Riassunto Teoria del film – Un’introduzione

Riassunto Teoria del film – Un’introduzione

 

 

 

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Riassunto Teoria del film – Un’introduzione

Teoria del film – Un’introduzione
T. Elsaesser – M. Hagener
Einaudi, 2009

 

PREFAZIONE

     La teoria del film è quasi contemporanea al film stesso: nasce negli anni ’20, si sviluppa nel Dopoguerra (anni’ 70) specie in Francia e mondo anglosassone. Si può distinguere fra teorie:
1) formalistiche, considerano il f. come costruzione e rappresentazione, sottolineano la sua artificiosità;
2) realistiche, il f. trasmette una realtà non mediatica, il film è trasparente.

     Altra distinzione importante è geografica:
1) francofona (Epstein, Bazin, Deleuze);
2) anglofona (Munsterberg, Carrol);

     Tali teorie si sono sviluppate attorno a riviste («Cahiers du cinéma» e «Screen») o enti come Cinémathèque française e il Museum of Modern Art.

     I neoformalisti Bordwell, Thompson e Carrol, studiosi dell’Università di Madison, contestano il pensiero europeo («continental theory») creato dagli SLAB («pietrone», acronimo di de Saussure, Lacan, Althusser, Barthes).

     Per la nostra teoria – nella quale entriamo con una domanda-pretesto: come si comporta il film rispetto al corpo dello spettatore? – abbiamo individuato sette concetti. Il primo capitolo tratta dell’intelaiatura dell’immagine filmica come elemento fondamentale. Il secondo cerca di decrivere il transito dal mondo dello spettatore al mondo del film. Il terzo attinge al potenziale di riflessione del cinema, tema approfondito nel quarto capitolo. Nel quinto capitolo collochiamo una nuova scuola teorica.  Nel sesto capitolo consideremo ancora il corppo come elemento centrale della percezione. Il settimo capitolo si può riassumere col motto di Deleuze «il cervello è lo schermo», in base al quale il film esiste solo nell’immaginazione di un personaggio, e viene creato solo per lo spettatore.


1. FINESTRA E CORNICE

     Un uomo siede su una poltrano e osserva attraverso una cornice i drammi umani: è sia il canovaccio della Finestra sul cortile (A. Hitchcock, 1954), sia una descrizione dello spettatore al cinema. La pellicola è paradigmatica della teoria filmica: da un lato l’osservatore assume una prospettiva privilegiata, dall’altro mantiene una distanza. Il film è «esterno» o «interno»? Finché Jefferies mantiene la sua prospettiva a distanza, gli eventi non nuociono. Quando la fidanzata varca la soglia del mondo osservato, il mondo fuori diventa pericoloso anche dentro. Già il titolo evoca le diverse finestre del cinema: la macchina da presa, del proiettore, la finestra della sala di proiezione, l’occhio dello spettatore, il film come finestra sul mondo.

    
Alcuni concetti:
1) il cinema offre un accesso, incentrato sull’occhio (una finestra), ad un accadimemento fittizio;
2) la reale superficie bidimensionale dello schermo si trasforma nell’atto dell’osservazione in uno spazio tridimensionale;
3 In terzo luogo, al cinema, la distanza dagli avvenimenti permette allo spettatore di osservare in sicurezza, non è costretto a intervenire.

     Nella concezione cinema = finestra/cornice, il cinema è oculare-speculare, determinato dall’accesso ottico, transitivo e disincarnato. Si guarda attraverso una finestra ma all’interno di una cornice. La finestra implica perdere di vista la cornice, ma la cornice rimanda sia al contenuto della superficie visiva artefatta, sia a se stessa. La finestra è trasparenza, la cornice è composizione.

     Collocando nel tempo questi concetti cronologicamente, le differenze divengono ancor più evidenti: si fa corrispondere la “cornice” con le teorie costruttiviste/formaliste e la finestra con quelle realistiche. Questa distinzione è stata sempre considerata differenza fondamentale nella teoria filmica.

     Il primo gruppo pone al centro la costruzione di un mondo a parte, il secondo riconosce come essenza del film la sua possibilità di registrare la realtà. Comune a entrambi è la valorizzazione culturale del film.

     Con la distinzione tra forme filmite chiuse e aperte, lo sguardo su finestra/cornice si acuisce. Con forma chiusa intendiamo queli film che non contengono altri elemeni se non necessari: quelli di Méliès, Lang o Hitchcock, nei quali tutto trova un posto secondo un piano invisibile. Il mondo del film si apre, non rimanda mai ad un «oltre». La forma aperta offre lo spaccato di una realtà indipendente dalla macchina da presa (cfr. i film dei Lumière), Renoir o Rossellini. Essi producono l’impressione che le cose proseguano anche quando la macchina da presa smette di seguirle. La forma chiusa tende verso l’interno, quella aperta è centrifuga.

     Il film classico crea un costrutto che appaia realistico, simula la trasparenza; lo spettatore è invisibile, in quanto invisibile per la storia che sta avendo luogo, ed è l’unico ad avere una visione d’insieme. Si chiarisce il ruolo dell’osservatore: da un lato non può intervenire, dall’altro, se non vuole rimanere completamente escluso, dipende da un suo “sostituto” interno (protagonista o altri personaggi).

      È possibile superare questa dicotomia finestra-cornice? Presentiamo tre teorici:
1) Rudolf Arnheim il formalista;

2) Sergej Ejzenstejn il costruttivista;

3) André Bazin il realista.

     Il primo è critico cinematografico, laureato in psicologia, la sua teoria partiva dalle differenze tra cinema e realtà visiva. La distanza tra impressione della realtà e percezione quotidiana è caratteristica essenziale del film. Per lui, il film, anziché imitare la realtà, ne produce una peculiare: «è allo stesso tempo una cartolina illustrate piatta e una scena d’azione viva». Se il film producesse solo un’impressione meccanica, non sarebbe arte, poiché l’arte necessita della partecipazione umana: la dignità artistia va cercata dove l’uomo interviene in maniera creativa;

     Ejzenstejn è uno dei più importanti registi (La corrazzata Potemkin, 1925, Ottobre, 1927, Ivan il Terribile, 1943-46), ma anche teorico. Nello spirito avanguardista rivoluzionario (con Vertov e Pudovkin) non distingue tra il lavoro pratico del film e quello teorico del testo. Era un genio universale, eclettico, che si alimentava a fonti disparate, il suo pensiero è un labirinto pluridimensional, ma la sua riflessione filmica è legata soprattutto al montaggio. Nella sua visione, la cornice come delimitazione dell’immagine e l’oggetto rappresentato sono legati da una tensione produttiva. Si ribella al metodo occidentale di crere un’azione per la macchina da presa ed esalta quello giapponese, dove la macchina conquista il mondo. Descrive questa selezione dell’inquadratura «ritagliare un pezzo di realtà con i mezzi propri dell’obiettivo». Per lui il piano-sequenza è una gabbia poiché rapporta solo al corpo umano ed ai suoi organi sensoriali. Il compito del regista è scegliere e organizzare unità (inquadrature) nel montaggio.

 

     L’inquadratura è una cellula che ha una funzione specifica, ed il montaggio realizza una collisione tra due pezzi adiacenti. A metà anni ’20 Ejzenstejn, partendo dal lavoro teatrale di Mejerchol’d, teorizza un «montaggio delle attrazioni» che agisca sullo spettatore combinando brevi frammenti attrattivi. Egli partiva dalla premessa che determinati stimoli causassero nello spettatore una determinata reazione, analizzabile con esattezza scientifica. Il film diviene un’organizzazione di elementi che ha lo scopo di modellare lo spettatore nel senso voluto. Non si tratta di riproduzione mimetica della realtà, bensì del modellaggio costruttivistico di un’esperienza dello spettatore. Il film «deve essere una selezione tendenziosa di eventi, liberi da compiti narrativi e tali da esercitare un modellaggio psicologico».

 

     Sulla scorta del suo lavoro (Il vecchio e il nuovo / La linea generale, 1926-29) delineò cinque metodi di montaggio. Il montaggio metrico è puramente temporale, si basa su lunghezze assolute. Il montaggio ritmico pone in rapporti le lunghezze delle inquadrature col loro contenuto. Il montaggio tonale e quello armonico si costruiscono sulla base di movimenti, forme e intensità interni all’inquadratura. Queste quattro forme funzionano come gli induttori nello schema stimolo-reazione di Pavlov. Soltanto dalla combinazione di questi tipi di montaggio risulta un film riuscito. Gli spettatori vengono stimolati a completare i contenuti di pensiero attraverso conflitti intenzionalmente generati. Il montaggio intellettuale è il passo verso una forma complessa di pensiero: Ejzenstejn desiderava rendere accessivili anche al cinema le strutture complesse del linguaggio (metafore, comparazioni, analogie, ecc). Il montaggio delle attrazioni ambisce alla partecipazione emotiva del pubblico, quell ointellettuale mira alla prestazione intellettuale degli spettatori, che non devono solo subire le immagini.

 

     Bazin è agli antipodi rispetto a Ejzenstejn, anche dal punto di vista politico. Il suo impegno a favore del neorealismo italiano si fonda su motivazioni estetiche ma anche morali e politiche; riconosceva ai lavori di Rossellini, Visconti e De Sica il rifiuto di uno stile filmico che si era lasciato asservire ai regimi. In questo stava la sfida morale del movimento cinematografico noato dalle macerie dell’Italia fascista: era il tentativo di riappropriarsi di un mezzo colpevole.

