sperimentazione della Camerata

fiorentina, e il primo melodramma fu laDafne del poeta Ottavio Rinuccini, rappresentato a Firenze nel

1598. La produzione più ricca si ebbe a Venezia con la costruzione di teatri pubblici a pagamento e a

Roma, dove gli ambienti ecclesiastici diedero vita a un teatro morale o basato sulla storia sacra. In

mancanza di norme definite, il genere assunse forme varie, e nel processo evolutivo il testo drammatico

assunse forme sempre più schematiche fino alla sua subordinazione alla musica.

 

La commedia letteraria continuò nel Seicento con nuove forme e intrecci destinati a finalità moraleggianti.


I centri di produzione più importanti furono Napoli, Firenze e Roma. Qui si sviluppò, alla fine del

Cinquecento, un tipo di commedia semplice che riproduceva in forme letterarie gli schemi narrativi della

Commedia dell'Arte. La tragedia, con attenzione alla politica e alle riflessioni sulla ragion di stato,

indulgeva a un gusto truce e violento secondo il modello del latino Seneca. Lo scrittore più autorevole di

questo genere fu il piemontese Federico Della Valle. Il Settecento

Il diffondersi del razionalismo cartesiano (vediRené Descartes) nella cultura tra Sei e Settecento, la

persistenza della tradizione scientifica galileiana, la consapevolezza della crisi rinascimentale e la

constatazione del ruolo marginale dell'Italia, l'apertura all'Europa e il bisogno di rivitalizzare la gloriosa

tradizione culturale indigena (che aveva fatto dell'italiano la lingua internazionale delle corti europee e

dello spettacolo, attraverso l'esportazione del melodramma e della Commedia dell'Arte), oltre alla

saturazione per il fastoso gusto barocco determinarono anche in Italia lo stabilizzarsi, in campo sia

artistico sia letterario, di motivi di chiarezza, semplicità e naturale evidenza: di "buon gusto", per usare uno

slogan di allora. L'Arcadia

Chi espresse, in modo consapevole, programmatico e anche radicale, quest'idea del "buon gusto" contro

il "cattivo gusto" del Seicento furono i membri dell'Arcadia, accademia fondata nel 1690 a Roma da un

gruppo di letterati che da tempo andavano elaborando idee nuove in fatto di letteratura. Questa

accademia avviò una riforma del linguaggio poetico, orientandolo verso quello dei poeti cinquecenteschi e

La lirica

 

L'Arcadia, grazie alla sua organizzazione oltre che al sostegno della Chiesa (per la quale il razionalismo

divenne ordine morale e il gusto barocco scadette a disordine), si diffuse molto rapidamente nella

penisola, unificando il mondo delle lettere su posizioni di un moderato conservatorismo culturale. Essa

rilanciò il genere della lirica, facendone moderna espressione dell'aristocrazia nazionale. Come già

ricordato, in questo rilancio ebbe un ruolo importante Chiabrera per la grazia musicale dei suoi versi, dal

momento che proprio l'elemento melodico fu tra le componenti più apprezzate nella lirica arcadica.

 

Il cliché stilistico e linguistico elaborato dall'Arcadia nella lirica incise a lungo nella tradizione poetica


italiana, fino all'Ottocento (Leopardi) e al Novecento (Saba). Questo cliché consisteva nella

semplificazione del linguaggio poetico in funzione della chiarezza e nella ricerca della razionalità

psicologica, nella drastica riduzione dell'ambito metaforico, nell'adozione di una sintassi non complessa,

nella tendenziale coincidenza tra misura sintattica e misura metrica, nel gusto della simmetria, nella

cantabilità del testo e nella scelta di un lessico essenziale, di tipo petrarchesco ma più attento al "piccolo"

e al "grazioso" del quotidiano. Alla ripresa delle forme metriche tradizionali (continua la fortuna del

sonetto) si preferirono le "canzonette" con versi e strofe brevi, dai temi leggeri, molto cantabili e spesso

accompagnate dalla musica. A questo repertorio appartengono anche le "arie" del melodramma. Se

invece l'argomento trattato – e, in corrispondenza, lo stile – era più elevato, si usava, per la canzonetta, il

termine "ode". "Odi" sono senz'altro le liriche di Vincenzo Parini, mentre le odi di argomento religioso o

patriottico presero un nome nuovo, "inno": così, nell'Ottocento, in Manzoni, Mameli, Giusti e Carducci.

 

Chi interpretò in forme esemplari questo nuovo gusto fu Pietro Metastasio. Tra i poeti della prima

Arcadia romana si ricordano Petronilla Paolini Massimi ((1683-1726),

Faustina Maratti Zappi

(1680-1745) e il marito Giambattista Zappi (1667-1719). La poesia delle generazioni successive si

allontanò in qualche misura dal travestimento pastorale e rappresentò in modo più diretto la società

aristocratica dei salotti e delle feste, con una spregiudicatezza vicina al gusto libertino. I nomi più

autorevoli sono il romano Paolo Rolli (1687-1765), il prolifico Carlo Innocenzo Frugoni e infine Jacopo

Vittorelli (1749-1835), che prolungò la sua opera fin oltre la soglia dell'Ottocento.

 

Il teatro

 

Il rinnovamento e la sperimentazione nel campo della lirica si manifestarono anche nel teatro, con la

restaurazione della parola e del suo primato a differenza di quanto accadeva nella Commedia dell'Arte, in

cui la parola soggiaceva alla comunicazione corporea o si restringeva in un'espressività povera, e a

differenza anche del melodramma, in cui la parola si dissolveva in musica.

 

Per quanto riguarda la commedia, in attesa della grande riforma goldoniana occorre ricordare Carlo

Maria Maggi. Negli ultimi anni del secolo (1695-98) Maggi scrisse quattro commedie e alcuni intermezzi

in dialetto milanese, avviando la grande tradizione colta della letteratura milanese che, unica tra tutte le

letterature dialettali, elaborò una tradizione – e un corpo consistente di testi – prolungatasi attraverso il

Settecento (Balestrieri) e l'Ottocento (Porta) fino a tutto il Novecento (Tessa e Loi). La tragedia venne


 

 

Tuttavia, quando si parla di teatro del Settecento, si pensa subito (a parte la commedia di Goldoni) al

melodramma, nato nel Cinque-Seicento per indicare l'opera in musica. Con la struttura del libretto del

melodramma (struttura già definita sul piano metrico con la distinzione tra recitativi e arie), la lingua e la

letteratura italiana acquistarono, nel Settecento, una diffusione internazionale e raggiunsero anche strati

popolari, soprattutto nell'Ottocento. Il melodramma – che era già stato oggetto di attenta cura da parte di

Apostolo Zeno, il predecessore di Metastasio come poeta cesareo alla corte di Vienna – trovò il suo

maggiore interprete in Pietro Metastasio. Questi (il vero nome Pietro Trapassi era stato grecizzato),

educato da Gian Vincenzo Gravina e segnalatosi per il virtuosismo nell'improvvisare versi, nel corso del

Settecento elaborò una vera e propria riforma del teatro attraverso una serie di soluzioni compositive e,

in particolare, assegnò alla parola una decisa preminenza sulla musica e sugli altri elementi dello

spettacolo. Con Metastasio si configurò un nuovo linguaggio sentimentale della poesia che, impostosi

grazie alla facilità comunicativa, avrebbe influito anche su Goldoni.

 

Dalla cultura arcadica Carlo Goldoni, il più grande scrittore di teatro italiano derivò l'istanza riformatrice,

applicandola alla Commedia dell'Arte (il teatro di grande consumo popolare), ma soprattutto apprese la

lezione di una lingua semplice e comunicativa, tanto che i suoi testi reggono ancora oggi come nessun

altro del Settecento. Egli creò un teatro realistico e popolare capace di magica fascinazione per la

leggerezza dell'intreccio e la vivacità dell'invenzione. E le commedie in dialetto, che costituiscono l'epilogo

del suo percorso realistico, non sembrano appartenere quasi all'area dialettale, tanto sono naturalmente

pervasive.

 

Nel secolo delle riforme, anche la tragedia ebbe un esito finalmente grande. Questo genere

superregolato e considerato il più alto aveva dato prove scolasticamente dignitose fino ai moderni esempi

con Pier Iacopo Martello e con laMerope di Scipione Maffei. Occorreva il temperamento anarchico ma

forte di un intellettuale alla perpetua ricerca di se stesso, il piemontese Vittorio Alfieri, per fare della

tragedia l'espressione di una moderna tensione libertaria, che si oggettivizza nel conflitto radicale tra il

tiranno (cioè qualsiasi principio di autorità, anche interiore, come un sentimento, ad esempio nellaMirra ,

1784-1786) e l'uomo libero. Anche il linguaggio letterario artificioso della tradizione riuscì a veicolare una

tensione viva e palpitante, attraverso forme tese e brevi, anche se lontane dalla dimensione colloquiale.

 

La saggistica storico-filosofica


I propositi di riforma dell'Arcadia non si esaurirono nella lirica e nel melodramma. La restaurazione della

tradizione italiana fu compiuta anche attraverso un percorso erudito e storico-filosofico, che risulta meno

appariscente ma altrettanto importante per la definizione di una nuova coscienza della realtà italiana e

dell'identità nazionale. Un contributo importante fu il lavoro degli eruditi che, attraverso l'ordinamento di

archivi, la valorizzazione delle storie locali e la delineazione di bilanci nella storia delle istituzioni e della

letteratura stessa, fornirono strumenti di lavoro ancora essenziali per gli studi moderni. Tutte queste opere

esprimono l'intenzione di intervenire nella società contemporanea, sia pure in forma moderata e indiretta,

e quindi esprimono, nel contenuto, un nuovo senso civile e politico. Ad esempio, il modenese Ludovico

Antonio Muratori, il più importante di questi eruditi, elaborò fin dal 1703 un progetto di politica culturale

meno evasivo di quello dell'arcadia lirica inPrimi disegni della repubblica letteraria d'Italia . Svolse

poi un infaticabile lavoro di archivista nella Modena estense con ricerche sul Medioevo, producendo

lavori monumentali come iRerum italicarum scriptores (1723-1751, Scrittori della storia d'Italia), le

Antiquitates italicae medii aevi (1738-1743, Antichità italiane medievali) e, in italiano, gliAnnali

d'Italia .

L'Illuminismo

 

La cultura dell'Arcadia caratterizzò la prima metà del Settecento, anche se persistette per tutto il secolo

e non solo nelle regioni più arretrate. Ma a partire dalla seconda metà del Settecento si verificò un

processo di rinnovamento intellettuale che, profondamente influenzato dall'Illuminismo francese e inglese,

aprì orizzonti mentali e culturali nuovi con una rinnovata responsabilità civile. L'Illuminismo in Italia non

presenta la radicalità di pensiero manifestata altrove, ma si combina con la dominante convenzione

culturale arcadica fino a configurare, in campo letterario, un panorama arcadico-illuministico.

 

La data convenzionale che delimita l'età dell'Arcadia rispetto a quella dell'Illuminismo è il 1748, quando

l'equilibrio politico creatosi tra i Borbone e gli Asburgo con la pace di Aquisgrana (1748) assicurò

all'Italia un lungo periodo di pace, nel corso del quale presero avvio importanti riforme per iniziativa dei

sovrani illuminati. In questa età acquistò rilievo sociale la nuova figura dell'intellettuale cosmopolita che,

proprio per i suoi contatti internazionali, elaborò una nuova coscienza critica. Casi esemplari sono il

veneziano Francesco Algarotti, che riscosse successo internazionale con ilNewtonianesimo per le dame


(1737), libretto di divulgazione scientifica in prosa leggera; il gesuita mantovano Saverio Bettinelli

(1718-1808), che attaccò i limiti della letteratura italiana nelleLettere virgiliane (1758) e nelleLettere

inglesi (1767); e il torinese Giuseppe Baretti, che pubblicò a Venezia il periodico "La frusta letteraria"

(1763-1765): con lui, grazie al suo spirito antipedantesco, venne introdotta la figura del critico militante.

 

Venezia era uno dei centri culturali più aperti, ma la nuova cultura illuministica si espresse soprattutto a

Milano e a Napoli. A Napoli, la coscienza dell'arretratezza dello stato indirizzò in forma radicale le

energie degli intellettuali verso problemi sociali ed economici attraverso gli scritti di Antonio Genovesi,

Ferdinando Galiani, Francesco Mario Pagano e Gaetano Filangeri (1752- 1788).

 

Meno propensi alla riflessione teorica e più impegnati alla risoluzione di problemi concreti per

ammodernare la società sono gli illuministi lombardi con centro a Milano. L'Accademia dei Pugni (1761)

rappresenta la nascita del movimento che ebbe come organo di battaglia il giornale "Il Caffè". Questi

intellettuali mostrarono insofferenza verso la lingua letteraria imbalsamata e nella prosa tentarono, proprio

con "Il Caffè", una scrittura "naturale" regolata sul modello francese.

Quanto alla letteratura, mostravano

insofferenza per il classicismo arcadico e proponevano un impegno nel confronto con i problemi della

società, pretendendo dal letterato una tensione etica e civile. Basti dire che alla lezione di questi illuministi

avrebbero guardato i romantici lombardi. I nomi più importanti sono quelli di Pietro Verri e di Cesare

Beccaria. Ma chi meglio interpretò l'idea di un'educazione letteraria raffinata (un moderno classicismo

settecentesco) alla luce di un impegno civile e morale volto a rinnovare la società e la funzione stessa del

letterato fu Giuseppe Parini, considerato un maestro dalle generazioni successive. La sua passione civile

si dispiegò inIl giorno , opera in divenire che offre anche un modello di nuovo classicismo non

accademico, e nelleOdi , in cui la voce educatrice del poeta si deposita in una struttura sintattica

La vitalità della cultura lombarda si misura anche dalla presenza dei poeti dialettali Domenico Balestrieri

(1718-1780) e Carl'Antonio Tanzi (1710-1762), che alimentarono la già configurata tradizione locale.

Altra importante esperienza dialettale è quella dei siciliani Giovanni Meli (1740-1715), che ripropone i

modi della lirica arcadica in un dialetto raffinatissimo, e Domenico Tempio (1759-1821); e quella del

veneziano Anton Maria Lamberti (1757-1832) autore di celebri e orecchiabili canzonette.

 

Neoclassicismo e preromanticismo


Il secondo Settecento vide anche il dispiegarsi di due esperienze culturali tra loro diverse ma in parte

intrecciate e ancora vive nei primi decenni dell'Ottocento: il neoclassicismo e il preromanticismo. La

prima, col supporto di una teoria moderna (Storia dell'arte nell'antichità, 1764, di Johann

Winckelmann), riproponeva i principi della tradizione classicistica, valorizzando in particolare, specie in

area tedesca, la tradizione greca come originale rispetto a quella latina; e in Italia, in età napoleonica, il

gusto neoclassico assecondava il potere (Vincenzo Monti).

 

Col termine preromanticismo si indicava invece una serie di esperienze valorizzanti, nell'individuo, risorse

conoscitive diverse dalla ragione e che avevano trovato espressione nell'opera di Jean-Jacques

Rousseau, in scrittori di lingua tedesca e inglese quali Albrecht von Haller, Friedrich Klopstock, Salomon

Gessner, Thomas Gray, Edward Young e soprattutto nei canti ossianici, oltre che, in Germania, nello

Sturm und Drang. Alla penetrazione in Italia di queste opere e autori, fatto che permeò anche il

neoclassicismo di una sensibilità nuova, dette un grande contributo il padovano Melchiorre Cesarotti, il

quale tradusse tempestivamente lePoesie di Ossian (1763 e poi 1772 e 1801), che ebbero grande

influenza anche su Foscolo e Leopardi e che contribuirono a diffondere il gusto preromantico in Italia, in

particolare nell'area settentrionale in età napoleonica. L'Ottocento

L'Ottocento vide le vicende letterarie strettamente intrecciate a quelle della vita politica: è attraverso il

lungo travaglio risorgimentale che l'Italia giunse a diventare stato nazionale. Una letteratura impegnata

nella storia contemporanea, coinvolta nelle vicende politiche e sociali era in qualche modo condizionata

dalla politica in corso e rinunciava a quell'idea di astratta bellezza e di universalità che le avevano

garantito una buona circolazione in Europa nei secoli precedenti. Il luogo del rinnovamento culturale

nell'età napoleonica fu Milano. Le vicende napoleoniche, che provocarono cortigianeria (è il caso di

Monti, che era l'erede della vecchia tradizione classicistico- mecenatistica per cui l'intellettuale scriveva e

pensava per chi comandava, ma in assoluta buona fede), avviarono anche all'idea di patria e di nazione

per merito di intellettuali (lombardi ma anche meridionali, come Vincenzo Cuoco e Francesco

Lomonaco) che si sentivano italiani sul piano politico e culturale. Da questo punto di vista sembra perfino

paradossale che Vincenzo Monti sia lo scrittore più rappresentativo dell'età neoclassica (1770-1820),

ma questo dice quanto sia stato grande il peso della tradizione letteraria. Monti fu il poeta del

neoclassicismo papale e poi del neoclassicismo in età napoleonica; e, anche se la sua poesia resta


"esteriore e formale", offrì con la traduzione dell'Iliadeun modello di gusto neoclassico; infine, nell'ambito

delle discussioni linguistiche, assunse una posizione di classicismo aperto rispetto agli irrigidimenti puristi

(ad esempio di Antonio Cesari) dovuti alle scosse che nel sistema della lingua letteraria si cominciavano a

sentire (a Milano, gli illuministi del "Caffè"). Anche la difesa del dialetto, che Carlo Porta compì in

polemica con Pietro Giordani, era un modo di cercare un'alternativa (legittima col dialetto milanese, data

la tradizione letteraria dello stesso) al formalismo della lingua letteraria. Del resto ci si avvicinava al

Romanticismo e al suo rifiuto della vecchia lingua letteraria.

 

Del periodo napoleonico Ugo Foscolo, anche per la sua spiccata sensibilità romantica, rappresenta

Anche Giacomo Leopardi, che faceva riferimento a una ideologia materialistico-meccanicistica di tipo

settecentesco, e per il quale resta dominante l'impianto classicheggiante del linguaggio e della poetica,

espresse un romanticismo individualistico e disperato, teso a superare irrazionalmente l'invivibile

dimensione esistenziale, in forme liriche tanto alte da renderlo non solo il più grande poeta dell'Ottocento,

ma un punto di riferimento costante per la poesia successiva fino a oggi. Il romanticismo

I connotati essenziali del romanticismo italiano (o meglio lombardo, che, sulla base dei modelli europei

tedeschi e francesi, si definì a partire da una serie di manifesti teorici a Milano nel 1816) implicano

un'estetica diversa rispetto a quella classicistica. Al rifiuto del principio di imitazione e dell'idea della

bellezza come universale e come rappresentazione idealizzata della realtà, si accompagna l'idea che la

bellezza sia relativa agli individui storici (nazioni e singoli) e sia espressione della società (cioè dei

problemi storico-politici ed esistenziali che essa vive); che la letteratura, con funzione educativa, debba

rivolgersi a un pubblico più allargato e richieda dunque strumenti linguistici di comunicazione semplici e

popolari; che la verità sia storica e l'individuo sia il centro di organizzazione della realtà. Inoltre la nuova

estetica si mosse lungo una direttrice realistica, dando spazio al gusto e alla moda patetico-sentimentale, e

valorizzò la dimensione e l'esperienza religiosa.

 

Questi principi e queste tendenze comportarono una svolta radicale nella cultura e nella sensibilità

rispetto alla secolare tradizione classicistica. Fu una svolta ottimistica (connessa all'idea settecentesca di

progresso), che si sarebbe progressivamente consolidata nel corso dell'Ottocento, ma che all'inizio

avvenne quasi senza soluzione di continuità rispetto alla cultura illuministica (lombarda) più impegnata. La


battaglia classico-romantica sui principi che ne scaturì, vide i due schieramenti rivendicare entrambi la

nozione di "italianità", a conferma della dimensione etico-politica sottesa.

 

I romantici lombardi ebbero come strumento di battaglia il periodico "Il Conciliatore" (1818-1819). Ma

il massimo interprete, nel concreto delle scelte e della produzione letteraria, fu Alessandro Manzoni. I

suoiPromessi sposi , primo grande romanzo italiano moderno, costituirono, grazie anche alla rigorosa

revisione formale nella direzione di un fiorentino parlato dalle classi colte, un oggettivo modello di lingua

nazionale. Manzoni esercitò sul piano letterario e linguistico la stessa funzione nazionale che altri

esercitarono sul piano politico.

 

Il romanticismo italiano, a parte Manzoni, non produsse scrittori di rilievo, ma molti intellettuali impegnati

in un'opera di formazione nazionale. Sul versante più propriamente letterario si ricordano i memorialisti

(Silvio Pellico conLe mie prigioni , 1832); gli scrittori garibaldini (Luigi Settembrini, Massimo

D'Azeglio); i romanzieri (con tanti romanzi mediocri: Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Francesco

Domenico Guerrazzi); per la poesia Giovanni Berchet; e, al confine tra lingua letteraria toscana e

vernacolo toscano, Giuseppe Giusti. Sul versante storico-politico, con legami più diretti col processo del

Risorgimento di cui furono protagonisti, vanno ricordati Giuseppe Mazzini, Vincenzo Gioberti, Carlo

Cattaneo, i quali rinnovarono l'impegno civile e politico di storici come Vincenzo Cuoco, Carlo Botta

(1766-1837) e Pietro Colletta (1775-1831).

 

Deludente fu soprattutto il romanzo (il genere romantico per eccellenza), anche nel caso del primo

romanzo psicologico italiano,Fede e bellezza (1840) di Niccolò Tommaseo, scrittore importante per

Le voci più forti del primo Ottocento sono quelle di due poeti dialettali, i più grandi di tutta la tradizione

letteraria dialettale in Italia: il milanese Carlo Porta, che costruì un'epopea degli emarginati, e il romano

Giuseppe Gioacchino Belli, che rappresentò nella plebe di Roma un mondo abbandonato a se stesso,

fuori dalla storia, schiacciato in un dolente e misero presente senza memoria, senza fede e senza

speranza: è il mondo della Roma papalina nei decenni che precedono l'unità d'Italia.

 

Quanto al teatro romantico, prevalse la tragedia storica, cui si dedicarono in molti ma con risultati

mediocri. Vi si dedicò anche Nievo (SpartacoeI Capuani ), ma il nome più significativo è quello del

toscano Giovan Battista Niccolini. Grande importanza culturale, anche per la penetrazione in tutti gli strati


sociali, rivestì il grande melodramma romantico. In questo melodramma non esiste più la frattura tra

linguaggio poetico e quello musicale, perché la musica invade ogni momento dell'azione e finisce per

avere un deciso sopravvento sulla parola. Nel libretto dell'Ottocento è spesso il musicista a pilotare la

scrittura e nell'opera di Giuseppe Verdi il libretto è del tutto subalterno alla musica. Tuttavia spesso si

creava una intesa stretta tra librettista e musicista, come nel caso di Verdi con Francesco Maria Piave e

con Salvatore Cammarano. Certo è comunque che un'opera comeLa traviata interpreta nelle forme più

tipiche – sentimentali e popolari – l'atmosfera romantica.

 

Il 1871, l'anno del trasferimento della capitale a Roma dopo la fine del potere temporale dei papi,

quando si sancì il compimento del processo di unità nazionale, fu anche l'anno in cui Francesco De

Sanctis portò a termine la suaStoria della letteratura italiana , che è il "romanzo" della storia nazionale

d'Italia raccontato sul versante della letteratura e, insieme, un'interpretazione del passato italiano da una

prospettiva romantico-risorgimentale. La letteratura dell'Italia unita

La letteratura dell'Italia unita (la proclamazione del Regno d'Italia è del 1861) prese avvio con un tipo di

produzione patriottico-sentimentale che indulgeva al popolaresco, molto di maniera (si parla di un

secondo romanticismo), e le cui esemplificazioni più tipiche si trovano nell'opera di Giovanni Prati e di

Aleardo Aleardi. La scapigliatura

Mentre, in un clima di diffusa mediocrità culturale, il Risorgimento si avviava a diventare maniera e

retorica, una reazione decisa a questo conformismo si manifestò, di nuovo, a Milano con la scapigliatura,

che fu anche un fenomeno di ribellismo dell'arte contro la società, dai toni clamorosi ma non radicali,

perché in Italia il conflitto sociale era ancora modesto. Gli scapigliati (Arrigo Boito, Camillo Boito, Emilio

Praga, Giovanni Camerana, Iginio Ugo Tarchetti) manifestarono, anche con una vita provocatoriamente

sregolata, il loro rifiuto della morale e dei valori borghesi e insieme compirono i primi tentativi di un'arte

nuova. Guardavano ai nuovi poeti francesi, i "poeti maledetti" (vediCharles Baudelaire), senza saperne

apprendere davvero la lezione, e sostituirono al "padre" Manzoni il loro maestro indigeno, Giuseppe

Rovani (autore di un macchinoso romanzo ciclico,I cento anni , 1857- 1858). Gli scapigliati non

esercitarono la loro ricerca di rottura sul piano della lingua, eccetto due casi isolati di scrittori che si

collocano alla periferia del movimento: Carlo Dossi, capace di una forte deformazione linguistica tra


umorismo e umoralità surreale, e Giovanni Faldella, autore di prose bozzettistiche rese vivaci da un uso

Il ritorno al classicismo

 

Intorno al 1860, per fastidio verso il romanticismo di maniera, soprattutto in Toscana e in Veneto, si

assistette a una ripresa del classicismo come richiamo a un rigore espressivo compromesso e, insieme,

come impegno civile contro le cadute conformistiche in un'Italia che vedeva affievolirsi la spinta ideale del

Risorgimento. Il classicismo sottendeva anche una esigenza di realismo, cioè di richiamo ai problemi

concreti, per quanto filtrati attraverso i modi di un linguaggio da tempo formalizzato. (Non è casuale che

la ripresa classicistica sia stata coeva e a volte solidale con la richiesta di un contatto più forte con la

realtà, interpretato al meglio dal verismo.) Quest'opera di restaurazione letteraria in chiave classicistica ha

il suo massimo interprete in Giosue Carducci, poeta della storia contemporanea e del passato che

ripropose il mondo antico come modello di virilità contro la decadenza presente. Oltre che grande

sperimentatore della metrica barbara, fu filologo e fondatore, in ambito critico, di quella "scuola storica"

che incise profondamente nella cultura di fine Ottocento. Il verismo e il naturalismo

Il terreno in cui la letteratura era più impegnata – anche grazie alle spinte dei modelli europei – nella

rappresentazione della realtà era la narrativa. Nel clima culturale del positivismo, sul modello delnaturalismo francese (Émile Zola, in particolare), si sviluppò, con caratteri propri, il verismo.

 

L'esigenza di concretezza, la scoperta delle province meridionali dopo l'unità d'Italia, la valorizzazione

delle specifiche realtà regionali, anche con la ripresa dell'insegnamento manzoniano alla non retorica,

trovarono l'espressione più originale (anche sul piano linguistico e stilistico, ad esempio con l'uso

sistematico del discorso indiretto libero, in funzione oggettivante) nell'opera di Giovanni Verga, che

raccontò il destino epico e tragico di personaggi destinati alla sconfitta (i "vinti"), appartenenti a un mondo

in cui la storia sembra una variabile secondaria. Accanto a Verga vanno ricordati altri due siciliani: il

critico e narratore Luigi Capuana e Federico De Roberto, autore diI Viceré (1894).

 

Nell'orbita del naturalismo si muovono, con angolazioni regionalistiche, una serie di narratori: Matilde

Serao per Napoli; la prima Grazia Deledda per l'arcaica Sardegna; Emilio De Marchi per la Lombardia;

il genovese Remigio Zena (1850-1917); il veneto Antonio Fogazzaro, che delineò personaggi sospesi tra


grandi tensioni ideali e torbide fascinazioni sentimentali. Ci sono poi i toscani (Mario Pratesi, Renato

Fucini e il novecentesco Bruno Cicognani), tra i quali spicca per il suo espressionismo e per il talento

narrativo Federigo Tozzi, anch'egli scrittore ormai del Novecento. Un posto a sé occupano due libri di

grandissimo successo tra Ottocento e Novecento,Le avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Collodi e

Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, ma anch'essi collocabili nell'ambito del naturalismo.

 

La valorizzazione degli elementi regionali non è estranea alla ripresa della letteratura dialettale, che vanta

due grandi nomi, il napoletano Salvatore Di Giacomo e il romano Cesare Pascarella (1858-1940).

 

Il decadentismo

 

Proprio mentre le frange del naturalismo si distendevano in Italia, verso il finire del secolo si delineò una

nitida reazione alla pretesa di tipo positivistico (espressa anche dal naturalismo-verismo) di conoscere e

rappresentare la complessa realtà umana col metodo delle scienze naturali. A questa svolta, sostanziata di

fruttuose inquietudini, che in una sorta di ripresa dell'irrazionalismo romantico aprirono nuovi spazi

all'espressione letteraria e nuove dimensioni conoscitive prima inesplorate, è stato dato il nome un po'

 

Meno clamorosa ma più profonda è la rivoluzione compiuta nel linguaggio poetico da Giovanni Pascoli,

tanto che il suo primo libro,Myricae (1891), sembra appartenere a un'altra tradizione poetica: con

Pascoli, infatti, finì il secolare dominio del classicismo nel linguaggio poetico. Egli creò un linguaggio

capace di cogliere le vibrazioni più segrete ed eloquenti della realtà naturale e dell'animo; e la sua poetica

delle "piccole cose", grazie all'impiego sistematico dell'analogia, dilata le dimensioni della realtà,

apparentemente ristretta, a una dimensione cosmica, fino a muoversi al margine degli spazi paranaturali

che avvolgono la realtà. Il Novecento

La lezione linguistica combinata di Pascoli e di D'Annunzio (rifiutato nei temi e negli atteggiamenti

superomistici) presiede alla poesia dei crepuscolari e in particolare di Guido Gozzano, che a sua volta

offrì tematiche e soluzioni linguistiche poi passate a Eugenio Montale. I crepuscolari (Sergio Corazzini,

Corrado Govoni, il primo Marino Moretti e altri) espressero, a conclusione dell'irrazionalismo decadente,

la crisi dell'uomo e della letteratura (si veda Moretti, poeta che non ha "nulla da dire") e rifiutarono non


solo la figura del poeta-vate (nella versione moderna, D'Annunzio) ma ridussero il ruolo stesso della

poesia.

 

La coscienza della crisi (si era alla vigilia e nel corso della prima guerra mondiale) si accompagnava

peraltro a un vitalismo estremo, entusiasta della modernità, di cui massima espressione è il futurismo,

quasi incarnato da Filippo Tommaso Marinetti e interpretato su registri diversi dagli ex crepuscolari

Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, creativo, scanzonato e dissacrante, ma leggero come pochi.

 

Una cesura con l'Ottocento, a parte un senso diffuso di crisi o di smania di rifondazione (futurismo), è

simbolicamente segnata dall'adozione in Italia del verso libero, che interruppe una tradizione secolare di

versificazione "non libera" e di impiego ordinato della rima. Il verso libero, che sarebbe stato dominante

nel Novecento, in Italia fu teorizzato con passione dal disordinato sperimentatore Gian Pietro Lucini e

adottato inizialmente dai futuristi, con tentativi di superarlo nelle apocalittiche applicazioni delle "parole in

libertà".

 

La coscienza della crisi di inizio secolo è, con diversi sviluppi, al centro dell'opera di due grandi scrittori,

Luigi Pirandello e Italo Svevo. Il primo, nelle novelle, nei romanzi e nel teatro (è anche uno dei pochi

grandi scrittori di teatro in Italia) indagò sull'inautenticità e sull'aggressività sulle quali si fondano i rapporti

sociali tra gli uomini, che si trovano in una condizione di continuo scacco nella vita (Il fu Mattia Pascal,

1904), oltre che sulla disintegrazione di quella coscienza individuale (Uno, nessuno, centomila, 1925)

che solo un secolo prima era stata al centro della rivoluzione romantica.

Quanto a Svevo, anch'egli

proveniente dall'esperienza del naturalismo, ma a contatto con la cultura mitteleuropea e beneficiario

dell'incontro con James Joyce, trasferì l'analisi oggettiva all'interno della coscienza, scoprendo (in un

rapporto ruvido con Freud) la dimensione che sta oltre la coscienza, interpretando la vita, imprevedibile e

non dominabile, come malattia, e facendo, attraverso l'ironia, della coscienza di inettitudine una strategia

esistenziale. L'indagine oltre le apparenze della coscienza fu così radicale che Svevo dissolse le

A fronte di tante testimonianze di inquietudine e di senso di inadeguatezza e disorientamento – e nel loro

contesto – stanno altre ricerche volte a fondare una nuova etica, una nuova coscienza civile e politica

(soprattutto negli anni del fascismo) e un nuovo dominio intellettuale sulla realtà di tipo razionalista. Ci si

riferisce alla ricerca espressa dalle prime riviste del Novecento, agli scritti e alla lezione morale di Piero


Gobetti e Antonio Gramsci e al pensiero critico ed estetico di Benedetto Croce.

 

Nel primo Novecento il confronto di idee passò attraverso una serie di riviste di vario orientamento: "Il

Leonardo" (1903-1907) e "Lacerba" (1913-1915), la rivista di Giovanni Papini e di Ardengo Soffici,

espressione di un'oltranza futurista; "La Voce", fondata da Giuseppe Prezzolini nel 1908 e durata fino al

1916, con rifondazione nel 1914 di Giuseppe De Robertis, importante rivista interessata prima ai grandi

problemi morali e sociali e poi divenuta organo dell'"idealismo militante"; "La critica" (1903-1944) di

Benedetto Croce. In seguito comparvero "La rivoluzione liberale" (1922- 1925) di Piero Gobetti e

"L'ordine nuovo" (1929-1925) di Antonio Gramsci, Angelo Tasca e Palmiro Togliatti; "Il Baretti"

(1924-1928) di Piero Gobetti, Augusto Monti, Leone Ginzburg, Giacomo Debenedetti; "Solaria"

(1926-1936) di Alberto Carocci, Giansiro Ferrata, Alessandro Bonsanti.

 

In parallelo alle prime riviste, alcuni scrittori si dedicarono a un integrale rinnovamento etico e artistico:

Carlo Michelstaedter, Piero Jahier, originale e insolito poeta, Giovanni Boine, Scipio Slataper. E, sul

fronte critico, ci fu l'opera di un raffinato e inquieto lettore, Renato Serra. Grandi contributi intellettuali al

rinnovamento dell'Italia durante e dopo il fascismo dettero Piero Gobetti, con la sua affermazione

integrale di libertà e di saldezza morale, e Antonio Gramsci, i cuiQuaderni del carcere – uno dei cui

centri è l'analisi del comportamento degli intellettuali nella nostra vita nazionale – costituirono un vero e

proprio nutrimento per la cultura dal 1947, anno della prima edizione, fino a tutti gli anni Settanta. La

razionalità politica, di tipo marxista, di Gramsci ha il suo corrispondente idealistico nell'opera e nel

pensiero di Benedetto Croce, che con l'Estetica(1902) e col lavoro di critico esercitò un'egemonia

culturale lungo tutto il primo Novecento in Italia, condizionando tutta la critica accademica di quel

periodo.

 

Sono collocabili nell'ambito del primo Novecento l'opera del critico e romanziere siciliano Giuseppe

Antonio Borgese e l'opera del senese Federigo Tozzi. Borgese contrapponeva alla scrittura del

"frammento" e all'autobiografismo prevalenti nei "vociani" l'idea di un romanzo capace di interpretare la

realtà storica: conRubé (1921), criticò l'interventismo attraverso un personaggio che trasferisce

irrazionalmente la propria passività nell'intervento nella storia. Tozzi offrì una narrativa a fondo

autobiografico e di taglio apparentemente naturalista; il suo capolavoro,Con gli occhi chiusi (1919),

caratterizzato da un espressionismo violento, presenta un inetto che, in una realtà disumana e

minacciosamente estranea, chiude gli occhi per non vedere l'insopportabile stranezza dell'esistenza.


La letteratura fra le due guerre

 

La letteratura del primo dopoguerra si aprì con un ritorno all'ordine, agli equilibri formali e al valore della

tradizione in senso classicistico. Massima promotrice di questa tendenza fu la la rivista romana "La

Ronda" (1919-1922). Due le figure di maggior spicco che gravitavano attorno a questa esperienza

letteraria: il poeta e narratore Vincenzo Cardarelli e il critico Emilio Cecchi. Anche Massimo Bontempelli

si fece promotore di una sorta di neoclassicismo "metafisico" per rinnovare la cultura. In contrasto con

l'autarchia culturale del fascismo, una decisa apertura europea si deve alla già ricordata rivista fiorentina

"Solaria". Qui si creava quel mito dell'America divenuto fondamentale a partire dagli anni Trenta. Echi del

surrealismo francese degli anni Venti si trovano nella scrittura di Alberto Savinio. Un surrealismo

romantico è quello di Tommaso Landolfi, scrittore originale e appartato, che elaborò nella sua narrativa

In questa età assunse grande rilievo la lirica, presentata perlopiù come esperienza assoluta di un io lirico

che vaga solitario, in una sorta di odissea individuale, negli spazi della civiltà moderna. C'è la voce

dell'eterno farsi del mondo di Arturo Onofri (1885-1928) e quella di Piero Jahier, che interpreta la

tensione morale della "Voce"; c'è il furore, tra simbolismo ed espressionismo, deiCanti orfici (1914) di

Dino Campana, in cui il tema del viaggio indica la poesia come assoluto altrove; c'è il tormento del

linguaggio come oggettivazione della tensione morale di Clemente Rebora; c'è il mondo spaesato e

frantumato di Camillo Sbarbaro; e c'è la nuda cronaca esistenziale elevata a canto nel grandeCanzoniere

di Umberto Saba: la poesia diventa qui ricerca delle ragioni più autentiche dell'esistenza e forma stessa

del desiderio di vita e di dolcezza. C'è, soprattutto, l'opera di Giuseppe Ungaretti: massimo esponente

della linea simbolista, sviluppò, soprattutto nella prima fase, una poetica dell'analogia e cercò di creare le

condizioni dell'assoluto nella parola isolata. Inoltre dissolse e ricostruì la metrica classica entro una

tradizione lirica tesa al sublime e lontana da ogni realismo. Tra ermetismo prima e neorealismo poi si

muovono le liriche di Salvatore Quasimodo (premio Nobel nel 1959) e, in forma diversa, quelle di

Alfonso Gatto.

 

Fiorì anche la poesia dialettale con il romano Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri), il triestino

Virgilio Giotti (1885-1957), il gradese Biagio Marin, che elevò un purissimo canto tra il quotidiano e il

magico, e il milanese Delio Tessa, continuatore della grande lezione di Porta tra realismo e deformazione.


Eugenio Montale (premio Nobel nel 1976), il più grande poeta del XX secolo, a partire dalla poetica del

negativo che interpreta le inquietudini del Novecento sviluppò una poesia "metafisica" in cui la natura

ligure (Ossi di seppia, 1925) è il "correlativo oggettivo" (vediThomas Stearns Eliot) della desolata

condizione esistenziale e in cui la donna è mediatrice tra esistere ed essere e poi depositaria (Le

occasioni, 1939) di una possibile salvezza di fronte a una realtà storica sempre più apocalittica (La

bufera e altro, 1956). Seguì la svolta, espressiva e tematica, diSatura (1971) e delle raccolte

successive, che ripropongono la negatività del mondo della società dei consumi in cui la parola si svuota e

il linguaggio evade in toni epigrammatici e sarcastici.

 

Il disordine, il "pasticciaccio" del mondo viene rappresentato anche da uno degli scrittori più grandi del

Novecento, il milanese Carlo Emilio Gadda, che, in una prosa ardua e manipolata con elementi linguistici

dialettali e dotti e in uno scatenamento linguistico acido e furioso insieme, tenta di dominare il disordine

con una lancinante angoscia dell'esistenza. Il secondo dopoguerra (1945-1968)

La seconda guerra mondiale e la Resistenza determinarono un diverso clima culturale. Gli anni del

dopoguerra sono caratterizzati dal neorealismo, che espresse una forte istanza etico-civile per la

rifondazione della società e dei suoi valori. Uno dei paradossi del neorealismo è che i suoi maestri, Elio

Vittorini e Cesare Pavese, sono scrittori dal taglio fortemente simbolico. Del primo è fondamentale

Conversazione in Sicilia (1938-1839); del secondo lo sono almenoLa casa in collina (1948) eLa

luna e i falò (1950); entrambi furono grandi organizzatori di cultura; entrambi introdussero in Italia i

Oltre il neorealismo si dilata una grande "nebulosa narrativa", che ingloba nomi importanti: Carlo

Cassola, con al centro la tematica esistenziale; Giorgio Bassani, che privilegia la memoria; Giuseppe

Tomasi di Lampedusa, conIl Gattopardo (pubblicato postumo nel 1958);

Alberto Moravia con un

grande romanzo,Gli indifferenti (1929), e poi ossessionato dall'attualità; Primo Levi e il tema della

memoria (Se questo è un uomo, 1947); e poi Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Goffredo Parise;

Leonardo Sciascia, con la sua lucida narrativa critica; e ancora Guido Morselli, scoperto dopo la morte,

Guido Piovene, Mario Soldati, Giuseppe Bonaviri (1924). A costoro vanno aggiunti i nomi di scrittrici di

primo piano. Anzitutto Elsa Morante, di cui occorre ricordare almenoLa storia (1974); poi Lalla

Romano, attenta osservatrice dei rapporti umani; e Anna Maria Ortese. Alla fine di questo elenco spicca


il nome di Italo Calvino, la cui opera, iniziata all'insegna del neorealismo, arrivò a esplorare nuovi territori

letterari, dalla fantascienza alla letteratura come gioco combinatorio.