 

     Per Bazin, l’effetto o il taglio erano troppo segnati dalla colpa. Il suo punto di vista era quello di un umonesimo rivoluzionario: «In un certo senso l’Italia non ha che tre anni […] Il cinema italiano è il solo a salvare, nel seno dell’epoca che dipinge, un umanesimo rivoluzionario». Tuttavia non credeva che il film fosse la prosecuzione di un romanzo realistico, ma vi contrappose un realismo fenomenico: il film è affine alla nostra modalità percettiva e quindi è mezzo ideale per esprimere esperienze quotidiane. Il realismo è un atteggiamento che l’autore deve assumere. Il neorealismo si oppone ai sistemi drammatici tradizionali per affermare la globalità del reale, e s’oppone a naturalismo e verismo. Rifiuta l’analisi dei personaggi e delle azioni, considera la realtà come un blocco indissociabile.

 

     L’immagine del «blocco indissociabile» torna più volte, perché i «fatti» di cui il film si appropria possiedono un’unità ontologica che il film deve rispettare. L’unità della forma non è più l’inquadratura ma il «fatto», elemento preesistente al film. Il film non risulta dalla coesione di due elementi, ma dalla logica ontologica delle cose e dall’atteggiamento del regista nei confronti di questo materiale. Il film convenzionale crea cose e fatti, quello neorealistico vi si sottomette, aprendo una finestra su una situazione specifica (come in Ladri di biciclette di De Sica, 1948, o Roma, città aperta di Rossellini, 1945).

 

     Bazin sostiene il cinema come finestra, che non manipoli la realtà preesistente ma ne offra una visione non falsata. L’ha descritto parlando di Ladri di biciclette: «Niente più attori, storia, messa in scena, solo l’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema». Quando il film giunge a far scomparire se stesso, il neorealismo ha raggiunto lo scopo. Non esista film totalmente accordato a questo conetto, Bazin si rifiuta infatti di parlare di movimento neorealistico e preferisce considerarlo un attibuto.

 

     Bazin disponeva di una rete di collaboratori attorno alla rivista «Cahiers du cinéma» (era cofondatore), e fu il padrino della nouvelle vague francese: era una sorta di padre adottivo di François Truffaut e offrì a Rohmer e Chabrol la possibilità di pubblicare, avvicinandoli al cinema. Godard fa esordire Il disprezzo (1963) con una citazione di Bazin. Morì nel 1958, lasciando soprattutto saggi e critiche.

 

     I tre teorici consideravano il cinema come una finestra sul mondo o come una cornice, concetti che ritroviamo in David Bordwell. Egli non parte né dall’indivisibilità di Bazin né dal montaggio di Ejzenstejn, bensì da un modo di mettere in scena la profondità (staging in depth). La cornice dell’immagine non ha funzione stabilita, ma serve a raccontare una storia comprensibile. La profondità spaziale permette che diversi livelli vi agiscano insieme. Per lui i registi hollywoodiani hanno una visione pragmatica che non si schiera col costruttivismo o col realismo, ma si mette a servizio della storia da raccontare. Non gli interessa l’off-screen space, lo spazio al di là dell’inquadratura, né l’avanguardia europea.

 

     La metafora della finestra offre una codifica diversa: la vetrina di un centro commerciale, collegato al consumismo, alla promozione e alla vendita di meri, attraverso pubblicità, star system, punti di contatto con altri settori dell’intrattenimento.

 

     Negli anni ’80 la metafora cinema-finestra diviene obsoleta, così come le considerazioni di Bazin, che tuttavia recentemente hanno conosciuto una ripresa grazie a Gilles Deleuze. Grazie anche a computer e monitor, la finestra è metafora dominante. Nella sua storia della finestra, Anne Friedberg ha tracciato una linea che da Alberti e Brunelleschi giunge sino a Jobs e Gates. Eppure sotto questa etichetta si comprendono varie tecniche per aprire una superficie bidimensionale reale su uno spazio tridimensionale immaginario, tecniche così diverse da far dubitare che sia possibile comprendere pratiche tanto eterogenee, come la prospettiva rinascimentale e il computer.

 

     Infine, quando pensiamo alla finestra virtuale, il telo materiale funge da finestra metaforica su un immaginario spazio.

 

 

2. PORTA E TELO

     In Sentieri selvaggi (John Ford, 1956) è contrassegnato dal motivo della soglia, entra ed esci. Un continuo cambio di luoghi. Sul finale, la scena iniziale (il rettangolo-porta si apre con la Monument Valley, tipico paesaggio americano, in mezzo al quale appare John Wayne) si ripete, e la porta si chiude su Edwards/Wayne che lascia lo spettatore nell’oscurità della sala.

     Il cinema riflette se stesso, tematizzando un tema comune a tutti i film: il passaggio da un mondo a un altro. Il film è sospeso tra mito e realtà. Il genere western carica i contrassegni spaziali del passaggio di significati rituali: la «frontiera», il confine tra luoghi colonizzati e selvaggi Gli USA hanno creato il mito dell’autorealizzazione che continuano a comunicare, e che si basa su una coppia fondamentale: cultura e natura. Il western mette in scena il confine e il suo superamento come fondanti della cultura popolare nordamericana.

     Il capitolo precedente abbiamo visto come il film tenga a distanza lo spettatore, il presente capitolo tratta dell’ingresso del pubblico in questo mondo. Inoltre tratteremo della teoria del racconto, secondo due modelli: neoformalista e post-strutturalista.

 

     Definiamo prima la soglia tra film e spettatore: dove inizia e finisce il film? Lo spettatore è tra due poli: la proiezione – grazie alla quale entra nel film – e l’identificazione, che gli permette di assorbire quel mondo. Edgar Morin (Il cinema o l’uomo immaginario) nota come i personaggi finti che si muovono sul telo siano sosia dello spettatore in sala. Si tratta di un “essere-nel-mezzo” dove il film diventa luogo di passaggio, «spazio liminare».

 

     Il telo è il punto di frattura. Esaminiamo i concetti di telo e schermo: il significato originale di screen (inglese) e Schirm (tedesco) rimanda ad una protezione, ma anche un dispositivo per nascondere qualcuno. Solo dal 1864 si usa screen per indicare una superficie sulla quale si può rappresentare un’immagine. È ancora un rapporto di tensione: gli schermi nascondono e proteggono, ma possono anche dischiudere e riflettere, sono membrane attraverso le quali qualcosa passa e qualcosa resta. Lo schermo del cinema è fisso e delimitato, rende visibile anziché schermare.

 

     Quando guardiamo un film, oltrepassiamo un confine e ci troviamo in un altro mondo. Oltre a delimitazioni fisiche, vi sono soglie semantiche e simboliche. Il film comincia con una transizione dal mondo esterno a quello filmico, la cosiddetta credit sequence. Oggi si tratta spesso di un mini-film (almeno dalle opere di Alfred Hitchcock e dalla saga di James Bond), che il narratologo Gérard Genette ha parlato di «paratesti» che formano una zona di transizione rivolgendosi ad un pubblico, costruendo orizzonti d’attesa.

 

     Come viene guidato lo spettatore nel film? La narratologia studia i meccanismi del racconto filmico per classificarli. All’incipit spetta un ruolo-chiave, poiché deve avvincere il pubblico, fornire informazioni decisiva e creare un’atmosfera che perduri. I film classici spesso propongono nei primi minuti un enigma che andrà sviluppato. Altre forme di cinema, come quello d’arte europeo, disattendono questo accordo: all’inizio de L’avventura (Antonioni, 1960) il personaggio di Anna scompare, ma alla fine il destino della donna è dimenticato.

 

     La narratologia si è imposta come interdisciplina letteraria e cinematografica, dalla fine degli anni ’70. Si possono distinguere una scuola cognitivo-neo-formalista e una post-strutturalistica. La prima si occupa dell’elaborazione razionale delle informazione, mentre la seconda focalizza l’instabilità del significato. La prima crede in una relazione tra spettatore e film, la seconda si interessa ai processi inconsci. Per la prima, lo spettatore crea il film vero e proprio con un processo di costruzione che parte dal materiale grezzo (plot) e arriva alla story. Il plot è la «catena causale di tutti gli eventi che ci è dato vedere all’interno del film», si compone di eclissi spaziali o temporale (flashback o flashforward). Il plot di Pulp Fiction (Tarantino, 1994) costruisce il materiale narrativo in senso non cronologico e nella story lo spettatore riordina gli eventi in modo che le azioni si susseguano secondo una logica.

 

     Secondo David Bordwell (neoformalista), l’inizio di un film crea aspettative con le quali poi deve misurarsi. Quali attese innesca Sentieri selvaggi? Allude al conflitto tra i fratelli Aaron e Ethan, ancora innamorato della moglie di Aaron. Inoltre si presenta l’odio di Ethan nei confronti degli Indiani. Si presenta un double plot line: da una parte il destino di Debbie, rapita dagli indiani, dall’altra la storia d’amore fra Martin e Laurie. Entrambe le linee convergono nella fobia anti-indiana di Ethan. La doppia linea d’azione, inizialmente separata, è tipica dei film classici, con un finale le scioglie entrambe.

 

    Edwuard Branigan (cognitivo-formalista) presenta un modello di sette livelli di narrazione, che cambiano a seconda della prospettiva, da quella del narratore onniscente a quella del personaggio del film.

 

    Il post-strutturalismo si riallaccia alla tesi secondo cui la lingua riveste ruolo costitutivo di ogni processo culturale, e sostiene che il significato è sempre instabile, non suscettibile di decostruzione. Cruciale è la sfiducia contro cogni teoria generale, come mostrano gli scritti di Michel Foucault, Julia Kristeva, Jacques Derrida e Roland Barthes.

 

     L’inizio del film secondo il post-strutturalismo è un metatesto che finge di entrare in medias res, in realtà l’esposizione non è chiara ma nasconde un intreccio di differenze che si svilupperà nel film. Sentieri selvaggi allora introduce non soltanto il conflitto cultura/natura, pioniere/sedentario ma mette in scena anche il genere del western, il sottotesto del razzismo colonialista.

 

     La codificazione degli incipit è stata codificata da Kuntzel in alcune analisi di film. Nella Pericolosa partita (Schoeadsack e Pichel, 1932) sottolina il rilievo dell’aprirsi e del chiudersi delle porte come interpunzione. L’inizio contiene già emblematicamente in sé tutto il film, per Kuntzel lo spettatore viene servito subito di tutto il necessario, seppur in forma cifrata.

 

     Accanto a queste due scuole, altri dibattono sulla narrazione filmica. La teorica classica del dramma (a partire dalla Poetica di Aristotele) è spesso applicata al film. Prende le mosse da una struttura in tre atti, al cui inizio si rappresentano i personaggi e la situazione di partenza: il primo funge da esposizione (set-up), il secondo tratta del conflitto (confrontation) e il terzo dello scioglimento (resolution), precedeuto da un punto di svolta, il plot point. Kristin Thompson ha raffinato questa impostazione dividendo in due l’atto centrale: set-up, complicating action, development, climax, più un breve epilogo.

 

     La porta è motivo centrale del film, essa nasconde e svela. Dai primi film «dal buco della serratura», a Lubitsch, a Psycho (Hitchcock, 1960), si sfrutta l’idea del vedere senza esser visto, che spiega la posizione dello spettatore nel cinema classico che si ritrova anche in film contemporanei come Velluto blu (Lynch, 1986). In Sliding doors (Howitt, 1998) la porta scorrevole determina un destino, creando due universi alternativi.

 

     Riassumiamo l’idea di un cinema come porta di entrata: lo septtatore entra in un altro mondo, percependo il proprio come estraneo. Ma la fissità dei singoli elementi del cinema relativizza questo movimento. La finestra mette in rilievo la distanza della percezione filmica, mentre la funzione di filtro del telo e della porta sposa l’attenzione sulla parziale permeabilità dell’immagine.

 

 

3. SPECCHIO E VOLTO

     Mostrandoci il proiettore, Persona (1965) di Bergman ci avverte che stiamo per vedere un film. Il primo piano femminile allude alla funzione del cinema che analizzeremo in questo capitolo: specchiarsi, per trovarsi davanti al proprio volto. L’infermiera Alba si prende cura di Elisabeth Vogler, fragile attrice. L’intimità delle due donne porta a un reciproco avvicinamento, fino a che i personaggi si confondono.

     Dagli anni ’50 ai ’70, sotto il segno di specchio e volto, il cinema ha attinto al proprio potenziale riflessivo.  Se per le teorie precedenti l’accesso alla finzione era semplice, qui la relazione è problemacia: poggia su un «riconoscere» che in realtà è un «misconoscere». Lo sguardo nello specchio si confronta col Sé, ma è anche uno sguardo all’esterno. L’attrazione del cinema per storie di sosia e identità scambiate ha la funzione di interrogarsi sull’identificazione.

     Esponiamo contributi che sottolineano il ruolo centrale del primo piano e del volto umano: il primo piano godeva di ottima fama negli anni ’20. Dudley Andrew descrive il momento: «Bazin e i realisti ritenevano lo schermo una «finestra» sul mondo, per Ejzenstejn, Arnheim e i formalisti lo schermo era il contrario di una cornice. Jean Mitry afferma che conservare entrambe le metafore è vantaggioso: il cinema è insieme finestra e cornice. La teoria moderna mise in campo una nuova metafora: lo schermo veniva a connotarsi come specchio».

     Béla Balàzs, che dal 1919 lavorò a Vienna come scrittore e critico, nel lavoro teorico L’uomo invisibile (1924) si rivolge ai giudici dell’arte, ai pratici e agli spettatori per confutare le obiezioni al suo gesto di nobilitare il film come arte. L’aspetto principale della sua teoria filmica è rendere visibile l’uomo e il suo mondo. Per lui, fino alla stampa la cultura umana era essenzialmente visiva, e la scrittura è un’estraniarsi da un’espressione immediata e la visualità della cinematografia ricollegava la modernità all’arte. Per Balàzs il linguaggio e l’atto locutorio provengono dall’espressione del volto. Per l’ungherese, il primo piano costituisce il nucleo della teoria filmica.

     Questa teoria ha subito un nuovo impulso, specie con Gilles Deleuze. Il cinema classico conosce tre articolazioni: l’immagine-percezione, l’immagine-azione e l’immagine-affezione. Le prime due si riagganciano alla drammaturgia dell’azione, la terza è diversa: «l’immagine-affezione è il primo piano, e il primo piano è il volto». Il primo piano non è un ingrandimento, ma un cambiamento assoluto. L’immagine-affezione è unità riflettente e riflessa, quindi superficie dello specchio che riflette l’immagine, e l’immagine stessa.

     Nella teoria si distinguono tre paradigmi dello specchio; nella fase classica il cinema era specchio dell’inconscio. Nel secondo paradigma lo specchio acqusisce la funzione del raddoppiamento riflessivo, che ha un significato di allontanamento e denuncia quando il cinema sia consapevole della sua storia come medium delle belle apparenze. Infine il cinema associato allo specchio mimetico dell’altro.

     Il cinema come specchio dell’inconscio è stato centrale da metà anni ’60 agli ’80. Esso si articola, da un lato, con l’impiego delle teorie freudiane dell’inconscio, dall’altro l’adozione dell’idea lacaniana dello stadio dello specchio (fase della prima infanzia decisiva per la formazione della soggettività).

     Christian Metz (1931-93), docente parigino, è personalità dominante nella filmologia degli anni Settanta. Le fasi della sua riflessione sono due: nella prima si chiede quali sono le analogie tra linguaggio umano e cinema. Nella seconda, psicoanalitico-poststrutturalista, il cui caposaldo è Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario (1975), elenca le similitudini tra il cinema e lo specchio. Il film per Metz non è racconto ma è supporto immaginario del soggetto impersonato, macchina mentale che permette allo spettatore di percepirsi onnipresente. Il riconoscimento dello spettatore di un film è sempre un travisare, un malinteso, come nello specchio riconoscessi me stesso in un altro.

     Decisiva per questo concetto è la teoria di Jacques Lacan sullo «stadio dello specchio», che contrassegna la fase evolutiva del bambino (6/18 mesi), quando ancora non controlla la motilità ma è capace di riconoscersi allo specchio: si tratta dell’ingresso del bambino nelle strutture sociali e si identifica con se stesso come oggetto, si origina il suo Io ideale che forma la base per successive identificazioni.

     Questi sono concetti che ben descrivono la fascinazione del cinema. Come per Freud, anche per Lacan questi processi infantili non si risolvono mai completamente, e nel cinema l’identificazione poggia su una relazione simile a quella del riconoscimento di sé infantile.

     Metz ne desume due identificazioni, una primaria (divenuta celebre come «effetto-soggetto» che è la sola a rendere possibile una coerenza narratica, dove lo spettatore si identifica con se stesso) ed una secondaria (quella di cui parliamo quando ci confrontiamo con gli altri, ossia l’immedesimazione empatica in un personaggio.

     Jean-Louis Baudry si rivolse invece alle condizioni esterne della proiezione. Il realismo produce un «effetto di realtà» che spega il concetto di «effetto-soggetto»: per lui la situazione cinematografica mostra parallelismi con la costituzione del soggetto umano. Riallacciandosi a Metz, Freud, Lacan e latone, sviluppa i due concetti del «dispositivo» e dell’«apparato»: «Il dispositivo cinematografico determina uno stato di regressione». Ciò si spiega con la metafora platonica della caverna: alle spalle di prigionieri in una caverna, brucia un fuoco. Su un muricciolo camminano dei birattinai, che trasporano oggetti, che proiettano la loro ombra sulle pareti. I prigionierei scorgono solo le ombre. Questa situazine è la stessa dello spettatore al cinema: «È la loro paralisi motoria a favorire l’errore e a portarli a scambiare per reale il feticcio, dal quale non possono distogliere lo sguardo». Le circostanze della proiezione portano lo spettatore in trance, nel quale non distingue il film dalla propria condizione, fino a che non anela ad un ritorno ad un relativo narcisismo.

     Questa teoria non si interessa dei contenuti e delle tecniche del film, perciò delinea una visione negativa del cinema, perché è pura illusione. Eppure nel cinema delle origini gli spettatori non erano incatenati alla poltrona, né l’azione filmica era tale da presupporre l’effetto-soggetto di Baudry e Metz.

     È interessante il rapporto del cinema delle origini col corpo umano, la sua frammentazione e la sua autorappresentazione: in The big swallow (Williamson, 1901) un uomo, che non vuole essere filmato, si avvicina alla camera fino ad inghiottirla. È una scena simile all’apertura de Il disprezzo, dove assistiamo alla lavorazione del film che stiamo guardando. Siamo giunti quindi al secondo punto di vista del paradigma dello specchio: l’autoriflessione modernista.

     Le nuove ondate dei ’60 e dei 70’ hanno posto al centro la funzione del raddoppiamento riflessivo, non limitandosi a raccontare una storia ma raccontando anche di sé, in una narrazione ipertestuale (film nel film). Tale estrema riflessività rappresenta il vertice ma anche il testamento del cinema europeo, che da quel momento ha acquisito un rapporto più cinico col proprio artificio.