 

La ricerca sperimentale degli anni Cinquanta e l'esperienza della neoavanguardia (che in qualche modo

trovò espressione nel Sessantotto) registra alcune tappe importanti: lo sperimentalismo di riviste come

"Officina" (1955-1958), con Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Franco Fortini,

Angelo Romanò, Gianni Scalia, e "Il Menabò" (1959-1967), con Vittorini e Calvino; la neoavanguardia

del Gruppo 63, che mirava a ridefinire il rapporto tra letteratura e pubblico; Pier Paolo Pasolini, poeta,

narratore e cineasta, che sperimentò oltre i compromessi linguistici –

propri del neorealismo – tra lingua e

dialetto; Franco Fortini, poeta e saggista; lo sperimentalismo espressionistico di Giovanni Testori e di

Stefano D'Arrigo (1919); la prosa di Antonio Pizzuto, nella quale il processo narrativo sembra venire

negato; il caso singolare di Luigi Meneghello; la scrittura d'avanguardia di Edoardo Sanguineti; i

poeti-prosatori della neoavanguardia Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani,

Antonio Porta, Nanni Balestrini; le

scontrose finzioni di Giorgio Manganelli; e gli inesauribili artifici di Alberto Arbasino.

Quanto alla lirica, si costruì una ricca e complessa situazione che la critica ha cercato di dipanare

individuando una "linea sabiana", in cui prevalgono un rapporto più diretto con le cose e un linguaggio più

tradizionale, e una "linea novecentista", più modernizzante e tendenzialmente ermetica, che fa capo a

Ungaretti e Montale. Alla prima linea appartengono poeti come Carlo Betocchi (1899-1986), Sandro

Penna, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni e in qualche modo anche Giovanni Giudici; alla seconda poeti

come Mario Luzi e Vittorio Sereni.

 

Luciano Anceschi indicò poi una "linea lombarda", che comprende poeti legati a Milano ed esordienti nel

dopoguerra, come Giorgio Orelli, Nelo Risi, Luciano Erba, Bartolo Cattafi; in seguito sono stati fatti

rientrare nella stessa tendenza poeti più giovani, quali Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni, Tiziano

Rossi e Maurizio Cucchi. Per la poesia dialettale registriamo Ignazio Buttitta e Tonino Guerra.

 

Dopo il Sessantotto

 

Negli ultimi decenni si è delineata una condizione culturale in cui le manifestazioni del moderno nelle

società industriali avanzate si sono saturate e in cui la realtà si sviluppa attraverso procedimenti sparsi e

poco controllabili. Per indicare questa situazione si parla di "postmoderno". Inoltre il vuoto lasciato da

grandi scrittori, come Calvino, Morante, Levi, Sciascia, e dalle tradizionali ideologie contribuiscono al


disorientamento. Uno scrittore strutturalmente postmoderno anche per il virtuosismo intellettuale è

Umberto Eco (1932). Altri vivono il postmoderno con un atteggiamento mentale di resistenza; tra questi,

Paolo Volponi con la sua razionalità e Luigi Malerba su un registro satirico-grottesco. Ci sono poi i poeti

come Andrea Zanzotto (1921), col suo toccante sperimentalismo; la tensione morale di Giovanni Giudici;

l'ostinato ascolto del linguaggio della poetessa Amelia Rosselli; e ancora la poesia in dialetto di Franco

Loi.

 

Le opere migliori sono di autori non più giovani come Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Sebastiano

Vassalli e Antonio Tabucchi per la prosa; e, per la poesia, alcuni nomi della già ricordata "linea

lombarda" (Raboni, Rossi, Cucchi), oltre a Cesare Viviani (1947),

Valentino Zeichen (1938) e le

poetesse Alda Merini e Vivian Lamarque, quest'ultima dal linguaggio fiabesco. Tra gli scrittori ancora più

recenti si sono segnalati: Pier Vittorio Tondelli, Stefano Benni, Daniele Del Giudice, Aldo Busi, Andrea

De Carlo, Alessandro Baricco, Susanna Tamaro; tra i poeti, Valerio Magrelli (1957). Infine merita

ricordare i nomi di giornalisti e studiosi come Enzo Biagi, Pietro Citati, Claudio Magris e Roberto

Calasso (1941).

 

RIASSUNTI AUTORI E OPERE

 

 

DANTE ALIGHIERI VITA

Nasce a Firenze nel maggio 1265 da famiglia di piccola nobiltà cittadina (avo:

Cacciaguida, canti XV-XVII del Paradiso);

verso il 1283 acquista familiarità con Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Forese Donati;

diviene amico di Brunetto Latini;

nel 1290 muore Beatrice, donna amata dal poeta;

nel 1295, usufruendo della riforma degli Ordinamenti di Giustizia, si

iscrive all’arte dei

medici e degli speziali, sicché nel 1300 è eletto Priore;

nel 1300, scissione a Firenze tra Guelfi bianchi, guidati dai Cerchi, e Guelfi neri,

capeggiati dai Donati; Dante si considera un Guelfo bianco;

nel 1301 è inviato in ambasceria da Bonifacio VIII, per convincere il papa a contrastare il


partito dei Neri; inganno del pontefice che lo trattiene presso di sé, mentre Carlo di Valois

a Firenze aiuta i Neri a prendere il sopravvento sui Bianchi;

nel 1302 Dante viene accusato dai Neri di baratteria (corruzione) ed è condannato ad una

ammenda di 5000 fiorini; rifiuta il pagamento ed inizia il suo esilio;

va ospite a Forlì, Verona, Treviso, Val di Magra, corti nelle quali esercita le funzioni di

segretario e diplomatico;

nel 1310 l’imperatore Arrigo VII di Lussembrgo arriva in Italia per

cingere la corona;

Dante scrive tre lettere per supportarlo: una ai re, principi e popoli

dell’Italia, una agli

“scelleratissimi fiorentini” che si opponevano all’imperatore, una

direttamente ad Arrigo;

fallito tentativo da parte dell’imperatore di prendere Firenze e morte di Arrigo nel 1313;

Dante rifiuta il ritorno “negoziato” a Firenze e si reca presso Cangrande

della Scala

(Verona), Guido Novello da Polenta (Ravenna);

dopo una missione a Venezia per conto di Guido Novello, Dante muore nel 1321.

OPERE E PENSIERO

Vita nuova:

 

1.

composta tra 1292-1294 e dedicata a Guido Cavalcanti; è una scelta di rime (25 sonetti, 4

canzoni, 1 stanza e 1 ballata) collegate tra loro da 42 capitoli in prosa che chiariscono le

occasioni (ragioni) o spiegano le parti delle singole poesie (divisioni)

2.

STRUTTURA: tre momenti narrativi: l’innamoramento (cap. I-XIX), incentrato ancora

sui temi di una poetica duecentesca: influenza della poesia di Guittone

d’Arezzo e di

Cavalcanti; le lodi di Beatrice (cap. XX-XXIX): Dante trova un modulo più personale e il

racconto è come calato in una estetica atmosfera di sogno: influenze stilnovistiche e

guinizzelliane (Tanto gentile e tanto onesta pare); la morte di Beatrice e il culto di lei

(cap. XXX-XLII): arte più matura e consapevole: le rime di questa sezione vibrano di un

tono più affettuoso di pietà, sono meno artificiose e retoriche. 3.

GIUDIZIO CRITICO: Dante utilizzò per quest’opera tutta la sua produzione

poetica

giovanile, per cui magari in origine le poesie non avevano attinenza con

l’amore per


Beatrice e furono “adattate” in un secondo momento (scarsa coerenza

tematica delle

rime). Unitaria è, invece, la prosa e fusa bene con i versi; emergono formazione retorica,

perizia tecnica, ma anche tensione spirituale. Rime:

 

1.

34 sonetti, 2 stanze, 11 canzoni, 5 ballate, 2 sestine; 26 componimenti

“dubbi”

2. STRUTTURA: rime della giovinezza: influenze guittoniane, di Cavalcanti e Guinizzelli

(famoso il sonetto: Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io); tenzone con

Forese Donati: 6

sonetti, 3 di Dante e 3 di Forese: influenze della corrente della poesia realiastica e giocosa

(Folgòre da San Giminiano); rime pietrose: cantata una Madonna Pietra: amore

passionale e difficile per una donna aspra (Amor tu vedi ben che questa donna); rime

dell’esilio: l’interesse del poeta si sposta verso la lirica allegorica e

dottrinale (Tre donne

intorno al cor mi son venute). Fiore:

 

attribuzione contestata: poemetto che imita il francese Roman de la rose: argomenti amorosi e

politici.

Convivio: 1.

composto tra 1306-1307, concepito da Dante come commento a 14 sue canzoni, ma

l’opera si ferma al quarto trattato;

2. STRUTTURA:

trattato primo: proemio con dichiarazione programmatica sull’uso del volgare, altrettanto degno del latino di diffondere il sapere; secondo: commento alla

canzone Voi che intendendo il terzo ciel movete: descrizione dei cieli, delle gerarchie

angeliche... (concezione tomistica dell’universo); i quattro sensi:

letterale., allegorico,

morale, anagogico (spirituale); terzo: canzone Amor che ne la mente mi ragiona: donna

come figura allegorica e nobiltà come dono individuale dell’anima, non

derivante dalla

nascita; quarto; canzone Le dolci rime d’amore ch’io solia: autorità

imperiale voluta da

Dio e da lui affidata a Roma 3.

FONTI: Aristotele, innanzitutto, San Tommaso, Bibbia, Sant’Agostino: tutta l’erudizione

medievale, ma anche un nuovo ardore scientifico. De Vulgari Eloquentia:


1.

composto tra 1303 e 1304: doveva constare di 4 libri, ma si ferma la secondo (14° cap.):

Dante usa il latino per parlare del volgare poiché sa che, altrimenti, la sua opera non

sarebbe stata presa in considerazione dai dotti del tempo;

2. STRUTTURA: libro primo: il volgare è naturale e universale mentre il latino è lingua

artificiale; ebraico e unità linguistica originaria, poi Babele e divisione delle lingue in tre

gruppi: germanico, romanzo e greco. Tra le lingue romanze: provenzale

(d’oc), italiano

(sì), francese (d’oil), divisi in vari dialetti. Dialetti italiani: 14, 7

a destra e 7 a sinistra

dell’Appennino. Necessità di un volgare comune e di un volgare illustre

(fusione tra tutti i

dialetti) per l’Italia intera; libro secondo: varietà degli stili:

tragico (sublime), comico

(mediano), elegiaco (umile); tra tutti i componimenti il più alto è la canzone, cui è

riservato il volgare illustre e lo stile tragico 3.

GIUDIZIO: nonostante errori e limiti (soprattutto il fatto di aver sottovalutato e

disprezzato la lingua parlata, a vantaggio esclusivo di quella letteraria

e scritta), l’opera è

il primo tentativo di studio scientifico del linguaggio e della lingua, nonché di stile e

metrica, addirittura con anticipazioni della moderna glottologia; il significato profondo

dell’opera, comunque, è nella consapevolezza dell’opera preminente degli

scrittori nella

formazione del linguaggio di un intero popolo. Anche se l’Italia non aveva un centro di

potere unico, fondamentale per l’unificazione linguistica, tuttavia –

afferma Dante – gli

scrittori, la “curia ideale” formata dagli intellettuali di tutto il

paese, avrebbe potuto

assolvere alla funzione di creazione di un volgare illustre e si sarebbe sicuramente raccolta

attorno ad un sovrano che si fosse assunto l’onere di riunificare politicamente l’Italia.

De Monarchia: 1.

tre libri in latino, pareri discordi sulla data di composizione (per lo più: 1310-1312)

2. STRUTTURA: libro primo: necessità di un unico reggitore (reductio ad unum), di un

monarca universale che garantisca la perfetta giustizia, pace e libertà agli uomini; libro

secondo: il popolo romano ebbe da Dio il titolo imperiale, favorendo poi la diffusione del

Cristianesimo, l’Italia è la sede naturale dell’Impero; libro terzo:

concetto della


separazione dei due poteri di Impero e Chiesa; l’autorità imperiale

deriva non dal Papa ma

direttamente da Dio (la donazione di Costantino fu atto arbitrario);

Chiesa e Impero

soddisfano fini diversi dell’uomo: la perfezione spirituale e quella

terrena. 3.

GIUDIZIO CRITICO: prima affermazione vigorosa degli ideali della laicità, dello

sdoppiamento dei fini dei due poteri; precedenti delle tesi politiche esposte nella

Commedia.

Epistole: 13 epistole in latino curiale e scolastico, a nome proprio e di alcuni signori preso i

quali Dante fu ospite; Quaestio de aqua et terra: dissertazione scientifica; Egloghe: 2, in

esametri, risposta a due egloghe di Giovanni del Virgilio: sono importanti perché Dante tratta

temi autobiografici (l’esilio), ma soprattutto perché aprono la strada

alla poesia pastorale e

alle egloghe latine umanistiche. Divina commedia:

1. TITOLO:

Commedia perché, come spiegò la stesso poeta, “è orribile e repellente da principio... mentre alla fine è prospera, desiderabile e attraente” nonché per lo stile

mediano; l’aggettivo divina fu usato per la prima volta da Boccaccio nel Trattatello in

laude di Dante; 2.

METRICA: 3 cantiche di 33 canti ciascuna con 1 proemio (100 canti in tutto); metro:

terza rima di endecasillabi – strofa popolare utilizzata per lo più per il serventese - a rima

incatenata (schema: ABA BCB CDC);

3.

COMPOSIZIONE: l’ipotesi più accreditata sul periodo di composizione del

poema: inizio

intorno al 1307, Inferno e Purgatorio compiuti poco prima o poco dopo la morte di Arrigo

VII, Paradiso negli ultimi anni; 4.

STRUTTURA (GENERE LETTERARIO: poesia didascalica, SOTTOGENERE: poema allegoprico-didascalico): INFERNO: cono rovesciato sotto la superficie della terra in

corrispondenza di Gerusalemme, simile ad un anfiteatro degradante verso il basso fino ad

una lastra perennemente ghiacciata dove è conficcato Lucifero; il fiume Acheronte separa

l’Antinferno dall’Inferno vero e proprio. I peccatori sono distribuiti dall’alto verso il basso

man mano che si aggravano le loro colpe: nell’Antinferno sono puntiti gli

ignavi (canto


III); dopo l’Acheronte c’è il Limbo, cioè il primo cerchio, nel quale vi

sono le anime

prive di battesimo e gli uomini giusti vissuti prima di Cristo (IV). Dal cerchio secondo al

quinto ci sono gli incontinenti: nel secondo i lussuriosi (V), nel terzo i golosi (VI), nel

quarto avari e prodighi (VII), nel quinto iracondi e accidiosi immersi nella palude Stigia

(VIII). Dopo gli incontinenti c’è la città di Dite con il sesto cerchio,

dove sono puniti

eresiarchi ed epicurei (IX-XI). Nei tre cerchi successivi vengono i peccati per malizia: il

“buratto” (frana prodottasi al momento della morte di Cristo) porta al

settimo cerchio con

i violenti verso il prossimo (girone 1, XII: omicidi e predoni), verso se stessi (girone 2,

XIII: suicidi e scialacquoni), verso Dio, la natura e l’arte (girone 3,

XIV-XVII:

bestemmiatori, sodomiti e usurai). La “ripa” in cui precipita il fiume

Flegetonte delimita

l’ottavo cerchio diviso in dieci bolge: nella prima sono puniti ruffiani

e seduttori (XVIII),

nella seconda gli adulatori e nella terza i simoniaci (XIX), nella quarta gli indovini (XX),

nella quinta i barattieri (XXI-XXII), nella sesta gli ipocriti (XXIII), nella settima i ladri

(XXIV-XXV), nell’ottava i consiglieri fraudolenti (XXVI-XXVII), nella nona i

seminatori di discordia (XXVII-XVIII), nella decima i falsari (XXIX-XXX).

Dopo il

pozzo dei giganti si stende la grande superficie ghiacciata del nono cerchio, dove sono

punti i fraudolenti contro chi si fida; sono quattro zone; nella Caina vi sono i traditori dei

parenti (XXXII), nella seconda, Antenora, i traditori della patria (XXXII-XXXIII), nella

terza, Tolomea, i traditori degli amici (XXXIII), nella quarta, Giudecca, i traditori dei

benefattori (XXXIV); al centro sporge dal petto in su Lucifero che maciulla Cassio

Longino, Giunio Bruto e Giuda Iscariota. PURGATORIO: montagna corrispondente nella

forma e nel volume al vano dell’Inferno, posta nell’emisfero opposto; è diviso anch’esso

 

in nove parti: Antipurgatorio, le sette cronici del monte e il Paradiso terrestre. Il primo è

articolato in tre balzi, con le anime che peccarono per negligenza: ai piedi del monte sono

coloro i quali morirono scomunicati dalla Chiesa (III); nel primo balzo coloro che si

pentirono in punto di morte ( IV); nel secondo coloro che, morti di morte violenta, si

pentirono in fin di vita (V-VII) e, nel terzo, coloro che non curarono i doveri religiosi


(VIII-IX). Si passa poi alle sette cornici: nella prima, i superbi (X-

XII), nella seconda, gli

invidiosi (XIII-XV), nella terza gli iracondi (XVI-XVII), nella quarta, gli accidiosi

(XVIII-XIX). Nelle ultime tre cornici vi sono coloro che eccedettero per amore, in sé

giusto, ma in essi eccessivo, per i beni mondani: nella quinta gli avari e prodighi (XXXXII),

nella sesta i golosi (XXIII-XXV), nelle settima i lussuriosi (XXVI- XXVII). Nel

Paradiso terrestre le anime si raccolgono per la purificazione totale immergendosi nei due

fiumi Lete ed Eunoe; qui Dante incontra Beatrice. PARADISO: è costituito da nove cieli

che ruotano intorno alla Terra immobile con una velocità sempre crescente fino al nono, o

primo mobile, velocissimo, che imprime il moto alle altre sfere; oltre

questo, c’è l’infinito

immobile, l’Empireo. Nel primo cielo della Luna appaiono le anime di

coloro che non

compirono i voti fatti, perché costretti dagli altri con la violenza (II- V); nel secondo, di

Mercurio, le anime di coloro che operarono il bene per conseguire onore e fama (V-VII);

nel terzo, di Venere, coloro i quali, pur portati da natura agli impulsi di amore, non vi si

abbandonarono ciecamente ma ad un certo punto li convogliarono verso Dio (VIII-IX);

nel quinto, di Marte, i combattenti per la fede (XIV-XVIII); nel sesto,

Giove, i giusti e pii

reggitori dei popoli (XVIII-XX); nel settimo, Saturno, i contemplativi (XXI-XXII);

nell’ottavo, o stellato, il trionfo di Cristo e Maria (XXII-XXVII); nel nono, o primo

mobile, le gerarchie angeliche (XXVII-XXIX); quindi, l’Empireo, la

candida rosa e la

visione di Dio (XXX-XXXIII).

 

5. SIGNIFICATI:

allegorico: smarrita nella selva del peccato, l’anima di Dante è impossibilitata a vincere le passioni (le tre fiere) e avrebbe dovuto soccombere, se la

grazia (la Madonna) non avesse illuminato la ragione (Virgilio); attraverso il peccato

(Inferno) e la contrizione espiatrice (Purgatorio), l’anima può

finalmente accogliere la

verità teologica (Beatrice), che guida alla salvazione eterna (Paradiso); si noti, inoltre, la

simbologia allegorica assunta da certi numeri che vengono ossessivamente riproposti (3,

la Trinità, 10, la perfezione, e i loro multipli); morale: il poema è un ammaestramento per

gli uomini a seguire l’exemplum del poeta; anagogico: il poema è il

passaggio del genere

umano da uno stato di infelicità alla felicità e questa conquista potrà essere effettuata solo


se si saprà seguire il dettato dell’Impero (Virgilio) nelle cose

temporali e della Chiesa

(Beatrice) in quelle spirituali. A parziale correzione di questo schema, tuttavia, bisogna

sottolineare che i vari significati allegorici, morali etc., sono continuamente superati dalla

fantasia creatrice dell’autore, che non esaurisce mai un simbolo nel suo corrispondente

metaforico, ma gli conferisce dignità e autonomia; ad es., Beatrice e Virgilio,

rispettivamente allegorie della teologia e della ragione, sono creature

“vive”, superano

l’astrattezza del significato ad essi attribuito (lo stesso dicasi per le figurazioni allegoriche

minori quali Catone, Ulisse, etc.).

 

6.

FINALITA’: un fine etico si sovrappone a quello politico: Dante voleva

dimostrare come

la corruzione del Papato avesse impoverito la Chiesa della sua forza morale; solo se il

Papa avesse lasciato all’Imperatore il governo del mondo, entrambi i

poteri avrebbero

potuto guidare correttamente, l’uno la ragione e, l’altro, l’anima degli

uomini verso la

beatitudine eterna. Tuttavia, i fini esterni (morale, politico) sono superati nell’opera

dall’animus poetico dell’autore, che colorisce anche di sé anche la

struttura narrativa, pur

pensata in piena armonia con le finalità allegorico-didascaliche; così, si imprime al

viaggio attraverso i tre mondi un ritmo vario, mutevole, di volta in volta tragico,

incalzante, sereno, fosco, con grande spazio all’immaginazione, alla

visione fantastica di Dante.

7. CRITICA:

il De Sanctis nell’Ottocento è il primo che tenta una lettura “estetica” dell’opera di Dante (e non solamente “politica” come avevano fatto Vico, Alfieri e

Foscolo, condizionati da spunti preromantici e romantici); egli individua il momento più

alto nell’Inferno, mentre le altre due cantiche sono giudicate astratte,

erudite e poco

poetiche. Croce, coerentemente con la sua concezione dell’arte, si sforza

di separare ciò

che nella Commedia è vera poesia da ciò che non lo è; in questo modo, egli mette in

pericolo il carattere unitario dell’opera. I critici successivi, infatti, pur nell’ambito

dell’estetica crociana, si sforzano di rinvenire un criterio che leghi unitariamente la

struttura dell’opera: il crociano Momigliano, ad esempio, rintraccia

questo elemento

nell’analisi del paesaggio, cercando di individuare l’atmosfera

psicologico-figurativa dei

vari canti e sottolineando la coerenza della fantasia dantesca. Fuori della critica crociana si


 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

pone l’Apollonio, che individua l’unità della commedia nella persona

stessa del poeta in

quanto uomo integrale, cioè completamente radicato nell’Essere divino che

viene

contemplato al culmine (Spannung) del viaggio. Viene così recuperata

l’attenzione sul

Paradiso, svalutato sia da De Sanctis che da Croce; questo riconoscimento del Paradiso, in

realtà già avvertito nella critica di Cosmo, Flora, Getto, pone il problema dei legami tra

poesia e teologia e del significato strutturale, che guida le ricerche semiologiche della

critica più recente, con una sempre maggiore attenzione al mondo spirituale del poeta.

 

FRANCESCO PETRARCA VITA

 

Nasce ad Arezzo nel 1304 da ser Petracco ed Eletta Canigiani;

viaggi a Pisa e ad Avignone, sede papale (Carpentras); studi in legge dapprima a

Montpellier poi a Bologna;

dopo la morte del padre tornò ad Avignone dove prese gli ordini minori per i benefici

ecclesiastici;

1327: vede Laura per la prima volta a Santa Chiara ad Avignone (non si sa chi fosse,

forse la figlia di Audiberto de Noves, forse non è mai esistita, ma fu solo la laurea poetica

= alloro, nel senso che Laura rappresenta l’amore del poeta per la gloria

poetica);

ebbe due figli illegittimi; abbandono degli studi giuridici, viaggi in Francia, Fiandre,

Germania, Italia;

luoghi prediletti: Valchiusa presso Avignone, poi Selvapiana presso Parma, Arquà presso

Padova;

1341: fu incoronato poeta sul Campidoglio dopo esser stato esaminato per tre giorni dal

re Roberto D’Angiò;

1374: muore ad Arquà. PENSIERO

Non è più un intellettuale comunale come Dante, ma un intellettuale cosmopolita senza radici


e tradizioni comunali alle spalle (viaggi; intellettuale cortigiano che accetta la Signoria e la

sostiene con il suo prestigio, ricevendone in cambio onori e protezione).

Le rendite

ecclesiastiche, tuttavia, gli garantiscono quella autonomia e indipendenza economica che gli

consente di evitare di mettersi completamente al servizio di un singolo signore (ad es.

accettando l’incarico di segretario papale). La letteratura per lui assume una forte accezione di

humanitas nel senso di più alta manifestazione dell’ingegno dell’uomo,

facendo rivivere il

mondo antico e tutti i suoi valori morali e civili.

 

OPERE RELIGIOSE E MORALI

 

In Invectivae contra medicum quendam (1352-55) e De sui ipsius et multorum ignorantia

(1367-70) P. esprime il suo profondo fastidio per la filosofia scolastica, in sostituzione

della quale egli propone una dottrina che esplori l’interiorità dell’uomo(il modello era più

S. Agostino che S. Tommaso).

Il Secretum (o De secreto conflictu curarum mearum) (1353) è la più importante opera di

meditazione religiosa e morale. Divisa in tre libri è un dialogo tra P. stesso e S. Agostino,

svoltosi per tre giorni alla presenza della Verità, che non prende mai la parola. P. e S.

Agostino sono l’uno il contraltare dell’altro: il santo rappresenta il

super-io che

rimprovera a P. tutte le sue debolezze, mentre quest’ultimo rappresenta

la fragilità del

peccatore che non sa sottrarsi al male. Nel primo libro Agostino rimprovera a P. la

debolezza della volontà; nel secondo, passando in rassegna i sette peccati capitali,

Agostino rimprovera a P. l’accidia, la tristezza perenne che gli

impedisce di agire e di

scegliere. Il terzo libro esamina le sue colpe più gravi: il desiderio di gloria terrena e

l’amore per Laura. Con questo scritto diventa ben evidente che P. è l’uomo della crisi, del

travaglio spirituale, che non si riflette però nello stile, in quanto il

latino dell’opera è

limpido, armonioso, rispettoso della tradizione classica.

Altre opere di carattere etico-religioso sono: De vita solitaria (viene esaltata la solitudine,

che tuttavia deve essere accompagnata dalla contemplazione della bellezza della natura e

dalla presenza dei libri) e De otio religioso (la vita monastica viene contrapposta

all’esistenza vana di chi insegue ricchezze e onori).


OPERE UMANISTICHE

 

1.

Mentre il culto dei classici in Dante non era accompagnata dalla consapevolezza della

diversità tra mondo antico e mondo moderno (tanto che Virgilio poteva essere interpretato

come precursore del Cristianesimo), P. è ormai consapevole della frattura tra Medioevo e

classicità e aspira a ricostruire quest’ultima nella sua autenticità, senza reinterpretazioni

modernizzanti. É questo il senso della filologia petrarchesca, la sua affannosa ricerca di

manoscritti da emendare e pubblicare (scoprì l’epistolario di Cicerone ad

Attico). 2.

Specchio di questa sua attività filologica e dell’amore per i classici è

il suo vasto

epistolario latino ( 24 libri di Familiari, 17 di Senili, alcune Sine Nomine, Varie). Nel

rivedere tutto questo materiale per la pubblicazione, P. eliminò tutti i riferimenti specifici

a persone e luoghi, operando una vera e propria trasfigurazione ideale ed eterna del suo

universo di valori. Quindi, le sue lettere non sono documento diretto della sua vita, ma

tendono a costruire un’immagine idealizzate di sé (tutto il contrario dell’epistolario di

Ariosto, non rivisto ed immediato). TEMI: cultura disinteressata come otium intellettuale;

fastidio per le attività pratiche; vagheggiamento di una vita solitaria lontana dal tumulto

della città; contatto diretto con la natura e con i libri; consapevolezza del ruolo

dell’intellettuale che deve, con la sua saggezza e cultura ammonire,

consigliare, ammaestrare.

 

3.

AFRICA: poema epico in esametri latini (1338-39). Argomento è la seconda guerra

punica, ispirandosi a Livio per i contenuti e a Virgilio per la forma

(famoso è l’episodio di

Magone morente che denuncia la vanità delle cose, l’inquietudine dell’uomo, la morte

quale unica certezza e riposo). 4.

DE VIRIS ILLUSTRIBUS: raccolta di biografie di illustri personaggi romani (Cesare,

Scipione, Catone, ...), scritta per celebrare la grandezza passata di Roma.

5.

RERUM MEMORANDARUM LIBRI: raccolta di aneddoti mirati ad illustrare varie virtù

con tipico gusto medievale per gli exempla moralistici. 6.


BUCOLICUM CARMEN: raccolta di egloghe ad imitazione di Virgilio.

L’ambientazione

pastorale è un velo allegorico attraverso cui vengono toccati argomenti storici e morali (la

prima egloga insiste proprio sul contrasto tra cultura classica e vita contemplativa e

ascetica).

7. Le EPISTULAE METRICAE (1331-50) trattano temi politici e morali, ma anche la labilità

delle cose, la fuga del tempo, l’incombere della morte, il contrasto tra l’aspirazione alla

purezza ascetica e l’attrattiva delle cose mondane.

IL CANZONIERE

 

P. dichiarava di assegnare molta più importanza alla sua produzione latina, più alta e degna,

delle sue nugae in volgare, anche se egli lavorò anni interi per limare queste ultime. In realtà

P. voleva dimostrare che la lingua volgare, pur partendo da una posizione in svantaggio,

poteva arrivare, grazie a lui, alla dignità e alla perfezione del latino; ciò gli avrebbe anche

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

consentito, aspetto di non minore importanza, di conseguire la gloria in un campo non tentato

da altri.

La versione definitiva del Canzoniere risale all’anno di morte del poeta

ed è contenuta nel

manoscritto Vaticano latino 3195, in parte autografo. La raccolta è costituita da 366

componimenti: sonetti (317), canzoni, ballate, sestine.

Tema dominante è l’amore per Laura, sentimento inappagato e mai

pienamente realizzato,

che si concreta solo nel sogno, nell’immaginazione, nel vagheggiamento

della donna amata,

ora donna angelo stilnovistica, ora crudele e indifferente tormentatrice del poeta. La morte di

Laura (1348) costituisce lo spartiacque tra le rime in vita e le rime in morte della giovane.

Con la sua morte il mondo perde qualsiasi valore, tutto si fa vuoto e squallido e domina ancor

di più la nostalgia ed il sogno, che adesso trasfigura Laura, rendendola meno crudele, più mite

e compassionevole. Ma ormai alla passione si sostituisce un desiderio di purificazione ed

elevazione spirituale, tanto che il Canzoniere si conclude con una canzone di preghiera alla

Vergine, invocata per trovare finalmente la pace. La figura di Laura è in tutto il Canzoniere

estremamente idealizzata: pur collocata in uno scenario (il tipico paesaggio primaverile già

della lirica provenzale), ella non assume mai le dimensioni di un carattere specifico,

circostanziato. Contribuisce a questa opera di trasfigurazione

idealizzante anche l’assenza di


qualsiasi riferimento alla storia, all’attualità politico-sociale.

IL DISSIDIO PETRARCHESCO: il tema del Canzoniere non è tanto l’amore, ma

ancora

una volta, come già nel Secretum, il dissidio interiore tra richiami materialistici ed esigenza di

elevazione spirituale, la vergogna per al debolezza del volere e la schiavitù del peccato.

L’amore, la gloria sono aspirazioni vane, mete illusorie, eppure tanto

desiderate e

vagheggiate. Il Canzoniere vorrebbe quindi essere, come la Commedia, la storia

dell’elevazione di un’anima, ma il dissidio interiore di P. non trova mai

soluzione, scisso

come è tra un ideale di assoluta ascesi, ormai impraticabile, ed una vagheggiata conciliazione

tra dimensione terrena e spirituale.

LINGUA E STILE: al plurilinguismo dantesco ( cioè la continua mescolanza si lessico,

registro, tono, dalla aulicità e tecnicismo filosofico fino alla parlata popolare o dialettale) P.

sostituisce un costante unilinguismo: egli rifiuta cioè ogni parola troppo espressiva, rara o

aspra, prediligendo un tono medio che rifugge dagli eccessi verso l’alto

e verso il basso, il

tutto seguendo la medietà dei classici.

L’ASPIRAZIONE ALL’UNITA’: I TRIONFI E IL DE REMEDIIS UTRIUSQUE

FORTUNAE

 

1.

Opere composte tra il 1353 e 1361; il DE REMEDIIS propone tutti i mezzi per resistere

agli eccessi sia della buona che della cattiva sorte.

2. I

TRIONFI sono un poema in volgare in terzine incatenate dantesche, sotto forma di

visione: varie figura allegoriche (Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo,

Eternità) si

affiancano a vari personaggi esemplari. La figurazione allegorica nasconde le vicende

personali del poeta: la passione d’amore, l’aspirazione alla gloria, l’ansia della morte che

risolve ogni contrasto. Anche qui P. vuole proporre un exemplum di elevazione interiore,

con la differenza che nei trionfi il suo caso singolare viene proposto a tutti gli uomini,

innalzato ad un livello universale. Ma non c’è la compattezza della

Commedia di Dante,

ed i Trionfi si riducono ad un’arida serie di schemi astratti, testimoniando l’impossibilità

da parte del poeta di giungere ad una sistemazione unitaria e coerente del suo universo

interiore.

GIOVANNI BOCCACCIO


VITA

 

Nasce probabilmente nel 1313 a Firenze (o Certaldo o Parigi), frutto di una relazione

illegittima di Boccaccio di Chellino, mercante; Giovanni trascorre

l’infanzia a Firenze,

dove realizza i primi studi;

1325-1328 circa: viaggio a Napoli per un apprendistato nella mercatura; frequenta la corte

degli Angioini e si dà, piuttosto, all’arte e alla letteratura (studia

Virgilio, Stazio, Ovidio);

si innamora di una Maria, figlia illegittima di Roberto d’Angiò, da lui

successivamente

cantata sotto il nome di Fiammetta;

nel 1340 ritorna a Firenze, si reca a Ravenna, a Forlì; peste del 1348 e morte del padre nel

1349;

nel 1350 incontra per la prima volta Petrarca: sodalizio artistico tra i due; va ad

Avignone presso papa Innocenzo VI e la sua fama cresce sempre di più;

135 circa: lento superamento dell’irrequietezza giovanile e primi

sentimenti di sincera

religiosità; nel 1367 è di nuovo ad Avignone da Urbano V

nel 1373 ha dal comune di Firenze l’incarico di spiegare in pubblico la “Divina

Commedia”. Lascia l’ufficio, per vecchiaia e stanchezza, nel 1374; muore

nel 1375 a Certaldo.

OPERE E PENSIERO FASE PRE-DECAMERONE

 

1.

La caccia di Diana: 1333-1334 circa, Napoli: poemetto in diciotto canti in terza rima, è

un omaggio alle più belle donne napoletane del tempo, delle quali nel poemetto è appunto

inserito un elenco; acerbità narrativa e descrittiva; 2.

Filostrato: 1335 circa, Napoli: poemetto in nove canti di ottave (probabilmente è la prima

opera italiana scritta in questo metro): narra dello sfortunato amore del giovane troiano

Troilo per Criseida, figlia di Calcante; fonti: “Tebaide” di Stazio, “Roman de Troie”;

elegante e raffinato, nel poemetto spicca la disinvolta discorsività della narrazione;

3.

Filocolo: 1336-1338, Napoli: romanzo in cinque libri composto per desiderio di

Fiammetta; è la storia di Florio e Biancofiore, che riescono a coronare il loro sogno


d’amore dopo mille peripezie; fonti: romanzo greco, Virgilio, Ovidio,

Dante; l’andatura

dell’opera è diseguale e pesante, densa com’è di richiami eruditi;

 

4.

Teseida, delle nozze d’Emilia: 1340-1341, cantare in dodici libi in ottave; Arcita e

Palemone tebani si innamorano entrambi di Emilia, si sfidano a duello per lei e Arcita, pur

vincitore, muore; opera complessivamente slegata e prolissa; 5.

Ninfale di Ameto: 1341-1342, romanzo in prosa intercalato da 19 canti in terza rima; vi si

narra l’amore del pastore Ameto per la ninfa Lia; l’opera ha un senso

allegorico poiché

rappresenta la purificazione dell’uomo (Ameto) per mezzo delle 4 virtù

teologali e delle 3

cardinali (le 7 ninfe); evidente è l’influsso di Dante;

6.

Amorosa visione: 1342-1343: poema allegorico in 50 capitoli in terzine dantesche; il

poeta sogna di incontrare una donna che lo conduce in un nobile castello, dove sono

raffigurate Sapienza, Gloria, Ricchezza e dove, infine, egli incontra Fiammetta; influenza,

anche qui, di Dante, in quanto Fiammetta è la raffigurazione allegorica della virtù;

7.