     Il neorealismo italiano credeva ancora nell’accesso aproblematico alla realtà, ma i tempi morti che trascorrevano in assenza di azione nei primi film di Antonioni (Cronaca di un amore, 1952) o con protagonisti erranti senza scopo (Viaggio in Italia di Rossellini, 1954) dimostravano come una rappresentazione della realtà non fosse possibile senza che la fabula si decomponesse. Inoltre nei ’60 la teoria di Brecht, mirata a impiedire un comportamento passivo dello spettatore, prendeva sempre più piede. Si negano i modelli con cui finora è stato considerato il rapporto film-spettatore: il passo verso l’interno (porta) e lo sguardo all’esterno (finestra) divengono sguardo verso il Sé. I protagonisti di 4 film che considereremo appartengono tutti al mondo dell’arte: nel Disprezzo (Jean-Luc Godard), Piccoli è lo sceneggiatura Paul Paval; in Persona (Bergman) Liv Ullmann interpreta l’attrice Elisabeth Vogler; in Blow-Up (Antonioni, 1966) David Hennings è un fotografo, e in 8 e ½ (Fellini, 1963) Mastroianni è il regista Guido Anselmi. Tutti attraversano una crisi creativa. Questi lavori rispecchiano il processo produttivo del film all’interno del film. Il ruolo dello spettattore qui è poco chiaro, il cinema d’arte modernista critica la propria esistenza. Lo specchio è divenuto il luogo del disorientamento ontologico, spesso serve a evidenziare la psichica dell’eroe: in M – Il mostro di Dusseldorf, Fritz Lang, 1931, il protagonista fa smorfie davanti allo specchio, e molti altri potrebbero essere gli esempi. L’inquadratura allo specchio è un momento di frattura e raddoppiamento.

     Specchio, volto e primo piano sono in relazione coi neuroni specchio (terzo paradigma dello specchio), una scoperta scientifica degli anni ’90. La presenza di questi neuroni spiega fenomeni come l’apprendimento attraverso l’emulazione e la facoltà di immedesimarsi negli altri. Sono cellule infatti che si attivao in presenza di azioni compiute da altri: neutralizzano quindi la divverenza tra attivo e passivo, Sé e Altro. Non esiste quindi differenza tra vedere e fare. Questo ha imprevedibili conseguenze sull’evoluzione della teoria filmica: per lo spettatore è un corto-circuito delle funzioni cerebrali.  

     Concentriamoci sui paradossi del paradigma dello specchio: il primo si riferisce a esteriorizzazione e interiorizzazione. Il passaggio cinema delle origini --> cinema classico è ache modifica del rapporto fra schermo e spettatore. Il primo piano porta a compimento questa trasformazione, esso implica un’intima monumentalità o una monumentale intimità?

     Il paradosso del rispecchiamento risulta dal fatto che finestra e cornice, porta e schermo possono perdere la loro trasparenza e diventare riflettenti. Questa facoltà di restituire lo sguardo è fondamentale nel rapporto film-spettatore. Il primo piano oscilla fra una autoriflessione e un’accresciuta identificazione. Il volto diviene così oggetto instabile della rappresentazione e segnala il collasso del sistema prospettico.

     Se volto è immagine-affezione e primo piano, ne consegue anche il paradosso della simultanea mobilità e inespressività. Basta vedere il film delle origini: occhi sbarrati, fronte corrugata, eccetera. Oggi a Chaplin si preferisce Baste Keaton, soprannominato «great stone face». Sono i minimi movimenti espressivi di un volto ad avvincere lo spettatore.

     Il paradosso della pura presenza e del segno decifrabile  mette in rilievo le tensione fra teorie realistiche e simbologiche. Ad esempio, nel primo piano come ultima inquadratura della soap opera, da una parte l’espressività provoca un soprassalto emotivo, d’altro canto, attraverso l’inserimento nel racconto, quest’immagine viene anche dotata di un senso narrativo.

     Infine, il paradosso di scala e grandezza suggerisce quanto siano decisivi lo spazio e il rapporto schermo-spettatore. Il primo piano oscilla fra intimità e sopravvazione, a volte troppo vicino, così lo spettatore perde ogni senso delle proporzioni.

 

4. OCCHIO E SGUARDO

     Due modi siedono di fronte all’altro, sul tavolo apparecchi per la rilevazione del movimento della pupilla (un test della polizia per stabilire se un soggetto è umano o replicante). L’inquirente pone al soggetto una domanda sulla madre. Con questo «test Voigt-Kampff» in Blade Runner (1982) di Ridley Scoot si distinguono i replicanti. Il test è uno dei molti riferimenti del film al motivo dell’occhio. Nell’azione, il confine tra umani e non umani diventa sempre più fragile.

     Analizziamo quindi l’occhio nel cinema come organo del disvelamento, ma anche la natura fragile di questa costruzione. Lo sguardo allo specchio, centrale nel capitolo precedente, implicava un preciso ordinamento spaziale. In questo capitolo, simili posizione verranno perfezionate.

     Nella teoria dei ’70 e degli ’80 si sono sviluppate posizioni secondo cui l’occhio è l’incontro fra diverse strutture di visibilità e sguardi, nel film articolati in inquadratura, angolazione e montaggio.

     In relazione all’occhio com eincontro spettatore-film, si distinguono diverse configurazione. Già prima del cina, sguardo e vista erano già connotati nell’immaginario. Il campo semantico dell’occhio conosce molta fama: occhio interiore, sguardo onniveggente del Dio cristiano, eccetera. Da una parte simboli di trasparenza e visibilità, dall’altra di controllo. Questo secondo tipo di sguardo è oscuro, invisibile e potente. Due significati diversi che si possono ritrovare anche nel cinema.

     Fin dagli inizi il cinema è considerato occhio prostetico. Intorno al 1900 l’unico mezzo meccanizzato era la ferrovia, nella stessa epoca comprare il cinema: per questo spesso il film indagava la testa o la coda di un treno. Il treno in arrivo alla stazione divenne simbolo del potere del cinema.

     L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov è espressione di quest’occhio autocelebrativo, organo sensoriale che scopre il mondo. All’inizio del film si aprono finestre come occhi sul giorno, poi l’«occhio filmico» di Vertov, onniveggente, si piazza di fronte ad un treno. Vertov celebrava il dominio ottico sul mondo.

     In Grandma’s Reading Glass (G.A. Smith, 1900) una lente d’ingrandimento ispeziona una stanza, ma anche l’occhio penetrante della nonna. Film come As Seen Through a Telescope (G.A. Smith, 1900) o The Gay Shoe Clerk (E.S. Porter, 1903) e i film francesi «dal buco della serratura» trattano chiaramente di uomini che palpano con gli occhi il corpo femminile.

     Anche l’espressionisto tedesco è esplicito. Gli eroi de Il gabinetto del dottor Caligari (R. Wiene, 1919), La strada (H. Grune, 1923), Nosferatu (F. W. Murnau, 1922) sono eccitatori, mentre Lang preferiva gli sguardi punitivi.

     Un cane andaluso (1929) di L. Bunuel e S. Dalì personaggi e spettatori vengono messi di fronte al desiderio e alla vulnerabilità dell’occhio. Non solo, quindi, occhio passivo (quello del primo piano), ma anche lo sguardo fisso del potere, l’occhio attivo: nell’uomo col rasoio di quest’ultimo film, oppure negli occhi di Mr Thorwald nella Finestra sul cortile (A. Hitchcock, 1954), quando ricambia lo sguardo di Jefferies.

     Richiamiamo la «teoria dell’apparato» di Baudry, che si basava sulla disposizione rigida di spettatori inermi, dello schermo fisso e del proiettore nascosto. Inoltre, importa la visione negativa della soggettività umana per la quale la costituzione dell’identità è sempre destinata a fallire, in quanto la nostra soggettività oscilla fra Io ideale e Ideale dell’Io. Per lui l’apparato cinematografico corrisponde all’idealismo filosofico occidentale (che quindi va criticato sul terreno materialistico) e mette in scena l’incapacità di sopravvivere autonomamente del poppante umano.

     Questa teoria pessimistica fu criticata radialmente. Scegliamo tre punti critici, influenti per i successivi sviluppi:
1) la funzione della narrazione e del narrativo;
2) il ruolo del genere e della differenza sessuale;
3) la questione dello spettatore.

     Cominciamo dalla narrazione: Metz e Baudry dicono che l’dentificazione primaria con l’apparato e l’atto del racconto è talmente potente che quella secondaria, con i personaggi, non riveste un ruolo rilevante. Ma che succede quando il raccondo filmico mostra fratture e discontinutità? Si rinvia alle tecniche di montaggio. Nei ’70 e negli ’80 è un processo definito suture (ricucitura di ferite), l’utilizzo critico delle regole di continuity della Hollywood classica, per produrre un’ullusione di coerenza e continuità.

     Il Continuity-Montage è un prontuario di compressione di spazio e tempo per produrre una coerenza spaziale e temporale, secondo cui i tagli sono motivati dal movimento in rispetto del primato della narrazione. Il film è un medium narrativo  e non della visibilità pura. La continuity è predominante fin dagli anni ’20.

     Il Continuity-System fa riferimento agli sguardi, strutturando lo spazio secondo gli assi visivi. Chiave è la regola dei 180 gradi: in una scena la macchina si mantiene su un lato dell’azione, tracciando una linea immaginaria fra i protagonisti, dove il superamento dell’asse centrale vale come scavalcamento di campo.

     Una sequenza inizia con un establishing shot o master, inquadratura totale che mostra il luogo e i personaggi. Se è lunga un re-establishing shot ci ricorda le posizioni dello spazio, spesso alla fine. Ne risulta una cornice simmetrica: a inizio e fine il film fornisce una visione d’insieme, ed è molto importante. All’interno della sequenza, la struttura di campo e controcampo è la figura di montaggio più frequente quando due personaggi interagiscono, e vediamo in primo piano il taglio delle spalle dell’interlocutore (over-the-shoulder).

     Un’altra figura è l’evelyne match o point-of-view-shot, l’inquadratura di un personaggio che guarda qualcosa, seguita da un’inquadratura dalla quale noi spettatori condividiamo lo sguardo di quello personaggio. Un cambiamento di relazione tra personaggi viene spesso trattato con un match cut, un cambiamento delle dimensioni dell’inquadratura, motivato da un movimento.

     Infine, col montaggio parallelo, scoperto da D. W. Griffith, ossia inquadrando alternativamente due segmenti dell’azione, si produce l’impressione che due accadimenti si svolgono in parallelo (vedi The Birth of a Nation, Griffith, 1915).

     Grazie alla sutura, il mondo come immagine promette allo spettatore controllo e potere. Ma è una promessa minacciata dal «fuori campo». Nell’illusione di una continuità il soggetto esperisce la felicità del neonato che scopre il mondo.

     Il secondo punto critico, proveniente dal femminismo, s’interroga sulla funzione della sessualità, come riportato da Visual Pleasure and Narrative Cinema (L. Mulvey, 1978). Laura Mulvey si fonda sia sulla teoria della sutura sia sulla teoria lacanianana dello stadio dello specchio e fornisce una risposta ai problemi di Baudry. Il cinema per lei si struttura su un sistema di sguardi, in accordo con Metz ne distingue tre: della cinepresa sull’azione, dello spettatore sul pubblico e dei personaggi. In Hollywood questi sguardi (diversi da quelli del cinema delle origini e dell’avanguardia) obbediscono a una gerarchia: l’ultimo è più importante degli altri. Macchina da presa e pubblico in sala non vengono riconosciuti. Se non avviene la sutura dello spettatore negli sguardi, attraverso un’inquadratura sconnessa, crolla la coerenza spaziale e temporale e la comprensibilità narrativa, il risultato è un «cinema del non-piacere».

     Il potere fascinatorio del film, secondo la Mulvey, è duplice: la voglia di guardare («scopofilia» freudiana), che rende oggetti le altre persone, e una regressione allo stadio dello specchio, un momento di autoriconoscimento che è anche misconoscimento di sé.

     Sempre per la Mulvey, nel cinema hollywoodiano la gerarchia degli sguardi che costituisce la norma è un attributo di genere: l’uomo guarda, la donna è guardata. Il cinema classico non si limita a concentrarsi intorno ad un protagonista maschiale, ma presuppone anche uno spettatore maschio. Solo pochi generi (come il mélo) hanno una protagonista femminile. La presenza della donna nel film rimanda sempre ad una mancanza. Il film ha due modi per difendersi, il fetisicmo (la donna viene confinata come feticcio) o il sadismo (viene punita all’interno dell’azione). Molte sono state ovviamente le critiche e i commenti a queste posizioni semplicistiche, nei quali resta centrale il modello dello spettatore che, attraverso il paradosso della perdita dell’Io (scopofilia dello spiare altri) si alimenta del contemporaneo rafforzamento dell’Io (identificazione di sé).

     Attraverso l’analisi di singoli film il contributo della Mulvey è stato stemperato. Per esempio, nel film dell’orrore, l’architettura sessualmente codificata degli sguardi, si sposta: la final girl, la ragazza che uccide il mostro, invita all’identificazione anche i maschi.

     Esempio di decostruzione dello sguardo maschile è Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme, 1990) dove la protagonista sa di essere guardata e tuttavia sfrutta gli sguardi come fonti per l’acquisizione di potere. Le opinioni femministe sono così divise: da una parte il ruolo della donna appare analogo a quello dei film di Hitchcok, esposto al piacere degli uomini, dall’altra Clarica Starling è vista come donna forte.

     Nel concentrarsi sulla percezione oculare, la teoria classica e lacaniana ha ignorato il significato del corpo dello spettatore quale superficie percettiva continua: le teorie filmiche di stampo psicoanalitico trattano il rapporto spettatore-telo come se basato su un’illusione percettiva (come se gli spettatori credessero che gli oggetti che si muovono sul telo esistano davvero), laddove si tratta invece di sotituti della realtà. Al contempo, la teoria dell’apparato rinforza l’ideologia dell’osservazione disincarnata.

     Gli anni ’80 e ’90 hanno portato ad una new film history che ha delimitato il cinema delle origini come un campo di riceerca autonomo e ponendo nuovi interrogativi. Anche la teoria femminista scopriva il cinema delle origini come sfera pubblica, dove le donne non erano stereotipate.

     In questo contesto inseriamo la terza critica a Baudry, che s’interroga sull’immaginario storico, escluso dalla sua visione astorica. Per la teoria dell’apparato è superflua l’analisi di un singolo film, a causa dell’immutabilità dell’ordine superiore. Tra l’altro, questa teoria reagiva proprio ad una crisi del cinema, in conflitto con i nuovi sistemi di trasmissione audiovisiva.

     Più ricchhi si sono dimostrati due nuovi modelli teorici: il concetto di «grande Altro» di Lacan  e quello del «dispositivo» della sorveglianza, formulato da Foucault. Con questo giungiamo all’ultima parte del capitolo: sguardo come gaze, sguardo fisso del potere. L’origine del gaze non è precisa. Il concetto di «regime dello sguardo» rimanda sia alla dimensione storica (Foucault) sia a quella strutturale (Lacan) dei rapporti di sguardo.

     Per Lacan il reale, in associazione col regime dello sguardo, caratterizza la circostanza che l’oggetto del nostro sguardo ci restituisca il proprio sguardo. L’esempio di Lacan è il rapporto tra sguardo e il regime dello sguardo nel quadro Gli ambasciatori di H. Holbein: l’osservatore vi riconosce due ambasciatori del ‘500, ed il dipinto ci dà una sensazione di controllo, finché non scopriamo una macchia che si rivela come un teschio che ci guarda. Nel momento in cui l’oggetto restituisce lo sguardo, ci ricorda che l’ordinamento simbolico è separato dalla materialità solo da una patina sottile.

     Salvoj Zizek, seguace di Lacan, spiega il maestro avvalendosi di oggetti della cultura popolare. Ad esempio, La donna che visse due volte tratta dell’ex poliziotto Scottie Ferguson (James Stewart) afflitto da acrofobia, incaricato da un amico di pedinare la moglia Madeleine Elster (Kim Novak). Quest’ultimo ha la convinzione di essere posseduta dallo spirito della bisnonna, che si era suicidata. Scottie s’innamora di lei e cade in depressione quando, a causa dell’acrofobia, non riesce a impedirle di gettarsi da un campanile. Dopo incontrerà Judy Barton (ancora Kim Novak), che assomiglia a Madeleine, e riesce a superare la fobia.

     In una sequenza al ristorante, dove Scottie vede per la prima volta Madeleine, vediamo due inquadrature che non possono provenire dalal posizione di Scottie, seguite da inquadrature che invece sono del suo point of view. È un eccesso della “soggettività senza un soggetto-agente” imprigionato nel rapporto fra soggetto e oggetto. Ciò che otteniamo è lo sguardo come oggetto, liberato dai vincoli che lo legano ad un soggetto (secondo Zizek). In realtà il sistema della suture si fa sempre più fragile, vengono alla luce punti di frattura nella narrazione.

In modo analogo, Foucault descrive il Panopticon come modello di società. Il poter essere osservati in ogni istante ci tiene prigionieri di questo ordinamento, anche quando non c’è più sorvegliante, e si preoccupa poco dello sguardo attivo. Così si concettualizza il cinema come dispositivo del potere: siamo tutti esposti ad uno sguardo che non possiamo ricambiare. Una simile analisi produce geometrie di sguardi più comlesse di quanto non facciano le teorie femministe. Lo sguardo panoptico è insieme interiorizzato ed esterno, è un modello della coscienza umana come autosorveglianza. Ne consegue una società del controllo subentrata negli ultimi decenni alla società della disciplina.

 

5. PELLE E CONTATTO

     Crash (P. Haggis, 2004) preannuncia la collisione dei corpi. Gli episodi del film s’interrogano sul contatto e la comunicazine fra gli uomini. Il film pone in rilievo il paradigma della pelle anche dal punto di vista della xenofobia. I personaggi tentano di stabilire contatti veri, sotto la pelle dell’Altro, e ogni volta questi tentativi di intesa affetiva e aptica (ottico-tattile) naufragano sulla superficie della pelle.

     Nella teoria filmica è prevalso un paradigma oculocentrico, dagli anni ’20 (Arnheim e Balàzs, concentratosi sul primo piano, ma anche Ejzenstejn col montaggio e Bazin con la realtà come manifestazione indivisibile dell’essere). Negli anni dai ‘60 agli ’80 privilegiano la vista ancora di più (teoria dell’apparato di Bauady chiama in causa gli uomini-occhio della caverna platonica, e quella femminista).

     Ma la costellazione occhio/sguardo onosce una sua aporia: il soggetto moderno si costituisce con un regime dello sguardo (gaze) senza luogo e onnipotente. Le teorie di questo capitolo non intendono negare il visivo, quanto considerare complessivamente i sensi. La scuola interculturale e fenomenologica condividono un’attrazione per il corpo umano: il corpo, la sua superficie, la sua vulnerabilità, sono temi importanti nel cinema recente.

     La pelle è divenuta campo importante: è un organo percettivo, riconduce anche al primo piano, drammatizza il rapporto scala-dimensione, ci circonda interamente ma si può riconoscere solo al microscopio. Possiede vita propria: si arrossisce e impallidisce senza controllo, vive e muore di continuo, è ininterrotta ma evoca la cicatrice, il neo, la ferita.

     Il silenzio degli innocenti è un film di transizione, dove il paradigma dell’occhio (già analizzato precedentemente) viene messo a confronto con quello della pelle: Buffal Bill, per esempio, è spinto notorialmente dal desiderio patologico di indossare la pelle di un altro.

     Se sostituiamo pelle-e-contatto a occhio-e-sguardo, l’assundo di questo paradigma è lo scontro, l’iper-identificazione omicida, l’incorporazione. Crash illustra come i tentativi di intesa si capovolgano nel loro opposto: la rabbia dissimula la mancanza di tenerezza. Il passaggio da sguardo a contatto non segna il campo da un occhio e vigila a una mano che accarezza: anche la pelle cela contraddizioni.