Elegia di Madonna Fiammetta: 1343-1344: romanzo diviso in cinque capitoli:

Fiammetta racconta l’infelice amore che ella, pur sposata, concepisce per

Panfilo, che

diviene suo amante, ma poi parte per Napoli; spunti autobiografici e forte influsso delle

“Heroides” di Ovidio; l’opera è senza dubbio il frutto più maturo prima

del capolavoro,

tanto da essere stata definita dalla critica come il primo romanzo psicologico moderno,

che svela dall’interno i più segreti sussulti di un’anima femminile;

8. Ninfale fiesolano: 1344-1346: cantare in 7 canti in ottava rima; narra

dell’amore del

pastore Africo per la ninfa Mensola, entrambi poi trasformati negli omonimi fiumi;

influsso delle “Metamorfosi” di Ovidio; il poemetto segna una svolta decisiva nell’arte

boccacciana, poiché il tono è lineare, spontaneo, popolaresco, tale da dare immediatezza e

vivezza ad ogni spunto compositivo. DECAMERONE

 

CORNICE: 7 donne e 3 uomini, mentre a Firenze infuria la celebre peste del 1348, si

incontrano per caso nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella e decidono di ritirarsi

in una villa presso Fiesole, per trascorrere le giornate di quarantena allegramente,


mangiando e chiacchierando; si raccontano, così, 100 novelle distribuite in 10 giornate ed

ognuno, a turno, narra una novella conforme al tema assegnato dal re o regina della

giornata (tranne Dioneo, che può non attenersi al tema). La necessità di una cornice deriva

da ragioni artistiche, in quanto essa essa dà coesione e compattezza

all’opera; ragioni

morali, in quanto l’atmosfera eccezionale determinata dalla pericolosità

del contagio

“giustifica” la licenziosità e spregiudicatezza dei racconti; ragioni

psicologiche, in quanto

la cornice consente al narratore Boccaccio, grazie all’intermediazione

dei giovani metanarratori,

un atteggiamento distaccato e cordiale, ma pur sempre superiore, dinanzi alla

materia narrata;

 

NARRATORI: compaiono i nomi e i caratteri dei personaggi delle precedenti opere di

Boccaccio, ma depurati dall’urgere delle passioni; così il fortunato

amante Panfilo,

l’amante tradito e disperato Filostrato e il gaudente Dioneo sono tre facce dello stesso

Boccaccio, tre momenti della sua esistenza, tuttavia ora idealizzati e guardati con ironia e

distacco;

STRUTTURA: 1.a giornata: regina: Pampinea (la rigogliosa); tema: libero (novelle in

ordine: Ser Cepperello, Abram giudeo, Melchisedec giudeo, il monaco e

l’abate,

Marchesa di Monferrato, ipocrisia dei religiosi, Bergamino, Guglielmo Borsiere, il re di

Cipri, Maestro Alberto di Bologna); 2.a giornata: regina: Filomena

(l’amante del canto);

tema: avventure a lieto fine (novelle: Martellino, Rinaldo D’Esti, tre

giovani e la figlia del

re d’Inghilterra, Landolfo Rufolo, Andreuccio da Perugia, Madonna

Berìtola, il Sultano di

Babilonia, il Conte D’Anguersa, Bernabò da Genova, Paganino da Monaco);

3.a giornata:

regina: Neifile (la nuova d’amore); tema: i desideri soddisfatti

(novelle: Masetto di

Lamporecchio, la moglie del re Agilulfo, la donna e il giovane e il frate, Don Felice e frate

Puccio, il Zima e la donna di Francesco Vergellesi, Riccardo Minutolo, Tebaldo, Ferondo,

Giletta di Nerbona, Alibech); 4.a giornata: re: Filostrato (vinto

d’amore); tema: amori

dalla fine infelice (novelle: Tancredi, Frate Alberto, tre giovani e tre sorelle, Gerbino,

Isabetta da Messina, Andreuola e Gabriotto, Simona e Pasquino, Girolamo e Salvestra,


Guglielmo Rossiglione, la moglie del medico); 5.a giornata: regina:

Fiammetta

(l’ardente); tema: amori prima sventurati e poi felici (novelle: Cimone,

Costanza e

Martuccio, Pietro Boccamazza e l’Agnolella, Riccardo Manardi, Guidotto da

Cremona,

Gian di Procida, Teodoro e Violante, Nastagio degli Onesti, Federigo degli Alberighi,

Pietro di Vinciolo); 6.a giornata: regina: Elissa (tradita): tema: i motti di spirito e le

risposte pronte (novelle: Madonna Oretta, Cisti fornaio, Monna Nonna de’

Pulci,

Chichibio, Forese da Rabatta, Michele Scalza, Madonna Filippa, Fresco, Guido

Cavalcanti, Frate Cipolla); 7.a giornata: re: Dioneo (venereo); tema: beffe delle donne ai

mariti (novelle: Gianni Lotteringhi, Peronella, Frate Rinaldo, Tofano, un geloso travestito

da prete, Leonetto e Lambertuccio, Lodovico e Beatrice, un geloso e sua moglie, Lidia e

Nicostrato, due senesi e una donna); 8.a giornata: regina Lauretta (timida come Dafne);

tema: beffe reciproche degli uomini e delle donne (novelle: Gulfardo, il Prete di Varlungo,

Calandrino e l’eliotropia, il preposto di Fiesole, il giudice marchigiano

e i tre giovani,

Calandrino e il porco, uno scolaro e la vedova, due amici e le mogli scambiate, Maestro

Simone da Bruno e Buffalmacco, siciliana e mercante); 9.a giornata: regina Emilia

(lusingatrice); tema: libero (novelle: Madonna Francesca e i due amanti, badessa e le

braghe del prete, Maestro Simone Bruno Buffalmacco e Nello, Cecco Fortarrigo e Cecco

Angiolieri, Calandrino innamorato di una giovane, due giovani la figliola e la moglie,

Talamo d’Imolese, Biondello e Ciacco, il consiglio di Salomone, Donno

Gianni e

Compare Pietro); 10.a giornata: re: Panfilo (tutto amore); tema: imprese magnifiche,

d’amore o altro (novelle: il re di Spagna e un cavaliere, Ghino del Tacco e l’abate di

Clignì, Mitridanes, Messer Gentil de’ Carisendi, Madonna Dianora, il re

Carlo, il re Piero,

Tito e Gisippo, Messer Torello e il Saladino, il marchese di Saluzzo);

 

MOTIVI: sono essenzialmente tre: la forza indomabile della passione, forza motrice dei

personaggi, spesso elemento determinate del loro carattere; contemplazione

dell’intelligenza umana nel suo continuo e sorprendente articolarsi, al

di là delle divisioni

di classe, dalla prontezza di motto e di spirito dell’umile fornaio, alla

scaltrezza del


delinquente fino alla dignità suprema del nobile, con la correlativa e antitetica descrizione

della stoltezza, che l’uomo astuto utilizza a proprio vantaggio e l’uomo

colto, come lo

stesso autore, guarda con un sorriso di ironica indulgenza; quella che Boccaccio esalta,

insomma, è la virtù nel senso di abilità, di capacità di trarsi

d’impaccio dalle situazioni, di

sfruttare le condizioni date a proprio vantaggio, quasi in un’accezione

pre-machiavellica;

nelle novelle della decima giornata, tuttavia, tale virtù si nobilita ulteriormente e diventa

exemplum di educazione e cortesia di stampo fortemente aristocratico, assurge ad

ammirazione per il bel gesto magnanimo, per le sagge e misurate parole,

per una “virtù

sublime” che probabilmente costituiva una mèta ideale per quanti come

Boccaccio, nella

nuova ottica borghese delle città trecentesche, si erano ormai lasciati alle spalle le vecchie

strutture feudali, ma ambivano, comunque, a far proprie le idealità

dell’universo culturale

tramontato (lo Stilnovismo, la cultura della corte del Signore) per sancire il proprio

predominio sociale, economico e politico (attenzione:

quest’interpretazione non è

condivisa da tutti); il realismo, accettazione della vita nelle sue varie espressioni, anche se

nell’opera di Boccaccio (cosa spesso negata dalla critica in passato)

esiste comunque

un’esigenza morale riscontrabile in tutte le novelle in cui egli addita

vizi o propone virtù

(ad esempio nelle novelle di Abram giudeo e di Federigo degli Alberighi);

inoltre, c’è

realismo nella rappresentazione dei luoghi, anche se tale raffigurazione è sempre

rapportata e compenetrata nello stato psicologico del protagonista (v. lo spaventato

Andreuccio da Perugia che vaga per le vie strette, buie e insidiose di Napoli);

 

FONTI: cultura e tradizione medievale: fabliaux, moralitates, libri di exempla per i

predicatori, tradizione novellistica, dotta o popolare, “voci” e “dicerie” della vita

quotidiana, i casi di ogni giorno; di poche novelle abbiamo fonti certe: Apuleio, la

Disciplina clericalis di Pietro Alfonso, lo Speculum historiae di Vincenzo di Beauvais, la

Comoedia Lydiae e la vita provenzale del trovatore Guilhem de Cabestanh;

LINGUA: quella raffinata ed aristocratica della tradizione stilnovistica si alterna a quella

plastica e drammatica dei lirici realistici; nelle introduzioni indulge alla complessità


sintattica della prosa latineggiante e retorica, con cadenze studiate e ricercati parallelismi

di gusto ciceroniano, mentre nel rapido movimento delle scene e dei dialoghi ritrova

un’espressione rapida, breve e drammatica, la parola semplice, precisa,

efficace; inoltre,

l’autore si sforza sempre di rapportare il linguaggio utilizzato dai vari

personaggi alla loro estrazione socio-culturale. FASE POST-DECAMERONE

 

1.

Corbaccio o Laberinto d’amore: 1354-1355; romanzo in forma di visione a carattere

misogino (il poeta narra di essere stato preso in giro da una vedova ed enumera con crudo

realismo i difetti delle donne); la fonte è Giovenale; i pregi dell’opera sono nella sua

sferzante ironia e nel realismo narrativo; 2.

Rime: 257 componimenti fra sonetti, canzoni, ballate, madrigali, ternari e sestine dei quali

solo 200 circa sono autentici; argomento prevalentemente amoroso (celebri i sonetti

“baiani”, in cui Boccaccio descrive le meraviglie di quel luogo di

delizie della società napoletana);

 

3.

Trattatello in laude di Dante o Vita di Dante: 1357-1362 (secondo

l’ipotesi più

accreditata); esaltazione, più che biografia, di Dante; Esposizione sopra la Comedia: si

ferma al canto XVII dell’Inferno per la morte dell’autore; opera vasta,

ma prolissa. OPERE IN LATINO

 

  1. Epistolae:

una trentina, scritte dal 1339; alcune sono anche in volgare; il latino di

Boccaccio è più involuto, meno elegante di quello del Petrarca;

  1. Bucolicum carmen: 16 egloghe, 1351-1366; l’allegoria pastorale

nasconde la narrazione dell’uccisione del re di Napoli; 3.

De casibus virorum ilustrium: 1355-1360, biografie di personaggi, da Adamo al Duce di

Atene, precipitati dalla gloria alla miseria; opera moraleggiante; 4.

De claris mulieribus: 1360-1374; 104 biografie romanzate di donne, da Eva alla regina

Giovanna di Napoli, famose per vizi o virtù; opera anch’essa dominata da

intenti moraleggianti; 5.


De genealogis deorum gentilium: 1350-1360; trattato di mitologia in 15 libri; notizie sui

miti pagani, ma anche loro reinterpretazione in chiave allegorica,

secondo l’usanza

medievale; 6.

De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de

nominibus maris liber: 1362-1366; trattato storico-geografico; elenco dei nomi

topografici presenti nei testi antichi. CRITICA

Già Bembo nel ‘500 riconobbe per primo il valore della prosa boccaccesca come modello

ideale della prosa volgare, seguito da Foscolo che celebra lo stile boccaccesco come fusione

di vari elementi linguistici. Il De Sanctis per primo analizza i temi del Decamerone; per lui, il

mondo boccaccesco è l’espressione della crisi della civiltà medievale, il

suo momento critico,

in cui avanzano esigenze ed idealità nuove. Elemento unificante

dell’opera per lui è la vis

comica dell’autore; al Boccacio puro artista guarda, invece, Croce, per il quale Boccaccio non

è iniziatore di una nuova temperie culturale, ma un mero scrittore che analizza la vita con

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

ottica disincatata, dalle su espressioni più alte a quelle più basse,

“dal santo fino alla bestia”.

Si veniva così a perdere la cognizione di un elemento unificatore della poetica del certaldese,

elemento che la critica post-crociana di Bosco e Petronio rintraccia nel

culto dell’intelligenza

umana. La critica più recente, invece, cerca di analizzare meglio i

rapporti tra l’opera

boccaccesca e Medioevo e Rinascimento, per collocarla meglio nel tempo e nei suoi rapporti

con il contesto storico-letterario di riferimento, derivandone una figura di artista in cui

operano ancora molti elementi della cultura medievale, sicché, ad

un’attenta lettura, il

“Decamerone” appare opera più “gotica” che “rinascimentale”, più legata

al passato che proiettata nel futuro.

 

NICCOLÒ MACHIAVELLI VITA

 

Nasce a Firenze nel 1469 da modesta famiglia borghese; cultura umanistica da


autodidatta;

1498-1512: ricopre la carica di segretario della seconda cancelleria della Repubblica

fiorentina; viene inviato come osservatore in diverse legazioni in Italia

e all’estero (dopo

un’ambasceria a Pisa scrive il Discorso al magistrato dei Dieci sopra le

cose di Pisa,

dove formula la convinzione delle necessità di un esercito nazionale; in seguito ad un

viaggio in Francia presso Luigi XII scrive i Ritratti delle cose di Francia; conosce Cesare

Borgia, ne rimane profondamente colpito e scrive: Del modo di trattare i popoli della

Valdichiana ribellati, 1502, e Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello

ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina

Orsini, 1503);

1512: dopo la restaurazione del governo dei Medici ad opera degli Spagnoli, viene

rimosso dall’incarico, si ritira in campagna presso San Casciano: scrive nell’ozio forzato

Il principe e i Discorsi, finché il governo mediceo finalmente gli richiede un parere sulla

riforma della costituzione fiorentina (scrive il Discorso sopra il riformare lo Stato di

Firenze);

1527: con la restaurazione della Repubblica, il suo precedente avvicinamento ai Medici

gli nuoce e non ottiene incarichi dal nuovo governo; muore nel 1527. OPERE E PENSIERO

PENSIERO

 

 

1.

Concezione naturalistica e individualistica dell’uomo: l’uomo è essere

naturale, sempre

uguale a se stesso, incapace di migliorare; pessimismo: la natura umana è irrimediabilmente malvagia, anche se tale pessimismo si fonde con una fiducia tutta

umanistica nell’individuo-eroe, capace di imporsi agli altri; 2.

concezione pragmatica della storia: la storia è esclusivamente opera

dell’uomo, al di

fuori dei interventi provvidenzialistici; a fare la storia non sono i popoli e le collettività,

ma gli esseri eccezionali, perché il popolo è incapace di darsi un ordine civile;

3.

teoria dello Stato: ad esso sono subordinati il popolo inteso come singoli cittadini ed ogni

altra esigenze religiosa o morale; 4.


virtù e fortuna: per Machiavelli la virtù è intelligenza e volontà energica, capacità di

valutare razionalmente le situazioni (occasioni) per servirsene a vantaggio dello Stato,

mentre la fortuna è una forza incontrollabile e irrazionale, che è sempre insita nelle

vicende umane; l’uomo virtuoso tuttavia può vincerla perché essa governa

solo metà delle

azioni umane, mentre l’altra metà è subordinata alla virtù;

5.

questione morale: “il fine giustifica i mezzi”, purché tuttavia questo

fine miri al bene supremo dello Stato.

Il Principe (De principatibus)

 

1513, trattato in 26 capitoli: dedicato a Giuliano de’ Medici con titolo

De principatibus;

dopo la morte di Giuliano, Machiavelli offrì l’opera a Lorenzo, duca di

Urbino; fu

pubblicato postumo con titolo di Principe nel 1531;

STRUTTURA: 1.a parte: I-XIV capitolo: sezione tecnica sui diversi tipi di principato

(ereditario, misto, nuovo, civile, ecclesiastico) e delle milizie (proprie, mercenarie,

ausiliarie e miste); nella formazione di un nuovo Stato le due qualità fondamentali del

principe sono prudentia ed armi; tra le milizie le più pericolose sono le mercenarie, le

migliori sono le proprie, formate da concittadini fedeli; 2.a parte: XV-

XXIII: precetti al

principe su come difendere lo Stato; figura ideale del principe: metafora del centauro,

metà uomo e metà bestia (volpe e leone); “il fine giustifica i mezzi”,

anche a danno di

religione e morale (è la parte più spregiudicata e bersagliata dalle critiche successive); 3.a

parte: XXIV-XXVI: motivazioni per le quali i principi italiani hanno perso i loro Stati;

problema del rapporto tra Fortuna e virtù individuale; esortazione ad un principe affinché

prenda in mano le sorti dell’Italia e la liberi dagli stranieri;

GIUDIZIO: autonomia della politica: per la prima volta il pensiero occidentale denuncia

la scissione tra politica e morale, in nome del principio della verità

“effettuale”, concreta,

dei fatti storico-politici; concretezza del pensiero: essa si traduce in termini letterari,

poiché le idee sono sempre concretizzate in immagini e gesta di figure contemporanee

(Cesare Borgia) o antiche (Romolo, Mosè); non manca, tuttavia, una sfumatura di utopia,

quando negli ultimi capitoli l’autore sogna l’unità d’Italia e il risorgere dell’antico valore.


Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

 

opera in tre libri iniziata nel 1513, poi interrotta; ripresa e ultimata nel 1519; osservazioni

sulla prima deca delle storie liviane (dalle origini di Roma al 293 a.C.)

 

STRUTTURA: I libro: evoluzione ciclica delle forme di governo, dalla monarchia

all’aristocrazia e poi alla democrazia per ritornare al principato; la migliore forma fu

quella romana, mista perché aveva in sé tutti gli elementi; giudizio positivo sul contrasto

tra popolo e senato, perché contribuì a consolidare le istituzioni repubblicane; giudizio

positivo sulla funzione civile della religione pagana e polemica con la Chiesa cattolica che

non ha saputo fare altrettanto nell’epoca moderna; II libro: le conquiste

di Roma furono

dovute anche alla Fortuna, ma soprattutto alla virtù delle milizie cittadine; III libro:

importanza dei grandi uomini nella storia romana, ma anche dei suoi princìpi istitutivi;

giudizio complessivamente negativo sulle congiure, perché imprese rischiose e disperate;

GIUDIZIO: apparente contraddizione, da molti rimproverata a Machiavelli, tra la

preferenza qui accordata alla repubblica e l’esaltazione del principato

contenuta nel

capolavoro; la contraddizione si supera qualora si rifletta sul fatto che le opere vengono

scritte con finalità diverse (nel Principe l’occhio era rivolto alla drammatica situazione

italiana, da risolvere con urgenza, mentre qui lo sguardo è più pacato e meditativo, più

rivolto al passato che al presente). Del resto, anche nel Discorsi viene messa in evidenza

la necessità della figura di un principe che regga le sorti dello Stato nei momenti difficili,

anche se il fondamento della repubblica è il consenso dei cittadini;

Machiavelli sembra

propendere per un modello maggiormente democratico, tuttavia non viene meno anche in

quest’opera il suo fondamentale pessimismo a proposito della natura umana.

Arte della guerra: 1519-1520, trattato in 7 libri in forma di dialogo immaginario tenuto negli

Orti Oricellari alla presenza di Fabrizio Colonna; formazione, addestramento, armamento

delle milizie e tattiche militari; sono ripresi i concetti del Principe e dei Discorsi; Istorie

fiorentine: 1520-1525, opera in otto libri, scritta su incarico del

cardinale Giulio de’ Medici;

storia d’Italia e di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico

(1492); concetto di storia

come fonte di imitazione e ammaestramento per l’agire politico futuro,

nonché come


conferma delle proprie teorie politiche, anche a scapito della veridicità della narrazione;

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

modello: Tucidide; Vita di Castruccio Castracani: 1520, biografia romanzata, sul modello

delle biografie latine, del signore ghibellino di Lucca (prima metà XIV secolo).

 

Opre letterarie:

Mandragola: 1518; commedia in prosa divisa in 5 atti con un prologo e brevi intermezzi in

versi (canzoni); il testo narra del giovane Callimaco, innamorato della virtuosa Lucrezia,

moglie del vecchio Nicia. Fingendosi medico, Callimaco consiglia a Nicia di dare alla moglie

una pozione di mandragola affinché ella possa avere figli; in ogni modo,

Callimaco riesce ad

introdursi in camera di Lucrezia e costei, indignata per la stoltezza del marito, finisce per

accettare l’amore del giovane; dalla commedia emerge un’amara coscienza

della stoltezza e

dell’iniquità umana, dunque si conferma la visione pessimistica e disincantata dell’autore, che

non guarda con simpatia i propri personaggi, ma li analizza impietosamente;

Clizia: altra commedia, meno originale, impiantata sul modello della Casina di Plauto: il

vecchio e sciocco Nicomaco è innamorato di Clizia, fanciulla allevata in casa sua; alla fine

Clizia, ritrovato il padre, sposerà Cleandro, figlio di Nicomaco; Belfagor Arcidiavolo: novella; storia di un diavolo giunto sulla terra per studiare le

condizioni del matrimonio e che, presa moglie, desidera tornare

all’Inferno, pur di liberarsi

della donna; tono vivace e scherzoso, nella linea della traduzione misogina medievale;

Asino: poema in capitoli ternari, interrotto all’ottavo canto; si narra

di uomini trasformati in

bestie dalla maga Circe che preferiscono rimanere allo stato ferino piuttosto che ritornare

uomini; si riconferma e rafforza il pessimismo dell’autore; fonti:

Plutarco e Apuleio;

Decennale primo e Decennale secondo: due opere in terzine di argomento storico; narrano,

rispettivamente, gli avvenimenti degli anni 1494-1504 e 1504-1514; Capitoli: 1514-1517, in terzine; riprendono i temi classici del pensiero machiavellico (ad es.:

Fortuna, Ambizione, Occasione);

Rime: 1514-1524: canti carnascialeschi, sonetti e rime varie; il tono prevalente è gaio e

arguto, ma per lo più è produzione di scarso valore;

Dialogo sulla lingua: 1514: il Machiavelli interviene sulla questione della lingua e, pur


riconoscendo la superiorità del dialetto fiorentino sugli altri, si distacca alquanto dalla dottrina

bembista (purismo di Pietro Bembo, Prose della volgar lingua: superiorità della lingua di

Petrarca e Boccaccio; prevalenza della lingua scritta su quella parlata),

esaltando l’importanza

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

della lingua parlata e della sua dinamicità nel costante cambiamento delle idee in rapporto

all’evoluzione sociale e civile;

Epistolario: importante documento per la comprensione della personalità

dell’autore e del

suo tempo; famosissima è la lettera al Vettori del 10 dicembre del 1513, scritta dopo la stesura

del Principe. LINGUA & STILE:

anche nel campo linguistico Machiavelli fu un innovatore: rifiutò il gusto retorico-umanistico

della trattatistica e storiografia contemporanea, creando uno stile personalissimo fatto di

invenzioni e figurazioni poetiche (la metafora del centauro, il mito della Fortuna), di un

linguaggio preciso e tagliente, freddo e razionale, ma spesso anche commosso e appassionato,

come nelle ultime pagine del Principe. Il periodo passa, quindi, dalla struttura più complessa

e involuta alla massima semplicità scientifica, con grande varietà e libertà sintattica, la stessa

libertà riscontrabile nell’uso del lessico, ora popolaresco e crudo, ora

solenne, ora curialesco e

cancelleresco, con latinismi e vocaboli desueti. L’unità sostanziale di

questo stile varia però

nelle diverse opere: più originale e incisivo nel Principe, ha toni più pacati e maggiore

uniformità nei Discorsi, più narrativo e retorico nelle Istorie, più ricco di toni vivaci e di

termini popolareschi nella Mandragola. CRITICA

vasta fu l’eco suscitata dal pensiero e dall’opera del Machiavelli tra ‘500 e ‘700: mentre i

teorici seicenteschi della ragion di Stato e dell’assolutismo (Bodin,

Botero) lo acclamarono

come loro precursore, il Settecento liberale ne condannò le tesi, a favore delle dottrine

giusnaturalistiche del contratto sociale, anche se alcuni Illuministi (Baretti, Alfieri,

Rousseau) interpretarono la dottrina del Principe “al contrario”: ovvero,

Machiavelli, proprio

nel descrivere le atrocità e l’amoralità del tiranno, lo condannerebbe e lo additerebbe come


esempio negativo (cfr. anche Foscolo nel carme dei Serpolcri). De Sanctis

interpretò l’opera

dell’autore come un documento del passaggio dal Medioevo al Rinascimento

e cercò di

disancorarla dai motivi culturali contingenti, per conferirle maggiore universalità e

scientificità. Croce esaltò la conquista machiavellica dell’autonomia

della politica, mentre

una delle sintesi più approfondite ed equilibrate del pensiero

dell’autore si deve al Russo, che

 

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

individuò il suo interesse non tanto nei fini e nelle forme concrete della politica, quanto nella

contemplazione dei procedimenti della tecnica politica considerata in se stessa. Il critico

intravide una fondamentale unità nel pensiero machiavellico (pur intravedendone i limiti e le

discrasie), che si realizza anche nell’unità fra pensiero ed arte. Alcuni

critici hanno

successivamente considerato con maggiore attenzione l’aspetto artistico dell’opera del

Machiavelli, con studi del linguaggio come quelli di Chiappelli e Montanari, il quale ritiene

indispensabile per la comprensione di Machiavelli pensatore la considerazione della sua

natura di poeta, che investe potentemente tutta la sua opera.

 

 

 

 

 

LUDOVICO ARIOSTO VITA

 

Nasce a Reggio Emilia nel 1474; nel 1484 andò a Ferrara;

la prima istruzione gli fu data in casa da uno studente pensionante, Domenico Catabene;

dal 1489 al 1494 seguì i corsi di diritto civile dello Studio Ferrarese, ma già manifestava

preferenza per gli studi letterari attraverso le prime composizioni poetiche;

nel 1494 poté frequentare le lezioni di eloquenza latina e greca

dell’umanista Gregorio

Elladio da Spoleto e poi di Sebastiano Dell’Aquila;

frequentava anche la corte di Ercole d’Este (vita cortigiana); nel 1550

morì il padre e A.,

primo tra 10 figli, assume la responsabilità della famiglia numerosa e di una situazione

patrimoniale poco brillante;


nel 1502 ebbe l’incarico di capitano della rocca di Canossa, ma nel 1503

entrò al servizio

del cardinale Ippolito d’Este e prese gli ordini minori; il cardinale si

servì di A. per

numerose ambascerie e missioni e così il poeta si poté dedicare poco alla poesia; nel 1509

gli nacque un figlio, Virgilio, che egli allevò e legittimò più tardi, da una relazione con

Orsolina Sassomarino; nel 1509 seguì il cardinale Ippolito nella guerra contro i Veneziani

e andò due volte a Roma presso Giulio II. A Roma si recò ancora più volte nel 1510 e, col

duca Alfonso, nel 1512 in un viaggio avventuroso che si risolse in una fuga degli uomini

del Papa, irato con Ferrara che non aveva aderito alla lega antifrancese. Nel 1513, morto

Giulio II, venne eletto papa, con il nome di Leone X, il cardinale Giovanni de Medici, che

aveva mostrato all’A. spesso benevolenza e stima. Nello stesso anno

conobbe a Firenze,

Alessandra Benucci, moglie di Tito Strozzi, della quale s’innamorò

restandole fedele tutta

la vita. Tuttavia, benché Alessandra fosse rimasta vedova nel 1515, A. lo sposerà in forma

segreta solo più tardi (1527), per non perdere alcuni benefici ecclesiastici. Intanto nel

1516 usciva la prima edizione del poema;

nel 1517 A. rifiutò di seguire il cardinale Ippolito in Ungheria, quando questi venne

nominato vescovo di Buda;

nel 1518 passò alle dipendenza del duca Alfonso, in qualità di gentiluomo di camera, e

riprese a lavorare intorno al Furioso di cui uscì una seconda ed. nel 1521, mentre

componeva le Satire e la commedia Negromante;

nel 1522 dovette accettare l’incarico di commissario ducale in

Garfagnana, incarico

gravoso per la povertà e criminalità diffusa nel territorio; la missione fu compiuta con

equilibrio e saggezza; produsse in questi anni le ultime 4 Satire;

1525: ritorno a Ferrara, dove ottiene incarichi pubblici; rielabora le Commedie già scritte

(Cassaria e Suppositi) e compone Lena e Studenti;

1532: terza ed. del Furioso; muore nel 1533. LIRICA IN LATINO E VOLGARE

 

CARMINA

 

67 componimenti, anni formazione umanistica (1494-1503); esercitazioni letterarie sul


modello dei classici latini (Catullo, Virgilio, Tibullo, Ovidio,

Properzio, Orazio), tuttavia con

una certa ricerca di originalità, nella varietà dei temi e motivi, nonché nella individuazione del

contrasto tra vita attiva e aspirazione all’otium letterario (Ad

Philiroen, elogio della vita

serena, di ispirazione oraziana; De diversis amoribus, 1503, dove

l’autore esprime il suo

rifiuto per la carriera forense, cortigiana, delle armi, in nome della

poesia e dell’amore).

 

RIME

 

1493-1527; 5 canzoni, 41 sonetti, 12 madrigali, 27 capitoli (componimento in terzine

dantesche, già diffuso dal ‘300 su temi allegorico-dottrinali, o variamente morali e politici) e

2 egloghe; esercitazione mirata alla ricerca di un linguaggio poetico, modellato soprattutto

sulle forme del Petrarca, della lirica cortigiana del II Quattrocento, degli Amorum Libri di

Boiardo, del petrarchismo del Bembo, il tutto mediato attraverso i classici; i temi sono ispirati

ad occasioni celebrative (es.: epicedio per la morte di Elena d’Aragona,

moglie di Ercole I),

ma soprattutto intorno alla donna amata, la Benucci; manca un ordine determinato, perché

mai edite dall’autore in vita (TEMA: amore, dal ’13 in poi, in

particolare riferimento alla Benucci).

 

SATIRE

 

7 componimenti in terzine, epistole in versi, dedicate a vari personaggi, amici, parenti;

1517-1525, edite postume (1534), modellate su Sermoni e Epistole oraziane; I: 1517,

dedicata al fratello Alessandro; II: 1517, fratello Galasso; III: 1518, al cugino Annibale

Malaguzzi; IV: 1523, anniversario dell’arrivo in Garfagnana; V: 1519, ad

A. Malaguzzi;

 

VI: 1524-5, a Pietro Bembo; VII: 1524, a Bonaventura Pistofilo.

GIUDIZIO: periodo della piena maturità artistica, esse sono l’opera

migliore tra le minori,

riflettendo la sua pacatezza, il suo equilibrio; domina un tono bonario nella rivelazione dei

gusti, degli interessi, dei sentimenti, del modo di accettare la realtà,

propri dell’A. più

maturo. E’ evidente qui la trasfigurazione ideale della personalità del poeta “tendente a

rivestirla di panneggiamenti decorosi, se pur senza solennità, e dignitosi, senza


ostentazione” (Sapegno), in un continuo confronto polemico e meditativo tra l’immagine

di se stesso e l’ambiente cortigiano.

LINGUAGGIO: colloquiale, volutamente prosaico, apparentemente disadorno, concreto,

con frequenti ricorsi a termini dell’uso popolare e con rappresentazioni

vivaci e abbandoni

alla fantasia, specie nelle favole o apologhi inserite in alcune satire.

Anche il ritmo del

verso è prosastico (enjambement). Si ottiene così una medietà discorsiva, a metà tra il

colloquio e il canto, simile al linguaggio del Furioso.

GENERE LETTERARIO: nome satira da satura lanx (piatto votivo, ricolmo di offerte, ad

indicare la varietà di temi del genere). Esponenti antichi: Orazio la interpreta come libera

e svagata conversazione (infatti, il titolo delle sue satire è anche Sermones, discorsi

generali sul comportamento una o, ritratti di persone, apologhi, favole etc...). Ariosto è

molto vicino al sentire di Orazio, nel distacco ironico con cui guardare se stesso e gli altri.

Cesare Segre ha sottolineato la struttura intimamente dialogica della satira ariostesca: il

poeta dialoga continuamente con se stesso, con i destinatari, con interlocutori immaginari,

in cui continuo infittirsi di voci, che propongono prospettive diverse sul reale.

TEMI: condizione dell’intellettuale cortigiano; limiti che essa pone alla

libertà

dell’individuo; aspirazione ad una vita quieta ed appartata; fastidio

delle incombenze

pratiche; follia degli uomini che inseguono oggetti vani: fama, successo, ricchezza etc...

COMMEDIE

 

Proposito di ricreare in volgare un genere classico (Plauto e Terenzio), ma rinnovato con

l’adeguamento alla realtà contemporanea (rappresentazioni di corte in

voga a Ferrara già dal

‘400, prima con testi volgarizzati dal latino, poi con testi originali in

volgare). Adesione ai

canoni aristotelici, costituendo un modello che sarà seguito dai commediografi durante tutto il

‘500. Questo proposito innovatore si fa sempre più evidente col maturare della sua ispirazione

poetica.

 

1.

Cassaria: in prosa (1508), rifatta in versi endecasillabi nel 1531; modello: Aulularia di

Plauto, anche se è già un testo moderno. TRAMA: burla organizzata a Metelino, città


greca, da due giovani che, desiderosi di impadronirsi di due ragazze in potere di un

lenone, fanno credere che questi abbia rubato una cassa di filati d’oro.

2.

Suppositi: scritta e rappresentata nel 1509, verseggiata nel 1528-31; modelli: Eunuco di

Terenzio e Captivi di Plauto; TRAMA: scambio di persona e agnizione finale; novità: la

scena a è a Ferrara, con una fitta rete di riferimenti al contesto storico, e a cittadini ben

noti allo spettatore. 3.

Negromante: 1520, è in endecasillabi sciolti sdruccioli (un verso che riproduce il senario

giambico della commedia latina). TRAMA: imbroglione che si spaccia per mago

riuscendo ad ingannare più persone, finché fugge smascherato; commedia di gusto

moderno, una delle meglio riuscite, sia per la vivacità dei dialoghi sia per il tono di

bonaria satira contro la stoltezza umana che la pervade (sono prese di mira le credenze

irrazionali e la magia). 4.

Lena: 1529, ambientata a Ferrara, trae il titolo dalla protagonista, donna astuta e avida che

prende parte ad un imbroglio per permettere al giovane Flavio di sposare la ragazza

amata; tipizzazione da commedia classica, ma anche rispecchiamento della realtà

contemporanea (quadri d’ambiente, personaggi propri del mondo cittadino

ferrarese,

considerati con arguzia e maliziosa curiosità nel loro spesso vano agitarsi, mentre ne

vengono amabilmente ironizzate le debolezze, i difetti, i vizi, le passioni, etc.). Cfr. con la

Mandragola di Machiavelli. 5.

Studenti: ambientata nel mondo universitario, fu lasciata incompiuta

dall’autore e

completata ed edita postuma; meccanicità di una trama collaudata, tuttavia con una sua

freschezza ed originalità (influenzò la commedia del ‘500, alla quale

diede gli schemi, la

struttura, il gusto di costruire e sciogliere trame).

ORLANDO FURIOSO

 

poema cavalleresco in ottave (46 canti); cominciò a lavorarci intorno al 1504, continuando

a elaborarlo per tutta la vita; insoddisfazione per la forma, sottoposta al giudizio di amici e

letterari (episodio del manoscritto esposto in casa).

Edizioni: prima: 40 canti, edita a Ferrara, 1516, a spese del cardinale Ippolito; seconda:


40 canti, 1521, revisione linguistica; terza: 46 canti, 1532, ulteriore e più radicale lima

linguistica e stilistica (purificazione dalle voci padane e latineggianti ed adeguamento al

purismo di Bembo, con pieno inserimento dell’autore in una dimensione

letteraria di

respiro nazionale e non più locale o cortigiana; anche aggiunta di episodi e canti, con più

fitti riferimenti alla crisi italiana ed alle guerre franco-spagnole per la conquista

dell’Italia).

INTRECCIO: Angelica, figlia del re del Catai, viene promessa in sposa a chi, tra

Orlando e Rinaldo, si distinguerà nella lotta contro i Saraceni, guidati da Agramante e

Marsilio (scenario: Parigi). Angelica fugge nella confusione (foresta, dove incontra

guerrieri innamorati di lei, Ferraù, Sacripante, Rinaldo). Rinaldo, tornato a Parigi, viene

inviato i Inghilterra (Scozia). La guerriera Bradamante, sorella di Rinaldo, vaga alla

ricerca di Ruggero, guerriero pagano di cui è innamorata (discendenza della famiglia

d’Este, illustratale dalla maga Melissa). Ruggero è prigioniero nel

castello di Atlante;

Bradamante lo libera, ma Ruggero viene di nuovo rapito dall’Ippogrifo, che lo conduce

dalla maga Alcina che lo strega. Orlando viaggia per tutta l’Europa con

Brandimarte e si

imbatte in diverse avventure (Olimpia, isola di Ebuda, orca marina); Orlando torna in

Francia e insegue una vana immagine di Angelica in un palazzo incantato, altra magia di

Atlante, dove si trovano altri guerrieri; arriva Angelica, ma fugge. Agramante assalta

Parigi e Rodomonte semina i terrore tra i Cristiani, ma Orlando attacca dalle spalle i

Saraceni e li costringe a togliere l’assedio. Episodio di Cloridiano e Medoro (parallelo

con Eurialo e Niso). Amore tra Angelica e Medoro; quando Orlando lo scopre, impazzisce

e semina il terrore. Astolfo va sul Paradiso terrestre e apprende che il senno di Orlando si

trova sulla luna, vi si reca e scopre che qui si trova tutto quanto di bene e di male si è

perduto sulla terra. Ritrova il senno di Orlando in un’ampolla, giunge a

Biserta, dove

trova Orlando e gli restituisce il senno. Uccide Agramante e Gradasso, ponendo fine alla

guerra. Ruggero si converte al Cristianesimo e può sposare Bradamante; nozze fastose

indette da Carlo, ma sopraggiunge Rodomonte. Duello tra Ruggero e Rodomonte, ucciso

dal primo.


FONTI: tradizione cavalleresca: romanzi del ciclo carolingio e bretone (A. fonde

l’eroismo “senza macchia e senza paura” tipico del ciclo carolingio,

Chanson de Roland

(Francia, XII secolo), con i temi amorosi e avventuroso-fantastici del ciclo bretone, re

Artù e i cavalieri della tavola rotonda: Tristano e Isotta e Lancillotto e Ginevra), ciclo

classico, poemi franco-veneti, cantori cavallereschi di Toscana; latini: Catullo, Ovidio,

Virgilio, Stazio; Orlando innamorato del Boiardo, al quale A. esplicitamente dichiara di

ricollegarsi.

FILI NARRATIVI: epico-guerresco, descrizione della guerra tra Cristiani e Saraceni, che

costituisce lo sfondo della narrazione e si riallaccia alla tradizione eroica dei poemi

classici; ha il suo momento culminante nell’assalto a Parigi (XIV-XVIII), dominato dalle

imprese di Rodomonte, l’unico eroe veramente epico del poema, nuovo Achille, violento,

superbo e brutale; amoroso: è il più ricco, il filone principale è

l’amore di Orlando per

Angelica e culmina nella follia del paladino; ma l’amore investe tutto il

poema e tutti i

personaggi, quasi unico vero motore di tutte le azioni umane. Eppure raramente questo

sentimento è felice: gli unici che realizzano il loro sogno sono Angelica con Medoro e

Ruggero con Bradamante; per gli altri l’amore è continua e vana ricerca dell’oggetto

amato, spesso perduto nel momento in cui si stava per conquistarlo. Si scorge in questo

tema il senso tutto rinascimentale della fugacità delle cose, della labilità della vita e

dell’affermarsi degli uomini che sembra smentire, proprio mentre l’afferma, il senso di

orgogliosa potenza dell’uomo rinascimentale; encomiastico nella storia di

Ruggero e

Bradamante: da questa coppia il poeta fa discendere la famiglia d’Este;

nonostante

l’esteriorità della celebrazione cortigiana, l’A. ha saputo trattare

questa materia con garbo

e misura, in modo che essa non viene a pesare sulla sapienza architettura

dell’opera.

Bradamante è la figura più gentile e seria del poema, nel senso che nessun accento comico

la sfiora mai: donna innamorata e fedele, non presenta tratti di calcolata prudenza e

astuzia. Anche Ruggero è personaggio complesso, scisso come è tra l'amore per varie

donne (Bradamante, Alcina e Angelica). Negli ultimi canti egli acquista maggiore serietà,

tanto da uccidere Rodomonte acquistando una dimensione quasi eroica. ALTRI TEMI:

cavalleresco, dell’amicizia, magico.


 

 

INTRECCIO: procedimento sistematico di improvvisa interruzione della narrazione per

passare ad altro argomento o personaggio (procedimento di entrelacement, termine

coniato da Lot); narrazioni intradiegetiche di novelle, favole, raccontate da narratori

intradiegetici (i vari personaggi della diegesi principale); cfr. narratori di I e II grado nel

Decamerone: diegesi principale della cornice e novelle intradiegetiche

narrate dall’allegra

brigata; ogni canto presenta un esordio in cui la voce narrante, prima di riprendere le fila

dell’intreccio, traendo spunto dai casi dei personaggi, si abbandona a

considerazioni

generali sul comportamento umano, aprendo spesso, con un modulo che ricorda le Satire,

un dialogo con gli ipotetici destinatari; prevale la spinta centrifuga, il dipartirsi a raggiera

di innumerevoli personaggi in tutte le direzioni, su uno scenario geografico vastissimo; il

centro è costituito di volta in volta dal personaggio che costituisce il protagonista

dell’azione in quel momento.

PERSONAGGI: Orlando (eroe che si batte per i deboli e la giustizia, passa dai toni tragici

della follia a quelli del comico e del meraviglioso nella “perdita del

senno”, per recuperare

alla fine del poema l’iniziale dimensione eroico-cavalleresco); Angelica (oggetto del

desiderio, cioè dell’inchiesta, mai raggiunto e che si salva scomparendo

grazie ad un

anello magico, mezzo magico in senso proppiano; ella è simbolo della bellezza ideale,

tuttavia umana nel desiderio di ritorno a casa e nell’innamoramento del

semplice fante

Medoro); Astolfo (personaggio più originale e divertente, nell’operazione

di recupero del

senno di Orlando sulla luna, scopre la vanità dei sogni e dei desideri umani).

GIUDIZIO: l’originalità del poeta non sta tanto nella materia, già

ampiamente nota e

sfruttata, ma nella maniera di orchestrare la narrazione con IRONIA, FANTASIA,

ARMONIA (categoria invocate dalla critica per definire il poema).

L’armonia consiste

nella disposizione stilistica che livella e sdrammatizza la multiforme materia del canto

ariostesco; l’ironia è quel distacco critico, tipicamente ariostesco,

verso il mondo

fantastico descritto, ma anche verso gli uomini in generale. In particolare, il distacco si

esercita nei confronti di quel mondo della cavalleria, ormai remoto che, se ancora poteva


essere rivitalizzato ed atttualizzato nell’ottica di Boiardo, per A. può essere solo

vagheggiato con nostalgia. La vecchia critica (Momigliano) vedeva nella rievocazione

ariostesca del mondo antico dei cavalieri una ingenua volontà di ricreare un universo

scomparso, ma oggi si è arrivati alla conclusione che il suo è un atteggiamento di distacco

da quel mondo, ormai contemplato con la consapevolezza della sua irripetibilità. Del

resto, per lui le descrizioni fantasiose e fantastiche non sono fini a se stesse, ma sono

finalizzate a dare voce a tematiche di forte impegno filosofico e morale, con intenti non

dissimili da quelli delle Satire: molteplicità e mobilità del reale; capriccio imprevedibile

della fortuna e la possibilità di dominio razionale; l’agire dell’uomo

che si muove

spinto dal desiderio, in una ricerca incessante di oggetti vani ed elusori che sempre gli

sfuggono; le sue velleità e i suoi errori, la sua capacità di adattarsi alla mutevolezza

della fortuna o il suo irrigidirsi unilaterale che conduce alla scacco e alla follia;

l’amore idealizzato, cortese e platonico, l’amore liberamente carnale, l’amore

coniugale. In tal senso, già Caretti (1954) aveva notato che il Furioso è quasi un

romanzo moderno, al cui centro c’è l’uomo con tutte le sue passioni,

aspirazioni, bisogni,

esigenze (quindi, egli è realista non meno di Machiavelli e Guicciardini).