     La pelle è un involucro inespressivo che nasconde l’essenzuale: carne, organi, spirito. La superficie cela una struttura profonda, ma anche veicolo espressivo e superficie scrittoria, che produce senso. Le posizioni incentrate su di essa rivalutano il rapporto schermo-spettatore: «non viviamo un film solo attraverso gli occhio. Viviamo e sentiamo i film attraverso il nostro intero essere corporeo» (Sobchack), anche se gli spettatori spesso dimenticano il corpo.

     Vivian Sobchack ha delinato una teoria che integra comprensione intellettuale e capacità cognitive con una componente corporea (ad es. in Lezioni di piano – Campion, 1993 – sostiene che «le mie dita già sapevano cosa stava per apparire»). È chiaro che si debba dunque sviluppare un concetto d’identificazione diverso, che preveda una doppia e simultanea acquisizione di una posizione empatica nei riguardi dell’Altro, dove l’esperienza della corporeità funge da precondizione imprescindibile per l’immedesimazione in un’altra persona.

     L’esperienza filmica è incarnata solo come fondamento di ogni esperienza, perché la percezione presuppone un corpo vivente dotato di soggettività. Per Shaviro più decisiva è la continuità fra reazioni fisioligiche e affettive del corpo e ciò che avviene sullo schermo. L’approccio fenomenologico mette in rilievo, al contrario delle teorie qui presentate, il legame spettatore-film.

     Dagli anni ’90 il paradigma fenomenologico conosce un impulso: alcuni autori condividono l’insoddisfazione della Sobchack verso l’oculocentrismo, ma rigettano il ruolo degli altri sensi. Alcuni si rivolsero interessati ad alcune teorie avanguardistiche che contestavano il concetto di percezione del cinema classico: posizioni come quella dell’ungherese Làszlò Moholy-Nagy, che delineò una teoria dell’arte e del cinema rivolta a tutti i sensi, o il Tapp-und Tastkino («Cinema da tastare e palpare», Germania 1968) di Valie Export.

     Ulteriore terreno è stato lo studio dei generi cinematografici del mélo, del porno e dell’horror: il pianto nel film melodrammatico, i corpi sanguinanti dell’horror, e l’atto sessuale della pornografia, sottolineano l’abuso. Il film horror è significativo per tre aspetti: espone alla vista immagini di abiezione (corpi mutilati, deiezioni, ecc), vi unisce il mostruoso (che minaccia la stabilità) che tra l’altro sarebbe legato al materno.

     Anche nella ricerca sul cinema delle origini, la percezione aptica è al centro dell’attenzione: i rube film rappresentano le traversie di un «campagnolo» al cinema che scambia ciò che accade sullo schermo come reale. La distanza dello spettatore va appresa come regolatore sociale della vita. La moderna società di massa anteponeva vista e udito, sensi distanziatori, a quelli creaturali di olfatto e tatto. Il cinema partecipa a questo regime: lo «zotico» è esposto al ridicolo per mostrare agli spettatori il comportamento corretto.

     Per Laura Marks, il cinema non commerciale propone un contatto più ravvicinato del film, mentre un blockbuster offre una form di ricezione maggiormente regolata.

     Autrici come Sobchack e Marks fanno riferimento a Deleuze quando parlando della superficie dell’immagine o della temporalità del cinema, tuttavia necessitano di un soggetto in grado di percepirle. In realtà, per Deleuze, la composizione di immagini-movimento del film non è rivolta a nessuno, sono apparenza. Per Deleuze vi può essere coscienza, ma non coscienza di qualcosa.

     Il motivo del contatto ha rilievo anche per i post-colonial studies. Hamid Naficy ha sviluppato l’idea di un cinema il cui accento cada sull’esperienza di emigrante del cineasta, di realizzazione on industriale, che devii da quello classico hollywoodiano. Questo accented cinema sfrutta gli spazi per ottenere un contatto molteplice: con la patria perduta, con etnie diverse, con un futuro lontano. Caratteristico di questo cinema, è l’«ottica tattile». Naficy procede in senso rappresentazionale: l’attivazione di ricordi sensoriali si manifesta sotto percezioni come il gusto e l’odore.

     Anche Siegfried Kracauer, accostato a Bazin come realista, si trovano rimandi al rapporto somatico-fenomenologico dello spettatore col film, piuttosto che oculare-distanziato. Nella sua Teoria del film parla del fatto che al cinema «assimiliano quello che sembra non essenziale, dal corporeo allo spirituale. Le immagini filmiche colpiscono i sensi dello spettatore, impegnandolo fisiologicamente prima che intellettualmente.

 

6. ORECCHIO E SUONO

     Hollywood 1928: Lina Lamont è una star del film muto, l’arrivo del sonoro minaccia la sua carriera, la sua voce è inappropriata. Dal suo debutto vocale, viene doppiata segretamente da Kathy Selden. Lina, invitata a cantare su un palco, tiene la Selden nascosta dietro le quinte e doppia la star con la sua voce. Quando il sipario si apre si rileva la discrepanza tra immagine e suono. Cantando sotto la pioggia (1952) è una meditazione ironica sul passaggio al sonoro. Il rapporto corpo-voce è chiamato in causa. In questa transizione, la presenza visiva e aucstica diviene parte del meccanismo promozionale del cinema.

     La scena illustra come il suono incarni l’immagine. La vista è sempre direzionale, l’udito è spaziale, crea uno spazio acustico perché noi udiamo in tutte le direzioni.

     La filmologia si è sensibilizzata al fatto che il cinema si rivolge a più di un senso (sinestesia), tuttavia la funzione dei singoli sensi è ancora oggetto di discussione.

     Riteniamo che il suono abbia la funzione ampia di ancorare il corpo dello spettatore nello spazio. Mentre la pelle è una superficie esterna, con l’orecchio l’esperienza cinematografica esplora l’interiorità dello spettatore. Lo spettatore non è più ricettore passivo al vertice della piramide ottica, bensì un essere coinvolto spazialmente e affettivamente al tessuto filmico.

     Il capitolo è suddiviso in quatro parti: la prima si occupa del muto e della nascita del film sonoro. La seconda sul ruolo del suono nel cinema classico, come della capacità del suono di dare forma all’immagine. La relazione immagine-suono, dove il secondo è subordinato, si discute nella terza parte del capitolo. La quarta parte si occupa della materialità del suono.

     IL film muto non è mai stato «silenzioso». I film prima del 1930 avevano molti materiali acustici: dall’annunciatore all’orchestra, dall’organetto del cinema al rumorista. L’obiettivo di questi suoni erano vari, sincronizzare suono e immagine o metterli in relazione.

     Nei film muti esistono esempi di suono visualizzato: primi piani di orecchie in ascolto, di piedi che camminano furtivamente, rintrocchi di campane. Esempi sono i fischi di vapore in Metropolis (1926) o gli squilli di tromba in L’ultima risata (F. W. Murnau, 1924), dove la cinepresa vola dallo strumento all’orecchio del vicino.

     Per i detrattori del sonoro, il suono sacrificò alle lusinghe del banale chiacchiericcio una forma d’arte sul punto di ragigungere la maturità. Il suono invece tramuta il film da forma rappresentativa astratta a medium di realismo mimetico. Anche i critici, come Arnheim, sapevano che la battaglia pro-contro si sarebbe risolta al botteghino, dove il suono si affermò in fretta.

     Nel cinema classico il suono si analizza in relazione alll’immagine, considerando se on-screen o off-screen, diegetico o non diegetico, e quale sia il rapporto suono-immagine. Fra il ’30 ed il ’35 uscirono film che rappresentavano con allegorie la separazione corpo-voce e poi il ricongiungimento.

     Questo periodo di transizione è stato analizzato come modello dell’attuale di passaggio dalla registrazione analogica a quella digitale. James Lastra dimostra che qualsivoglia relazione suono-immagine è carica di difficoltà. Se desideriamo un suono realistico, gli ingengeri devono scegliere tra intellegibilità e fedeltà. L’apparente stabilità del film flassico è costantemente minacciata da questa tensione.

      Il suono dà al film un corpo, una terza dimensione, ma al contempo il film minaccia l’integrità del corpo. Noi pensiamo al suono come elemento attivo, che emana da un oggetto, e cerchiamo di identificare una sorgente: su questo Michel Chion ha basato la teoria degli acousmetres, ossia delle voci disincarnate del cinema, che non hanno origine apparente. La posizione di questi «personaggi vocali» non si trova dentro il film: «l’acusmetro è quel personaggio acusmatico la cui posizione rispetto allo schermo è in ambiguità». Esempi sono ne Il mago di Oz (Fleming, 1939), la madre di Psycho (Hitchcock, 1960), eccetera.

     Contrariamente a quanto temeva Arnheim, il sonoro non ha degradato il cinema ad un illusionismo spaziale, ma l’antagonismo visivo-sonoro è stato utilizzato in modi innovativi, che fanno rimergere la domanda: il film si colloca dentro o fuori rispetto al corpo?

     Il suono possiete qualità tattili e aptiche, per produrre un suono un oggetto deve vibrare. Per certi aspetti, siamo più sensibili al suono che alle percezione visive. Ma il suono è anche effimero, si può riprodurre soltanto nel tempo, mentre l’immagine filmica può essere bloccata: esso ci ricorda l’irreversibilità del tempo e annuncia la morte.

     Nel cinema classico diamo per scontato che le immagini organizzino i corpi nello spazio, mentre il suono riveste un ruolo ausiliario (sotto forma di partiture, in uso nella Hollywood dei ’30, o del Mickey-mousing dove il suono imita l’azione visiva). Il suono chiede «dove?» e l’immagine risponde «qui», danzando l’uno intorno all’altra.