 

STRUTTURA: La critica più moderna ha riutilizzato un termine coniato dallo stesso

autore per definire il tema centrale dell’opera: l’inchiesta, ossia la

ricerca di un oggetto

(come era già nei poemi cavallereschi, es.: la ricerca del Santo Graal), che nel Furioso

diventa ricerca in senso profano e laico: una donna, l’uomo amato, un

elmo, una spada, un

cavallo. La ricerca tuttavia è vana e fallimentare e inconcludente. Il motivo dell’inchiesta

fallita si traduce in un ritmo circolare (Carne-Ross) della narrazione (ring-composition, si

ritorna sempre al punto iniziale: deittici indicativi in tal senso: di qui/di là; di su/di giù; or

quindi/or quinci), che gioca sulla sospensione e sull’attesa, sulla

dilazione del racconto

(Zatti). Altro temine chiave: errore, nel senso di errare, sviarsi, allontanarsi fisicamente;

ma anche in un senso morale: allontanarsi dal campo cristiano per Orlando, infatti,

significa venire meno ai suoi doveri di difensore della fede. Spazio: vastissimo, che varia


dalla Francia, alla Spagna, all’Italia fino all’Oriente e all’Africa,

concezione estremamente

indicativa dell’ideologia dell’autore (opposizione con Dante: spazio

verticale con netta

contrapposizione di valore tra alto/basso, cielo/terra, spirito/materia, salvezza/peccato,

luce/tenebra, eterno/tempo e movimento lineare, perché il viaggio di Dante è preordinato

da Dio ed è unilaterale; Ariosto: spazio orizzontale con movimento dei cavalieri che

muovono solo nella dimensione terrena e l’eccezione di Astolfo che va

sulla Luna è solo

apparente, perché la Luna è il riflesso speculare della terra; quindi, è esclusa ogni

trascendenza e tutto avviene in una dimensione terrena e materiale, quella propria del

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

Rinascimento e movimento centrifugo, con tante, varie possibilità di direzione tra cui

scegliere e la ricerca non raggiunge mai il suo oggetto, con un moto labirintico

(dimensione del caso, del capriccio del destino, della fortuna; cfr. fortuna in Machiavelli e

Ariosto: nel primo, c’è ancora la fiducia umanistica e quattrocentesca

nelle possibilità di

controllo da parte dell’uomo della fortuna, in nome della forza della

virtù – anche se nel

XXV cap. de Il Principe egli già mette in evidenza il fatalismo dei suoi contemporanei

che preferiscono farsi governare piuttosto che “governare” se stessi - mentre A. ha una

visione più disincantata e pessimistica = crisi fine Cinquecento, invasioni straniere in

Italia e primi sentori della civiltà barocca). Metafora illuminate per questa concezione

spaziale è quella della selva: spazio intrecciato in cui infiniti sentieri si aggrovigliano e in

cui i personaggi si muovono nelle loro inchieste mossi “ad arbitrio di Fortuna” (cfr.

Calvino = versione in prosa del Furioso = motivo del labirinto = gusto della fiaba, del

fantastico, Il barone rampante, Il visconte dimezzato etc..). Tempo: cfr. tempo della

Commedia dantesca (tempo lineare) con quella labirintico del Furioso, con i molteplici

fatti che o vengono raccontati tutti insieme (ma non si verificano tutti contemporaneamente) o sono raccontati contemporaneamente (ma non avvengono in

contemporanea). Tale mancanza di linearità non significa informità e scarso controllo

della materia da parte dell’autore: egli regola tutto come un perfetto regista dall’alto della

sua onniscienza: egli stesso si richiama ad un concetto di unità nella molteplicità dei temi,


dei motivi, dei personaggi (armonia dell’artista come demiurgo, creatore

della sua opera

che domina dall’alto come Dio). La struttura aperta ad un certo punto dell’intreccio viene

sostituita da quella chiusa e compatta propria dell’epica classica: dopo l’episodio del

castello di Atlante e della follia di Orlando, predominano sequenze narrative, lunghe ed

ininterrotte, ed anche l’inchiesta muta carattere, non più ricerca di una

donna, ma ricerca

intellettuale; Ruggero, poi, termina le proprie avventure fondando il primo nucleo di una

futura, nuova civiltà, arrivando quindi ad una acquisizione di certezza e di punto di

approdo finale di tutta la vicenda. Il dominio della realtà multiforme della materia trattata,

quindi, trova la sua realizzazione solo nell’arte, nella possibilità per l’autore di

racchiudere tutto l’universo rappresentato in un “simulacro” artistico

dotato di forme pure

e classicheggianti. Straniamento = procedimento che consiste in un improvviso

mutamento nella prospettiva da cui è presentata la materia,

nell’allontanarla e guardarla

con occhio estraneo, in modo da impedire l’immedesimazione emotiva nel

mondo narrato

e in modo da costringere anche il lettore a guardare personaggi, situazioni e sentimenti

come da lontano, e quindi a riflettere su di essi con atteggiamento critico (ciò si ottiene

con frequenti METALESSI -interventi giudicanti - della voce narrante che commenta i

fatti esposti con giudizi che spezzano l’illusione della finzione

narrativa; oppure con

l’ostentazione di un’imperfetta conoscenza dei fatti che limita la

onniscienza del

narratore). In questi procedimenti si concreta l’ironia (distacco) dell’A. Altro

procedimento tipico è l’abbassamento (abbassare la dignità epica ed

eroica dei

personaggi, facendo così emergere gli uomini comuni, con i loro limiti ed errori, anche

con metalessi del narratore che introduce similitudini prosaiche che determinano un

contrasto con le qualità eroiche dei personaggi). Nel sistema dei personaggi del poema, a

figure sublimi, a tutto tondo, sono contrapposti personaggi spregiudicati e pragmatici che

non cercano oggetti idealizzati, ma oggetti materiali, più disponibili e raggiungibili

(Ferraù, Mandricardo); A. non abbraccia mai totalmente al prospettiva di uno solo di

questi personaggi, ma si mantiene sempre equidistante da tutti. Viene a crearsi in tal modo

un pluralismo prospettico che è uno dei caratteri salienti del Furioso: i diversi modi di


giudicare un fatto o un comportamento possono alternarsi, senza mai che si imponga un

giudizio definitivo, unico e incontrovertibile. Nel poema si manifestano varie voci

portatrici di varie prospettive sul reale i vari orientamenti ideologici, tutte in perfetta

autonomia, senza che l’autore intervenga a fissare una prospettiva

privilegiata (polifonia, messa in rilievo da Bachtin).

 

LINGUA: il modello di A. è l’unilinguismo di Petrarca, anche se la lingua dell’A. è più

varia, meno selettiva, dell’uniformità pertrarchesca (termini aulici,

latinismi, lessico

comune, colloquiale, tuttavia senza stridori e forzature, il contrario del plurilinguismo di

Dante). L’ottava, metro tradizionale della poesia cavalleresca, è di

grande fluidità. OPERE MINORI

 

1.

CINQUE CANTI: editi postumi dal figlio Virginio, continuazione della materia

dell’Orlando;

2.

LO SCUDO DELLA REGINA ELENA: frammento di un episodio dell’Orlando, mai inserito nell’opera;

3.

LETTERE (214, scritte tra 1498-1532): non un epistolario letterario, come quelli

umanistici e quello petrarchesco, ma lettere private, relazioni diplomatiche e missive di

carattere pratico, non scritte per la pubblicazione, scevre di intenti letterari;

4.

ERBOLATO: opera in prosa pseudo-ariostesca; un ciarlatano loda le virtù di una pozione

di erbe.

 

FRANCESCO GUICCIARDINI VITA

 

Nasce a Firenze nel 1483 da nobili; studi di legge e professione di avvocato;

inizio dell’attività politica: la Signoria di Firenze lo nominò ambasciatore fiorentino

presso Ferdinando il Cattolico in Spagna;

caduta la Rep., passò prima al servizio dei Medici e poi di papa Leone X;


presidente della Romagna, nominato da Clemente VII;

ispiratore della Lega di Cognac (1526) anti-Carlo V e fu nominato luogotenente

dell’esercito fiorentino e pontificio;

sconfitta dell’esercito della Lega e sacco di Roma da parte dei

Lanzichenecchi (1527);

cacciata dei Medici e ritiro di Guicciardini nella villa di Finocchieto;

dopo la pace di Cambrai (1529), i Medici rientrano in Firenze e G. diventa consigliere di

Alessandro dei Medici;

1537: Alessandro muore assassinato e G. propose Cosimo che non lo nominò consigliere e

si ritirò nella sua villa di Arcetri e morì nel 1540. OPERE E PENSIERO

 

1.

Storie fiorentine: scritte tra il 1508 e 1511, riguardano il periodo compreso tra il tumulto

dei Ciompi (1378) e la battaglia della Ghiara d’Adda (1509). Ricerca

delle cause degli

eventi, mettendo fortemente in risalto la psicologia delle figure dei protagonisti (Lorenzo

dei Medici, su cui esprime un giudizio negativo, e soprattutto Girolamo Savonarola), con

un interesse volto ad illustrare le contraddizioni del presente. 2.

Discorsi politici: G. valuta le diverse forme istituzionali del governo cittadino, sia per

quanto riguarda la soluzione repubblicana sia il principato, ristabilitosi con il ritorno dei

Medici. 3.

Dialogo del reggimento di Firenze (2 libri, ultimati nel 1526): G. immagina una

discussione svoltasi a Firenze nel 1494; interlocutori: padre dello scrittore (Piero),

Paolantonio Soderini e Pier Capponi, tutti ferventi repubblicani (rispecchiano il partito

savonaroliano), a cui si contrappone il vecchio Bernardo del Nero, legato al partito

mediceo (rispecchia il pensiero di G.), il quale dimostra ai tre amici quanto illusoria sia la

loro fede repubblicana, sostenendo che il regime democratico presenta più difetti di quello

monarchico. Bernardo del Nero propone un governo misto in alternativa, il quale preveda

un Gonfaloniere a vita, un Consiglio grande per l’elezione dei

magistrati, un Senato per la

preparazione delle leggi e per la trattazione degli affari di maggiore importanza. Emerge


la convinzione che né in politica né in morale si possono dare regole assolute, teorie

generali o dottrine sistematiche valide in ogni tempo e luogo: di qui la necessità di un

esame costante delle infinite e variabili circostanze.

 

4.

Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli (1528): G. cerca di dimostrare che i

suoi ragionamenti, così convincenti, sono infondati e arbitrari.

Divergenza fondamentale

nella concezione della storia; se per M. essa era magistra vitae, per G. non può insegnare

niente, perché ogni situazione è irripetibile e va giudicata di per se stessa (esaltazione

della circostanza particulare); altra differenza: G. critica la concezione utopistica

dell’appello di M. alla realizzazione dell’unità d’Italia, per lui una

prospettiva

assolutamente irrealizzabile, e il suo continuo ricorso agli antichi come exemplum.

5.

Ricordi politici e civili: (403 pensieri, massime, sentenze, composte tra 1527-30, edite nel

1857); relativismo e scetticismo del G.; teorie della discrezione (capacità di analizzare

precisamente una data situazione contingente per trarne sempre ciò che può essere di

propria utilità o vantaggio, in senso sia politico sia personale) e particulare (principio che

l’uomo deve pedissequamente seguire fino a rasentare il conformismo in una visione

sconsolata e amara della vita); critica e attacchi polemici alla Chiesa e alla corruzione del

clero; pessimismo di G. come segno del tramonto delle idealità rinascimentali e sua

influenza sul pessimismo di Montaigne; stile asciutto e periodare stringato (pur nella

varietà dello stile, alternato ad una sintassi più ampia e classicheggiante) , per la necessità

di condensare in poche parole il pensiero. 6.

Cose fiorentine (1528 circa, edito nel 1945). 7.

Storia d’Italia (1537-40, 20 libri): avvenimenti tra 1492 (anno morte del Magnifico) e

1534 (morte di Clemente VII); impostazione annalistica (TACITO), ma comunque

l’opera è coerente e unitaria, grazie all’esattezza con cui lo scrittore rappresenta gli

avvenimenti. Narrazione della crisi italiana e delle conseguenti invasioni straniere

effettuata con rigore e precisione, intessuta di analisi politiche e psicologiche, che

derivano da un attento esame delle testimonianze e delle fonti. STILE: periodare ampio e


Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

articolato, per sottolineare i legami tra comportamento degli uomini e la trama degli

eventi; il periodo è ricco di incisi, di subordinate, ma costruito con saldezza e classica

chiarezza; ritmo della prosa ampio e grave, senza abbandoni oratori, era espressione della

severa pensosità con cui l’autore considera la sua materia. I ritratti di

personaggi non si

limitano alle esteriorità e alla superficie, ma sondano l’intimo, l’indole e le motivazioni

profonde che muovono e determinano l’agire dell’uomo.

 

PENSIERO

Rifiuto di ogni costruzione teorica e codificazione dell’esperienza. Il

punto di partenza della

sua speculazione è, infatti, la convinzione che la storia è fatta dagli uomini, i quali, mossi

unicamente dalle loro ambizioni e passioni, sono sempre mutevoli e diversi (di qui il rilievo

dato all’aspetto psicologico dei protagonisti della storia e delle loro

motivazioni sottese). Non

è perciò possibile richiamarsi agli antichi per cercare di trarre dalla storia le leggi universali

dell’agire politico, ma bisogna tenere conto solo dell’esperienza del

presente e valutare solo il

singolo caso perché ogni caso è diverso dagli altri e non si ripetono mai situazioni simili.

Unica e suprema norma del politico è la discrezione (dal latino discerno

= distinguo) che

consiste nella capacità di regolarsi secondo le circostanze, di cogliere le caratteristiche

distintive di ogni situazione e scorgere quelli che possono essere sfruttati nel proprio

interesse. La concezione della storia del G. è, come quella del Machiavelli, pessimistica e

individualistica, ma, mentre il pessimismo del secondo nasce dalla tesi filosofica della

naturalità dell’uomo e si riscatta poi con un individualismo “eroico”,

nel G. esso nasce dalla

pura constatazione della realtà e il suo è un individualismo avveduto e dissimulatore, che

trova il proprio coronamento nella teoria del particulare, ossia

l’interesse o utile proprio, cui

l’uomo saggio dovrebbe unicamente badare, nella fatalistica convinzione

che sia vano ogni

tentativo di mutare il corso degli veneti. Anche se il particulare è per

G. costituito più dagli

onori che da un interesse materiale e volgare, resta pur sempre una concezione limitata ed

angusta, di cui egli è ben cosciente e troppo intelligente per appagarsene.

 

CRITICA

Von Ranke nell’Ottocento accusò lo scrittore di inesattezza nell’uso dei

documenti e di

mancanza di spirito critico. Gli scrittori del Risorgimento ribadiscono tale giudizio, criticando


il crudo realismo, la concezione utilitaristica e la mancanza di ideali patriottici. De Sanctis

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

(L’uomo del G., 1869) ritenne che l’uomo disegnato dai Ricordi era privo di idealità morali e

proiettato n una dimensione unicamente materialistica, riflettendo in pieno la decadenza

dell’Italia tardorinascimentale. Lo stile era giudicato involuto e retorico; Fueter nel ‘900

rivalutò la Storia rispetto alle opere minori per una più esatta comprensione dello scrittore. Il

De Caprariis accentua l’importanza politica e culturale del G.

inquadrando con precisione il

suo pensiero nella concreta situazione storica e politica del suo periodo (visione condivisa da

Salinari e Dazi). Fubini e Momigliano rivalutano lo stile, evidenziandone

l’equilibrio,

mentre Getto apprezza il respiro maestoso della prosa guicciardiniana.

TORQUATO TASSO VITA

 

Nasce a Sorrento nel 1544; fanciullezza trascorsa a Napoli, fino al 1554, quando

raggiunge il padre a Roma; soggiorni a Bergamo, Pesaro, Urbino;

studi di diritto a Padova, eloquenza e filosofia a Bologna; compone il Rinaldo (Venezia,

1562);

1565: viene assunto al servizio del cardinale Luigi d’Este e si

trasferisce a Ferrara, dove

trascorre il suo periodo più felice; matura qui la sua visione di corti ed accademie come

centri luminosi di civiltà e cultura; scrive l’Aminta (1573), che rappresenta nell’isola di

Belvedere sul Po; comincia la stesura della Gerusalemme Liberata, che porta a termine

nel 1575;

periodo di grave turbamento psicologico, con punte di squilibrio psichico; per

preoccupazioni di carattere letterario-artistico-religioso, propone la Gerusalemme al

giudizio di teologi e artisti, addirittura sottoponendola volontariamente

all’esame

dell’Inquisitore di Ferrara; per gravi episodi comportamentali viene

fatto ricoverare nel

convento di San Francesco, dal quale fugge raggiungendo Sorrento;

1579: ritorna a Ferrara, ma anche qui si manifesta il suo squilibrio, tanto che viene


rinchiuso nell’ospedale di Sant’Anna;

1586: lascia Sant’Anna per recarsi a Mantova dai Gonzaga, spostandosi

successivamente

a Bergamo, Genova, Roma, Napoli; a Roma è ospite del cardinale Cinzio Aldobrandini

cui dedica la Gerusalemme Conquistata (1593);

mentre si decideva di incoronarlo solennemente in Campidoglio, nel 1595 si ammala e

muore.

OPERE E PENSIERO

Rinaldo 1.

1562; poema cavalleresco in 12 canti in ottave; 2.

avventure del paladino Rinaldo di Montalbano (amore con Clarice; sfide e duelli fino

all’arrivo in Asia alla corte di Floriana che lo trattiene presso di sé;

ritorno in Europa e nozze con Clarice);

3.

tentativo di conciliare il principio di unità aristotelica (personaggio unico) con la varietà

dell’azione; emergono alcuni temi del Tasso maggiore: l’argomento

guerresco e quello

amoroso, con toni languidi e inquieti. Aminta

 

1.

1573; dramma pastorale in 5 atti, prologo ed epilogo in endecasillabi sciolti e settenari, in

cui sono osservate le unità di tempo, luogo ed azione; 2.

amori del pastore Aminta con Silvia, votata a Diana e incurante

dell’amore; Satiro tenta di

usare violenza alla fanciulla, ma Aminta la salva; infine, diffusasi la falsa notizia della

morte di Sivlia, Aminta tenta il suicidio; ella, accorsa presso di lui e trovatolo salvo,

acconsente a sposarlo; 3.

trama tenue, ma con motivi nuovi ed originali: esaltazione dello stato di natura,

vagheggiamento di un’esistenza semplice e genuina; l’opera, poi, è

intessuta di riferimenti

diretti all’ambiente e ai personaggi della corte ferrarese;

rispecchiamento autobiografico

dell’autore nei personaggi di Aminta e del saggio Tirsi. Rime

 

Circa duemila sonetti, madrigali, canzoni e stanze composti lungo tutta la vita; quattro


gruppi di composizioni: rime d’amore: periodo giovanile; rime

encomiastiche: in lode

degli Estensi e di altre famiglie, spesso convenzionali; rime religiose: inquieta spiritualità;

rime di confessione e autobiografiche (famosa la canzone Al Metauro, nella quale si

rievoca l’infanzia travagliata); i moduli sono quelli del petrarchismo e

del bembismo cinquecentesco. Dialoghi

 

sono 26, composti tra 1579 e ’86, nel periodo di Sant’Anna; il modello è

Platone, dunque:

trattazione letteraria e poetica con una base filosofica; famosi sono: il Padre di famiglia

(sul governo della famiglia), il Minturno (sulla bellezza), il Manso

(sull’amicizia), la

Molza (sull’amore), il Magnifico (sulla vita di corte).

 

 

Gerusalemme Liberata 1.

poema epico in 20 canti, cui Tasso lavorò tutta la vita; nel ’76 cominciò

la famosa e lunga

revisione che si concluse solo con la composizione della Conquistata nel 1593; se ne

ricordano, comunque, tre edizioni: la prima nel 1580 con il titolo Goffredo, pubblicata

all’insaputa dell’autore; la seconda nel 1581a Padova, completa e con il

titolo definitivo;

la terza nello stesso anno a Ferrara; 2.

FONTI: per la prima crociata la fonte è la Historia belli sacri verissima di Guglielmo di

Tiro, ma anche tutti i poemi epici e cavallereschi della tradizione greco-romana e

medievale; 3.

RIASSUNTO: l’esercito crociato giunge a Gerusalemme alla guida di

Goffredo di

Buglione (ideale del cavaliere cristiano, valoroso e fermo) e pone

l’assedio alla città

contro il re dei Turchi Aladino; Sofronia e Olindo, condannati al rogo, vengono salvati

dalla guerriera turca Clorinda (donna-guerriero, come la virgiliana Camilla); nel

frattempo, le potenze infernali inviano al campo cristiano la bellissima Armida (maga e

seduttrice, come la Circe omerica) perché distragga i guerrieri. Il cristiano Rinaldo (eroe

giovanetto, irruente e impulsivo, paragonabile all’Achille omerico) si

allontana dal campo

per sfuggire all’ira di Goffredo, mentre anche il valoroso Tancredi

(personaggio

autobiografico; più che la brama di gloria lo muove l’amore) è bloccato

da una ferita. Di


Tancredi è innamorata Erminia (infelice e solitaria) che indossa le armi di Clorinda per

andare a soccorrere l’amato; Tancredi viene poi fatto prigioniero da

Armida. Infuria la

battaglia e i cristiani subiscono gravi perdite; intervengono le forze celesti in loro aiuto e

Tancredi si libera. Quest’ultimo affronta in duello Clorinda (di cui è

innamorato),

credendola un guerriero; solo dopo che l’ha colpita, scopre che è la sua

amata e la

battezza, facendola così morire serenamente. Rinaldo, nel frattempo, è prigioniero

nell’isola di Armida; i suoi compagni lo trovano e lo riconducono alla

ragione per mezzo

di uno scudo magico, dal quale egli apprende la sua discendenza futura: la famiglia

d’Este. Così, riprende la battaglia e lo stesso Aladino viene colpito a

morte; Goffredo può

finalmente entrare da trionfatore in Gerusalemme. 4.

CARATTERE DEL POEMA EROICO: nei Discorsi del poema eroico (1594, 6 libri),

Tasso definì i caratteri del poema eroico: occorreva riallacciarsi alla tradizione epica

greco-latina, scegliendo un argomento storico, quindi “vero”: la

liberazione del Santo

Sepolcro durante la prima crociata. Altro suo proposito fu quello di rispettare le unità

aristoteliche (infatti, l’azione si svolge in 37 giorni durante l’ultimo

anno di guerra, in un

unico luogo, Gerusalemme, attorno ad un unico eroe, Goffredo). Contemporaneamente,

però, occorreva rispettare il principio oraziano del miscere utile dulci, e così Tasso

aggiunse episodi e personaggi collaterali, per rendere più mossa la narrazione. Infine,

l’argomento, per quanto storico e distante, era in quel momento di

particolare attualità

(battaglia di Lepanto della Lega Santa contro i Turchi Ottomani del 1571).

 

5. TEMI: tema encomiastico, rappresentato da Rinaldo, da cui discendono gli Estensi; tema

religioso: incarnato dalla figura di Goffredo (alter ego del pio Enea virgiliano); in tutta

l’opera, tuttavia, spira anche un nuovo sentire religioso, più sofferto e

interiore, nutrito di

angoscia del peccato e desiderio di purezza; tema eroico: i Crociati non sono mossi, come

i paladini di Ariosto, dal gusto dell’avventura, ma dall’austera

coscienza del proprio

dovere che viene compiuto con una gravità e dignità alle quali si unisce un triste

presentimento di morte e di sventura; tema amoroso: anch’esso sentito in

modo nuovo,


con un che di amaro e struggente, emblematizzato in alcune situazioni:

Tancredi che

uccide la donna amata, Erminia che ama senza speranze; magismo cristiano: il

meraviglioso della tradizione cavalleresca viene reinterpretato in senso cristiano.

6.

STILE: ora aulico e solenne, ora patetico e idilliaco, con versi spezzati e mossi

(enjambement, utilizzati nella lirica italiana per la prima volta da Giovanni Della Casa) e

termini musicali e lirici; è uno stile che ha già toni barocchi. Opere minori:

 

1.

Gerusalemme Conquistata: rifacimento in 24 canti della Liberata, effettuato per

preoccupazioni di ordine religioso e morale; maggiore rispetto delle unità aristoteliche e

più ampio spazio al tema encomiastico; complessivamente, opera molto meno valida della

precedente. 2.

Torrismondo: 1586-1587, tragedia in 5 atti; modello: Edipo re di Sofocle,

ma c’è una

forte influenza di Seneca per i toni cupi e lugubri. 3.

Le sette giornate del mondo creato: 1592-4, poema epico-didascalico, 7 canti, sulla

creazione del mondo secondo la Bibbia. 4.

Lettere: 1700 circa, scritte dal 1564 alla morte; argomenti: episodi autobiografici,

questioni letterarie, momenti felici presso gli Estensi, periodo di

Sant’Anna.

 

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

CRITICA

De Sanctis interpretò Tasso come poeta di transizione tra Rinascimento e Controriforma e

trovò delle analogie con Petrarca. Croce pose in rilievo il tono tragico di molte parti del

poema e negò che il poeta fosse interprete della sua età, ma solo di se stesso. La critica più

recente individua il tema fondamentale dell’ispirazione del Tasso nella

religione.

Momigliano ha studiato in particolare il linguaggio, un misto di retorica e poesia; Getto

attribuisce grande importanza al tema encomiastico della corte, tanto che la Liberata è per lui

l’espressione degli ideali e delle aspirazioni cortigiano-accademiche.

Altri studi hanno

insistito soprattutto sull’aspetto barocco e presecentista della poesia

tassiana.


 

GALILEO GALILEI VITA

Nasce a Pisa nel 1564 da una famiglia fiorentina di nobili origini; studi da novizio nel

Convento di Santa Maria di Vallombrosa e poi a Pisa (1580) dove si dedicò alla medicina

e successivamente a matematica e filosofia naturale;

studia Euclide e Archimede; abbandona l’Università senza concluderla;

1586: esordio nel mondo scientifico sulla bilancetta idrostatica;

1589: rientro nell’Università come docente di matematica; primi tentativi

di superare i

presupposti tradizionali della disciplina (studi sull’isocronismo del pendolo);

trasferimento all’Università di Padova (1592); amicizia con Paolo Sarpi e

amicizia con

Giovan Francesco Sagredo;

1604: legge della caduta dei gravi; invenzione del compasso geometrico e militare;

1609: cannocchiale; Sidereus Nuncius (relazione con cui annunciò al mondo le scoperte

astronomiche effettuate con il cannocchiale, 1610) gli garantì fama internazionale;

scoperta di: 4 satelliti di Giove, macchie della luna e fasi di Venere con sconvolgimento

della cosmologia tradizionale;

amicizia con Keplero, feroci polemiche da parte della Chiesa (Gesuiti); trasferimento a

Firenze come “primario matematico e filosofico” del granduca di Toscana

Cosimo II;

appoggio del gesuita Cristoforo Clovio e dei Lincei, che non fu sufficiente, tuttavia, a

salvarlo dalle accuse pesanti della Chiesa; famosa lettera a Padre Castelli (teoria della

doppia verità, scientifica e religiosa);

affermazione della veridicità della teoria eliocentrica;

1615: denunziato all’Inquisizione dai Domenicani; 1616: sua teoria

condannata e

sospensione della dottrina copernicana; ammonizione a G.;

1618: Il Saggiatore, risposta alla Libra del padre gesuita Orazio Grassi; papa Urbano

VIII, favorevole a G., lo stimolò a portare avanti la sua teoria, ora espressa compiutamente


nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, terminato nel 1630 e edito nel 1632

con l’autorizzazione del Pontefice, che si era assicurato che G.

Proponesse le due tesi in modo astratto e imparziale;

 

 

 

1633: davanti al tribunale dell’Inquisizione fu condannato al “carcere formale” perpetuo e

pronunciò pubblicamente l’abiura delle proprie tesi; domicilio coatto

dapprima a villa

Medici a Roma e poi nel suo villino di Arcetri a Firenze scrisse i Discorsi e dimostrazioni

intorno a due nuove scienze, Olanda, 1638;

morì nel 1642. OPERE E PENSIERO IL SAGGIATORE

 

Scritto sotto forma di lettera indirizzata a Monsignor Virgilio Cesarini (bilancetta usata dagli

orefici per saggiare l’oro); l’inserimento di molti passi tratti dalla

Libra di padre Grassi

permette a G. di trasformare la propria teoria sulla natura delle comete in un dialogo serrato

tra due voci, che finisce per contrapporre alla rigidità del Gesuita la vivacità cordiale e

pungente, profondamente ironica, di G. stesso. MOTIVO: validità del metodo sperimentale

(osservazione diretta) e certezza della conoscenza della natura quando sia espressa in relazioni

matematiche. STILE: intonazione polemica, accentuata da uno stile vivace e arguto che ben

dimostra le capacità dialettiche dell’autore.

 

DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI

 

Massima opera di divulgazione, nella quale G. sfrutta appieno tutte le possibilità teatrali

implicite nella forma dialogica (4 giorni e 3 interlocutori);

l’inserimento di un terzo

personaggio (il nobile veneziano Sagredo, spregiudicato seguace delle nuove idee) tra il

portavoce della teoria copernicana eliocentrica (il nobile fiorentino Salviati, alter ego di G.,

scienziato attento e cauto) e il difensore delle dottrine aristoteliche (Simplicio, il peripatetico

borioso e limitato) permette all’autore di sfumare con estrema efficacia l’impostazione della

disputa e offre un’occasione perfettamente verosimile a Salviati di mostrare sul piano pratico,

dell’esperienza quotidiana comune a tutti i lettori, la validità concreta

delle ipotesi

copernicane e del metodo galileiano. Sagredo, l’interlocutore “neutrale” è l’uomo animato

dalla naturale curiosità di sapere, desideroso di giungere ad una soluzione personale, ragionata


e coerente della questione. Proprio il suo buon senso lo porta progressivamente a schierarsi

dalla parte di Salviati e a maturare un atteggiamento fondamentalmente negativo nei confronti

della dottrina dei tradizionalisti e della loro mentalità. Simplicio è piuttosto un personaggio

tragicomico, che rivela inconsapevolmente il vizio profondo della sua personalità: la paura di

 

 

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

affrontare l’ignoto, il rifiuto del rischio e della grandezza, del

coraggio con cui occorre

affrontare l’esperienza della vita e della conoscenza.

 

DISCORSI E DIMOSTRAZIONI INTORNO A DUE NUOVE SCIENZE

 

Stessi interlocutori del Dialogo dei massimi sistemi, ma qui il discorso è più rigoroso,

scientifico e freddo. L’opera pose le basi su cui si svilupperà tutta la

fisica, meccanica e la

scienza moderna, offrendo con il nuovo concetto di moto, proposto da G., un elemento

unificatore di tutte le osservazioni e ipotesi innovatrici elaborate dal suo autore e insieme una

prova evidente dell’efficacia del metodo sperimentale.

 

EPISTOLARIO

 

Circa 4000 lettere, di cui 434 di G. e le altre ed amici e scienziati; rivestono una grande

interesse scientifico e umano perché in esse G. ribadì la sua posizione rispetto alle accuse

mossegli. STILE

G. fu uno dei maggiori scrittori italiani del XVII secolo; legata alla tradizione cinquecentesca,

la sua prosa non ha nulla della raffinatezza e ricchezze ornamentali dei prosatori secentisti, ma

è dominata dalla ricerca di un’estrema chiarezza e dalla necessità di

esprimersi con logica

evidenza e concretezza. Spesso polemica, ha toni di sferzante ironia, ma anche di grande

commozione, di una superiore calma e sicurezza serena, che nascono dalla consapevolezza

delle verità che egli afferma.

 

 

 

CARLO GOLDONI VITA

 

Nasce a Venezia nel 1707; infanzia serena; studi presso collegio domenicano di Rimini e


collegio Ghislieri di Pavia, dai quali, tuttavia, fugge o viene espulso;

1734: conosce il capocomico Imer e comincia la sua collaborazione con il teatro San

Samuele di Venezia; in questo periodo va elaborando la sua riforma del teatro comico;

1747: conosce il famoso capocomico Medebac; le sue commedie suscitano

l’invidia e il

dissenso di molti, tra cui l’abate Pietro Chiari;

1753: lascia Medebac per passare al teatro San Luca, oggi teatro Goldoni; scrive le sue

opere migliori; stanchezza e amarezza per le continue critiche degli oppositori;

si trasferisce a Parigi; ottiene grande successo, ma anche qui continuano difficoltà e

opposizioni

1792: l’Assemblea legislativa francese gli sottrae una pensione e Goldoni

cade in grandi

ristrettezze; muore nel 1793. RIFORMA GOLDONIANA

 

consisté essenzialmente nel sostituire alla seicentesca commedia

dell’arte, basata

sull’improvvisazione degli attori e sulle maschere (la trama non era

scritta, ma esisteva solo

un canovaccio di situazioni e battute standard, il che aveva portato alla staticità dei

personaggi, ormai vere e proprie maschere fisse), una commedia di carattere, interamente

scritta e accentrata sul carattere psicologicamente e socialmente definito dei personaggi. Tre i

punti essenziali della riforma: la commedia riceve con Goldoni una solida struttura

drammatica e dialogica (la prima commedia interamente scritta è la Donna di garbo, 1743);

viene per la prima volta creato il personaggio, cioè il carattere, l’uomo

concreto con vizi,

passioni, debolezze, virtù specifiche, eliminando la fissità delle maschere (la prima commedia

senza maschere è la Pamela nubile, 1750; dai Rusteghi, 1760, scompare anche il servo);

Goldoni procedette ad una moralizzazione della commedia, che, invece, fin

dal ‘500 era stata

per eccellenza il genere letterario privo di qualsiasi fine o intendimento moraleggiante. I

valori goldoniani sono quelli della società borghese cui egli si rivolge; simbolo di tali idealità

è il mercante veneziano, semplice, buono, onesto, dotato di buon senso.

 

 

 

 

OPERE


122 commedie (12 in dialetto veneziano), 15 intermezzi, 55 melodrammi giocosi, 6

melodrammi seri, 5 scenari, molte lettere e i Mémoires.

 

COMMEDIE:

si possono suddividere a seconda dei periodi, visto che la riforma goldoniana fu attuata

gradatamente, in modo da non sconvolgere e destabilizzare all’improvviso

i gusti e le

aspettative del pubblico:

 

 

1.

1738-45: prime commedie basate esclusivamente sull’intreccio e scritte

solo in parte

(Momolo cortesan, poi divenuta L’uomo di mondo, la citata Donna di garbo, l’Arlecchino

servitore di due padroni); sono opere ancora piuttosto rigide e schematiche;

2.

1748-53: commedie scritte per Medebac; la Putta onorata, la Buona moglie, la Vedova

scaltra, il Bugiardo costituiscono una strada intermedia tra tradizione e innovazione,

mentre più viva e già la Bottega del caffè; assai valida è la Famiglia

dell’antiquario, con

cui l’autore raggiunge un pieno equilibrio compositivo; la Pamela nubile è una commedia

romanzesca e patetica ispirata alla Pamela del Richardson; commedie di costume e

d’ambiente sono i Pettegolezzi delle donne e le Donne curiose, opere “corali”, in quanto

prevale la coralità del punto di vista del popolo veneziano. La Locandiera (1753) è la

migliore delle commedie di questo periodo: tutto ruota attorno a Mirandolina che riesce a

far innamorare di sé il bisbetico cavaliere di Ripafratta, ma poi sposa il suo cameriere

Fabrizio; ella è il prototipo della borghese saggia e accorta, onesta e conscia della dignità

del lavoro; 3.

1753-58: pausa nell’evoluzione della riforma: sono commedie di gusto

aristocratico e

mondano (il Cavaliere di spirito, il Medico olandese). Il Campiello (1756), in dialetto

veneziano, è la migliore; commedia corale, ripropone le atmosfere della confusione, dei

pettegolezzi e dell’allegria della società veneziana;

4.

1759-62: è il periodo dei capolavori: gli Innamorati è la storia delle passioni, capricci e

gelosie di Eugenia e Fulgenzio; la Trilogia della villeggiatura; Casa Nova in veneziano,

con l’ambiziosa Cecilia (il tema è quello del pettegolezzo tra donne, uno

dei motivi tipici

della commedia goldoniana); i Rusteghi (1760), in veneziano, è forse il capolavoro di


Goldoni: tema centrale è il contrasto tra giovani e vecchi: i vecchi

“rusteghi” preparano un

 

 

 

matrimonio combinato per i loro figli, alla loro insaputa come vuole la tradizione, ma le

mogli lo vengono a sapere e organizzano un incontro segreto tra i giovani prima delle

nozze; la commedia, poi, si conclude felicemente. E’ anche una commedia d’ambiente,

oltre che di caratteri, perché riproduce quella mentalità borghese del mercante veneziano

di vecchio stampo, ormai fuori moda, ma alla quale Goldoni guarda con una certa

simpatia e nostalgia dei “bei tempi andati”. Nel Sior Todero brontolon

(in veneziano)

ritorna il contrasto tra giovani e vecchi: un vecchio irragionevole vorrebbe imporre un

matrimonio di suo gusto alla nipote. Infine, le Baruffe chiozzotte è da alcuni considerata

opera superiore ai Rusteghi: in dialetto, è ambientata a Chioggia, paese di pescatori.

Mentre gli uomini sono in mare, le donne fanno pettegolezzi e civettano con Toffolo;

quando i mariti ritornano, lo vengono a sapere e nascono baruffe e lazzi di ogni genere.

L’autore guarda con simpatia a questo mondo popolare, agitato da

intrighi, passioni,

pettegolezzi, ma ricco di umanità. Una delle ultime sere del carnovale di Venezia è

l’ultima commedia prima del trasferimento a Parigi.

 

5.

1762-76: periodo parigino: si accentua la parte mimica e si riducono i dialoghi, poiché i

comici del Teatro italiano a Parigi erano ancora abituati alle modalità della vecchia

commedia dell’arte (titoli: L’éventail, il ventaglio, Le bourru bienfaisant, il burbero

benefico, che fu rappresentata a Versailles; L’avare fastueux, l’avaro

fastidioso: tutte

queste commedie sono complessivamente inferiori alla precedenti, perché, per adeguarsi

al classicismo francese, perdono di originalità e freschezza. OPERE MINORI

 

1.

Mémoires: 1783-87, storia della vita dell’autore scritta a Parigi, divisa

in tre parti (la

fanciullezza e le avventure giovanili; maturità, 1748-63, dove sono esposte le idee sulla

riforma del teatro e le enormi difficoltà incontrate per diffonderle; periodo francese,

1763-87; l’opera è stata definita “l’ultima commedia goldoniana” in cui

il protagonista è

l’autore stesso, che balza vivo da ogni pagina, magistralmente descritto;

2.


Intermezzi: 1729-36, scenette realistiche, centrate per lo più sulla malizia femminile

(celebre è il Gondoliere veneziano); 3.

Tragedie: Belisario, Don Giovanni Tenorio, Griselda: non hanno molta importanza;

 

 

 

4.

 

Melodrammi: Gustavo I re di Svezia, Statira, Aristide, La fondazione di Venezia: opere

poco riuscite. ARTE DI GOLDONI

 

Nelle sue opere l’autore mostra di aderire alle nuova letteratura

improntata ai principi

razionalistici, volta ad esprimere situazioni concrete e interessata ai problemi sociali e morali.

Illuminista moderato, egli porta sulle scene quello stesso ambiente borghese dal quale

proveniva: forte è la critica alla nobiltà e il riconoscimento del ruolo nuovo svolto dalla

borghesia con il suo peso economico, sociale e politico. Il mondo inferiore e popolare, poi, è

descritto con simpatia, anche se con un certo distacco ironico e bonario. La comicità in

Goldoni non è mai volgarità esteriore e fine a se stessa, ma nasce dalla psicologia dei

personaggi; il linguaggio è semplice, attuale e diretto, non attinto alla tradizione retorica,

bensì coerente con i personaggi rappresentanti e con la dimensione sociale in cui sono

collocati. Per quanto riguarda l’uso del dialetto, Goldoni ricorre ad un

veneziano medio,

quello parlato appunto dalla borghesia, ma ricorre anche a termini

dell’uso popolare.

 

CRITICA

De Sanctis giudicò l’arte di Goldoni superficiale, ma gli riconobbe il

merito di aver collocato

l’uomo al centro della sua arte. Per i naturalisti, Goldoni fu quasi un precursore del verismo,

soprattutto per l’uso del dialetto, tuttavia un precursore più spontaneo

che consapevole. Croce

esaltò, coerentemente con la propria visione dell’arte, la fantasia creatrice dell’autore.

Sapegno ha dato un’interpretazione equilibrata dell’arte goldoniana,

riconoscendogli

l’accostamento alle ragioni ideali ed alle preoccupazioni sociali della

nuova civiltà

illuministica, a differenza dell’arte disimpegnata dell’arcade

Metastasio, cui spesso Goldoni è

stato accostato. Petronio ritiene che questa adesione all’ideologia

illuminista sia in parte

oscurata da un certo paternalismo aristocratico, tipico dell’alta

borghesia della Venezia


settecentesca. Per Binni, l’autore guarda alla realtà e alla vita umana senza preoccupazioni

metafisiche e religiose, ma con un fondamentale ottimismo. La critica più recente ha rivolto

maggiore attenzione alla lingua del Goldoni, in particolare al dialetto che, come rileva

Folena, acquista per la prima volta autonomia di lingua parlata, senza essere utilizzato con

intenti caricaturali o polemici.

 

GIUSEPPE PARINI VITA

 

Nasce a Bosisio (Brianza) nel 1729 da umile famiglia; ordinato sacerdote nel 1754, non

per vocazione ma per accontentare una zia che gli aveva lasciato una piccola eredità a

condizione che si facesse prete, divenne precettore dei figli dei duchi Serbelloni e per 8

anni fu a stretto contatto con l’aristocrazia verso la quale avvertiva un

sentimento misto di

ammirazione (per lo splendore di vita) e repulsione (per il vuoto spirituale);

primi fremiti rivoluzionari dell’Illuminismo e rottura con i Serbelloni

(1762);

1763: pubblicazione de Il Mattino e l’anno successivo Il Mezzogiorno e

successo

immediato, tanto che Carlo Giuseppe di Firmian, ministro di Maria Teresa, lo nominò

professore di eloquenza nelle Scuole Palatine;

1789: lo scoppio della Riv. Francese lo determinò alla propagazione degli ideali tanto

condivisi; prese parte, quindi, alla municipalità della Rep. Cisalpina (1796), ma si sdegnò

per i soprusi compiuti dai Giacobini, opponendosi così alle loro decisioni, tanto che fu

presto esonerato dall’incarico;

ultimi anni in solitudine e malattia; morì nel 1799. PARINI E GLI ILLUMINISTI

Adesione al dispotismo illuminato di Maria Teresa d’Austria e

condivisione degli ideali

propugnati dal gruppo lombardo del Caffè (Verri, Beccaria) e alla Società dei Pugni. Critica a

Voltaire, Rousseau e tutti i philosophes illuministi per le posizioni antireligiose e

materialistiche (v. passo de Il Mezzogiorno); pur essendo ostile al fanatismo religioso, alla

Controriforma, alle guerre di religione, ai roghi di ebrei ed eretici,

all’oscurantismo

ecclesiastico, tuttavia, crede profondamente nella fede religiosa, sia come indispensabile freno

allo scatenarsi delle passioni umane e come principio di un’ordinata

convivenza civile, sia, in


senso metafisico, come rivelazione del significato ultimo dell’esistenza

umana e come

garanzia di salvezza. Accoglimento dei principi egualitari dell’Ill.

Francese (eguaglianza

naturale, pari dignità umana indipendentemente dalle classe sociale) e umanitarismo come

legame di solidarietà tra gli uomini per evitare sofferenze e patimenti.

Differenza rispetto agli

illuministi lombardi: P. non accettava la loro venerazione per gli Ill. francesi, per il

cosmopolitismo a livello filosofico e culturale, per l’eccessivo

scientismo, difendendo

 

 

 

 

Sintesi di autori della letteratura italiana Tiziana Rossi

 

l’autonomia della cultura italiana e della lingua, che egli intendeva

difendere

dall’introduzione dei francesismi. P. era fedele ad un’idea classica

della letteratura, del culto

della dignità formale dei modelli antichi, pur apprezzando le conquiste moderne. P. riprende il

classico precetto oraziano (miscere utile dulci), laddove la categoria

dell’utile non dev’essere

inteso in senso astrattamente morale, ma come diffusione dei Lumi, come strumento di una

battaglia per risolvere concreti problemi della realtà contemporanea.

Tuttavia, l’utile per lui

non può mai andare disgiunto dal “lusinghevol canto”, la poesia concepita

secondo il senso

altissimo della dignità dei classici. Un ultimo terreno di scontro degli Illuministi lombardi: il

gruppo del Caffè propendeva per il mercantilismo, mentre P. era vicino alle teorie dei

fisiocratici. P. si colloca, con questa sua interpretazione moderata

dell’Ill., vicino alle

posizioni del gruppo dell’Accademia dei Trasformati.

Dialogo sopra la nobiltà (1757): il dialogo si svolge tra due defunti, un poeta plebeo e un

nobile; della nobiltà, pur criticata, viene riconosciuta l’antica

funzione sociale e militare

(difesa della patria, amministrazione politica, stimoli al progresso economico e culturale); la

decadenza attuale muove lo sdegno dell’autore implicito P. per il fatto

che la nobiltà abbia

abbandonato queste attività utili. OPERE

Alcune poesie di Ripano Eupilino (1752): prima raccolta di versi; clima

dell’Arcadia

primosettecentesca; ODE = genere lirico già introdotto dall’Arcadia,

riprendendo modelli

della poesia greco-latina (lirici greci e Orazio), più elevata della canzonetta come tono e temi,

ma simile metricamente (entrambe in versi brevi, in genere settenari, con varie combinazioni


strofiche);

Odi: 3 gruppi diversi per tematiche e soluzioni espressive: il più folto e vicino alla battaglia

illuministica si colloca tra 1756-1769 (La vita rustica, 1756, La

salubrità dell’aria, 1759,

L’impostura, 1760-64, L’educazione, 1764, L’innesto del vaiuolo, 1765, Il

bisogno, 1766, La

musica, 1769). Secondo gruppo: La laurea e Le nozze, 1777; terzo gruppo, ispirato al

classicismo: La recita dei versi, 1783, La caduta, 1785, La tempesta, 1786, In morte del

maestro Sacchini, 1786, Il pericolo, 1787, La magistratura, 1788, Il dono, 1790, La

gratitudine, 1791, Il messaggio, 1793, A Silvia o del vestire alla ghigliottina, 1795, Alla

 

 

 

 

 

Musa, 1795. TEMI: nel primo periodo, esse sono quelle care all’Ill., problemi sociali, concreti

e vivi; conseguentemente, lo stile è connotato da espressioni realistiche, capaci di suscitare

immagini intensamente visive, plastiche, tattili, olfattive e foniche, anche se P. non ha il

coraggio di rivoluzionare totalmente il linguaggio della tradizione e aderisce ai canoni della

classicità.

 

IL GIORNO

IL MATTINO E IL MEZZOGIORNO

 

Poema didascalico in endecasillabi sciolti; nel progetto originario, doveva articolarsi in tre

parti, mattino mezzogiorno (edite nel 1763 e 1765) e sera, ma successivamente la terza si

sdoppiò in vespro e notte, sezioni alle quali P. lavorò fino agli ultimi anni senza completarle.

Il genere didascalico era caro agli illuministi per la sua funzione didattica; P. sfrutta tale

finalità, intendendo fornire un ritratto efficace e significativo della giornata-tipo di un giovane

aristocratico attraverso gli insegnamenti che il precettore fornisce al giovin signore. La

conseguenza di questa impostazione sta nella mancanza di un nucleo tematico e narrativo, con

la prevalenza di sequenze descrittive: viene descritto ad esempio il fenomeno del cicisbeismo.

L’impianto didascalico nasconde tuttavia un intento fortemente ironico,

di demolizione

satirica del vuoto ideale e morale della classe aristocratica, perseguita fortemente con la figura

retorica dell’antifrasi, affermazione contraria rispetto a ciò che si

vuole intendere. Particolare

rilievo assume il trattamento del tempo e dello spazio; innanzitutto non viene scelta una

giornata particolare, degna di rilievo per qualche fatto specifico, ma una giornata-tipo. Inoltre,


il tempo in cui si collocano gli eventi è piuttosto breve, eppure il tempo della narrazione è

lunghissimo (TN>TS); oltre ad essere lungo tale tempo è anche vuoto, perché si ripetono

monotonamente le stesse parole e azioni. Tale mezzo stilistico serve a

rendere l’idea di un

mondo vacuo, privo di senso, dominato dalla noia, in cui il tempo trascorre invano. Anche la

rappresentazione dello spazio concorre a rendere quest’idea, perché si

tratta quasi sempre di

luoghi chiusi: il palazzo del giovin signore prima e quello della dama poi. Si segnalano alcune

digressioni (o metalessi di carattere extradiegetico), sotto forma di favole (favola di Amore e

Imene). STILE: linguaggio aulico, prezioso, attinto alla tradizione più illustre, erudito con

intento antifrastico, ironico, demolitorio (l’ironia, come sempre

avviene, mira a distanziare

criticamente le opinioni dell’autore implicito rispetto alle asserzioni della voce narrante).

 

 

 

ULTIME ODI – NEOCLASSICISMO

 

La svolta reazionaria del dispotismo illuminato fa maturare una crisi

dell’ideologia politica

del P., che dal punto di vista letterario si riflette in un vero e proprio cambiamento di stili e di

temi nelle ultime odi (a partire dal 1777). Se già nell’esordio

letterario, P. aveva sempre

cercato di coniugare attualità ed impegno civile con il rispetto della tradizione classica, ora

quest’ultimo elemento prevale sul primo: le forme si fanno ancora più composte e nobili,

prive di qualsiasi riferimento alle novità scientifiche, sociali, culturali, arricchendosi al

contrario di figure retoriche quali metafore, metonimie, sineddochi, perifrasi, personificazioni.

Questa evoluzione va di pari passo con l’affermazione della teoria

estetica del Neoclassicismo

Winckelmaniano. P. assorbe le teorie dei pittori e degli architetti milanesi che per primi in

Italia si fecero interpreti della teoria del bello ideale. VESPRO E NOTTE

Queste ultime due parti del Giorno, incompiute (del Vespro rimangono 517 versi e della Notte

673) risentono del mutato clima neoclassico. Emergono nuovi temi: la malinconia, il declinare

dell’età, lo svanire della bellezza mentre si stempera sempre più la denuncia sociale. Il verso

diventa più accurato e il mondo aristocratico non è più criticato, ma evocato e vagheggiato nei

suoi aspetti più raffinati e lussuosi.


VITTORIO ALFIERI VITA

 

Nasce ad Asti nel 1749 da famiglia dell’antica nobiltà piemontese; studi presso

l’Accademia militare di Torino;

1766: inizia un lungo periodo di viaggi in Italia e in tutta l’Europa: è

a Milano, Bologna,

Firenze, Roma, Francia, Inghilterra, Olanda (passando per Ginevra compra opere di

Rosseau, Voltaire, ma l’opera che più lo commuove sono le Vite parallele

di Plutarco);

riprende i viaggi andando a Vienna, Berlino, Mosca, Madrid, Lisbona;

1772: rientro a Torino e composizione della prima tragedia Cleopatra, che riscosse molto

successo;

1776: partenza per la Toscana per “spiemontizzarsi” e acquisire maggiore

padronanza

della lingua italiana;

1781: inizia un periodo di residenza a Roma; vengono composte le prime 12 tragedie;

1784: viaggio in Alsazia dove compone la Mirra; successivo viaggio a Parigi per curare

un’edizione delle tragedie per i tipi della Didot; assiste alla presa

della Bastiglia e poi si  allontana dalla capitale francese;

1792: rientro a Firenze e ultimi anni dedicati allo studio dei classici greci e alla

composizione della Vita; muore nel 1803, sepolto in Santa Croce nella tomba scolpita dal

Canova.

OPERE E PENSIERO

Le opere politiche 1.

Della tirannide: 1777, trattato in due libri; viene definito il concetto

di tirannide e i suoi

fondamenti, cioè la paura dei cittadini, esercito, nobiltà e clero; uniche possibilità per un

uomo libero nella tirannide sono: suicidio, isolamento, tirannicidio; la libertà alfieriana

non è quella politica e sociale di matrice illuministica, ma un rifiuto anarchico di qualsiasi

freno giuridico e statuale. 2.

Del principe e delle lettere: 1778-1786, trattato in tre libri; l’autore

si scaglia contro il

mecenatismo, poiché la poesia non può essere libera se sottoposta al potere politico; viene


esaltata la figura dello scrittore libero e integerrimo, una figura eroica che si pone al di

sopra di tutto (titanismo alfieriano).

 

 

 

  1. Panegirico di Plinio a Traiano: 1785, rifacimento dell’opuscolo

scritto da Plinio.

  1. Della virtù sconosciuta: 1786, dialogo, celebrazione dell’amico Gori

Gandellini.

L’autobiografia

 

Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso: 1790-1803, divisa in quattro epoche

(puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità); sull’opera influisce il gusto autobiografico e

psicologico proprio dell’epoca (Rousseau), ma in Alfieri emerge anche la

volontà di

affermazione del suo individualismo e del senso eroico della sua personalità, per cui tutta la

narrazione appare volta a costruire l’immagine di se stesso come un eroe della libertà,

solitario e isolato nella società contemporanea asservita all’assolutismo

illuminato. Le rime

1776-1799, 351 componimenti fra sonetti, canzoni, odi, epigrammi etc., di ispirazione

petrarchesca; temi: autobiografico, colloqui con i grandi del passato, arte e politica (famosi il

Parigi sbastigliato e il sonetto Autoritratto).

 

Le tragedie

19 nell’edizione parigina del 1787-89; titoli: Filippo, Polinice, Antigone, Agamennone,

Oreste, Don Garzia, Virginia, Congiura dei Pazzi, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia,

Timoleone, Merope, Saul, Agide, Sofonisba, Mirra, Bruto primo e Bruto secondo.

 

 

CARATTERI DELLA TRAGEDIA ALFIERIANA: l’Alfieri osserva cinque canoni fondamentali: riduce i personaggi; concentra l’azione su un solo sentimento dominante e su

uno o due personaggi; ritmo rapido e incalzante; andamento spezzato e aspro al verso,

l’endecasillabo sciolto, per esprimere le passioni più concitate; vengono

scelti personaggi resi

grandi dal mito o dalla storia, attinti al mondo greco o romano, alla Bibbia, alla storia

medievale e rinascimentale. Il tema più frequente è il conflitto fra tirannide e libertà (sono le

“tragedie di libertà”: il Bruto primo, il Bruto secondo, Virginia e la

Congiura dei Pazzi). Nelle

tragedie migliori, invece, il tema della libertà, pur presente, è interpretato in senso più

metafisico che politico e il conflitto non si determina tanto nei confronti di un altro individuo,


 

 

 

 

quanto nei confronti del destino o anche del protagonista contro se stesso. Fra queste tragedie

ci sono i capolavori dell’Alfieri: Filippo, Saul e Mirra.

 

Filippo: domina la figura del protagonista Filippo II, re di Spagna, che ha sposato Isabella,

già promessa sposa del figlio Don Carlos. Filippo nutre dei sospetti sui sentimenti dei due e fa

accusare il figlio di tradimento, ma Isabella interviene per difenderlo.

Ciò non fa che

confermare i sospetti del re, il quale fa incarcerare il figlio; la tragedia si conclude con il

suicidio di Isabella e di Don Carlos.

GIUDIZIO: Filippo è la figura emblematica del tiranno prepotente, tuttavia egli è anche

dolorosamente umano perché combatte soprattutto con se stesso, con quella strenua volontà di

potenza che lo porta a distruggere chiunque tenti di sottrarsi ad essa.

 

Mirra: la protagonista è prossima alle nozze con Pereo, ma, a mano a mano che si avvicina il

matrimonio, appare sempre più triste e tormentata a causa dell’amore che

nutre per il proprio

padre Ciniro; alla fine si uccide.

GIUDIZIO: tutta la tragedia è concentrata sulla figura di Mirra, il personaggio più complesso

e tormentato dell’Alfieri; il suicidio è l’unica soluzione possibile per

questa infelice che

appare destinata alla sconfitta fin dalle prime scene del dramma.

 

Saul: il vecchio re si riconcilia con David, sposo della figlia Micol, ingiustamente accusato e

allontanato dallo stesso suocero. Tuttavia i sospetti risorgono e Saul fa cacciare di nuovo il

genero, mentre i Filistei attaccano il popolo israelita e il vecchio re , ormai solo, si getta nella

lotta e si uccide.

GIUDIZIO: Saul è dominato dalla dolorosa consapevolezza del suo declino,

dall’odio e dal

sospetto, ma anche dall’amore per i figli e soprattutto da quella

profonda coscienza di

solitudine che culmina nella follia. Le opere minori

1.

L’Etruria vendicata: 1778-84, poemetto epico in ottave; tratta

dell’uccisione di

Alessandro de’ Medici ed esalta il tirannicidio.

 

 

 

 

2.


Satire: 1786-97, 17, in terzine; sono un’accusa contro la società del ‘700, senza nemmeno

risparmiare gli eccessi dell’Illuminismo.

3.

Commedie: 1800-1803; L’uno, I pochi, I troppi e L’antidoto sono una

tetralogia di

carattere politico; carattere moralistico hanno La finestrina e Il divorzio.

4.

Misogallo: 1793-1798, poemetto misto di prosa e versi; è l’espressione dell’odio contro

la Francia e contro la rivoluzione francese. CRITICA

Per Croce Alfieri fu il vero iniziatore della nuova letteratura, considerandolo un

protoromantico, soprattutto per il suo carattere fortemente individualista e passionale. Russo

vede nell’Alfieri il primo superuomo, tutto teso verso una libertà

assoluta. Fubini rileva

specialmente l’aspetto pessimistico della poesia dell’Alfieri che nasce

dal senso del limite,

contro cui tutti i suoi personaggi sono impegnati in una lotta vana. La critica più recente tende

a definire meglio i rapporti dell’autore con la cultura dell’epoca e a

collocarlo, come fa il

Maier, fra Illuminismo e Romanticismo.

 

 

 

 

 

UGO FOSCOLO VITA

 

Nasce a Zante nel 1778 da padre veneziano e madre greca; trasferitosi nel 1784 a Spalato,

iniziò gli studi umanistici nel seminario locale;

nel 1788 perdette il padre e fece ritorno a Zante, continuando i suoi studi, da dove si

trasferì nel 1792 a Venezia; divenuto sospetto per le sue idee democratiche, si rifugiò sui

colli Euganei; all’arrivo dei francesi in Italia si arruolò nell’esercito

napoleonico e

compose l’”Ode a Bonaparte liberatore”; caduta la Repubblica, F. ritornò

a Venezia,

dove fece parte della municipalità, ma col Trattato di Campoformio (1797), andò a

Milano;

continua a combattere nelle fila napoleoniche; va in Francia, in Inghilterra, torna in Italia

(Pavia, insegnamento);

ritorno degli Austriaci; invito di questi a dirigere la “Biblioteca italiana”, suo plateale

rifiuto e esilio volontario in Svizzera e a Londra, dove morì nel 1827 a Turnham Green


(ultimi anni di miseria, cure della figlia Floriana, ristrettezze economiche e debiti).

AMORI: Isabella Teotochi Albrizzi, Isabella Roncioni, Antonietta Fagnani Arese,

Quirina Mocenni Magiotti, Eleonora Nencini Pandolfini, Cornelia Rossi Martinetti,

Carolina Russel, Maddalena Bignami, Francesca o Cecchina Giovio. OPERE

 

ULTIME LETTERE DI JACOPO ORTIS

 

Prima redazione (Bologna, 1798, interrotta); edito con rimaneggiamenti nel 1802 (edizioni

successive: Zurigo, 1816 e Londra, 1817). Romanzo epistolare (genere settecentesco per

eccellenza): lettere scritte a Lorenzo Alderani (due livelli di narrazione: Alderani

narratore-editore di I grado (extradiegetico) si rivolge ai suoi

narratari (“spiriti disposti

alla compassione”) e io narrante Jacopo (intradiegetico) che si rivolge

al narratario

Alderani nelle sue lettere fittizie.

FONTI: “I dolori del giovane Werther” di Goethe (somiglianza: trama e

dissidio tra

giovane impetuoso e borghesia infiacchita nella coppia Ortis-Odoardo con, in più rispetto

al Werther, un impeto politico determinato dal nuovo clima suscitato

dall’arrivo

dell’esercito napoleonico in Italia che, per quanto avesse deluso i

patrioti per la questione

 

 

 

di Campoformio, aveva comunque accesso gli animi a speranze di libertà e indipendenza,

incarnate nel romanzo dall’enfasi oratoria di Jacopo, estremo difensore

di una libertà dagli

accenti alfieriani) e la “Nuova Eloisa” di Rousseau.

 

TEMI: amore, politica, amore per i classici (visita della tomba di Petrarca ad Arquà),

suicidio, ma non esaltazione della rinuncia alla lotta, bensì volontà emergente di ancorarsi

a istituzioni civili (matrimonio, storia, poesia, tradizione culturale etc.).

STILE: prosa aulica, sintassi complessa, studiate antitesi; spesso, la cultura libresca

prevale sulla sincerità dell’espressione.

SONETTI E ODI

 

Dodici sonetti: gli otto secondari con “Luigia Pallavicini caduta da cavallo” editi nel 1802,


mentre i quattro principali + otto precedenti + “Luigia” + “All’amica risanata” editi nel

1803;

SONETTO: inventato da Jacopo da Lentini: 2 quartine e 2 terzine di endecasillabi, rime

per lo più alternate nelle quartine e continuate nelle terzine

4 principali (“Alla sera: Forse perché della fatal quïete”, “A Zacinto:

Né più mai toccherò

le sacre sponde”, “In morte del fratello Giovanni: Un dì s’io non andrò sempre fuggendo”,

“Alla Musa: Pur tu copia versavi alma di canto”) e 8 secondari (“All’Italia: Te nutrice di

Muse, ospite e Dea”, “Alla sua donna lontana: Meritamente però che io potei”, “Alla sua

donna: Così gli interi giorni in luogo incerto”, “Di se stesso: Poiché

taccia il rumor di mia

catena”, “Di se stesso: Non so chi fui, perì di noi gran parte”, “Di se

stesso: Che stai? Già

il secol l’ora ultima lascia”, “A Firenze: E tu ne’ carmi avrai perenne vita”, “Il proprio

ritratto: Solcata ho fronte, occhi incavati e intenti”). Sonetti secondari: spiriti “ortisiani”,

immagini eccessivi, enfatiche, linguaggio immaturo e approssimativo con scoperti calchi

classici, alfieriani, pariniani e petrarcheschi; sonetti maggiori: reinterpretazione della

classica forma del sonetto, originalità nella struttura sintattica e metrica, nella tessitura

delle immagini, nel gioco ritmico e melodico del verso.

ODI: passaggio dagli accenti impetuosi a genere classico per eccellenza, sulle tracce di

Parini e Monti; differenza tra le due: “A Luigia Pallavicini” è opera più

immatura,

disorganica, densa di immagini eccessive, inefficaci, male equilibrate con le tipiche

leziosità settecentesche (passo della caduta da cavallo, viene accostata ad alcuni passi

 

 

 

 

“macabri” dei “Sepolcri”, come indice di influenze preromantiche inglesi

e tedesche);

“All’amica risanata”, invece, rivela una maggiore compattezza artistica,

con totale

identificazione tra arte e mito, celebrazione della bellezza e della poesia che la eterna

(“Grazie”), linguaggio più fluido ed elegante (il più alto momento

neoclassico del F.

insieme alla “Grazie”); donna quale creatura angelica (identificazione

con la divinità

classica) di matrice stilnovistica. SEPOLCRI


Poemetto (“carme” di 295 endecasillabi sciolti sotto forma di epistola

poetica indirizzata

all’amico Ippolito Pindemonte; occasione: discussione in seguito al decreto napoleonico

di Saint Cloud del 1804 in merito alle nuove norme circa il seppellimento dei morti;

discussione in materia, cui aveva partecipato a Venezia nel salotto della contessa Teotochi

Albrizzi; lettura che il Pindemente gli fece nel Giugno a Verona del primo canto del suo

poemetto in ottave “I cimiteri” che stava allora scrivendo);

Gusto della poesia sepolcrale europea fine Settecento-inizio Romansticsimo patetico e

contemplativo (Young: “Le notti, o Pensieri notturni sulla vita, la morte e l’immortalità”,

Blair: “Il sepolcro”, Hervey: “Meditazione tra le tombe”, Gray: “Sopra un

cimitero

campestre”, elegia;

TEMI: utilità della religione e del culto dei morti per gli uomini, articolata dal poeta in 4

momenti: il sepolcro come suscitatore di “corrispondenza di amorosi sensi”; sepolcro

come istituzione storica, testimonianza dei popoli passati; sepolcro come suscitatore del

sentimento patriottico (Santa Croce); sepolcro come ispiratore di poesia (Omero);

STRUTTURA: due parti, corrispondenti a due diversi toni (vv. 1-150: poesia dei sepolcri

con prevalenza dei toni elegiaci; vv. 151-295: tono epico e finale con lamento di

Cassandra = ritorno al tono elegiaco (STRUTTURA RING-COMPOSITION);

STILE: linguaggio elevato e aulico; endecasillabo trattato con estrema duttilità, piegato a

tutti i toni, attraverso il ritmo degli accenti, le pause interne, timbro delle vocali e

consonanti.

 

 

 

GRAZIE

 

Carme dedicato ad Antonio Canova, 3 inni di endecasillabi sciolti; edito postumo due

volte (a cura di Orlandini e Chiarini); primo inno (Venere): origine divina delle Grazie e

loro influsso civilizzatore sugli uomini; secondo (Vesta): ara in cima al colle di

Bellosguardo (Nencini, Martinetti e Bignami sacrificano sull’altare);

terzo (Pallade):

rifugio delle Grazie sull’isola di Atlantide e velo tessuto da Pallade

per sottrarle agli sguardi umani;


GIUDIZIO: fine didattico, stile epico-lirico (Inni omerici, odi pindariche, Catullo,

Lucrezio); lungo lavorio di F., quindi forma estremamente levigata, allegorie sottili

coistruite per far sì che le figurazioni agiscano sui sensi e

sull’immaginazione del lettore,

complessa struttura concettuale; la ricerca della bellezza neoclassica non dimentica,

tuttavia, gli accenni ai temi civili della sofferenza, della guerra (emergono qua e là

rimandi alle sanguinose guerre napoleoniche, campagne di Russia, Italia, etc..)

STILE: le Grazie proseguono la ricerca stilistica delle Odi,

nell’aspirazione al

raggiungimento della bellezza assolta, della musicalità del verso unita ad una grande forza

di suggestione visiva per far sì che le immagini evocate quasi

“gareggino” con le arti figurative.

TRAGEDIE:

TIESTE, AIACE, RICCIARDA: influsso alfieriano nei temi della aspirazione alla libertà,

della violenza della politica, etc... PROSE

1.

“Notizia intorno a Didimo Chierico” (1815, in latino biblico modellato sull’Apocalisse,

premessa alla traduzione del “Viaggio”): importante momento di passaggio

dalla

passionalità di “Jacopo” alla pacatezza delle “Grazie”;

2.

“Viaggio sentimentale” di Sterne, traduzione; nella “Notizia” che precede

il testo del

traduzione, viene fornito un ritratto di Didimo, alter ego di Foscolo, ironico, disincantato;

3.

“Dell’origine e dell’ufficio della letteratura” (prolusione a Pavia nel

1809);

4.

“Su la letteratura e la lingua” (2 lezioni);

5.

“Della morale letteraria” (3 lezioni);

 

 

 

6.

“Sull’origine e i limiti della giustizia” (1 orazione);

7.

“Della servitù d’Italia”;

8. “Ypercalipsis” (finzione autore: Didimo Chierico);

9.

“Gazzettino del bel mondo”;

  1. “Lettera apologetica”;
  2. “Discorso sul testo del poema di Dante”;
  3. “Saggi sul Petrarca”;
  4. “Le epoche della lingua italiana”;

  1. “Discorso storico sul testo del ‘Decamerone’”;
  2. “Della nuova scuola drammatica in Italia” (saggio dove polemizza

contro la scuola

romantica condannando la tragedie di M. in nome della poesia contro

l’arido vero storico).

  1. Traduzioni: “La chioma di Berenice” di Callimaco, Iliade (incompleta,

inferiore a quella del Monti).

CRITICA

De Sanctis apprezzò soprattutto “I Sepolcri”, considerati come il punto

di approdo di tutta la

sua arte precedente (l’Ortis, in particolare, viene considerata non opera

poetica, ma biografia),

mentre le “Grazie” costituiscono un’opera impoetica e solo attenta alle

forme perfette della

classicità. Croce invece rivaluta le Grazie quale opera unitaria

nell’ispirazione e nello stile; la

monografia del Fubini è fondamentale nella delineazione di un ritratto

completo dell’autore;

la critica più recente ha in particolare approfondito il valore poetico delle Grazie e dei

complessi rapporti che legano le varie opere tra di loro, in modo da sottolineare la continuità

artistica in tuta l’opera foscoliana

 

GIACOMO LEOPARDI VITA

 

Nasce a Recanati nel 1798, primogenito del conte Monaldo e della marchesa Adelaide

Antici; pesante atmosfera familiare, anche per la chiusura mentale del padre, reazionario

autore dei Dialoghetti della materie correnti nell’anno 1831, opera

fortemente

conservatrice e antirisorgimentale;

1810-1816: sono gli anni dello “studio matto e disperatissimo”; impara

latino, greco,

ebraico, francese, tedesco e spagnolo; scrive opere di erudizione (tra le altre, Storia

dell’astronomia, 1813, e Saggio sopra gli errori popolari degli antichi,

1815);

1815: è l’anno della conversione dalla arida filologia all’apprezzamento

del valore estetico

dei testi (dall’erudizione al bello); traduzioni di Mosco, Omero, della

Batracomiomachia, etc.;

1817: è l’anno della malattia, quindi di una pausa forzata nello studio;

conosce Giordani;

1819: tentativo di fuga da Recanati e crisi familiare sempre più profonda;


1822-1823: primo viaggio a Roma in casa dello zio Carlo Antici; delusione e ritorno a

Recanati;

1825: è a Milano su invito dell’editore Fortunato Stella; va poi a

Bologna;

1827: è a Firenze, poi a Pisa; nel 1828 fa ritorno a Recanati, ma poco dopo è di nuovo a

Firenze;

1833-1837: soggiorno a Napoli presso l’amico Antonio Ranieri;

peggioramento della

salute e soggiorno nella Villa delle ginestre a Ercolano; muore nel 1837. OPERE E PENSIERO

 

I CANTI

 

prima raccolta completa edita nel 1831 con 23 canti; edizione definitiva postuma nel 1845

(23+Il tramonto della luna+La ginestra); la composizione abbraccia 20 anni (1816-1836);

entro quest’arco di tempo si determinano due momenti compositivi,

delimitati da una

pausa (1823-1826), durante la quale compone le Operette morali;

primo periodo (1816-1823): è la fase del dolore individuale: dietro la scorta di

Rousseau, la natura è “madre benigna”, mentre gli uomini sono “figli cattivi” che l’hanno

 

 

 

abbandonata per seguire la ragione; la conseguenza consiste

nell’esaltazione della felicità

inconsapevole dei tempi antichi e la deplorazione della sofferenza moderna indotta dal

raziocinio; liriche: Frammento (1816; “Spento il diurno raggio in occidente”; improvvisa

tempesta da cui è investita una giovane mentre si reca dal suo amato),

Primo amore

(1817-18; terza rima ispirata dal primo amore per la cugina Gertrude

Cassi), All’Italia

(1818; canzone con stanze di uguale numero di versi, ma con due schermi differenti;

deplorazione delle misere condizioni politiche e civili dell’Italia),

Sopra il monumento di

Dante che si preparava in Firenze (1818; canzone con stanze a schemi differenti; dalla

glorificazione di Dante si passa alla contemplazione delle sofferenze

dell’Italia

contemporanea), L’infinito (1819; endecasillabi sciolti; piacere di un

luogo solitario e

sbigottimento di fronte a spazio e tempo infiniti, quindi contrasto romantico tra

dimensione finita dell’uomo e anelito al superamento di tale condizione),

Alla luna (1819;


endecasillabi sciolti; contemplazione della luna, ricordo di sofferenze passate e successivo

sollievo nel ricordo stesso), La sera del dì di festa (1820; endecasillabi sciolti), Ad Angelo

Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica (1820;

canzone petrarchesca

con unico schema strofico; rievocazione dei tempi felici di Umanesimo e Rinascimento,

rinati per merito del cardinale Mai scopritore di opere antiche), Il sogno (1820-1;

endecasillabi sciolti; sogno di una fanciulla amata che poi si dilegua),

La vita solitaria

(1821; endecasillabi sciolti; il poeta benedice la benefica natura, tuttavia a lui ostile per le

sofferenze d’amore), Nelle nozze della sorella Paolina (1821; canzone

petrarchesca con

unico schema strofico; esortazione alla sorella in procinto di sposarsi –

nozze che per

inciso non ebbero luogo – a concepire figli infelici ma forti come gli antichi Spartani), A

un vincitore nel pallone (1821; canzone petrarchesca con unico schema strofico;

rievocazione degli antichi giochi dei Greci), Bruto minore (1821; canzone petrarchesca

con unico schema strofico; rievocazione di Bruto uccisore di Cesare dopo Filippi), Alla

primavera o delle favole antiche (1822; canzone petrarchesca con unico schema strofico;

nostalgia per l’epoca antica, colma di inconsapevole felicità), Ultimo

canto di Saffo (1822;

canzone petrarchesca con unico schema strofico; lamento della poetessa prima di morire

per il crudele amato), Inno ai patriarchi, de’ principii del genere umano

(1822; canzone

petrarchesca con unico schema strofico; rievocazione di Caino, Noè, Abramo, Giacobbe,

con nostalgia per l’incosciente felicità degli antichi), Alla sua donna

(1823; canzone con

 

 

 

stanze di uguale numero di versi, ma con vario schema; inno alla donna amata e alla sua

bellezza immortale);

 

secondo periodo (1826-1836): è la fase del dolore universale, della

“natura matrigna” e

dell’influsso del pensiero vichiano (corsi e ricorsi storici) con

dissolvimento del mito della

felicità degli antichi; liriche: Al conte Carlo Pepoli (1826; epistola in endecasillabi sciolti;

il poeta contrappone la felicità del conte alla propria misera condizione, giacché si sente il

cuore “inaridito”), Il risorgimento (1828; quartine di settenari

sdruccioli, piani e tronchi,

legati a due a due; storia del percorso infelice del poeta, fino al nuovo desiderio di


speranza che lo pervade), A Silvia (1828; canzone a stanze libere; ricordo gentile e dolce

della giovinezza e delle illusioni infrante davanti alla cruda realtà),

Il passero solitario

(1829; canzone a strofe libere; metafora poeta-passero solitario), Le ricordanze (1829;

endecasillabi sciolti; rimpianto della giovinezza e di Nerina, ormai morta), La quiete dopo

la tempesta (1829; canzone a strofe libere; il piacere scaturisce solo dallo spavento e

dall’affanno, momenti brevi e rari, mai dal dolore che è una costante della vita umana), Il

sabato del villaggio (1829; canzone a stanze libere; bozzetto idilliaco contrapposto

all’apostrofe filosofica al “garzoncello scherzoso”), Canto notturno di

un pastore errante

dell’Asia (1829-1830; canzone a stanze libere; interrogativo angoscioso alla luna sul senso

della vita e del dolore), Il pensiero dominante (1831; canzone a strofe libere; esacerbarsi

del dolore d’amore e invocazione della morte), Amore e morte (1832;

canzone a stanze

libere; mito di Amore e Morte, creati per coesistere, ma il poeta invoca la Morte soltanto),

Consalvo (1832; endecasillabi sciolti; Consalvo ottiene un bacio da Elvira e a tanta

dolcezza muore, ringraziando per quell’istante di gioia), A se stesso

(1833; stanza; lo

stanco cuore deve orami disprezzare l’infinità vanità del tutto), Aspasia

(1834;

endecasillabi sciolti; la donna amata dal poeta è ormai morta per lui, disperato ma fiero di

aver conquistato la propria libertà interiore), Sopra un bassorilievo antico sepolcrale,

dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi

(1834-5; canzone a stanze libere; compianto di una morte precoce), Sopra un ritratto di

una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima (1834-5; canzone a

stanze libere; interrogativi filosofici sul rapporto tra corpo e spirito

nell’uomo), Palinodia

al marchese Gino Capponi (1835; endecasillabi sciolti; satira contro i filantropi

progressisti e ottimisti, nonché contro le ostentazioni patriottiche dei falsi liberali), I nuovi

 

 

 

credenti (1835-6; terzine ad Antonio Ranieri; satira contro alcuni letterari riconvertiti al

cattolicesimo), La ginestra, o il fiore del deserto (1836; canzone a stanze libere;

magnanimo non è chi illude l’uomo con false promesse, ma chi lo esorta a

contemplare la

sua vera condizione, invitando contemporaneamente l’umanità a stringersi

in un fraterno

abbraccio di solidarietà, unico rimedio al dolore universale), Il tramonto della luna (1836;


canzone a stanze libere; come la luna scomparendo lascia la terra al buio, così la

giovinezza, tramontando, piomba l’uomo nella disperazione);

 

nell’edizione del 1835 furono compresi anche alcuni brevi carmi:

Imitazione (rifacimento

di una favola del contemporaneo poeta francese A. V. Arnault), Scherzo (1828),

Frammento (1819: “Odi, Melisso”), Frammento (1818-9: “Io qui vagando”), 2

traduzioni

Dal greco di Simonide (1823-4: “Ogni mondano evento” e “Umana cosa”).

METRICA: prevalgono gli endecasillabi sciolti e la canzone a strofe libere (detta anche

leopardiana), una derivazione del metro delle favole pastorali del Tasso e del Guarini, in

cui non c’è, come accadeva nella canzone antica, un numero di versi

uguale in ogni strofa,

disposti nello stesso ordine di rime e metri. OPERETTE MORALI

 

24 prose composte tra 1824 e 1832; l’edizione completa è quella postuma

del 1845 curata

da Antonio Ranieri (un primo gruppo compatto risale al 1824, successivamente ne

vengono composte altre cinque in questo ordine: nel 1825 il Frammento apocrifo di

Stratone di Lampsaco, nel 1827 il Copernico e il Dialogo di Plotino e Porfirio, nel 1832 il

Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un

amico);

STRUTTURA: primo gruppo (1824): concetti di illusione e felicità: Storia del genere

umano (storia della perpetua infelicità umana da Giove in poi; influenza del pensiero di

Vico), Dialogo d’Ercole e di Atlante (allegoria della fatuità umana),

Dialogo della Moda

e della Morte (le due sorelle sono entrambe nate dalla Caducità e collaborano a rendere

l’uomo vano e infelice), Proposta di premi fatta dall’Accademia dei

Sillografi (ironica

proposta di costruzione con le macchine di un amico vero e di una donna fedele,

impossibili a trovarsi in natura), Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo (gli uomini sono

ormai scomparsi e un folletto e uno gnomo si contendono il dominio della terra per la

 

 

 

propria specie), Dialogo di Malambruno e di Farfarello (il mago M. chiede al diavolo F.

la felicità, anche solo per un attimo); secondo gruppo (1824): concetto di natura


matrigna: Dialogo della Natura e di un’Anima (l’infelicità è maggiore negli uomini

grandi), Dialogo della Terra e della Luna (tutti i pianeti sono infelici, non solo terra e

luna), La scommessa di Prometeo (Prometeo scommette con Momo e perde, poiché gli si

dimostra che la creazione dell’uomo non è stata poi una grande invenzione), Dialogo di

un Fisico e di un Metafisico (inganno della natura che prospetta all’uomo

sempre piaceri

passati e futuri, mai presenti), Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare

(anche qui si dimostra come il piacere sia sempre passato o futuro),

Dialogo della Natura

e di un Islandese (la Natura personificata dimostra come essa crei l’uomo

per

distruggerlo); terzo gruppo (1824): concetti dei problemi morali

dell’individuo rispetto a

se stesso e alla società: Il Parini, ovvero della gloria (la gloria letteraria è difficile da

conseguire e vana), Dialogo di Federico Ruysch e delle sue Mummie (lo scienziato

apprende dalle sue mummie, che si sono improvvisamente svegliare dalla morte, come

quest’ultima non sia affatto dolorosa), Detti memorabili di Filippo Ottonieri (pensieri sui

costumi e sui pregiudizi letterari e morali), Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro

Gutierrez (Colombo spiega al suo compagno che, anche se non troveranno le terre sperate,

avranno ben speso il loro tempo), Elogio degli uccelli (non l’uomo, ma

gli uccelli sono le

creature più felici), Cantico del gallo silvestre (il gallo insegna agli uomini che bisogna

abbandonare i sogni per accostarsi al vero); quarto gruppo (1825-1832): temi vari,

comprendenti tutti quelli delle prose precedenti: Frammento apocrifo di Stratone di

Lampsaco (tentativi di un filosofo di spiegare origine e fine del cosmo), Dialogo di

Timandro e di Eleandro (solo questa, composta nel 1824; invettiva contro i filosofi

moderni), Copernico. Dialogo (parodia della dottrina eliocentrica), Dialogo di Plotino e

Porfirio (contrasto dei due filosofi intorno al suicidio; il punto di vista leopardiano è

quello di Plotino, che esorta a non rifiutare la vita in nome della solidarietà), Dialogo di

un venditore di almanacchi e di un passeggere (tema delle illusioni e speranze) e Dialogo

di Tristano e di un amico (Tristano, dopo aver tentato di dimostrare la felicità del vivere, è

costretto ad ammettere di desiderare la morte);

 

FINALITA’: espressiva: l’autore si propone esplicitamente di creare una

vera e propria

prosa filosofica e moderna, che mancava in Italia; filosofica: le operette costituiscono un


 

 

momento di chiarificazione del percorso filosofico e riflessivo del poeta, anche se è

sbagliato considerare il materiale delle prose come un autentico ed

organico “sistema” o

trattato di pensiero, per il loro carattere asistematico e per il prevalere della fantasia

creativa sulla coerenza tematica.