     Questo ordinamento fu messo in dubbio con la crisi del cinema hollywoodiano. L’emergere dei blockbuster dei ’70 fu dovuto anche alle nuove tecnologie sonore: Nashville (R. Altman, 1975), Guerre stellari (G. Lucas, 1977) o Apocalypse Now (F.F. Coppola, 1979) hanno cambiato il cinema grazie a nuovi metodi sonori.

     Nell’Ottocento gli apparecchi per la registrazione sonora separarono la produzione della musica dall’attività dell’ascolto. Le nuove tecnologie di amplificazione lo trasforarono poi in un evento collettivo. Con lo split-screen, Woodstock (M. Wadleigh, 1970) cercava di trasformare un evento unico in riproduibile. La «tecnologia Dolby», sistema di soppressione del rumore che permettava di isolare suoni, entrò nel cinema coi sistemi di diffusione avvolgenti che entravano nello spazio dello spettatore. Il cinema esiste dunque anche nella sala.

     Zizek utilizza il concetto di acusmetro di Chion per rielaborare la nozione di sguardo a favore di una dimensione acustica del regime scopico. Il suono ci aiuta a orientarci nello spazio, ma ci può anche disorientare. Per lui l’udito è più cruciale per l’orientamento, racchiude le voluttà e i terrori della fase prenatale.

     Chion inverte la gerarchia immagine-suono, per tre ragioni: 1) il cinema è un’esperienza acustica prima che visiva; 2) il suono è più materiale in rapporto all’immagine; 3) il concetto di «resa sonora» mette in rilivevo una caratteristica centrale del suono nel film contemporaneo, come una sostanza da plasmare («È l’orecchio a renderli visivili», cit. Chion).

     Lynch non solo ha sovvertito più di altri i rapporti di potere fra immagine e suono, ma anche invertito le loro caratteristiche: nei suoi film è il suono a creare effetti fantasmagorici, mentre l’immagine è spesso sul punto di perdere forma, scomparire (vedi la scena di Mulholland Drive ambientata nel cluc Silencio).

     L’invenzione del walkman rese obsoleti i confini fra interno ed esterno, contribuendo ad abbattere le barriere tra pubblico e privato (vedi Il tempo delle mele, C. Pinoteau, 1980).

     Si arriva ad una reversibilità tra suono e immagine, espressa in una frase non di David Lynch ma dalla sua controparte avanguardistica, Jean-Marie Straub: «udire con gli occhi e vedere con le orecchie».

     All’inizio il suono pareva in grado di recuperare la perdita di referenzialità dell’immagine nell’era del digitale: ma se non possiamo più fidarci delle immagini, possiamo davvero contare sul suono? Sembra piuttosto che col film sonoro non possiamo più fidarci né del suono né dell’immagine, ma che nello stesso tempo necessitiamo di entrambi, in modo che possano confermarsi a vicenda.

     La vera battaglia non è più tra suono e immagine, ma tra una combinazione suono-e-immagine  che stabilizza la nostra visione dello spazio prospettico, e dall’altra un suono-e-immagine divenuto mobile grazie ai nuovi dispositivi. Nel primo caso abbiamo l’idea di «oggetti aurali» che, grazie al Dolby Sorround, ha consistenza tridimensionale. In questo caso, il suono «sta per» lo spazio implicato dall’immagine. Nel secondo caso, l’accresciuta mobilità sonora del nostro ambiente quotidiano aggiunge a questa apparente estensione spaziale l’incertezza su come collocare i nostri corpi in questo spazio. È un suono in bilico, sempre fugace, quindi, a dispetto della conversione verso il corpo e la visione incarnata, dobbiamo essere cauti e non pretendere di aver guadagnato un terreno più stabile.

     Essendo i nostri sensi così totalmente coinvolti, nel prossimo capitolo rifletteremo sul cinema attraverso l’organo che rielabora tutte le nostre percezioni - il cervello – studiando il modo in cui si rapporta alla mente nel caso dell’esperienza cinematografica come esperienza incarnata.

 

7. MENTE E CERVELLO

     Un uomo vuole dimenticare una donna dopo averla perduta. In Se mi lasci ti cancello (Michel Gondry, 2002) il nostro eroe si fa cancellare tutti i ricordi sull’amata. Durante il trattamento, scopre il valore di quella relazione. Invano tenta quindi di «nascondere» la ex nei ricordi d’infanzia. Quando si sveglia, si reca nel posto dove aveva incontrato la prima volta il suo amore, e la ritrova. La loro storia può ricominciare da capo, perché l’ha cancellata: la struttura ciroclare del film mette in discussione la logica lineare del cinema classico, e mostra l’interesse per identità, passato, trauma.

     Noi spettatori siamo testimoni esterni o pedine? Quindi, ancora: riguardo allo spettatore, il cinema è interno o esterno? Spesso collochiamo il film al di là della realtà quotidiana. Ma da un’altra prospettiva agisce direttamente sulla coscienza, vive di vita propria, domina individui ed idee. I film cult non terminano con la fine della proiezione, ma restano addosso allo spettatore, per occuparne la fantasia. Conducono una vita propria. Molti modi di dire sono ereditati dai film cult (ad es «Ma dici a me!?» da Taxi Driver).

     Quando parliamo di cinema nel cervello, usiamo termini che evocano una tradizione filosofica. Ejzenstejn parlava del film come cornice, la sua idea di montaggio intellettuale riconosce all’organizzazione filmica una corrispondenza col pensiero concettuale. Non considera il cervelloco come ricettore passivo, ma che si muove con meccanismi meccanici alla Pavlov e memoria sensoriale alla Proust.

     Hugo Munsterberg elabora una tesi secondo cui cinema e mente intrattengono un’analogia reciproca; molte tecinche del cinema emulano il modo di lavorare della mente (The Photoplay, 1916). Per lui solo la psicotecnica (interconnessione di esperimenti fisiologici e tecnici, rende possibile la teoria filmica.

     Tale deviazione fa arrovellare anche Gilles Deleuze. La psicotecnica come variante di psicologia e psicoanalisi riduce il soggetto a processi calcolabili. I molti film in cui il cinema mostra ipnosi o lettura del pensiero, per esempio in Fritz Langa, riproducono proprio i processi psichici nel senso di Munsterberg.

     Un terzo tipo di immagine mentale è invece più autoriflessivo: mente, cinema e coscienza convergono in modo che attraverso una determinata immagine lo spettatore divenga consapevole dell’atto di osservare un’immagine e con ciò dei propri processi di coscienza. Il disprezzo o 8 e ½ insistevano su questo. Una scena suggerisce un livello ulteriore di riflessività, non attraverso specchi, ma come pura attività cerebrale.

     I mind game movies consistono di immagini referenziali che però non sono «incorniciate» attraverso point-of-view. Bisogna attribuire a esse uno status «spettrale», di uno spirito «esterno» (alla narrazione e ai personaggi) che si sottrae ad una collocazione precisa. Il principio strutturale dei mind game movies consiste nel trascinare gli spettatori nel mondo del protagonista. Includono lo spettatore in un mondo non rispondente alle classiche teorie dell’immedesimazione, mettendo in dubbio la cornice esterna ed interna della storia.

     Una serie di film nei quali il protagonista è appena morto (Il sesto senso (M. Night Shyamalan, 1999) è esempio di cinema post-mortem. Le immagini mentali sono legate alla formazione del soggetto. I protagonista soffrono di amnesia (Memento) o schizofrenia (Fight Club), hanno vissuto esperienze traumatiche (Minority Report) o già lasciato il mondo dei viventi (The Others). Le immagini hanno due facce, e avvolgono lo spettatore in una «schizo-logica» che si rivela solo alla fine.

     Un quarto tipo d’immagine mentae è una rappresentazione che è tale, ma non è visione (ossia non attribuibile ad alcun soggetto), come in La donna che visse due volte. Nel cinema classico simili immagini mentali sono infrequenti, mentre in quello contemporaneo s’incontrano spesso.

     Il quinti tipo non è reale né illusionistico: cosa significa ricavare un’immagine mentale da una rappresentazione? Non ci sarebbe più la referenzialità, come in Stalker o Solaris di Andrj Tarkovskij. Tale sarebbe la qualità contraria alla «resa» di cui parla Chion, rilanciando la domanda: le immagini che suscitano reazioni sono incorporate o scorporate, come gli effetti psichedelici in 2001: Odissea nello spazio?

     Gli studi di Deleuze, Cinema 1 e 2 sono pietre miliari, presentiamone la formulazione nel dettaglio. Riallacciandosi alla filosofia dell’immanenza di Henri Bergmson e alla semiotica di Charles S. Pierce, egli classifica le tipologie d’immagine. Spesso è etichettato come fenomenologico, interessandosi a intensità, energie, percezioni, ma ciò non è esatto.

     Deleuze non fa riferimento a figure cruciali della fenomenologia, ma piuttoto a Bergson. Il suo interesse per il cinema si basa sul superare lo scarto fra soggetto e oggetto, coscienza e contenuto di coscienza, si ribella alle idee di trascendenza che ritengono possibile una posizione esterna. Non prende le mosse, come i fenomenologi, dall’intenzionalità, ma da un’immanenza nella quale materia e coscienza sono inseparabili: l’immagine esiste come materia non come segno il cui significato alberghi nell’immagine stessa. Così spieghiamo perché Deleuze non abbia interessa per concetti quali «rappresentazione», «messa in scena» o «autoriflessività». La coscienza si annida nelle cose o sulla loro supericie, immagine e «cosa» sono indistinguibili.

     Per Deleuze il cinema ha a che fare coi duee complessi tematici di movimento e tempo, distinguendo due tipi di immagini: immagine-tempo e immagine-movimento, che suddivide poi in ulteriori sottoclassi. L’immagine movimento indica un cinema di azioni, dove un personaggio reagisce alla percezione di una situazione, compiendo un’azione che produce un’altra situazione, ecc. Così è nel cinema realistico classico, soprattutto hollywoodiano. Nell’immagine-movimento il tempo è subordinato al movimento, anche gli inserti temporali come flashback o sequenze oniriche sono sottoposti alla logica dell’azione.