 

1.

PARALIPOMENI DELLA BATRACOMIOMACHIA: poemetto burlesco in otto canti di ottave, composto negli ultimi anni di vita, continuazione della Batracomiomachia

(battaglia delle rane e dei topi) pseudo-omerica; sono satireggiate figure (ad es.: Rodipane

IV re dei Topai allude a Ferdinando I delle due Sicilie etc.) e fatti contemporanei (i moti

del 1820-21 nel Regno delle due Sicilie e l’intervento restauratore dell’Austria, i moti del

‘30-31 in Francia, etc.); satira non solo dei monarchi restauratori, ma anche dei falsi

liberali. 2.

I PENSIERI: 111, pubblicati postumi dal Ranieri, legati sia alle Operette che allo

Zibaldone. 3.

ZIBALDONE: pubblicata tra 1898 e 1900, è un raccolta di 3619 osservazioni,

conversazioni, appunti, ricordi relativi al periodo 1817-1832. CRITICA

De Sanctis istituì un dualismo tra cuore e intelletto nell’opera

leopardiana: dove questi due

elementi si contrappongono dinamicamente, c’è poesia, mentre i passi nei

quali domina solo

l’intelletto sono impoetici (dunque, vengono bollate in blocco come artisticamente malriuscite

le Operette). Anche Croce confermerà tale giudizio negativo sul Leopardi filosofo e

pensatore, mentre proprio il recupero delle prose filosofiche costituì il tema dominante della

critica postcrociana, da Gentile a De Robertis, da Fubini a Bigi. Le ultime interpretazioni di

rilievo sono quelle di Binni e Luperini che, rivalutando e rileggendo

l’ultima produzione

lirica del poeta, hanno capovolto i termini usuali del dibattito intorno al pessimismo

leopardiano, coniando le formule del “pessimismo eroico” e “titanismo”

leopardiano (Binni,

che nella Ginestra rintraccia un ultimo, disperato appello del poeta alla solidarietà che può

vincere il dolore), e del “Leopardi progressivo” (Luperini, che evidenzia

come il disprezzo

dell’autore per i liberali del suo tempo non significasse adesione alle

posizioni conservatrici e

retrive, ma monito a diffidare delle illusorie “magnifiche sorti e progressive”).


 

 

 

ALESSANDRO MANZONI VITA

 

Nasce a Milano nel 1785 dal conte Pietro e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria,

autore del volumetto “Dei delitti e delle pene”;

dopo la separazione legale della madre, si trasferì a Parigi dove convisse con Carlo

Imbonati e trascorse la fanciullezza e la prima giovinezza in collegi tenuti da religiosi;

dopo la morte di C. Imbonati raggiunse la madre a Parigi dove venne a contatto con gli

ambienti culturali francesi e strinse amicizia con Claude Fauriel;

nel 1809 sposò Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino, donna di elevati

sentimenti e di fede calvinista, la quale si convertì poco dopo al cattolicesimo;

anche il M., che negli anni precedenti si era allontanato dalla fede

sotto l’influenza delle

idee illuministiche, si “convertì” al cattolicesimo, divenendo un fervido

credente; sulla

sua conversione, secondo la tradizione, influì un fatto particolare: durante lo scoppio dei

fuochi artificiali accessi in piazza della Concordia il 2 aprile 1810, per celebrare le nozze

di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, all’improvviso la folla sbandò, e

M. perdette la

moglie; preso dallo sgomento, entrò nella vicina chiesa di San Rocco, pregò Dio per la

salvezza della moglie e, uscito, la ritrovò di lì a poco sana e salva;

in ogni caso, l’episodio della chiesa senza dubbio ha rafforzato uno stato d’animo già

preesistente, frutto di meditazione e di studio; la tesi avanzata da Francesco Ruffini di un

cristianesimo manzoniano inquinato di giansenismo (la dottrina secondo la quale Dio

riserva la salvezza solo agli eletti) oggi non è più sostenuta da nessuno. Sul problema della

grazia, infatti, il M. restò sempre fedele all’ortodossia cattolica e del

Giansenismo

apprezzò solo il rigore morale e le idee democratiche;

tornato in Italia nel 1810, salvo il breve soggiorno a Firenze “per

risciacquare i panni in

Arno” visse tra Milano e la villa di Brusuglio un’esistenza assai

riservata resa dolorosa dai

gravi lutti familiari: la morte della prima moglie Enrichetta, della seconda Teresa Borri

Stampa e di alcuni figli; morì a Milano nel 1873.


 

 

PENSIERO E OPERE

PRIMA DELLA CONVERSIONE: LE OPERE CLASSICISTICHE 1.

Tra 1801 e 1810, M. compone opere allineate con il gusto classicistico allora dominante.

Già nel 1801 scrive una “Visione” allegorica in terzine, il “Trionfo della libertà”, che si

richiama ad un genere consacrato dal Monti, poeta in quel momento al massimo della

fama. Il poemetto è colmo di spiriti libertari, inneggia alla Riv. francese e si scaglia contro

la tirannide politica e religiosa, ma già rivela disillusione e amarezza dinanzi al fallimento

degli ideali religiosi traditi da Napoleone.

2. Seguono l’”Adda”, poemetto idillico indirizzato a Monti e quattro

“Sermoni”, in cui,

prendendo a modello Parini, M. polemizza con aspro moralismo contro gli aspetti del

costume contemporaneo. 3.

Del 1805 è il “Carme in morte di Carlo Imbonati”: M. immagina che l’Imbonati, che

ammirava come un padre, gli appaia in sogno dandogli nobili ammaestramenti di vita e di

poesia. 4.

Nel 1809 compone un poemetto, “Urania”, che tratta un tema caro alla

cultura neoclassica

(gli uomini pirmitivi iniziati alla civiltà dalle Muse), già trattato dal Monti nella

“Musogonia”.

5. “A Parteneide” è una risposta al poeta danese Baggesen, con cui M. si

scusa di non poter

tradurre il suo idillio borghese “Parthenais”.

Appena pubblicate queste ultime opere, M. manifesta subito il suo scontento. Scrivendo a

Fauriel, definisce “A Parteneide” sciocchezzuole e afferma che in futuro

comporrà forse versi

peggiori, ma mai più simili a quelli. E’ sintomo di un distacco dal gusto

e dalla cultura

classicistici; per tre anni M. non scrive nulla; quando riprende a comporre, scrive gli “Inni

sacri”.

DOPO LA CONVERSIONE: INNI SACRI E ALTRE LIRICHE 1.

La conversione fu per M. un fatto totalizzante che investì a fondo tutti

gli aspetti della sua

personalità: ne sono una prova eloquente le “Osservazioni sulla morale cattolica” (1819),

scritte per controbattere le tesi esposte dallo storico ginevrino Sismondo De Sismondi


nella “Storia delle repubbliche italiane nel Medioevo”, e cioè che la

morale cattolica è

 

 

stata la radice della corruzione del costume italiano. Dalle argomentazioni di M. traspare

una fiducia assoluta nella religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero e come

punto di riferimento per ogni tipo di scelta (rivalutazione di: STORIA, MEDIOEVO,

RELIGIONE CATTOLICA VS. CIVILTA’ ROMANA ANTICA,

ANTICLASSICISMO). M. in una lettera a Cesare D’Azeglio del 1823 fissa in

una

formula sintetica i princìpi che muovono la ricerca letteraria sua e degli altri intellettuali

(“l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”).

2.

La prima opera scritta dopo la conversione, “Inni sacri”, nati tra il

1812 e il 1815, fornisce

l’esempio concreto di una poesia nuova. In quegli anni il modello poetico

dominante era

quello consacrato da Monti e Foscolo, fondato sul culto del mondo antico, delle sue

forme, del suo linguaggio, dell’adozione della mitologia classica come

argomento per

eccellenza. M. rifiuta tutto questo, sentendo la materia mitologica e classica come

repertorio orami morto e decide di cantare temi che siano vivi nella coscienza

contemporanea, aderenti cioè al “vero”. Ciò si traduce nella particolare

configurazione

(settenari, ottonari, decasillabi), versi dal ritmo incalzanti che rendono il senso di fervore e

di tripudio delle masse dei fedeli. M. aveva progettato dodici inni che cantassero le

principali festività dell’anno liturgico., ma ne scrisse solo quattro,

pubblicati nel 1815:

“La Resurrezione,” “Il Natale”, “La Passione”, “Il nome di Maria”. Un

quinto inno, “La

Pentecoste” ebbe una gestazione travagliata e fu terminato solo nel 1822,

passando

attraverso varie stesure, tra loro differenti. I primi quattro inni sono costruiti secondo uno

schema fisso: enunciazione del tema, rievocazione dell’episodio centrale,

commento che

appronta le conseguenze dottrinali e morali dell’evento.

3.

Dopo due tentativi infelici di canzoni: “Aprile 1814” e il “Proclama di Rimini”, lasciate

interrotte, nel 1821 M. compone l’ode “Marzo 1821” dedicata ai moti di

quell’anno e alla

speranza che l’esercito piemontese si riunisse agli insorti lombardi e “Il 5 Maggio”

ispirato alla morte di Napoleone. In “Marzo 1821” Dio stesso soccorre la

causa dei popoli

che lottano per la loro indipendenza, perché opprimere un altro popolo è contrario alle sue


leggi; ne “Il 5 Maggio” l’alternanza di glorie e sconfitte della vicenda

napoleonica è

valutata dalla prospettiva dell’eterno. Da ciò si evince che i fatti

contemporanei sono visti nella prospettiva religiosa.

 

 

 

4.

Anche i cori inseriti nelle due tragedie rientrano nella poesia lirica: vicino alle forme di

“Marzo 1821” è il coro del “Conte di Carmagnola” che è una deprecazione

delle lotte

fratricide del popolo italiano nel ‘400; la storia passata è vista da una

prospettiva politica

riferita al presente. Il primo coro dell’”Adelchi” è un esempio di poesia

della storia: la

ricostruzione delle vicende di quelle masse che la storia ha sempre ignorato (i Latini

dell’VIII secolo, divisi tra due dominatori, Longobardi e Franchi). A

parte si colloca il II

coro, dedicato alla morte di Ermengarda; anche qui compare la poesia della storia.

TRAGEDIE

 

1.

Polemica anticlassicistica: M. rifiuta la tragedia classicheggiante (Racine, Alfieri) basata

su personaggi ed eventi storici del repertorio classico, considerati come emblemi di

tematiche “metafisiche” in senso assoluto e sottratti ad ogni legame

storico e contestuale

rispetto alla loro epoca di riferimento. I nuovi principi elaborati da M. sono esposti

sistematicamente in una ampio saggio “Lettre a M. Chauvet sur l’unité de

temps et de lieu

dans la tragédie”, concepito nel 1820, in risposta al critico Chauvet,

che gli aveva

rimproverato l’inosservanza delle unità, e pubblicato a Parigi nel 1822 in francese,

insieme con le sue due tragedie tradotte da Fauriel.

  1. “Il Conte di Carmagnola”, scritta tra 1816 e 1820, si incentra sulla

figura di Francesco

Bussone (capitano di ventura nel ‘400), che al servizio del duca di Milano ottenne molte

vittorie e giunse a sposarne la figlia; poi passò al servizio di Venezia assicurandole una

clamorosa su Milano (battaglia di Maclodio); M. era convinto

dell’innocenza del conte

(tesi oggi confutata). La tragedia si regge dunque sul conflitto tra

l’uomo di animo elevato

e generoso e la ragion di Stato. La tragedia affronta il tema centrale della visione

manzoniana: la storia umana come trionfo del male, a cui si contrappongono invano esseri

incontaminati, destinati alla sconfitta. La tragedia resta un tentativo poco riuscito per la

piattezza dei caratteri e la scarsa forza drammatica delle scene. 3.


Lo stesso conflitto è al centro anche della seconda tragedia, “Adelchi”

(1822).

4.

CORI: diversamente dai cori dell’antica tragedia greca, dove essi costituivano la

personificazione dei pensieri e dei sentimenti corali che l’azione doveva

suscitare,

“spettatore ideale”, i cori manzoniani costituiscono un “cantuccio” dove l’autore possa

parlare in prima persona, commentando direttamente i fatti tragici inscenati.

 

 

 

PROMESSI SPOSI

 

GENESI: “Fermo e Lucia” (1821-23); “Gli Sposi Promessi” (1824), “I Promessi Sposi”

(1824-27) e “quarantana” (dopo l’Arno).

SISTEMA DEI PERSONAGGI: Don Rodrigo e Gertrude rappresentano la funzione negativa

dell’aristocrazia che viene meno alle sue responsabilità ed usa il suo

privilegio in modo

ossessivo; il cardinale Federigo, con la sua attività benefica e instancabile, rappresenta il

modello positivo e l’Innominato, con la sua conversione, dedicandosi a

proteggere i deboli

oppressi e a beneficare gli umili, rappresenta il passaggio esemplare della nobiltà dalla

funzione negativa a quella positiva. Per quanto riguarda i ceti popolari,

l’esempio negativo è

rappresentato dalla folla sediziosa e violenta di Milano, il positivo dalla rassegnazione

cristiana di Lucia; Renzo, invece, come l’Innominato nei ceti superiori,

rappresenta il

passaggio dal negativo al positivo, da un atteggiamento ribelle e intemperante ad un fiducioso

abbandono alla volontà di Dio, analogo a quello di Lucia. Per i ceti medi, esempi negativi

sono: Don Abbondio e Azzeccagarbugli; esempio positivo: Fra’ Cristoforo.

I percorsi di

formazione dei due protagonisti sono diversi: Renzo ha tutte le virtù che per M. sono proprie

del popolo contadino; però c’è in lui una componente ribelle, un’insofferenza per ogni forma

di sopruso. Il suo percorso di formazione consiste perciò nel giungere a d abbandonare ogni

velleità di azione e a rassegnarsi totalmente alla volontà di Dio. La formazione si attua

attraverso le due esperienze della sommossa e della Milano sconvolta dalla peste: attraverso

di esse Renzo comprende la vanità delle pretese umane di reintegrare la

giustizia con l’azione.

Lucia, invece, sembra possedere sin dall’inizio per dono divino quella

consapevolezza della

vanità dell’azione che Renzo conquista dopo dure prove solo al termine

delle sue peripezie. In

lei c’è uno spontaneo rifiuto della violenza, un abbandono fiducioso alla volontà di Dio. In


realtà anche Lucia attraversa un suo percorso di formazione, in quanto inizialmente ha dei

limiti, che deve superare grazie all’esperienza. Lucia, all’aprirsi del

racconto, appare

prigioniera di una visione ingenuamente idillica della vita, entro i confini ristretti della casa,

del villaggio, del paese. A lei manca, quindi, quella consapevolezza del male che è necessaria

per capire la vera natura della realtà umana; attraverso le sue sofferenze arriva alla fine a

comprendere che non può esistere l’Eden in terra, che le sventure si

abbattono anche su chi è senza colpa.

 

 

ALTRE OPERE 1.

Nel 1847 scrive la lettera a Giacinto Carena “Sulla lingua italiana”;

2.

lavora a lungo ad un trattato “Della lingua italiana” tra 1830 e 1859

(cinque redazioni, ma resta manoscritto);

  1. “Discorso del romanzo storico e in genere dei componimenti misti di

storia e

d’invenzione” (1845, composto nel 1828); viene negata la validità

letteraria del romanzo

storico, a favore della “pura” storia;

  1. “Storia della colonna infame” (1848); analisi delle responsabilità dei

giudici che

condannano gli innocenti;

  1. “Saggio comparativo della Rivoluzione francese del 1789 e la

Rivoluzione italiana del

1859” (edito postumo 1889); vengono condannati gli eccessi “giacobini”

della Riv. Francese;

  1. “Dell’invenzione” (1850): M. maturo sente l’influenza del pensiero del

filosofo cattolico

Antonio Rosmini (GIANSENISMO). FORTUNA:

De Sanctis vede in M. il rappresentante della nuova letteratura che concilia ideale e reale,

soprattutto nella delineazione dei concetti di “vero” e “verosimile”,

cioè di storia e invenzione

letteraria (“I Promessi Sposi” assurgono a opera di massima conciliazione

tra ideale e reale,

che qui coincidono perfettamente). I momenti meno riusciti del romanzo appaiono al De

Sanctis quelli di piena esaltazione religiosa, laddove la rappresentazione realistica della

natura, con tutta la sua oggettività e individualità, appare lo spunto più originale. Momigliano

prosegue su questa linea ed esalta la veridicità, la efficacia della rappresentazione storica degli

eventi del Seicento lombardo, con tutte le sue carenze, disfunzioni,

“storture” politico-sociali.

Croce coerentemente con la sua impostazione critica distingue la poesia della non poesia,


ritenendo quest’ultima prevalente nell’opera, in quanto sulla vera e

sincera ispirazione

artistica prevaleva nel M. l’intento oratorio e retorico di apologia

della morale cattolica e della

rassegnazione degli umili quale unico strumento a loro disposizione. La critica degli anni

‘70/’80 si è incentrata sulla più precisa individuazione del contesto

storico nel quale M.

operava; viceversa, gli indirizzi più recenti di critica semiologica e narratologica hanno

 

 

 

indagato (Giovannoli) il sistema dei personaggi tracciato nel romanzo dal punto di vista

attanziale (due modelli: potenti e umili, con poli positivi e negativi, perfettamente

sovrapponibili), la segmentazione dell’intreccio con una struttura ring- composition: esordio,

intervento dell’aiutante (Cristoforo), successo illusorio (Lucia a

Monza), tradimento di

Gertrude, Spannung (rapimento di Lucia), pentimento dell’Innominato e di

Gertrude,

impedimento transitorio (voto di Lucia), morte eroica dell’aiutante

(Cristoforo), scioglimento

(morte di Don R. e matrimonio; analisi di Giovannoli cit.); focalizzazione zero prevalente con

frequenti giudizi espressi palesemente dal narratore, ma anche occasionali focalizzazioni

interne nei personaggi.

 

 

 

GIOVANNI VERGA VITA

 

Nasce a Catania nel 1840 da famiglia di proprietari terrieri;

1856-7: scrive il suo primo romanzo, Amore e patria, ma non lo pubblica; inizia

un’intensa attività giornalistica;

1869-71: si stabilisce a Firenze, dove conosce molti letterati;

1872: passa a Milano: inizia i rapporti con la casa editrice Treves ed entra in contatto con

gli “scapigliati”;

1882: viene rappresentata con successo la Cavalleria rusticana interpretata dalla Duse;

1888-1891: viaggi a Roma e a Berlino;

1895: incontra Zola a Roma, l’anno dopo fa rappresentare La lupa;

1920: è nominato senatore del Regno; muore a Catania nel 1922. OPERE E PENSIERO

PRIMO PERIODO GIOVANILE


Romanzi storici, di ispirazione patriottica e risorgimentale: Amore e patria (inedito), I

Carbonari della montagna (1862; episodio dell’insurrezione calabrese contro Murat), Sulle

lagune (1863; storia della Venezia austriaca con un amore sullo sfondo);

 

SECONDO PERIODO: LA SCAPIGLIATURA

Passionalità e autobiografismo: Una peccatrice (1866; disperato amore di Pietro Bruisco per

la contessa di Prato fino al suicidio della donna), Storia di una capinera (1871; romanzo

epistolare in cui una suora narra di un suo amore giovanile che la conduce fino alla pazzia),

Eva (1879; alterne vicende d’amore tra Enrico Lanti ed Eva), Tigre reale

(1879; torbida

passione tra Giorgio La Ferlita e Nata, nevrotica contessa russa), Eros (1875; passione tra

Alberto Alberti e Velleda, fino al suicidio del protagonista); TERZO PERIODO: IL VERISMO

Conversione al naturalismo e al romanzo sperimentale d’Oltralpe,

innestata sulla vena

realistica già presente nel migliore Romanticismo italiano (il “vero” del

romanzo storico di

matrice manzoniana) e sulle asserzioni di adesione alla concreta realtà, anche la più infima,

 

 

 

proclamate dagli Scapigliati: Nedda (Bozzetto siciliano) (1874; è descritta la misera vita di

una povera contadina orfana che, dopo indicibili stenti, arriva a

sposarsi, ma perde l’uomo

amato e la bambina), Vita nei campi (1880; dieci novelle: Cavalleria rusticana, La lupa,

Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, L’amante di Gramigna,

Guerra di Santi,

Pentolaccia, Il come il quando ed il perché). I MALAVOGLIA (1881)

doveva essere il primo romanzo di un ciclo (I vinti), comprendente anche: Mastro Don

Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni el’Uomo di lusso

(questi ultimi tre non scritti);

RIASSUNTO: ‘Ntoni, il nipote di una famiglia di pescatori di Aci Trezza,

è andato

soldato e la pesca va male; il nonno, Padron ‘Ntoni, intraprende il “negozio dei lupini”

presi a credito da zio Crocifisso, ma il mare fa naufragare la Provvidenza e nuore

Bastianazzo, padre di ‘Ntoni. Tutti si mettono a lavorare, per pagare il

debito e la

riparazione della barca, anche ‘Ntoni che è tornato dal servizio

militare. Altre sventure si


susseguono: Luca, fratello di ‘Ntoni, muore nella battaglia di Lissa, la

Provvidenza

naufraga di nuovo e i Malavoglia sono costretti a cedere la casa del nespolo. Il nonno

vuole continuare la lotta, ma ‘Ntoni si lascia andare e finisce in

carcere per contrabbando

e una coltellata al brigadiere. Padron ‘Ntoni muore all’ospedale, mentre

Lia, intanto, va in

città e si perde. Rimangono solo Alessi, che ha sposato la Nunziata, e Mena, che ha

rinunziato a sposare un carrettiere, pur amandolo: Alessi e Mena riscattano al casa e

ricominciano la loro vita. ‘Ntoni, uscito dal carcere, li va a trovare,

ma capisce di non

poter rimanere lì e va via in grande angoscia.

MARITO DI ELENA (1882): storia di Cesare ed Elena che vogliono metter su famiglia in un

progetto di felicità che, però, fallisce; NOVELLE RUSTICANE (1883, dodici novelle: Il

Reverendo, Cos’è il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani,

La roba, Storia

dell’asino di San Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là dal

mare), PER LE VIE

(1883: dodici novelle: Il bastione di Monforte, In piazza della Scala, Al veglione, Il canarino

del n. 15, Amore senza benda, Semplice storia, L’osteria dei “Buoni Amici”, Gelosia,

 

 

 

Camerati, Via Crucis, Conforti, L’ultima giornata) e VAGABONDAGGIO (1887): raccolte di

novelle, le ultime due di ambientazione cittadina (Milano). MASTRO DON GESUALDO (1889)

RIASSUNTO: biografia di un muratore siciliano, Gesualdo Motta, che, con grandi sacrifici, è

riuscito a costruirsi una fortuna economica. Vive tra invidie e gelosie dei rivali e degli

aristocratici del paese, mentre la moglie, di condizione superiore alla sua, lo tratta con sempre

maggiore indifferenza. Uguale atteggiamento ha la figlia, che abbandonerà il padre, anziano e

malato, finché egli muore in solitudine nel palazzo dove figlia e genero scialacquano le

ricchezze tanto faticosamente accumulate.

 

DAL TUO AL MIO (1905): romanzo: Lisa, nobile decaduta, sposa Luciano, minatore

dipendente del padre, capo-popolo e rivoluzionario che, però, difende la

“roba” della moglie,

non appena capisce che i suoi compagni vogliono distruggere la miniera del suocero; I

RICORDI DEL CAPITANO D’ARCE (1891) e DON CANDELORO e C.I (1894): due

raccolte  di novelle.

 

SPUNTI PER L’ANALISI STRUTTURALE DELLE NOVELLE


FABULA

 

Buona parte delle novelle verghiane, sulla base delle indicazioni fornite da Bigazzi e

Luperini, può essere ricompresa nelle tre seguenti categorie:

 

novelle di formazione: storie imperniate su un personaggio che è costretto dalle vicende a

“guardare in faccia la realtà”: la storia è quindi data dal succedersi di

una serie di

avvenimenti che inducono il protagonista a prendere coscienza della propria situazione

(per es.: Rosso Malpelo, Jeli il pastore);

novelle drammatiche: storie imperniate su un nodo tradizionale a forti tinte (delitti

d’onore, amori irregolari), narrazioni rapide con sequenze

prevalentemente narrative,

caratterizzate dalla presenza di pochi personaggi e da una scansione rapida (ritmo) dei

fatti, fino alla catastrofe finale (Cavalleria rusticana, La Lupa,

L’amante di Gramigna);

 

 

 

novelle corali: storie imperniate su elementi sociali, sullo sfondo di una condizione umana

collettiva; in esse sono presenti vari personaggi legati da un ambiente o da un problema

comune (Malaria, Don Licciu papa, Libertà). PERSONAGGI

 

In alcune novelle c’è un solo protagonista-eroe che non ha neppure un vero e proprio

antagonista, ma che deve affrontare una situazione in cui grande peso assumono gli

avvenimenti esterni, il caso, che porta ad uno scioglimento ineluttabile della vicenda (Rosso

Malpelo). In altre novelle al protagonista si affianca un coprotagonista quasi altrettanto

importante che spesso, nello scioglimento, può rivelarsi come antagonista (Jeli il pastore). In

altri racconti ancora non c’è un vero e proprio protagonista, ma vari

personaggi che, legati da

uno stesso problema, possono essere considerati tutti personaggi principali o coprotagonisti

(Malaria). LUOGHI E TEMPI

Due sono gli ambienti che, prevalentemente, compaiono nelle novelle verghiane: quello

arcaico e contadino della Sicilia e quello popolare milanese. Sarà quindi opportuno indicare

quali tipi di personaggi e di luoghi sono rappresentati nell’uno e nell’altro (ad es.: massari,


galantuomini, cappelli, curatoli / masserie, paesi, chiuse, cave nelle novelle siciliane e

vetturini, camerieri, modiste, stallieri, contesse / teatri, caffé, vie popolari in quelle milanesi).

Bisogna poi riflettere sul fatto se le novelle siano localizzate in un unico luogo (Cavalleria

rusticana, Gli orfani), oppure se al loro interno vi siano degli spostamenti (Jeli il pastore,

L’amante di Gramigna), se prevalgano spazi chiusi e domestici (“interni”)

o aperti. Per

quanto riguarda il tempo, ogni novella abbraccia una arco temporale diverso: in alcune

l’azione si sviluppa in tempi molto limitati, come alcune ore o un

giorno; in altre i fatti

occupano periodi più lunghi, mesi o qualche anno; in altre ancora occupa vari anni, addirittura

buona parte della vita del protagonista. INTRECCIO E STRUTTURA NARRATIVA

Gli scrittori veristi tendono, almeno programmaticamente, a non

“costruire” un intreccio che

si discosti molto dalla fabula, preferendo che la storia - per così dire

- si narri e costruisca da

 

 

 

 

sé, proceda con la naturalezza degli eventi. Tuttavia, poiché in ogni caso non è possibile

rappresentare tutti gli eventi e tutti allo stesso modo ed è comunque necessario dare alla

narrazione un certo ritmo, anche un verista come Verga interviene ripetutamente sulla

linearità della fabula, sia modificando l’ordine temporale sia dando

maggiore spazio narrativo

ad alcuni eventi, sia tacendone altri. Ad es.: nella prima parte di Rosso Malpelo sono presenti

sia prolessi che analessi, quando al lettore viene anticipato il modo in cui troveranno la morte

Malpelo e suo padre e viene narrato come è avvenuta la morte di Mastro

Misciu. Un’altra

modalità di alterazione dell’ordine temporale è strettamente legata ad

una innovazione

narrativa tipica di Verga. Come scrive Grosser: “Nel Verga è

significativo il caso in cui

l’andirivieni nel tempo, che viola l’ordine logico - cronologico, è attuato allo scopo di dare al

lettore l’impressione che nel racconto il narratore abbia raccolto e

trascritto scrupolosamente

le dicerie, le chiacchiere dei paesani, pronti a ricordare or questo or

quell’episodio relativo

alla vita di un certo personaggio”. Possiamo verificare questa affermazione nella novella Il

Reverendo della raccolta “Le Rusticane”. E’ la storia di un personaggio

che, entrando a far

parte dell’ordine ecclesiastico, passa dalla povertà alla prosperità e,

di seguito, alla decadenza.


La struttura dell’intreccio però non segue la normale parabola povertà- ricchezza-decadenza,

come potrebbe essere logico, ma in apertura la novella mescola e oppone il tempo della

prosperità al tempo della povertà, descrive poi il tempo della prosperità con una serie di

iterazioni, e recupera infine con un’analessi gli avvenimenti antecedenti all’ascesa sociale del

protagonista. Insomma, l’intreccio, più che disporre gli avvenimenti in

sequenza temporale,

segue l’ordine casuale dei ricordi del narratore o delle chiacchiere dei paesani e delinea, più

che la storia, il ritratto del protagonista.

Altri procedimenti di costruzione dell’intreccio si basano sulla

selezione diversa dei dati: non

tutti gli eventi della fabula sono disposti dall’autore nell’intreccio

(ellissi), oppure alcuni

elementi sono ripresi più volte (ripetizione). Vedi per entrambi i mezzi stilistici la novella La

Lupa.

 

RAPPRESENTAZIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO

 

Non è detto che il tempo della narrazione sia proporzionato a quello della storia, cioè che

avvenimenti più estesi nel tempo siano narrati in modo più esteso e viceversa. In alcuni casi la

narrazione occupa un tempo analogo a quello della storia (si dice allora

che l’autore procede

 

 

 

per scene); in altri casi lunghi periodi di tempo sono sintetizzati in una breve narrazione

(sommario); in altri casi ancora l’autore introduce pause descrittive o

di commento.

Ovviamente, le scelte dell’autore a tale proposito modificano il ritmo narrativo.

 

IL PUNTO DI VISTA

 

Il Verga narra scegliendo il punto di vista di un anonimo narratore eterodiegetico rispetto al

sistema dei personaggi e alle tematiche narrate, ma contemporaneamente adottando un punto

di vista interno al piano stesso del narrato, con la totale condivisione del livello sociale e

culturale dei protagonisti della vicenda. Tale ottica, variamente definita come artificio della

regressione (Baldi) o straniamento (Luperini), consiste nella rinuncia della visione

dall’esterno e dall’alto e nell’abbandono della scala di valori propri dell’autore implicito

Verga. Questo procedimento è funzionale al principio della poetica

dell’impersonalità, che

richiede all’autore di vedere le cose con gli occhi dei suoi personaggi e di esprimerle con la

deformazione della loro sottocultura popolare e superstiziosa (in tal senso la prima novella


autenticamente verista non è Nedda, nella quale il narratore colto

giudica dall’alto i

personaggi, ma Rosso Malpelo, nella quale domina l’ottica del narratore

popolare straniato o

regredito: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed

aveva i capelli rossi

perché era un ragazzo malizioso e cattivo”).

 

IL SISTEMA DEI PERSONAGGI

 

Il sistema dei personaggi, cioè il modo in cui i personaggi sono in relazione tra loro

all’interno di una novella può delineare vari schemi, che non sono

riconducibili ad un modello

univoco. E tuttavia, abbastanza paradigmatica è la descrizione operata da Luperini a proposito

dei personaggi di Rosso Malpelo. Da una parte vi sono gli oppressori di Malpelo (la madre, la

sorella, il padrone, lo sciancato, l’ingegnere) e dall’altra gli oppressi

come lui (la madre di

Ranocchio, Ranocchio, mastro Misciu, l’asino, l’evaso); tale schema

evidenzia una

contrapposizione senza sbocchi, una realtà sociale statica in cui prevale la sopraffazione e i

vinti sono inesorabilmente condannati. TEMI PREVALENTI

Possono essere così sintetizzati:

 

 

 

 

1. la solitudine e l’esclusione;

2. l’amore visto come onore;

3. la necessità economica come elemento regolatore dei rapporti sociali e familiari;

  1. l’immutabilità dell’ordine esistente;
  2. l’inganno e il gioco della parti;
  3. l’accumulo della roba e la scalata sociale. STILE

 

Verga crea un italiano popolare orale a coloritura siciliana che alla sua epoca non esisteva. Il

lessico è ricco di modi di dire legati alla cultura religiosa e idolatrica, di proverbi e massime

sentenziose, di paragoni con animali, di figure retoriche create a partire da oggetti legati alla

vita quotidiana. La sintassi si articola dal periodo lungo della descrizione del narratore colto

fino al periodo lungo mimetico del parlato con connettori polivalenti, fino al periodo

frammezzato, basato su riprese, ellissi e mutamenti di tema tipici del linguaggio orale.

 

 

 

GIOSUE’ CARDUCCI


VITA

Nasce nel 1835 in Val di Castello (Versilia); trascorse l’adolescenza e l’infanzia a Bolgheri

nella Maremma pisana a contatto con la natura aspra e selvaggia; frequentò le scuole degli

Scolopi a Firenze e, dopo essersi laureato in Lettere alla Normale di Pisa, insegnò prima alle

scuole medie e poi passò ad insegnare Letteratura italiana a Bologna; 1906: premio Nobel

(Nobel italiani: Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale, Fo); morì nel 1907.

 

OPERE E PENSIERO

FORMAZIONE: giovanile adesione agli ideali rivoluzionari e mazziniani, con forte spirito

anticlericale e antimonarchico (Mazzini, Garibaldi, “popolo” come forza motrice

dell’umanità). Successivamente, avvicinamento al compromesso monarchico

(Cavour) e

ammorbidimento delle posizioni giacobine e estremistiche assunte da giovane (incontro con la

regine Margherita). Dal punto di vista letterario, avversione verso il secondo Romanticismo

(Prati, Aleardi), ma in generale contro tutte le idealità romantiche e cristiane, in quanto

sostenitrici di una moralità debole, poco combattiva e virile; di contro, egli sosteneva la forza

e l’impetuosità del fiero esempio dei classici, delle antiche civiltà greca e romana (adesione al

gruppo fiorentino degli “Amici pedanti” con Chiarini, Gargani, Ottavio

Targioni Tozzetti).

 

JUVENILIA, LEVIA GRAVIA, GIAMBI ED EPODI

 

Periodo classicismo intransigente: “Juvenilia” (1850-60), “Levia gravia”

(1861-71; famoso:

“Inno a Satana” del 1863, ma pubblicato nel 1865, in strofe tetrastiche

di quinari sdruccioli e

piani alternati): raccolte di versi, poco più che esercitazioni di apprendistato poetico;

riproduzione dei motivi e delle forme dei grandi della letteratura latina (Orazio, Tibullo,

“Pervirgilium Veneris”) e italiana (da Dante a Petrarca, fino a Monti e

Foscolo); termini aulici

e dotti, continui riferimenti alla mitologia classica, alla storia e alla letteratura antica; temi:

patriottici (1859), amorosi, etc...; metri tradizionali che la poesia romantica aveva

abbandonato: sonetto, canzone, ode settecentesca del Savioli e del

Fantoni. “Giambi ed

epodi” (1867-79), già editi; il titolo allude a forme metriche antiche (Archiloco, Ipponatte,

Orazio): spirito anticlericale e antimonarchico, satira contro i costumi

dell’Italietta borghese e

rinfiacchita; linguaggio anticonvenzionale, aspro, dutro, “volgare”,

parlato dal popolo, ritmo


spezzato e dissonante, cadenze prosaiche (poesie famose: “Agli amici della valle tiberina”,

“Le nozze del mare”, “La consulta araldica”, “Avanti! Avanti”, “Per il

quinto anniversario

della battaglia di Mentana”, “La sacra di Enrico Quinto”, “Il canto dell’amore”).

“L’intermezzo” (1886): componimento in 10 capitoli in strofe tetrastiche

di endecasillabi e

settenari alternati (satirico e lirico, alla maniera dello Heine, contro il secondo

Romanticismo); vengono preannunziati i temi del secondo periodo, quelli più intimi e lirici.

 

RIME NUOVE

 

1861-67; passaggio decisivo verso un nuovo periodo poetico; TEMI: rievocazione della

Maremma toscana e del mondo dell’infanzia, evocato con malinconia (“Traversando la

Maremma toscana”: sonetto; “Davanti a San Guido”; “Nostalgia”, “Idillio maremmano”,

“Rimembranze di scuola”); sentimento profondo e solenne, ma di un

solennità religiosa della

natura (“Il bove”); contemplazione estatica di un paesaggio (“San Martino”, “Momento

epico”, “Visione”, “Fiesole”); il dolore desolato dei lutti domestici (“Funere mersit acerbo” e

“Pianto antico”, dedicate alle figure del padre, figlioletto Dante e del

fratello Dante);

celebrazioni di artisti, poeti e santi (“Virgilio”, “Omero”, “Giustizia di poeta” (Dante),

“Commentando il Petrarca”, “A Vittore Hugo”, “San Giorgio di Donatello”, “Santa Maria

degli Angeli”); contemplazione del passato (“Faida di comune”, “Il comune rustico”, “Su i

campi di Marengo”, “La notte del Sabato Santo 1175”, “La leggenda di

Teodorico”, “Ça ira”:

12 sonetti sulla Riv. Francese). La raccolta è aperta dall’ode “Alla rima” ed è chiusa da

“Congedo”. Le scelte metriche si orientano in direzione della tradizione

classica italiana (rima, strofa, etc..).

 

ODI BARBARE

 

1877-93 (2 libri); tentativo di riprodurre con i ritmi accentuativi della metrica italiana la

prosodia quantitativa classica (tenta di riprodurre: la strofe asclepiadea con tre endecasillabi

sdruccioli – oppure doppio quinario sdrucciolo – e un settenario sdrucciolo; la strofe saffica

con tre endecasillabi piani con cesura fissa dopo la quinta sillaba e un quinario piano; la strofa

alcaica con due endec. alcaici formati ognuno da un quinario piano + un quinario sdrucciolo,

un novenario e un decasillabo; distico elegiaco reso per l’esametro, con

un settenario + un

novenario, un settenario + un ottonario etc. e per il pentametro con un quinario, un senario o


 

 

 

un settenario + un settenario). In questo tentativo, Carducci segue le orme di precedenti

esperimenti effettuati da Alberti, Dati (1400), Tolomei, Atanagi, Caro, Chiabrera (1500),

Campanella (1600), Astori, Fantoni (1700) di riprodurre in lingua italiana i metri della poesia

classica. Il C., nei suoi esperimenti, adottò il metodo accentuativo, quello cioè che riproduce

le cadenze ritmiche del verso classico letto secondo gli accenti grammaticali e a queste

cadenze adattò versi tradizionali italiani, da soli o in unione. POESIE

FAMOSE: “Dinanzi

alle terme di Caracalla”, “Alle fonti del Clitumno”, “A Giuseppe Garibaldi”, “Scoglio di

Quarto”, “Miramar”, “Alla regina d’Italia”, “alla stazione in una mattina d’autunno”, “Sogno

d’estate”.

 

RIME E RITMI

 

1899; decadenza, fossilizzazione delle forme, intenti celebrativi e retorici che scavalcano

l’ispirazione genuina; grandi odi storiche: “Piemonte” (1890), “Bicocca di San Giacomo”

(1891), “Cadore” (1892), “Alla città di Ferrara” (1895), “la chiesa di Polenta” (1897); “Jaufré

Rudel”: romanza, con accenti poetici e lirici maggiormente sinceri. PROSE

Oratoria: “Ai parentali di Giovanni Boccaccio” (1875), “A commemorazione

di Goffredo

Mameli” (1876), “Per la morte di G. Garibaldi” (1882), “Per Virgilio in Pietole” (1884), “Per

la libertà perpetua di San Martino” (1894), “Per il tricolore” (1897);

Critica: ingente mole di

saggi e volumi; adesione alla critica storica di matrice positivistica (predilizione per le

vicende biografiche, le correnti letterarie, le accademie, ambienti letterari, forme linguistiche

e metriche, fonti, ricostruzione filologica del testo); opposizione al filone desanctisiano,

discendente dall’idealismo hegeliano; Epistolario: 22 vol. di lettere nell’ed. nazionale.

 

 

 

 

GIOVANNI PASCOLI VITA

 

Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855; studi presso i padri Scolopi ad Urbino;


1867: il padre Ruggero viene assassinato; numerosi lutti successivi (sorella maggiore,

madre, due fratelli);

durante gli anni dell’università aderisce al movimento anarchico e si iscrive

all’Internazionale socialista; anni di sbandamento e miseria materiale;

arresto nel 1879 e quattro mesi di carcere;

1882: si laurea e comincia la sua carriera d’insegnamento di latino e

greco nei licei; premi

ai concorsi internazionali di poesia latina di Amsterdam;

1895: cominciano gli incarichi universitari a Bologna, Messina, Pisa, finché nel 1905

succede al Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna; muore nel 1912.

PENSIERO

La formazione culturale pascoliana si colloca, all’inizio del suo

percorso, nella sfera del

Positivismo; egli assorbe in pieno tale cultura, come spesso dimostrano le sue stesse poesie

dell’età matura, nella precisione dell’uso delle nomenclature della botanica, dell’ornitologia,

nell’accuratezza dell’enunciazione dei concetti astronomici. Tuttavia,

ben presto la fiducia

nelle scienze si incrina e, come tanti altri intellettuali della sua generazione, P. si avvicina alle

nuove correnti dello spiritualismo e del simbolismo. Ne nasce una nuova visione

dell’universo, ora percepito come disorganico, privo di un elemento

unificante (la stessa

presenza divina è un’aspirazione per il poeta, mai una certezza

acquisita). La realtà è slegata,

incoerente e così la coglie il poeta; egli non può far altro che evocare tenui simboli, segnali

che consentono di intuire il cuore della realtà, non comprendere le sue articolazioni logiche.

Tutte le cose, così, si ammantano di valenze simboliche, metaforiche, anche se vengono

descritte con precisione rappresentativa; l’aderenza alla descrizione

nitida e netta si concilia,

infatti, con la concezione simbolica, dal momento che la stessa designazione delle cose le

vivifica, la parola si fa vita, perché è l’uomo-poeta che la pronuncia. Da questa visione del mondo scaturisce la poetica cosiddetta del fanciullino: essa è legata,

appunto, ad una concezione mistica e simbolica della poesia, quale scoperta ingenua - e non

mediata dalla razionalità adulta -della poeticità potenziale di tutte le cose e della natura tutta.

 

 

 

Come un fanciullo, il poeta rinuncia a visioni totalizzanti e globali della realtà, ma ne

percepisce metaforicamente solo qualche barlume, riuscendo a rappresentare nella sua poesia


solo “queste immagini isolate e questi fugaci balenii” (G. Pascoli, Il

fanciullino, saggio edito

sul “Marzocco” nel 1897). I legami con la concezione romantica della

poesia aurorale, con la

conseguente esaltazione della poesia ingenua, dell’epica omerica etc.,

sono evidenti; tuttavia,

tale impianto è da P. decisamente piegato a conciliarsi con il Decadentismo, poiché egli

esclude ogni mediazione della razionalità e della sequenzialità logica

(cioè, rifiuta l’eredità

illuministica, in fin dei conti ampiamente accettata dal Romanticismo).

Conoscere è intuire i

legami sottesi e simbolici di cui la natura tutta è impregnata, per chi –

come il fanciullo o il

poeta – sa coglierli (poeta-veggente). P. dà anche voce al principio

dell’arte per l’arte, ovvero:

la poesia non deve proporsi fini esterni, di tipo didattico, sociale, etc... Essa, tuttavia, è

intrinsecamente educatrice, cioè è in grado - proprio perché pura e scevra di odi, conflitti,

passioni - di risollevare l’umanità e rigenerarla (sogno utopistico di

palingenesi, rimproverato

come segno di “ingenuità” di un P. immaturo, mai emancipatosi dalle

proprie sofferenze e da

una condizione di forte minorità psicologica). A quest’ultima concezione

si ricollega la

visione politica di P., profondamente influenzata dal socialismo (da giovane aderì al

movimento anarcoide di Andrea Costa e fu addirittura imprigionato per la partecipazione ad

una manifestazione antigovernativa); un socialismo, tuttavia, lontano dalle istanze marxiste e

deterministiche e venato di sfumature utopistiche, conciliato con un generico umanitarismo

cristiano ed evangelico (alla Tolstoj, con un auspicio di concordia tra

le classi). L’ideale

sociale per P. è costituito dalla piccola proprietà terriera, simbolo dei valori fondamentali

della famiglia, della solidarietà, laboriosità, attaccamento al “nido”,

parsimonia, etc...; la

visione era, tuttavia, piuttosto anacronistica, perché tale ceto, soprattutto nella pianura padana,

era proprio in quegli anni schiacciato dalla grande proprietà, dal capitalismo emergente, dalle

banche. In tale visione piuttosto conservatrice, matura la svolta nazionalistica degli ultimi

anni (adesione alla politica coloniale italiana e approvazione dell’impresa in Libia, 1911): P.

distingue nazioni proletarie (come l’Italia) e altre capitalistiche. Le

prime hanno il diritto di

opporsi alle seconde, per il globale miglioramento sociale dell’intera

umanità: si fondono così

umanitarismo, socialismo utopistico e nazionalismo (utopia regressiva, ovvero ideale

conservatore, che si proietta in una realtà ormai declinante: i valori della cultura rurale arcaica

etc..).


POESIE

 

1.

Myricae: 1891 (156 componimenti nella quinta edizione del 1900); il titolo deriva dal

verso virgiliano: “...arbusta iuvant humilesque myricae” (incipit della

IV Bucolica);

liriche brevi, raccolte in cicli o gruppi significativi (Dall’alba al

tramonto, Ricordi,

Pensieri, Creature, In campagna, Primavera etc.); i motivi sono visioni

“simboliche”

della natura, ma anche gli affetti familiari (ed il ritorno dei morti familiari, con il quale si

riannoda il dialogo interrotto dei lutti vissuti dal poeta) ed il mondo degli umili che popola

la campagna. 2.

Primi poemetti: 1897; prima parte (La sementa): poemetto georgico (romanzo, come

scrive Bàrberi Squarotti) incentrato sulla storia di una famiglia contadina, con il passare

delle stagioni ed i lavori nei campi sullo sfondo; seconda parte

(L’accestire): tornano i

temi della natura, della sofferenza umana, dei ricordi della fanciullezza (poesie famose di

questa seconda parte: I due fanciulli, Digitale purpurea, L’aquilone, La

quercia caduta, I

due orfani, L’eremita, Il bordone, il poema in due canti: Italy, sacro all’Italia raminga).

3.

Nuovi poemetti: 1909; uguale struttura rispetto al precedente volume in due parti (La

fiorita e La mietitura) e chiusura con il poema Pietole, sacro all’Italia

esule in un canto

di endecasillabi sciolti; poesie famose: La pecorella smarrita, La vertigine, Il naufrago.

4.

Canti di Castelvecchio: 1903; sono gli stessi temi di Mirycae, tuttavia con una impronta

di dolce malinconia, tanto che anche i temi dolorosi delle sciagure familiari si tingono di

una certa serenità (poesia famose: Il gelsomino notturno, La mia sera, Il ciocco).

5.

Poemi conviviali: 1904; viene rappresentata la civiltà greca (La cetra di Achille e

Alèxandros) con una successiva visione della fine che sta per sommergere il glorioso

mondo antico (Gog e Magog) e l’arrivo della nuova era cristiana (Buona

Novella); gusto

dominante: alessandrinismo ed estetismo dannunziano (parnassianesimo); domina un

rassegnato pessimismo che consiste nella comunanza di sorte tra i tragici eroi antichi

destinati alla morte ed il poeta, con tutto il suo travaglio spirituale. 6.

Odi e Inni: 1906; temi patriottici e civili che esaltano la missione del poeta-vate;


dominano le esortazioni, gli stimoli, le celebrazioni di eroi o di gesta;

tuttavia non c’è una

sterile e retorica esaltazione dell’eroismo in sé, ma esso è concepito

come mezzo per

 

 

 

attingere ad una giustizia superiore, e soprattutto a quella bontà che il poeta intravede

come unico mezzo per riscattare l’umanità dalla violenza e dalla barbarie.

 

7.

Canzoni di re Enzio: 1908-1909; sono tre canzoni in lasse di venti endecasillabi chiusi da

un settenario, metro con cui Pascoli tenta di ricostruire la lassa epica francese: La

Canzone del Carroccio, La Canzone del Paradiso, La Canzone dell’Olifante;

le

rievocazioni storiche sono mirate a celebrare le origini della grandezza italiana,

confermando così quella svolta conservatrice e nazionalistica che il poeta attraversò,

soprattutto a partire da quando sostituì Carducci a Bologna (concezione del poeta-vate

dannunziano), rinnegando totalmente la giovanile adesione agli ideali socialisti e

anarchici; tale nazionalismo, tuttavia, non assume mai accenti eccessivi, tali da

giustificare violenze e sopraffazioni, ma si combina con un forte umanitarismo e

filantropismo che si sostanziano in un sogno utopistico di rigenerazione morale, collettiva

e individuale.

8. Poemi italici: 1911; il titolo deriva dal fatto che il poeta intendeva esaltare il genio italico;

sono tre: Paulo Ucello (prevale l’ispirazione francescana nella

rievocazione del pittore),

Rossini (il musicista viene rappresentato tra tendenze materiali e purezza ideale), Tolstoi

(lo scrittore russo incontra simbolicamente Dante, san Francesco e Garibaldi).

9.

Poemi del Risorgimento: edizione postuma; prima parte: poemetti celebrativi di eroi e

martiri del Risorgimento (Napoleone, Il re dei carbonari, Garibaldi fanciullo a Roma,

Garibaldi in cerca di Mazzini, Garibaldi in America, Garibaldi vecchio a Caprera,

Mazzini); seconda parte: Inno a Roma e Inno a Torino.

  1. Poesie varie: 1912; alcune poesie giovanili ed un gruppo di poesie familiari, oltre ad un

nucleo di traduzioni pubblicate postume nel 1913 col titolo di Traduzioni e riduzioni.

  1. Poesie latine (Carmina): 1915 (30 poemetti e 71 componimenti più brevi); sono poesie

liriche ed epigrammi, oltre a quattro cicli di poemetti: Liber de Poetis, Res romanae,


Poemata Christiana, Ruralia; ritornano i temi della campagna e degli affetti familiari,

nonché quelli della diffusione del Cristianesimo durante l’Impero romano.

Latino

pascoliano: non lingua morta, ma intimamente rivissuta, profondamente affine con il

linguaggio della poesia italiana (ritmo spezzato, lontano dall’armonia

del latino classico).

 

 

 

TEMI

 

1. Celebrazione del piccolo proprietario rurale, pago del suo nido e degli affetti familiari

(il che lo distanzia parecchio dall’atteggiamento anticonformista e

libertario dei poeti maledetti francesi); 2.

predicazione sociale ed umanitaria (alla De Amicis); 3.

miti del fanciullino, del nido, del ritorno dei morti; 4.

temi più propriamente decadenti: simbolismo insito nella realtà, nonché percezione del

fascino sottile dell’irrazionale, della sessualità ammaliatrice

(L’assiuolo, Temporale, I

puffini dell’Adriatico, Suor Virginia, Digitale purpurea, Il vischio, Il

ciocco, La vertigine, Novembre).

STILE

 

In Miyricae (o Canti di Castelvecchio) le principali novità stilistiche

consistono nell’uso

di: onomatopee, valore simbolico e musicalità dei suoni e dei ritmi del verso (forme

pregrammaticali o cislinguistiche, al di qua della logica linguistica, fonosimboliche, cioè

mirate non a far conoscere la realtà, ma intuirla, solo in base alla successione dei suoni),

linguaggio analogico, sintassi frammentaria e nominale, lessico dei più vari registri, da

quello aulico e tradizionale alla D’Annunzio a quello - con un forte scarto innovativo –

gergale, dialettale, tecnico, addirittura “americanizzato” nel poemetto

Italy. Metrica: versi

piuttosto brevi, soprattutto il novenario, non molto frequente nella tradizione metrica

italiana.

Nei Primi Poemetti e nei Nuovi poemetti, a causa della maggiore

“estensione” di questi

veri e propri racconti in versi, P. predilige l’uso di terzine dantesche,

raggruppate in

sezioni più o meno ampie (stile dei Poemetti: calchi omerici, epiteti fissi, calchi virgiliani,

con un che di artificioso e di lontano dalla ispirazione più genuina di Myricae).


Virtuosismi stilistici e metrici nelle ultime raccolte (Canzoni di re Enzio, Odi ed inni,

Poemi italici etc.), dove domina il gusto per l’erudizione e la

celebrazione retorica e

ufficiale; tali sperimentazioni sono giudicate artificiose e sono oggi quasi illeggibili.

 

 

PROSE 1.

Il fanciullino, in cui espone la sua poetica (v. supra); 2.

L’eroe italico, discorso su Garibaldi;

3.

La mia scuola di grammatica, prolusione tenuta a Pisa; 4.

Eco di una notte mitica dedicato a Manzoni; 5.

Il sabato e La ginestra, studi sulla poesia leopardiana; 6.

Minerva oscura (1898), Sotto il Velame (1900), La mirabile visione (1908), In Or San

Michele, studi danteschi; 7.

Sul limitare e Fior da fiore antologie italiane e Epos e Lyra, antologie latine.

8.

STILE DELLE PROSE: tono colloquiale, dimesso, lontano dalla retorica dannunziana;

tuttavia, piuttosto manierato. CRITICA

Assolutamente negativo fu il giudizio di Croce che definì Pascoli “un

piccolo-grande poeta”.

Altri, invece, come Momigliano, hanno riabilitato il poeta, sottolineando la sua fisionomia

decadentista di portata europea. Alcuni studiosi hanno sottolineato l’alessandrinismo dei

poemetti conviviali, mentre l’interesse della critica più recente si è spostato sull’analisi delle

tecniche espressive del poeta, cercando di metterne in evidenza le novità rispetto al passato ed

il fatto che molte delle sue soluzioni stilistiche saranno poi riprese dagli Ermetici (assonanze,

allitterazioni, musicalità del verso; tesi di Anceschi: P. come poeta

proiettato “verso” il

Novecento).

 

 

 

GABRIELE D’ANNUNZIO

VITA

 

Nasce a Pescara nel 1863; studi presso il collegio Cicognini di Prato ed iscrizione alla

Facoltà di Lettere a Roma (ma non conseguì mai la laurea);


collaborazione giornalistica presso “La tribuna”, “Fanfulla della domenica”, “Capitan

Fracassa”;

amori e vita gaudente a Roma, viaggio in Grecia, conoscenza con Eduardo Scarfoglio,

relazione con l’attrice Eleonora Duse, soggiorno a Firenze nella villa “La Capponcina”;

“Beffa di Buccari”: attacco condotto da tre torpediniere italiane contro

la flotta austriaca

nel 1918 per la vittoria mutilata e la rivendicazione delle terre ancora irredente; collegata

con la beffa fu il volo su Vienna;

  1. occupazione di Fiume per rivendicarla all’Italia e scontro con le

truppe regolari italiane;

 

morì nel “Vittoriale degli Italiani” sulle rive del lago di Garda nel

1938. PENSIERO

 

ESTETISMO E SUA CRISI

 

Esordio letterario sulla scia di Carducci e Verga: “Primo Vere” (1879) e “Canto nuovo”

(1882) si rifanno al Carducci delle “Odi barbare”; novelle “Terra vergine”: paradigma verista

(“Vita dei campi”), senza però il pieno rispetto dei canoni e della

ricerca verista e naturalista e

con un gusto accentuato per violenza e sensualismo accesi (anche “Novelle della Pescara”,

1902).

 

VERSI ANNI ’80 ed ESTETISMO

 

“L’Intermezzo di rime” (1883): influenza dei decadenti francesi; “Isaotta Guttadauro” (poi “Isotteo”, 1886): recupero raffinato delle forme quattrocentesche;

“Chimera” (1890): femminilità fatale e distruttrice;

ESTETISMO: “Il Verso è tutto” (“Epodo IV”); la vita è sottoposta solo

alla legge del bello;

coincidenza tra vita ed arte; esteta come essere isolato rispetto alla società borghese

contemporanea e riflusso di disillusione dopo il moto unitario, che aveva ormai perso le sue

radici ideali e aveva declassato la funzione dell’intellettuale.

 

 

 

TRIADI DEI ROMANZI:

Romanzi della rosa: “Piacere”, “Innocente”, “Trionfo della morte” Romanzo del giglio: “Le vergini delle rocce”;

Romanzo del melograno: “Fuoco”.

 

 

“IL PIACERE” E LA CRISI DELL’ESTETISMO


“Il piacere”: primo romanzo (1889); al centro vi è la figura di Andrea

Sperelli, alter ego di

D’Annunzio stesso; la crisi della fase dell’estetismo viene rappresentata

attraverso la figura

del protagonista, scisso e combattuto tra amore passionale di Elena Muti e amore platonico di

Maria Ferres. La conclusione amara e pessimistica del romanzo denuncia la forte crisi

dell’autore, approdato alla certezza che anche l’isolamento dell’esteta

non valga a conferirgli

dignità e funzione sociale rilevante, riscatto ed elevazione spirituale.

 

FASE DELLA “BONTÀ”

 

Fascino del romanzo russo; “Giovanni Episcopo” (1891): storia di un

umiliato ed offeso (influsso di Dostoievskij);

“Innocente”: protagonista Tullio Hermil; esigenza di rigenerazione e purezza (influsso di

Tolstoj), ma anche contorta propensione per le motivazioni di un omicida (Dost.);

“Poema paradisiaco” (1893), raccolta poetica; esigenza di recupero della

semplicità degli

affetti familiari, puri, etc.

 

 

ROMANZI DEL SUPERUOMO

 

Influenza di Nietzsche: rifiuto del conformismo borghese, esaltazione dello spirito dionisiaco,

rifiuto dell’etica della pietà, dell’altruismo, della carità cristiana,

esaltazione della volontà di

potenza, dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé; fusione tra ideale dell’esteta e del

superuomo: l’esteta non si isola più sdegnosamente dalla società in un

mondo appartato, ma si

adopera per imporre il dominio di un’élite violenta e raffinata in un

mondo meschino e vile, dominato dalla borghesia.

Il quarto romanzo “Trionfo della morte” (1894); protagonista Giorgio

Aurispa; il romanzo

segna il tentativo di fondere le due figure dell’esteta e del superuomo;

risente della mancanza

 

 

 

di unità per le sue alterne vicende compositive; esaltazione delle tematiche cupe della morte,

del pessimismo...

“Le vergini delle rocce”: superuomo Claudio Cantelmo;

“Fuoco” (1898); eroe Stelio Effrena (trasfusione nel romanzo dell’amore di D’A. per il

teatro);

“Forse che sì, forse che no” (1910): protagonista Paolo Tarsis, che

realizza la sua volontà eroica in un volo aereo.

 

LE OPERE DRAMMATICHE


TEMI STORICI: “La città morta” (1896); “Francesca da Rimini”, “Parisina”, “Sogno di un

tramonto d’autunno”, “La nave”;

TEMI DEL PRESENTE: “La gloria”, “La Gioconda”, “Più che l’amore”.

“La figlia di Iorio” (1904): tragedia pastorale; la vicenda è ambientata

in un Abruzzo mitico,

primitivo, fuori del tempo; il linguaggio mira a riprodurre le formule popolari di canti,

scongiuri, proverbi, etc... LAUDI

7 libri (laudi del mare, del cielo, della terra e degli eroi);

1903: primi tre (“Maia”, “Elettra” e “Alcyone”); “Merope” esce nel 1912,

raccogliendo le

precedenti “Canzoni delle gesta d’Oltremare” (impresa di Libia); postumo fu aggiunto

“Asterope” (poesia ispirate alla I guerra mondiale);

MAIA: 8000 versi; per la prima volta viene adottato il verso libero (dal novenario al quinario,

con rime ricorrenti senza schema fisso); trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia quale

ricerca del bello classico, in contrapposizione alle metropoli moderne, orribili, ma comunque

vitali, con tutto il loro patrimonio economico, politico e sociale, tecnologico, degli affari e

della produzione; il poema finisce, quindi, per diventare una glorificazione della modernità,

riscattata dal suo squallore attraverso la trasfigurazione mitica nel passato classico; motivo

autobiografico e identificazione del poeta come moderno Ulisse. ELETTRA: oratoria della propaganda politica diretta; anche qui contrapposizione tra un polo

positivo (passato classico e futuro di gloria e bellezza) e negativo (presente da riscattare);

 

 

 

 

serie dei sonetti sulle “Città del silenzio”, le antiche città italiane simbolo di un passato

glorioso da emulare nel presente (Ferrara, Pisa, Ravenna, Lucca). ALCYONE: apparentemente lontana dalle prime due raccolte; alla celebrazione si sostituisce

il tema lirico della fusione panica con la natura; diario ideale di una vacanza estiva dai calli

fiesolani alle coste tirreniche tra Pisa e Versilia; le liriche, quindi, si ordinano in un disegno

organico che segue la parabola della stagione, dalla primavera piovosa a Settembre;

capolavoro del poeta, perché scompaiono enfasi e retorica per lasciare spazio alla pura

musicalità del verso (poesie famose: “La pioggia nel pineto”, “Lungo l’Affrico nella sera di

giugno dopo la pioggia”, “La sera fiesolana”, “La tenzone”, “Bocca d’Arno”, “Intra du’

Arni”, “Le stirpi canore”, “Innanzi l’alba”, “Meriggio”, “Albasia”, “L’oleandro”, “Versilia”,

“La morte del cervo”, “Undulna”, “Il novilunio”).


“NOTTURNO”

 

“Leda senza cigno” (1913), opera narrativa, quasi una novella;

sperimentazione di una nuova

forma di prosa di memoria, lirica e frammentaria;

“La contemplazione della morte” (1912), “Licenza della Leda senza cigno” (1913), “Il

Notturno” (1921), “Le faville del maglio” (1928), “Il libro segreto”

(1935), opere diverse

tra loro, ma accomunate dal taglio memorialistico.

“Il Notturno”: la cecità temporanea costringe il poeta all’auscultazione

della porpria

interiorità: impressioni, visioni, ricordi vengono annotate su lunghe strisce di carta in uno stile

secco, nervoso, paratattico, nominale.

LUIGI PIRANDELLO VITA

 

Nasce nel 1867; si laurea a Bonn nel 1891;

1901: pubblica il primo romanzo L’esclusa;

dal 1910 si dedica al teatro ricavandone molto successo;

insegna lingua e letteratura italiana a Roma sino al 1922; è travagliato da numerosi

problemi familiari, soprattutto la pazzia della moglie;

1928-1936: datano a questa epoca le sue ultime opere teatrali (La nuova colonia, Lazzaro,

I giganti della montagna);

1934: riceve il premio Nobel per la letteratura; muore nel 1936. POETICA

Domina la poetica pirandelliana il contrasto tra realtà e illusione; i personaggi sono

consapevoli di tale contrasto, ma, poiché impotenti a risolverlo, essi sono bloccati in una

tragica inazione e in un’angosciosa solitudine. Visto che è impossibile

uscire dal proprio stato

di alienazione, unico rimedio è la morte (nel senso di non-vita o di suicidio) oppure la follia.

La “follia” tuttavia in Pirandello si connota in senso particolare: essa

è pazzia agli occhi della

borghese logica degli “altri”, ma per il personaggio che la esperimenta,

consiste in una

acquisizione cosciente della realtà delle cose, fino a quel momento non percepita nella sua

effettiva consistenza; ovvero, follia è una forma provvisoria dietro la quale il protagonista si

trincera, pur di sfuggire al gioco delle convenzioni e delle falsità cui sarebbe costretto nel

proprio ruolo “normale” (Enrico IV). Altro concetto chiave è quello dell’umorismo, oggetto


del famoso saggio L’umorismo: esso è dapprima “avvertimento”, poi “sentimento del

contrario”, cioè smantellamento ironico della maschera dei cerimoniali e

delle falsità della

società borghese novecentesca, incline a nascondere dietro un’apparenza

di perbenismo e

buone maniere una realtà di malessere esistenziale o violenta aggressività (come la buffa,

anziana signora esageratamente e ridicolmente imbellettata che, scrive Pirandello nel saggio,

suscita dapprima il nostro sorriso, e poi la nostra pietà, non appena se ne consideri la

disperazione e la vana illusione di apparire più giovane).

 

 

 

POESIE E NOVELLE

 

1883-1912: estremi di composizione delle poesie, tradizionali, carducciane, lontane dalle

avanguardie e dal simbolismo (titoli delle principali raccolte: Mal giocondo, 1889, Pasqua

di Gea, 1891, Elegie renane, 1895, Zampogna, 1901, Fuori di chiave, 1912);

novelle: furono composte in tutto l’arco della sua vita; titoli delle

raccolte: Amori senza

amore, 1894, Beffe della morte e della vita (2 serie), 1902 e 1903,

Quand’ero matto,

1903, e molti altri sino a Berecche e la guerra, 1919; nel 1922 furono tutte raccolte in

Novelle per un anno (24 vol. negli intenti di P., ma ne furono pubblicati in vita solo 14 +

Una giornata, postumo, 1936). ROMANZI

 

1.

L’esclusa: 1893; è il primo romanzo, storia di una donna accusata

ingiustamente di

adulterio, cacciata di casa dal marito e riammessavi, solo dopo essersi resa effettivamente

colpevole; influenze del Positivismo e Naturalismo, tuttavia già superato perché il fatto

scaturisce non da eventi oggettivi, ma di convinzioni e ossessioni del tutto soggettive;

2.

Il turno: 1895; risvolti bizzarri, grotteschi, “umoristici”;

3.

Il fu Mattia Pascal: 1904; è il primo grande successo letterario; Mattia, ritenuto morto

per un equivoco, tenta di crearsi una nuova personalità e di vivere senza legami di alcun

tipo. Tuttavia ciò non è possibile ed egli tenta di riprendere la propria precedente

condizione, fingendo un suicidio della sua nuova personalità. Egli torna al proprio paese,

ma trova che la moglie si è risposata e che il suo lavoro è svolto da un altro; non gli resta


che andare ogni tanto sulla sua tomba, poiché l’unica identità che gli

resta è quella del fu

Mattia Pascal. Domina nel romanzo la tematica della frantumazione

dell’io, che si ripete,

con notevoli variazioni, nelle Novelle per un anno; NOVITA’: non viene

usata la terza

persona tipica del romanzo naturalistico (come ancora nei primi due romanzi

pirandelliani), ma la prima persona, nello sdoppiamento dell’io narrante

Pascal maturo,

che esamina i fatti retrospettivamente (narratore extradiegetico) e

dell’io narrato Pascal

che vive gli avvenimenti di volta in volta (protagonista intradiegetico); 4.

I vecchi e i giovani: 1906-9; romanzo storico simile ai Vicerè di De Roberto (Sicilia e

Italia post-unitaria tra 1892 e 1893); dietro la disillusione del confronto tra vecchi, la

generazione risorgimentale, e giovani, quella post-unitaria, si ripropone il tema

 

 

 

dell’assurdo meccanismo della vita sociale; quindi, nonostante le somiglianze con il

romanzo storico e naturalista, anche quest’opera ripropone le tematiche

più care a P.;

 

5.

Suo marito: 1909; prova meno significativa; 6.

Quaderni di Serafino Gubbio operatore: 1925; critica della meccanizzazione della

moderna civiltà tecnologica (qui raffigurata dalla macchina da presa del narratore

autodiegetico Serafino) e della mercificazione; 7.

Uno, nessuno e centomila: 1925-6; il protagonista Vitangelo Moscarda si dibatte nella

tragica consapevolezza di non esser uno, ma centomila (nelle varie ottiche degli altri) e

quindi nessuno. Nel tentativo disperato di riconquistare la sua identità perduta, commette

una serie di gesti apparentemente folli, come quelli di vendere la propria banca e costruire

un ospizio per poveri, nel quale egli stesso si rifugia, ormai creduto pazzo da tutti. Ritorna

il tema della maschera, delle forme che imprigionano il flusso vitale, della disgregazione

dell’io. Dal punto di vista formale, il romanzo porta alle estreme

conseguenze le nuove

tecniche già precedentemente sperimentate: il testo è una lunga confessione sotto forma di

monologo, senza nessi cronologico-causali. PRODUZIONE TEATRALE

 

1.

I sei personaggi in cerca di autore: i personaggi di una commedia diventano tanto


autonomi da apparire agli attori che dovrebbero rappresentarla; è questo un esempio di

quel “teatro nel teatro” che tenta di abbattere ogni finzione scenica,

visto che tutta la

vita è rappresentazione di un ruolo; 2.

Pensaci Giacomino! e Berretto a sonagli (1915-6); 3.

Così è (se vi pare) e Il Piacere dell’onestà (1917);

4.

Ma non è una cosa seria e Il giuoco delle parti (1918); 5.

Enrico IV (1922);

6.

Vestire gli ignudi (1922); 7.

Questa sera si recita a soggetto (1930) 8.

1928-1936: ultima produzione teatrale, quella dei miti: Nuova colonia,

Lazzaro, I giganti

della montagna: scompaiono i temi borghesi della famiglia, della maschera,

dell’umorismo, per lasciar spazio a influenze più propriamente decadenti ed estetizzanti

(in coincidenza con i ritorno all’ordine degli anni del fascismo); in

particolare ne I giganti

 

 

 

 

P. indaga le possibilità di sopravvivenza dell’arte nella odierna società

industriale,

dominata dalle ragioni dell’economia e del potere politico (vi si è visto

un accenno velato

alla politica di ingerenza culturale del regime mussoliniano), con conclusioni

assolutamente pessimistiche sui margini residuali di coesistenza di poesia e potere.

CARATTERI E TEMI: viene ripreso il dramma borghese di ascendenza naturalistica, ma

con tutt’altro spirito (la famiglia viene analizzata in tutta l’ipocrisia, la convenzionalità dei

ruoli imposti, sino a giungere al paradosso, all’assurdo, al grottesco, in uno stile che è,

ovviamente, concitato, ellittico, nervoso, spezzato, come la realtà che vuole rappresentare).

Per I sei personaggi, Questa sera si recita si recita a soggetto,

Ciascuno a suo modo (1924) e

anche, per certi aspetti, Enrico IV, poi, è stata coniata la formula del

“teatro nel teatro”: viene

messa in scena la impossibilità stessa della rappresentazione, cioè della fissazione in forme e

maschere della realtà e della vita, di per sé sfuggenti e inafferrabili.

 

SPUNTI PER L’ANALISI STRUTTURALE DELLE NOVELLE

 

FABULA


La notevole produzione novellistica pirandelliana (più di 300 racconti in

cinquant’anni) rende

estremamente problematico qualsiasi tentativo di classificazione: tuttavia, è possibile

individuare, grosso modo, tre categorie di novelle:

 

novelle veriste: Pirandello, di origine siciliana, si forma proprio negli ambienti del

Verismo di Capuana e Verga e indubbiamente le sue prime opere (tra cui le novelle del

primo periodo) ne risentono in parte l’influenza; per esempio, possono

essere considerate

novelle veriste per l’ambientazione, il tipo di personaggi, il linguaggio

usato: La giara,

Ciàula scopre la luna, Servitù, L’altro figlio, Il figlio cambiato;

novelle umoristiche: naturalmente bisogna chiarire bene cosa intendeva Pirandello per

umorismo (v. supra): non è il “comico”, la situazione che scatena il

riso, ma il sentimento

del contrario, l’avvertire cioè la contraddizione che esiste in un

personaggio o in una

situazione, magari l’assurdità della situazione stessa; l’umorismo così,

porta il lettore a

considerare gli aspetti più pietosi e dolorosi degli eventi; sono novelle umoristiche, ad es.,

La patente, Acqua e lì, Certi obblighi, L’eresia catara;

 

 

 

novelle surreali e filosofiche: sono novelle legate al tema della dissoluzione della

personalità e alla disgregazione del mondo oggettivo come Canta

l’Epistola, La carriola,

Mondo di carta o vicende surreali come Effetti d’un sogno interrotto,

Soffio, Una

giornata, Il vaso di gerani. Sono queste le novelle dell’ultimo periodo,

in cui la tendenza

di P. a costruire la storia - più che sui fatti - sull’interiorità dei

personaggi conduce a una

sorta di dissoluzione della trama stessa; mancano la concatenazione lineare degli

avvenimenti, la contrapposizione dei personaggi, talvolta gli eventi stessi sono limitati e

scarsamente significativi; la fabula si allontana così definitivamente dalla regole

tradizionali. I PERSONAGGI

 

Agiscono personaggi di tutte le classi sociali: cittadini, contadini, borghesi agiati, miseri

salariati. E’ possibile comunque delineare tre tipologie di personaggi:

 

personaggi problematici che hanno la percezione del contrasto tra apparenza e realtà e la


vivono come conflitto interiore e scontro con l’esterno; ad essi si

contrappongono

personaggi integrati nelle convenzioni sociali, nell’ottica normale del

vivere;

personaggi che in apparenza obbediscono alle convenzioni sociali, ma in realtà le

ribaltano, come Chiàrchiaro (La patente), Quaquèo (Certi obblighi),

Perazzetti (Non è una cosa seria);

personaggi che si fingono un mondo fittizio come unica modalità possibilità di vivere (Il

mondo di carta).

Tutti i personaggi pirandelliani, comunque, sono fortemente caratterizzati dal punto di vista

fisiognomico, dei loro comportamenti, del loro modo di agire e parlare. LUOGHI E TEMPI

Le ambientazioni sono le più varie: il contesto contadino della Sicilia, quello borghese

cittadino, quello paesano (spesso sono rappresentati e contrapposti sia

l’ambiente paesano che

quello urbano). Sarà, dunque, opportuno osservare se i fatti si svolgono prevalentemente in un

unico luogo o se si verificano spostamenti e quali (molto spesso nelle novelle compare la

dialettica interno/esterno, buio/luce, sole/ombra, alto/basso che autorizzano a rinvenire una

funzione simbolica; ad es.: in Ciàula, la scoperta della luce lunare

segna una “nuova nascita”

 

 

 

del personaggio, un ribaltamento della sua precedente visione nichilistica). Alcune novelle, a

cui corrispondono degli atti unici teatrali, presentano unità di luogo, di tempo e azione, cioè le

tre unità aristoteliche (es.: La patente, Lumìe di Sicilia). INTRECCIO, STRUTTURA E RITMO

Pirandello utilizzò molti procedimenti per la costruzione dell’intreccio,

spesso allontanandolo

notevolmente dalla fabula e alterando l’ordine cronologico-causale degli avvenimenti; si

possono distinguere tre procedure principali in tal senso:

 

procedimenti che alterano l’ordine temporale degli eventi: P. definisce epiloghi quelle

novelle che rappresentano solo gli ultimi passi di una vicenda; ciò comporta una notevole

attenzione sull’incipit del racconto stesso: spesso la novella inizia in

medias res,

ripercorrendo solo successivamente l’antefatto con lunghe analessi o

soliloqui dei


protagonisti (Lumìe di Sicilia), oppure si inizia con la descrizione del personaggio, cui

seguono l’antefatto e di seguito la narrazione in diretta degli

avvenimenti (La patente),

oppure ancora con l’anticipazione viene annunziato in apertura qualcosa

che verrà rivelato

solo alla fine (La carriola);

procedimenti che alterano la durata temporale degli eventi: si fa qui riferimento alla

rappresentazione per scene, sommari o pause (v. Verga);

procedimenti che costruiscono la narrazione intorno a un motivo o ad una immagine

centrale: è questa la tecnica dell’agnizione o di successive agnizioni;

può essere il

riconoscimento, la percezione improvvisa e fulminea di un aspetto nuovo della realtà

esterna (Ciàula scopre la luna) o di uno stato interiore (La carriola), o il riconoscimento

di intenzioni imprevedibili nell’agire di un personaggio (La patente) o

di condizioni

insospettate (La morte addosso). NARRATORE E PUNTO DI VISTA

 

Possiamo distinguere novelle in cui il narratore è eterodiegetico: parla in terza persona, spesso

 

-ma non sempre - con un’ottica onnisciente e con continui interventi

diretti, metalessi

(L’eresia catara, Acqua e lì), altre in cui il narratore è interno e

testimone dei fatti narrati (Il figlio cambiato).

 

 

 

IL SISTEMA DEI PERSONAGGI

 

Quasi sempre la descrizione dell’aspetto fisico, del modo di muoversi, di

gestire,

dell’abbigliamento dei personaggi pirandelliani è precisa, minuziosa,

quasi una “didascalia

teatrale” per la messa in scena del racconto, ma non si tratta di

descrizioni realistiche in senso

stretto, perché non mancano interventi diretti del narratore, che connota tutto attraverso l’uso

di lessemi alterati, di termini fortemente caratterizzanti, sia, talvolta, esplicitando chiaramente

il suo atteggiamento e giudizio verso i protagonisti. Alcuni personaggi poi sono presentati

attraverso gli occhi di un altro personaggio (foc. interna). Nella maggior parte i personaggi di P. hanno un’individualità ben definita: tragici, folli,

dubbiosi e in cerca del senso della vita, o semplicemente bizzarri e troppo ricchi di

immaginazione, essi sono comunque caratterizzati come individui e non come tipi generici,

colti in una storia che è la loro storia individuale e non quella di intere categorie umane. Di


altri personaggi, più convenzionali e tipizzati, P. dà spesso una rappresentazione caricaturale,

dando molto rilievo ad alcuni tratti, ad es. il perbenismo e l’ipocrisia,

etc...

Il nome proprio dei personaggi di P. è molto importante: lo scrittore istituisce spesso un

legame tra nome o soprannome o appellativo e caratteristiche del personaggio (nomi

semantici), che può essere di rispecchiamento diretto o anche di totale antinomia; quando, poi,

 

P. non designa i suoi personaggi con alcun nome, vuol dire che essi sono troppo complessi per

poter esser etichettati in maniera univoca e definitiva (tesi di Altieri Biagi).

TEMI

Possono essere così schematizzati: 1.

imprevedibilità del caso che governa la vita: il caso può avere funzione

catartica, cioè

sciogliere all'improvviso una situazione problematica (La giara) o essere fatalmente

distruttivo;

2. problematicità della conoscenza, molteplicità del reale (L’altro

figlio); 3.

conflitto tra apparenza e realtà, tra forma e vita, nella scoperta

dell’inconsistenza delle

forme e delle convenzioni sociali (la forma soffoca la vita); 4.

dispersione dell’identità e dell’io: perdita dell’unitarietà dell’individualità dell’uomo

(Uno, nessuno e centomila);

5. maschera delle convenzioni e del ruolo sociale;

 

 

 

6.

pena di vivere, impossibilità di realizzare la propria identità e di stabilire rapporti con gli

altri. STILE

 

Lo stile di P. è stato definito stile di cose più che di parole. In antitesi con la prosa di

D’Annunzio, l’autore che influenza più di tutti la cultura letteraria del

primo novecento, P.

tende ad una prosa media che recuperi il parlato, l’aggettivazione

multipla, le parole comuni, i

termini tratti dal linguaggio popolare, le parole gergali spesso provenienti dal dialetto

siciliano, allontanandosi così dai preziosismi linguistici e dalla prosa

d’arte . La sintassi è

agile, paratattica, molto vicina al parlato e tende a riprodurre anche le ripetizioni, le allusioni,

le esclamazioni, le ellissi tipiche del parlato e la gestualità dei parlanti. Tra i tempi verbali


prevale il presente, il tempo dell’immediatezza; prevalgono il discorso

diretto, il dialogo e il monologo interiore.

 

IL GENERE: LA NOVELLA PIRANDELLIANA

 

La novella classica si basa sull’intreccio, sul meccanismo degli eventi,

delle sorprese, dei

colpi di scena, sulle avventure e i sentimenti degli uomini, suo fine è sorprendere,

commuovere, divertire (Boccaccio stesso prometteva di raccontare

“piacevoli ed aspri casi

d’amore ed altri fortunosi avvenimenti”). A P. più che gli eventi

interessano le reazioni degli

uomini; non a caso la struttura della sua novella si svolge in linea orizzontale, si gioca tutta al

presente. Abbiamo cioè dei personaggi avviluppati in un caso: e in esso, cioè nella situazione

conflittuale del presente, essi si dibattono. La trama della novella è data da ragionamenti,

riflessioni, pensieri sui fatti; l’esito a volte è la chiusura del

cerchio o il rovesciamento totale

della situazione. Nello sviluppo della vicenda non sono i fatti che cambiano le cose, ma il

modo di vedere e vivere la realtà.

 

 

 

ITALO SVEVO VITA

 

Pseudonimo di Ettore Schmitz, nasce a Trieste nel 1861;

formazione di respiro mitteleuropeo (cfr. Trieste austro-ungarica, vivo centro culturale);

studi commerciali e impiego in banca;

1892: è l’anno del primo romanzo Una vita, che non riscosse grande

successo, come

anche il secondo Senilità (1898);

1905: conosce James Joyce;

1923: è l’anno de La coscienza di Zeno; apprezzano per primi l’opera lo

stesso Joyce e, in Italia, Montale;

muore in un incidente stradale a Treviso nel 1928. PENSIERO

 

influenza di Freud: Svevo per primo in Italia lesse le opere del padre della psicoanalisi e

da queste trasse sostegno scientifico per l’analisi della coscienza umana

attuata nel suo

lavoro letterario. Alle teorie freudiane aggiunse però l’idea che non

solo la psiche umana,


ma tutta la realtà sia ammalata. In questa concezione, pertanto, i disagi del singolo uomo

appaiono come segni di ribellione verso il mondo borghese in disfacimento;

cultura filosofica: Svevo conobbe il pensiero di Schopenhauer, Nietzsche,

Darwin. Può

stupire questa commistione di influenze dell’irrazionalismo e del

positivismo scientista,

ma Svevo trasse da ciascuno di questi pensatori degli spunti critici, che rielaborò

personalmente. Da Schopenhauer trasse lo smascheramento implacabile degli autoinganni

borghesi, da Darwin l’autore fu indotto a presentare il comportamento dei

suoi personaggi

come prodotto di leggi naturali immodificabili, anche se dipendenti dalla volontà

(Nietzsche). Dal pensiero marxista egli trasse la concezione dei conflitti di classe e della

motivazione strutturale-economica alla base di tutti i fenomeni sociali.

Del marxismo

tuttavia non accettò la visione deterministica, prediligendo visioni utopistiche per la

risoluzione dei conflitti sociali, come testimonia il racconto La tribù (1897). Di Freud,

poi, apprezzò la visione teorica generale e le nuove possibilità che tale teoria offriva alla

narrazione letteraria, più che la prassi terapeutica;

 

 

 

influenza dei romanzieri francesi dell’ottocento (Balzac, Stendhal,

Flaubert); si segnala

anche l’influenza di Zola, nonché quella di Paul Bourget, inventore del

nuovo romanzo

psicologico; infine la critica più recente ha sminuito il peso

dell’influenza di Joyce sulla

narrativa sveviana e, in particolare, non è stato notato alcuna vicinanza significativa tra il

flusso di coscienza dell’irlandese e la confessione di Zeno. ROMANZI

 

Una vita (1982): Alfonso Nitti, modesto impiegato di banca ama Annetta, figlia del suo

direttore, ma, bloccato dalla sua inettitudine e incapacità di vivere e di scegliere si suicida;

Alfonso inaugura il tipo dell’inetto, categoria fondamentale nell’opera

sveviana. Si tratta

di una incapacità di vita e di scelta, che ha le sue radici nello scontro tra gli ideali

umanistici di un puro intellettuale e la solidità della borghesia triestina, dominata da

profitto, produttività, energia e concretezza;

Senilità (1898): Emilio Brentani si innamora di Angiolina, vivace popolana, bella e


volgare. L’amico di Emilio, Stefano Balli, è amato dalla sorella del

protagonista, Amalia,

che con la sua morte apre gli occhi al fratello sulla vera natura di Angiolina, nel frattempo

fuggita con un altro; rispetto al primo romanzo, vengono qui messi in secondo rilievo gli

aspetti sociologici, a favore di una capillare indagine nell'interiorità del protagonista;

La coscienza di Zeno (1923): Zeno Cosini, ricco commerciante triestino a riposo, è

indotto dallo psicanalista a scrivere la sua autobiografia. Svevo immagina che il dottor S.

pubblichi per dispetto le memorie del suo cliente, ormai scomparso. Il romanzo è

articolato in sei blocchi narrativi, ognuno dei quali prende il nome da un argomento

caratterizzante: Il vizio del fumo (cap.3), La morte del padre (cap.4),

Il matrimonio

(cap.5), La moglie e l’amante (cap.6), L’associazione commerciale (cap.7), La

psicoanalisi (cap.8).

SPUNTI PER L’ANALISI STRUTTURALE DE LA COSCIENZA DI ZENO

 

FABULA

 

Di questo romano è particolarmente difficile ricostruire la fabula, perché la materia narrativa è

distribuita per associazione di argomenti e non segue una scansione logico-temporale; infatti

nella cura psicoanalitica, cui il protagonista si sottopone, le vicende del passato di Zeno

 

 

 

riaffiorano alla coscienza in modo occasionale e, oltre tutto, ciò che il narratore dice di sé non

sempre corrisponde alla verità dei fatti, che il lettore deve interpretare nella giusta luce.

 

PERSONAGGI

Zeno è, in qualche modo, alter ego di Italo Svevo; le biografie

dell’autore reale e del suo

personaggio, infatti, coincidono per alcuni tratti (Trieste, studi commerciali, etc...). Molto

rilievo assumono i personaggi femminili, ben caratterizzati fisicamente e psicologicamente,

come anche l’antagonista di Zeno, Guido, e suo suocero, Malfenti, quasi

un sostituto del

padre per il portagonista. LUOGHI E TEMPI

La vicenda è ambientata a Trieste, che fino al 1918 aveva fatto parte

dell’impero

austroungarico e successivamente era stata annessa all’Italia (viene

citato molto spesso il


Tergesteo, il Caffè della Borsa della città), ma compaiono anche altri luoghi (ad es.: la

villa di campagna di Lucinico; si propongono, peraltro, numerose opposizioni del tipo:

città/campagna, spazi privati/pubblici, interni/esterni);

gli avvenimenti narrati (lo deduciamo dal testo stesso) vanno

dall’infanzia di Zeno (1860

circa) fino al 1916, anno in cui la cura viene esaminata retrospettivamente dallo stesso

Zeno. INTRECCIO

La Coscienza è un’opera aperta, in cui non è possibile rintracciare un

solo nucleo narrativo; la

realtà fa irruzione nei vari capitoli tematici in modo caotico, giacché la distribuzione degli

avvenimenti è determinata dal processo di autoanalisi che il protagonista-narratore mette in

atto per scoprire le origini e lo svolgimento della propria malattia e segue perciò il libero

flusso delle associazioni mentali. SISTEMA DEI PERSONAGGI

Il rapporto tra i personaggi non si svolge secondo lo schema tradizionale prot.-antag.-aiutante,

ma risulta più complesso. Si può, piuttosto, parlare di coppie oppositive quali Zeno/Guido,

Zeno/Ada, Zeno/Augusta, Augusta/Ada, Augusta/Carla etc...

 

 

 

PUNTO DI VISTA

 

La finzione della cura psicanalitica introduce un duplice punto di vista, quello del

narratore-editore di I grado, il dottor S. (extradiegetico), e quello di Zeno, narratore di II

grado (intradiegetico). Come su un palcoscenico, i due personaggi raccontano ciascuno

qualcosa dell’altro, ma nessuna delle due opinioni prevale. Svevo,

attraverso tale

aritificio, sottrae il romanzo a ogni rigido schema interpretativo.

L’autore non introduce

nel romanzo neppure una scala di valori univoca; l’unico punto di

riferimento è la salute,

che può esser conosciuta e analizzata solo a partire dalla malattia (dunque, anche la salute

è un valore relativo);

la formula narrativa utilizzata da Svevo sfugge a qualsiasi tentativo di classificazione; non

è lo stream of consciousness (flusso di coscienza) che richiede l’uso

della terza persona,

che non ha destinatari e tende a cancellare la soggettività della voce narrante; non è la

tecnica delle libere associazioni. Il monologo interiore è sviluppato attorno al tema della


malattia che funge da criterio selettivo di tutto. TEMPO MISTO

 

Nel romanzo è presente un tempo misto, cioè quello presente dell’io

narrante Zeno anziano

che scrive ormai alla fine della cura psicanalitica, e quella dell’io

narrato, lo Zeno bambino,

adolescente e uomo maturo alle prese con il conflitto con il padre, il vizio del fumo, etc.

 

TEMI

 

1. Malattia-salute; 2.

avversione per il gretto mondo degli affari, unicamente proiettato verso una dimensione

economica; 3.

ricerca di ideali più nobili; 4.

doppiezza dei comportamenti pubblici e privati; 5.

ironia nei confronti della terapia psicanalitica.

 

 

 

STILE

 

Per i contemporanei, la sua prosa era sciatta, se non addirittura piena di errori e solecismi; in

realtà la sua scrittura è fuori dagli schemi convenzionali, perché tesa

continuamente all’analisi

dei personaggi, dei moti della coscienza. Il periodare è prevalentemente paratattico, nominale,

con frequenti interrogazioni, esclamazioni e parentesi con le quali il narratore apre una pausa

riflessiva. Prevalgono, infine, ironia e umorismo, come armi per la demolizione della realtà

comune.

RACCONTI E COMMEDIE 1.

Una lotta, novella (1888): primo testo narrativo scritto da Svevo;

2.

L’assassinio di via Belpoggio, racconto lungo (1890): analisi psicologica

delle

motivazioni di un omicida; 3.

La tribù, racconto-apologo politico (1897); 4.

Lo specifico del dottor Menghi (1904): invenzione di un farmaco che allunga la vita;

5.

Vino generoso, Una burla riuscita, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla,

Corto viaggio sentimentale (quest’ultimo incompiuto), racconti (1898- 1919);


  1. frammenti di Il vecchione, o Le confessioni del vegliardo, progetto di continuazione del

romanzo di Zeno;

  1. 13 commedie in tutto: 8 sono datate agli anni 1880-90: Le ire di Giuliano, Le teorie del

conte Alberto, Il ladro in casa, Una commedia inedita, Prima del bello, La verità,

Terzetto spezzato, Atto unico; rimanenti: Un marito (1903), L’avventura

di Maria (191920),

Inferiorità (1921), Con la penna d’oro (1926), La rigenerazione (1927- 28): termine

di riferimento è il teatro borghese, con tutti i drammi della vita familiare.

 

 

 

GIUSEPPE UNGARETTI VITA

 

Nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888; primi studi in Egitto e

successivo trasferimento a

Parigi (contatto con i simbolisti e i poeti maledetti, in particolare Baudelaire e Mallarmé);

1914: arriva in Italia e si arruola volontario nella prima guerra mondiale;

dopo la guerra comincia a lavorare a Roma e poi come inviato di un giornale;

muore nel 1970. POESIE

 

1.

Il porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi (1919, ma le due raccolte confluiranno nel

volume complessivo Allegria del 1931): il titolo ossimorico di Allegria di naufragi allude

al naufragio della guerra, della sofferenza e del dolore, ma in mezzo alla distruzione si

delinea un barlume di armonia e slancio vitalistico (“M’illumino d’immenso”); Il porto

sepolto indica l’antico porto d’Alessandria, ma è anche una metafora del

desiderio di pace

e di riposo; stilisticamente si nota la scomposizione del verso tradizionale, le parole

vengono messe in evidenza e si cerca di evitare il tono discorsivo in

favore dell’analogia

fulminante (esasperando la lezione dei simbolisti e anche quella dei futuristi). La parola,

in tale direzione, assume un valore illuminante e folgorante,

identificandosi con l’attimo

in cui, attraverso l’immediatezza del rapporto analogico, la poesia

sfiora la totalità e la

pienezza dell’essere (poesie celebri: Soldati, In memoria, Girovago,

Popolo, I fiumi, Mattina);

2.


Sentimento del tempo (1933): qui il desiderio di assoluto diviene fede religiosa e il poeta

si avvicina al cattolicesimo (Inni); c’è anche la riscoperta della

classicità, del mito (La fine

di Crono, L’isola), della Roma barocca, di Petrarca e Leopardi (Inno alla

morte, Notte di

marzo), di una concezione del tempo non più come istante da cogliere nella sua ineffabile

assolutezza, ma come continuità ed evoluzione; questa svolta nei tremi e

nell’ideologia si

traduce anche, stilisticamente e metricamente, nel recupero dei metri e degli stilemi della

tradizione letteraria (ad esempio, viene recuperato e difeso “a spada tratta”

l’endecasillabo).

 

 

 

3.

Il dolore (1947): si parte qui da una drammatica esperienza personale: la morte del

giovane figlio Antonietto; nella seconda sezione, dal titolo Roma occupata, il dolore è,

invece, quello storico e collettivo della guerra. 4.

La terra promessa (1950): frammenti di un progetto di composizione di un melodramma

epico (Enea, Didone e morte dell’eroina), in una sorta di proiezione

storica dei dolori del poeta.

 

 

 

UMBERTO SABA VITA

 

Nasce a Trieste nel 1883; posizione “emarginata” rispetto alla cultura

italiana, ma centrale

rispetto al panorama mitteleuropeo (v. Svevo); formazione da autodidatta;

1911: in un saggio scritto per la Voce, ma mai pubblicato, prende posizione contro certa

poesia (innanzitutto, quella dannunziana, pure in un primo momento apprezzata, nei suoi

toni più crepuscolari e “morbidi”) pomposa, esteriore e retorica, proponendo il ritorno ad

una più diretta e sincera interiorità;

sposa Carolina Woelfler, la Lina che canterà nei suoi versi, come farà per la figlia

Linuccia;

a causa di disturbi nervosi, si accosta alla psicanalisi freudiana;

colpito dalle leggi razziali perché ebreo, si rifugia a Parigi; nel 1939 è a Roma,

successivamente a Firenze;


muore a Gorizia nel 1957. OPERA E PENSIERO

 

CANZONIERE

 

Tutte le poesie scritte nel corso di sessant’anni circa vengono raccolte

sotto il titolo

comprensivo - e petrarchesco - di Canzoniere. In pieno Decadentismo e in mezzo ai vari

modernismi di inizio Novecento, l’esperienza di Saba appare singolare e

avulsa dall’adesione

agli schemi comuni (si è parlato di “antinovecentismo” di Saba), pur

sentendo egli fortemente

l’influsso delle tematiche e delle tecniche contemporanee. Influì

profondamente sulla sua

“diversità” il fervido clima culturale triestino, ancora profondamente intriso di tematiche

romantiche, attraversate da un’originale vena di moralismo (vedi i

vociani Slataper e

Michelstaedter, Svevo). A questo Romanticismo attardato mancavano lo slancio patriottico ed

il fervore della prima ora; tuttavia, non era stato del tutto obliterato il bisogno di partecipare,

di ricevere, comunque e sempre, consenso, adesione comunitaria (“D’essere

come tutti/Gli

uomini di tutti/I giorni”). Anche se sono impossibili residui slanci

sentimentali, quindi,

permane in Saba la ricerca strenua di una ragione per vivere, un tormento assiduo che non si

accontenta di facili nichilismi. Se all’inizio del suo percorso di

scrittore e poeta tutto ciò si

 

 

 

traduce in una poesia che è quasi prosa autobiografica, fatta di un gergo provvisorio, quasi

collocato a caso e senza pretese di letterarietà (anzi, ricca di forti scarti innovativi rispetto alla

tradizione consolidata), successivamente la sua scrittura si affina e le

parole diventano “rare e

leggere” (Sapegno). Fino alla fine, in ogni modo, egli raffigura una realtà umile e scabra,

fatta di sentimenti elementari e primitivi. Così, la materia più banale (una capra, un paesaggio

dell’infanzia) diventa occasione di riflessione metafisica, quasi

psicanalitica (questa

attenzione costante alla coscienza - ad un certo punto della sua vita quasi culto e passione

della psicanalisi freudiana -è evidente soprattutto nelle prose, innanzitutto in Storia e

cronistoria del Canzoniere, scritto nel quale lo stesso poeta formula una definizione del

Canzoniere quale romanzo corale, in cui “tutto si tiene” e ogni singola

lirica è correlata alle

altre, affermazione condivisa da gran parte della critica attuale). Sul piano stilistico, il suo

ignorare certe tendenze estremistiche della lirica primonovecentesca, lo induce al rispetto


delle forme tradizionali, del verso (spesso, addirittura il sonetto) e della rima canonica,

nonché all’uso di un lessico volutamente semplice, povero e comune

(riduzione del discorso

al “grado zero” della scrittura poetica). LIRICHE FAMOSE: La capra,

Trieste, Ulisse, Città

vecchia, Il borgo, Teatro degli Artigianelli, Il vetro rotto.

 

 

 

 

CESARE PAVESE VITA

 

Nasce a Santo Stefano Belbo (Torino) nel 1908 da famiglia borghese; a Torino è allievo di

Augusto Monti;

1935: il regime fascista sopprime la sua rivista Cultura ed egli viene confinato a

Brancaleone Calabro dove comincia a scrivere il diario Il mestiere di vivere (edito nel

1952);

torna a Torino e collabora intensamente con la casa editrice Einaudi; contribuisce con

Vittorini alla diffusione della letteratura nordamericana in Italia con numerose traduzioni

(Moby Dick); si iscrive al Pci;

  1. muore suicida nel 1950 per le delusioni politiche, individuali e

amorose (amò l’attrice americana Constance Dowling). OPERE

PROSA 1.

Paesi tuoi (1941), romanzo; 2.

Feria d’agosto (1946), raccolta di racconti brevi;

3.

Il compagno (1947), romanzo a sfondo politico; 4.

Prima che il gallo canti (1949); 5.

La bella estate (1949); 6.

La casa in collina (1947-8), romanzo; un intellettuale durante la guerra, disgustato dalla

violenza imperante, si rifugia sulle colline natìe, ricercando i valori perduti;

7.

La luna e i falò (1950): romanzo; il protagonista, emigrato in cerca di fortuna in America,

decide di tornare in patria, le colline piemontesi della sua infanzia.

Qui, con l’aiuto di un

amico, rievoca tutte le tappe della sua vita precedente; ma questo ritorno alle origini non è


consolatorio e felice, perché anche il paese e la campagna nascondono dolore, violenza e

bestialità. Tra le altre cose, il protagonista viene a conoscere

dall’amico la vera storia di

Santa, una delle due sorelle della casa dove egli da fanciullo andava a lavorare: dopo

essere fuggita per diventare una spia fascista, ella è stata giustiziata dai partigiani; la

vicenda della ragazza chiude il romanzo in una atmosfera altamente simbolica.

MOTIVI: tema del rapporto città-campagna: la città è simbolo della maturità, del lavoro,

della capacità di assumersi le proprie responsabilità, mentre la campagna è la metafora degli

 

 

 

istinti primordiali e selvaggi, ai quali si ritorna periodicamente, in un oscillare continuo di

coscienza e subconscio (lo stesso Pavese definì questa ciclicità come

“ritmo evasione-

ritorno”); man mano che il pensiero dell’autore si precisa, anche

attraverso la lettura di testi

esistenzialistici e antropologici, la campagna assurge a mito simbolico, luogo di recupero

memoriale, cioè tentativo di attingere di nuovo a quella struttura

originaria dell’uomo, fatta di

certezze concrete e indiscutibili, che la civiltà odierna e industriale mette in discussione,

contemporaneamente deludendo l’uomo con le false promesse di progresso e di realizzazione

personale e politica. La narrativa dell’autore, partendo da premesse

neorealistiche, se ne

allontana (casi analoghi: Calvino, Vittorini) pervenendo ad una sorta di realismo simbolico

(la formula è dello stesso P.), grazie al quale la rappresentazione puntuale della realtà sociale

e regionale si trasfigura metaforicamente e assume valenze non contingenti, ma di portata

metafisica ed esistenzialistica.

Altro motivo chiave della poetica pavesiana, oltre al conflitto città –

campagna, è il mito,

vissuto spontaneamente e inconsapevolmente solo nel momento privilegiato

dell’infanzia

(influenza di Vico). La collina è il luogo mitico per eccellenza, sicché tutto ciò che accade in

essa, amore, odio, violenza, aggressività, si carica di valenze fortemente simboliche.

Dal punto di vista della rappresentazione letteraria nei romanzi, a Pavese non interessava

rappresentare la realtà esterna e oggettiva delle cose, ma i segni di una realtà interiore

nascosta. Dal punto di vista stilistico, il linguaggio dei romanzi è connotato da cadenze

dialettali, spezzature del periodo, anacoluti, uso della paratassi. POESIA

1.


Lavorare stanca (1936)

2.

Dialoghi con Leucò (prose liriche che si ricollegano per certi aspetti alle Operette morali

leopardiane, 1947)

3. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951)

La poesia di P. occupa una posizione del tutto originale rispetto alla coeva produzione

ermetica; la sua è una “poesia racconto” che rifiuta ogni ermeticità e

musicalità del verso e

della parola, per aprirsi verso l’esterno, verso la comunicazione con gli altri; l’impianto

narrativo di questa poesia presuppone l’uso di un verso lungo, superiore

per misura

all’endecasillabo che si richiama alla poesia narrativa ed epica delle

origini.

 

 

 

ELIO VITTORINI VITA

 

Nasce a Siracusa nel 1908 da famiglia modesta; fu un autodidatta perché frequentò solo le

elementari e tre anni della scuola tecnica;

nel 1930 si trasferì a Firenze e si lega al gruppo della rivista

“Solaria”;

negli anni giovanili le sue posizioni ideologiche si rivolgevano verso il

“fascismo di

sinistra”, in quanto vedeva nel fascismo una forza rivoluzionaria,

contraria al conservatorismo borghese;

la guerra di Spagna gli fece scoprire la vera natura del regime, determinando in lui una

crisi e un conseguente impegno in attività clandestine di opposizione alla dittatura;

nel 1939 si trasferì a Milano, si dedicò alle traduzioni e insieme a Pavese contribuì alla

diffusione della letteratura americana;

durante l’occupazione tedesca, entrò nel partito comunista e partecipò

alla Resistenza;

dopo la Liberazione diede vita alla rivista “Il Politecnico”, il cui

obiettivo era una cultura

che non consolasse le sofferenze, ma che le eliminasse in modo attivo. Vittorini, però,

rifiutava una totale subordinazione della cultura alla politica (cfr. polemica con il Pci e

con Togliatti, da cui deriva la fine della esperienza del “Politecnico”,

1947, e il distacco dal partito, 1951);


1951: fondò e diresse presso Einaudi la collana dei “Gettoni”, che

pubblicò le prime opere

di autori destinati ad essere famosi (“I ventitré giorni della città di Alba” e “La malora” di

Beppe Fenoglio);

nel 1959 fondò la rivista “Il Menabò”, dove si interessava dei problemi più attuali, delle

correnti culturali (strutturalismo e neoavanguardia), dei rapporti tra la letteratura e la

nuova realtà tecnologica e industriale;

morì nel 1966 a Milano. OPERE E PENSIERO

 

  1. “Americana” (1942), antologia che incorse nella censura fascista.

 

 

 

  1. “Piccola borghesia”,

racconti pubblicati nel 1931 nelle edizioni di “Solaria” , dove è proposto il mito dell’infanzia per recuperare l’istintiva vitalità in contrapposizione al

grigiore della vita borghese. 3.

“Il garofano rosso”, romanzo uscito tra 1933-34 su “Solaria” e bloccato

dalla censura,

dove è ripresa l’inquietitudine borghese e il bisogno di libertà.

Protagonista è un

adolescente, organizzatore di un’agitazione studentesca, che si illude di

trovare nella

violenza fascista un’alternativa al conformismo borghese ed aspira in

modo utopistico ad una società migliore. 4.

“Erica e i suoi fratelli”, racconti incompiuti, 1936: storia di una

ragazza lasciata dai

genitori che per vivere si prostituisce. 5.

“Conversazione in Sicilia”, capolavoro comparso su “Letteratura” tra

1938-39 e poi in

volume nel 1941, romanzo nato dalla crisi determinata dalla guerra di

Spagna. E’ la storia

di un viaggio iniziatico: il protagonista è Silvestro che ritorna in Sicilia a trovare la madre;

ripercorre la propria infanzia, accompagna la madre in giro e scopre miseria, sofferenza e

morte. MOTIVO: il “mondo offeso”, ribadito dall’incontro con arrotino,

sellaio,

venditore, che soffrono anch’essi dello stesso dolore per l’umanità.

Silvestro ha, poi, un

dialogo notturno con il fratello morto in Spagna. Alla fine, tutti i personaggi insieme al

protagonista ripropongono il motivo centrale del libro: lo sdegno per

l’offesa all’umanità

che è data dall’oppressione e dalla sofferenza, ma al contempo anche la

considerazione

che l’uomo è più uomo quando soffre (in modo simbolico è espresso anche

il rifiuto della


guerra). La narrazione, pur avendo al centro la miseria di una Sicilia arcaica, evita ogni

connotazione naturalistica e documentaria, assurgendo ad un clima mitico e simbolico. A

ciò contribuiscono sia la struttura del racconto, fondato sulla tecnica della ripetizione, che

conferisce al libro qualcosa di ieratico e rituale, sia il linguaggio, che è basato su

ripetizioni ed anafore, assumendo un tono oracolare, di rivelazione di verità essenziali ed

assolute. 6.

“Uomini e no”, romanzo del 1945, dedicato alla Resistenza, dove l’impegno

ideologico di

V. fa riferimento ad un clima storico più determinato, ma la storia diviene metastoria,

contrapposizione assoluta di bene e male. Si accentua il carattere oracolare del linguaggio

(ripetizioni ossessive, battute di dialogo brevi, secche, solenni).

 

 

 

7.

“Il Sempione strizza l’occhio al Frejus”, romanzo del 1947; MOTIVO:

povertà della

condizione operaia nelle periferie milanesi trascritta in un clima allegorizzante.

8.

“Le donne di Messina”, romanzo del 1949; MOTIVO: la purezza della vita di

una

comunità ideale, un villaggio dove vige una specie di comunismo primitivo. Nel 1964 V.

lo rimaneggia sottolineando l’inattuabilità storica dell’utopia.

9.

“Le città del mondo”, ultimo romanzo del 1967, incompiuto e pubblicato

postumo;

MOTIVO: ancora il viaggio, collocato però in uno spazio mitico, atemporale, in una

Sicilia contadina e primordiale. La civiltà contadina rappresentata è vista come un mondo

autentico, al di fuori della storia. V. stesso confessa di non finire il romanzo, perché, vista

la nuova realtà industriale e tecnologizzata che l’Italia stava vivendo,

non credeva più alla civiltà contadina.

10. “Le due tensioni”, libro di saggi, pubblicato postumo nel 1967;

MOTIVO: contrasto tra la

cultura scientifica, che è quella della modernità, e quella romantico- decadente.

Vittorini è un autore tipico del Neorealismo bellico, anche se nelle sue opere non si

riscontrano i moduli naturalistici della produzione neorealistica corrente, ma predominano

moduli lirici, fantastici, simbolici, surreali, toni “alti” e

sperimentalismi poco diffusi tra i Neorealisti.


SALVATORE QUASIMODO VITA

 

Nasce a Modica (Ragusa) nel 1901, dal padre Gaetano (capostazione delle ferrovie) e da

Clotilde Ragusa;

compiuti gli studi tecnici di geometra a Messina, si iscrive alla facoltà di ingegneria a

Roma e frequenta l'Accademia dei nobili ecclesiastici, dove studia latino e greco,

acquistando una buona conoscenza dei classici; ciò avrà una notevole influenza sulla sua

poesia;

divenuto funzionario del Genio civile, abbandona gli studi di ingegneria e viaggia in varie

regioni d’Italia per motivi di lavoro. A Firenze, dove lo invita il

cognato, Elio Vittorini,

che ha sposato la sorella di Quasimodo, Rosina, frequenta l’ambiente di “Solaria” e

collabora a riviste di letteratura e poesia;

nel 1941 viene nominato “per chiara fama” professore di letteratura

italiana al

Conservatorio “G. Verdi” di Milano;

nel 1959 ottiene il premio Nobel per la letteratura;

muore nel 1968 a Napoli, dove è trasportato in seguito ad un infarto, mentre era ad Amalfi

per presiedere la giuria di un premio letterario. OPERE E PENSIERO

 

Presso le edizioni della rivista “Solaria” escono le raccolte “Acque e terre” (1930), “Oboe

sommerso” (1932), “Erato ed Apollion” (1936), tutte confluite nel volume “Ed è subito

sera” (1942) e “Nuove Poesie” (1942). Sul piano stilistico in queste

raccolte si assiste ad

un divorzio rispetto alla lingua parlata; la parola si chiude ad ogni forma di volontà

comunicativa, assumendo un valore assoluto ed enfatizzato, tendente

all’astrazione.

Pertanto, troviamo frequenti analogie, confusione dei rapporti logici tra i vari elementi del

periodo, la sintassi nominale, i sostantivi non determinati dall’articolo

e usati al plurale

per aumentare l’indeterminatezza, presenza dell’aggettivazione tendente all’allitterazione

e alla sfumatura.

In “Oboe sommerso” e “Erato ed Apollion” si accosta ai Simbolisti

francesi, ad Ungaretti

e Montale, riecheggiando ed esasperando i moduli espressivi

dell’Ermetismo, nella ricerca


 

della parola scarna, essenziale, allusiva, e nell’uso di forme

ellittiche, di analogie e

sinestesie, a volte forzate, intellettualistiche ed indecifrabili.

 

Da tali forzature lo salva, però, la traduzione dei lirici greci, che Q. conduce con scarso

rigore filologico, ma in modo poeticamente efficace, rivivendoli con sensibilità tutta

moderna. Sotto l’influsso dei lirici greci e col recupero delle forme

metriche tradizionali

(specie dell’endecasillabo, sull’esempio di Ungaretti), la poesia di Q.

si fa più limpida, più

aperta e distesa, personale e suggestiva, soffusa di una dolce tristezza, come si vede

nell’ultima raccolta di poesie di questo periodo dal titolo assai

significativo, “Nuove

poesie”, che fa da ponte con le raccolte successive.

Qui – “Con il piede straniero sopra il cuore” (1946), “Giorno dopo giorno” (1947), “La

vita non è sogno” (1949), “Il falso e vero verde” (1956), “La terra

impareggiabile” (1958),

“Dare e avere” (1966) – la poesia di Q. assume carattere civile, umanitario e sociale nel

contenuto, ed oratorio nella forma. Il passaggio del poeta alla nuova

lirica “impegnata” è

determinato dalle tragiche vicende della seconda guerra mondiale. La follia omicida del

conflitto apre il cuore di Q. alla realtà storica e alla cronaca del proprio tempo,

strappandolo alla tematica onirica, solipsistica ed ermetica del primo periodo, ed

orientandolo verso tematiche storiche e sociali, al colloquio con gli altri, che soffrono la

sua stessa pena ed ai quali egli dona infine la speranza di un mondo migliore. Egli ora non

è più il nostalgico ricercatore di età e terre lontane, ma il giudice severo della sua epoca,

perciò denuncia e condanna con potenza realistica le atrocità della guerra e le ferocie degli

uomini moderni, ed esorta i figli a dimenticare l’opera cruenta dei

padri. Il verso si

allunga e diventa più lineare, i temi si ampliano e si arricchiscono di elementi tratti da una

realtà più concreta, il rapporto tra segno e significato si fa più immediato, aprendosi verso

forme di messaggio più facilmente accessibili e comunicative.

Critico teatrale per “Omnibus” e “Il Tempo”, raccolse nel 1961 in volume i suoi “Scritti

sul teatro”.

Memorabili le traduzioni, specie quelle dei “Lirici greci” per la limpida

e cristallina

purezza con cui è resa la semplicità frammentaria del testo classico (tradusse anche


Omero, Virgilio, Catullo, Antologia Palatina, Shakespeare e Neruda).

 

 

 

EUGENIO MONTALE VITA

 

Nacque a Genova nel 1896 da una famiglia di commercianti, frequentò le scuole tecniche

e poi studiò canto e musica, ma dovette abbandonare gli studi (1917), per andare al fronte

nella prima guerra mondiale;

al ritorno si dedicò agli studi letterari e alla scrittura delle prime poesie;

nel 1925 uscì la prima raccolta di liriche, “Ossi di seppia”; nello

stesso anno il poeta

manifestò pubblicamente la sua avversione al fascismo, firmando il manifesto degli

intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce;

nel 1927 andò a vivere a Firenze, dove ebbe la possibilità di allargare i suoi orizzonti

culturali e di frequentare intellettuali (Carlo Emilio Gadda ed Elio Vittorini), scrivendo

anche per apprezzate riviste letterarie. A Firenze diresse per dieci anni il Gabinetto di

lettura “Vieusseux”, centro di iniziative culturali che aveva già più di

un secolo di vita,

quando ne fu allontanato per aver rifiutato di prestare giuramento al regime fascista;

nel 1939 portò a termine e pubblicò le poesie de “Le occasioni”, titolo

col quale intendeva

rappresentare i varchi, gli spiragli che la vita offre agli uomini, vanamente ed

episodicamente, per la solitudine e le sconfitte;

durante la seconda guerra mondiale svolse un’intensa attività di

traduzione di poeti

(Eliot), drammaturghi (Shakespeare) e narratori (Melville), scrivendo anche altre poesie,

pubblicate in Svizzera, a Lugano (1943), nella raccolta di “Finisterre”;

al termine della seconda guerra mondiale aderì al Partito d’azione e

lavorò come

giornalista alla “Nazione” di Firenze;

nel 1948 avvenne il trasferimento a Milano, dove fu per molti anni redattore del

“Corriere della sera” e critico letterario e musicale. Negli anni ’50

pubblicò altre

raccolte di poesie, tra le quali le liriche di “La bufera e altro” (scritte negli anni ’40) e le

porse di “Farfalle di Dinard” (1956);


seguì poi un silenzio, una pausa di dieci anni, durante i quali avvenne,

tra l’altro, la tragica

morte della moglie (1963) alla quale furono dedicate le liriche di

“Xenia”, confluite poi

nel volume “Satura” (1971);

 

 

 

nel 1967, ormai famoso, Montale fu nominato senatore a vita per i suoi meriti letterari, per

i quali fu insignito anche del premio Nobel (1975); degli anni ’70 sono

le raccolte di

poesie “Diario”, “Quaderno di quattro anni” e “Altri versi”, confluiti poi nell’”Opera in

versi” (1980);

morì a Milano nel 1981. PENSIERO

La parola in Montale, rispetto a Ungaretti, non può aspirare a raggiungere direttamente

l’assoluto, ma deve prima confrontarsi con il reale, una barriera nella

quale resta

inevitabilmente impigliata e che tuttavia costituisce la sola speranza di accedere al mistero

insondato dell’esistenza. Diventa così impossibile l’uso dell’analogia

nel senso proposto dal

Simbolismo e portato alle estreme conseguenze da Ungaretti: quello in cui la parola si

propone per esprimere sensazioni indefinite ed indeterminate, accostando fra loro realtà

antitetiche e lontanissime. La parola di Montale, al contrario, non allude, ma indica con

precisione oggetti definiti e concreti, stabilendo tra questi una trama di relazioni complesse.

La poesia di M. può infatti essere connessa alla poetica delle cose, che ha i suoi maggiori

antecedenti in Pascoli e Gozzano, in quanto la scelta di M. cade sulle

“piccole cose”, sugli

elementi di una realtà povera e comune che l’uomo può in ogni momento

trovare intorno a sé,

specie nella natura. Ma M. non guarda a questa natura con gli occhi ingenui ed innocenti del

“fanciullino” (Pascoli), né compone la sua presenza in un’atmosfera “crepuscolare”,

assaporata sentimentalmente o ironicamente allontanata (Gozzano). Gli oggetti, le immagini e

le voci della natura diventano per M. degli emblemi, in cui è trascritto in modo oscuro il

destino dell’uomo nelle sue rare gioie e speranze, ma soprattutto nell’infelicità di una

condizione esistenziale. Nonostante gli sforzi e le sollecitazioni dell'uomo, la natura conserva

dentro di sé la sua oscura ragione di essere. Alla poesia non resta che rispecchiare questa

condizione di aridità. Pertanto, a differenza dell’analogia di Ungaretti,

si è parlato per M. di

correlativo oggettivo, in quanto anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro


definizione ed espressione in “oggetti” ben definiti e concreti.

L’espressione “correlativo

oggettivo” è stato usata da Eliot, con cui la ricerca montaliana presenta

convergenze

significative, a livello tematico e strutturale. Infatti, il Simbolismo di M. potrebbe essere visto

come una forma nuova e tutta moderna di allegoria, nel senso che gli elementi della natura

rappresentano condizioni spirituali e morali. Questa è a concezione

dell’allegorismo

 

 

 

medievale, che Dante aveva portato nella “Commedia” alla massima

realizzazione poetica.

Bisogna, però, tenere presente che, mentre l’allegoria dantesca trova una

compiuta ed

integrale spiegazione nella mente divina, quella di M., al contrario, si abbatte in se stessa,

senza ottenere risultati. Alla Provvidenza di un mondo che cerca sollievo ai dubbi e alle

inquietudini in una fede religiosa, M. sostituisce la su “divina indifferenza” che, collegandosi

al pensiero di Leopardi, resta passiva e insensibile alle gioie e ai dolori degli uomini.

La poesia di M. è anzitutto antidannunziana: egli infatti non può evitare il confronto con

l’autore che rappresenta, e per M. la poesia non deve rappresentare né

artificio né

eccezionalità, il poeta non è né superuomo né profeta. M. si sente parte di una generazione

che è sopravvissuta al disastro di due guerre mondiali e rifiuta la retorica e la contraffazione

di un poeta-vate che ha solo certezze e messaggi altisonanti da comunicare. Per lui la poesia

deve ritrovare il contatto con la realtà comune, deve abbassare il tono e il linguaggio.

 

STILE

M., rifiutate le soluzioni dell’avanguardia, resta fedele a una nozione

di stile che si identifica

con la lucidità della ragione e con la dignità dell’uomo. Non rifiuta l’uso del verso libero, ma

dà ampio spazio ai metri tradizionali (reintroduzione dell’endecasillabo

sciolto). Anche le

strofe tendono a disporsi secondo corrispondenze regolari (frequente

l’uso della quartina).

L’abolizione dell’istituto canonico della rima non impedisce al poeta di adottarla

frequentemente (insieme con le rimalmezzo e le assonanze), sia pure con più ampia libertà. Si

può dire, pertanto, che il rigore e l’equilibrio cercati da M. rappresentino l’esigenza di un

controllo dell’intelligenza e di eliminazione del caos, ma le infrazioni

dell’ordine (versi

ipermetri, rime imperfette) sono numerosissime. OPERE


1.

“Ossi di seppia” (1925), prima raccolta di liriche, nella quale erano già

presenti le

impronte che avrebbero caratterizzato la sua poesia: il tema del “male di vivere”,

dell’insensatezza della vita, dell’impossibilità umana di riscatto da un’esistenza soffocante

e disperata e lo stile di scrittura originalissimo, fondato sulla contaminazione di un lessico

altamente specifico con l’estrema rarefazione simbolica delle immagini.

Gli ossi di seppia

simboleggiano l’aridità dell’universo di M., attraverso la traccia di ciò

che resta dopo

 

 

 

l’azione di erosione e logoramento della natura. Essi alludono anche al carattere

volutamente povero dell’ispirazione, che appare per lo più incentrata su

brevi momenti

dell’esistenza, circoscritta nelle linee di un paesaggio che resta quello

ligure compreso tra

mare e collina. E’ un paesaggio arido e brullo, il poeta ne spia le forme e si sofferma ad

ascoltarne le voci, con atteggiamento perplesso. Ma le cose non svelano il segreto della

loro presenza, rinviano soltanto a un’incessante vicenda di vita e di

morte, gioia e dolore,

che costantemente ritorna e lascia come unico conforto l’immagine fragile

di una speranza di felicità.

 

2.

“Le occasioni” (1939), seconda raccolta, allude all’accadere di eventi di

aprticolare

rilievo, che potrebbero mutare il corso della vita, ma il miracolo non può accadere per il

poeta, al quale non resta che affidare le sue speranze ad enigmatiche figure femminili. Se

la poesia di M. inizialmente era incentrata sul rapporto poeta-natura, ora abbraccia

orizzonti più ampi, inglobando presenze e incontri. Ma l’attesa risulta ancora più

deludente poiché anche gli elementari simboli di vita gioiosa vedono come offuscare la

loro luce. 3.

“La bufera e altro” (1956), terza raccolta, il titolo allude allo

sconvolgimento della guerra,

che sembra confermare il pessimismo del poeta nei confronti della storia.

Privo di ogni

fiducia in essa, M. non crede che la storia possa portare speranze di salvezza.

L’approfondirsi dell’ispirazione, nelle due ultime raccolte, scava nella

direzione del “male

di vivere”; di conseguenza la costruzione del periodo si complica in una

sintassi

caratterizzata da nessi sempre più ardui e difficoltosi. La simbologia degli oggetti e delle


presenze si fa oscura e indecifrabile. L’oggetto può trasformarsi in un “talismano” (vedi

Dora Markus – “Le occasioni”) cui è affidato il compito di mediare il

rapporto tra il

mondo sensibile e l’inconoscibile. L’impostazione colloquiale di “Ossi di seppia” adesso

si fa sempre più astratta. Al “tu” di un generico interlocutore si sostituisce la presenza

della figura femminile che diventa il destinatario privilegiato

all’interno del testo (Anna

degli Umberti è Annetta-Arletta, Irma Brandeis è Clizia, Drusilla Tanzi è Mosca). Ma

anche qui il riferimento biografico è privo di ogni connotazione

“realistica” ed assume

una funzione emblematica, di tramite tra la realtà fenomenica e quella metafisica. In tal

senso vi è una relazione tra la donna in M. e Beatrice in Dante. Proprio il rapporto con

 

 

Dante è ancora risaltato dalla presenza di dantismi e dalle non poche convergenze

tematiche.

 

4.

Se gli “Xenia”, in cui il poeta si rivolge alla moglie morta con l’appellativo di Mosca,

vedono ancora nella figura della donna assente il tramite di un rapporto

con l’aldilà, le

poesie vere e proprie di “Satura” (1971) rappresentano il “rovescio”

delle precedenti

raccolte, in quanto viene meno al tensione metafisica. I contenuti sono legati al piano della

storia, nei confronti della quale M. conferma il suo pessimismo.

L’obiettivo polemico è

pertanto costituito dal presente, dalla società dei consumi che ha perso i suoi valori

fondamentali: dignità e credibilità. Il termine latino satura ha così un doppio significato:

quello corrente di satira e quello originale di miscellanea in cui, attraverso la molteplicità

dei temi e dei metri, trovano spazio argomenti suggeriti dalla realtà, cronaca e costume.

Nei confronti di ciò M. ha un atteggiamento freddo e distaccato, che si risolve in giudizi di

condanna. La satira si risolve n una sottile ironia, che si fa a volte impietosa e sprezzante,

raggiungendo punte di feroce sarcasmo. Pertanto, lo stile è aforistico, epigrammatico,

irridente e sentenzioso. 5.

“Diario del ’71 e del ‘72” (1973) e “Quaderno di quattro anni” (1977)

conferiscono ai testi

un carattere diaristico, riducendo la poesia a cronaca quotidiana.

 

Fonte: http://www.daimon.org/lib/ebooks/Breve-Storia-Della-Letteratura-Italiana.pdf

Sito web da visitare: http://www.daimon.org

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