     Diverso è con l’immagine-tempo, comparsa col neorealismo italiano, ove le concatenazioni di azioni si interrompono e i personaggi diventano osservatori. «Alla fine della guerra, il neorealismo registra la fallibilità degli schemi senso-motori: i personaggi non sanno più reagire». Il tempo è elemento centrale, non è unità astratta e suddivisibile, ma attuale e virtuale.

     Adesso reasta da sviluppare il punto di vista della teoria filmica odierna. In riferimento al cinema classico e d’arte europeo, confronteremo Deleuze con la posizione cognitivista di Torben Grodal.

     Nel cinema classico il corpo (maschile) e le sue azioni assumono ruolo primario. I film si basano su una casualità incentrata sui personaggi, dove l’eroe deve risolvere un problema. David Bordwell mette in rilievo la struttura del plot, Deleuze riassume questo cinema nel concetto di immagine-movimento, che si fonda sullo schema percezione-affetto-cognizione-azione. Nel film classico il mondo è organizzato, i marcatori deittici sono definibili in modo chiaro, è uno spazio popolato da ostacoli e avversari che si presentano come personaggi dell’azione. Noi spettatori siamo nel fuoco incrociato di questi antagonismi.

     Nel cinema d’avanguardia lo spettatore assume atteggiamento diverso. Annette Michelson si schiera con quegli autori avanguardistici (Sharits, Jacobs, Snow) che credono nel cinema come epistemiologia: può generare una nuova conoscenza sul mondo. La Michelson è molto vicina a Deleuze, che usava il cinema come strumento filosofico, e non a Lacan o Foucault, pessimisti. Lei sosteneva che un film commerciale come 2001: Odissea nello spazio mostrerebbe il medesimo potenziale di teoria congnitiva di un film d’avanguardia. La modernità si è allontanata dalla riproduzione mimetica della realtà per interrogarsi sulle possibilità di conoscenza, ed il film non costringe più il mondo in un rapporto illustrativo.

     Il cinema ci permette l’esperienza della coscienza di sé, e 2001: Odissea nello spazio reinventa il cinema ex novo, soprattutto tramite l’assenza di gravità. È una tensione drammatica tra cose «viste» e «percepite» che costituisce la trama accessoria (sub-plot). Con questo film, il cinema comincia a localizzare la mente in modo nuovo, abituandola a fare a meno del suo classico orientamento è il corpo nello spazio come esperienza aptica, o senso-motoria.

     Rispetto all’idea di apparato o schema senso-motorio, la Michelson negli anni ’60 e Deleuze negli ’80 concordano che nel cinema gli eventi non siano più comprensibili ricorrendo al concetto di una separazione fra mente e corpo: non è il corpo a governare la mente, non è la mente a dominare un film, ma è un corpo-cervello che riunisce coscienza e corpo in un’unità. Nel cinema europeo dei ’60-’70 non esiste una coscienza dello spettatore, resta solo quella della macchina da presa. Tale cambiamento corrisponde alla frattura individuata nel film neorealista, quando è scaturita l’immagine-tempo e si sospendono i concatenamenti senso-motori.

     Come Bergson, Deleuze si pone in rapporto con neurologia e microbiologia; questi nuovi criteri della teoria filmica si differenziano da quelli della psicoanalisi. Centrali sono il tempo, la mente e la memoria, è un «cinema del cervello».

     Per il cognitivista Torben Grodal, che si rifà al neurologo Antònio Damàsio, il Sé ha tre livelli: il primo è comatoso, governa le funzioni vegetative, il secondo è una coscienza incorporata centrale che reagisce agli stimoli ed esisto solo nel presente (come l’immagine-movimento di Deleuze) e il terzo è Sé autobiografico, proiettato nel passato e nel futuro. Secondo Grodal il cinema d’arte è una frattura fra coscienza centrale e Sé autobiografico. Il cinema d’arte risolve questa tensione mettendo in gioco un’istanza sovrapersonale artistica ed astratta.

     Il concetto di «anima» nel film (per Bazin disvelamento rella realtà e per Balàzs apparizione del volto nel primo piano) riappare in Grodal come legame coscienza centrale-Sé astratto. Il film classico si rivolge alla coscienza centrale, quello d’arte tematizza il legame interrotto fra presente e valori sovratemporali (separazione corpo-cervello). Per un cognitivista il potere del cinema sta nel portare a compimento affetti e azioni: non si interessa di cose è il cinema, ma di cos’è la coscienza, se sia incorporata o meno. Il cinema è un’esperienza ontologica, la percezione filmica non è distinta da quella quotidiana.

     Nel cinema post-classico è il cervello autobiografico a dover essere assente, secondo una visione positiva. Secondo quella foucaultiana, invece, il cinema è un dispositivo di potere della società nel quale la scissione corpo-mente è superata. Nel cinema post-classico americano il corpo è mente, una rete di connessioni neuronali e reazioni fisiche.

     Seriamo di aver stabilito i fondamentali di un sistema per distinguere il film, il corpo dello spettatore e l’esistenza filmica.

     Il cinema contemporaneo potrebbe divenire una macchina del visibile, oppure una tipologia di pensiero: dovremo riconsiderare molti film come mind game movies anziché come una narrazione complessa.

     Siamo tornati alla domanda: come agisce il film sullo spettatore? È un affare della mente, disincarnato o al cinema siamo esseri corporei?

     Il cinema classico immagina uno spettatore disincarnato. Le teorie fondate sulla vista attribuiscono al cinema un’ontologia oculare («vedo quindi sono (al cinema)»). In Lacan o nel foucaultiano sguardo panoptico («vedo, quindi vengo percepito») quest’affermazione è contorta; per i cognitivisti la dicotomia pensiero astratto-materia concreta non è risolta, perché non si pongono l problema. Il cinema non è un caso di percezione, ma la percezione viene elaborata dal cervello, anche fuori dal cinema. È il cervello,non i sensi, a decidere cosa è piacevole o doloroso, caldo o freddo, ecc.

     Nel cinema si compie il medesimo processo, ma i sensi si riducono a vista e udito. Se la teoria si limitasse a ciò, le rimarrebbero da elencare le differenze tra percezione filmica e quotidiana.

     Obiezioni cognitiviste e deleuziane alla teoria filmica classica si possono riassumere nel fatto che il rilievo dato alla percezione oculare nella teoria lacaniana e foucaultiana conduce ad una svalutazione del corpo come superficie percettiva. Per l’istanza psicoanalitica lo spettatore considera realmente presenti gli oggetti proiettati, così attribuice allo spettatore un orizzonte limitato e assume che la vista sia sempre transitiva, cioò che vedere sia «vedere qualcosa». La teoria dell’apparato ha favorito l’ideologia della percezione filmica disincarnata.

     Il passaggio dei nuovi lacaniani dallo sguardo ottico al regime discorsivo dello sguardo, delinea un nuovo concetto dell’interazione fra percezione, cognizione e impresione sensoriale. I cognitivisti mettono in discussione l’idea secondo cui al cinema vediamo delle illusioni, sostengono che per percepire oggetti nell’immagine non richieda un’illusione, e affermano che il cinema è realistico.

     Fra questi schieramenti vanno inseriti i fenomenologi, che si fondano su una teoria della coscienza, la quale si interessa di cosa significhi avere diverse percezioni sensoriali. Al cinema vedo, sento, esperisco più che nella vita di tutti i giorni, e tuttavia il cinema non si differenzia dalla vita: è una realtà amplificata, una massimizzazione dell’esperienza.

     Contatto, pelle, corpo sono metafore per descrivere il rapporto con le immagini in movimento? Bisognerebbe riflettere sul perché del ritorno alla teoria dell’immedesimazione e dell’incorporazione, poiché la ricomparsa ha a che fare coi progressi della digitalizzazione. Il digitale non è forse un ambito percettivo? L’ottico ed il visivo sarebbero soltanto un «effetto» secondario di questa nuova materialità, il digitale una sfida materiale alla rappresentazione e alla messa in scena. È lo spartiacque del digitale a riformula gli interrogativi sull’epistemologia dell’immagine, in origine generata meccanicamente ed oggi conformata col digitale. In tal senso abbiamo costruito la nostra ricognizione della teoria filmica intorno allo snodo oggi al centro dell’attenzione: cerniera fra spettatore e film.

 

CONCLUSIONI – Cinema digitale e teoria del film: vecchia storia o nuove frontiere?

     Nel vecchio West, la macchina fa una panoramica dal saloon a una baracca, One-eyed Bob appare di fronte al manifesto «Wanted» con la sua faccia, rapina una banca, ma lo sceriffo Woody lo arresta: ma i protagonisti sono giocattoli manipolati da un ragazzino. Quando lascia la stanza comprendiamo che i giochi possiedono vita propria, diversa dalla scena che hanno interpretato. C’è una doppia realtà, di cui il padrone-manipolatore è parte integrante. L’incipit è di Toy Story (Lasseter, 1996), film che segna un momento cruciale: è il primo completamente in digitale. La narrazione drammatizza la transisione, inoltre rappresenta il passaggio da rappresentazione a presentazione. Si apre anche con una scena familiare che sembra annuciare che “tutto è cambiato ma resterà tale”. Proviamo a immaginare gli scenari futuri.

     Nel cinema digitale, corpo e sensi saranno ancora più centrali per una comprensione dell’esperenza filmica. Cerchiamo di individuare in scritti e film recenti il livello di pertinenza in rapporto all’attuale configurazione dell’interazione cinema-spettatore.

     Torniamo a Toy Story. Il ragazzo riceve un nuovo giocattolo, il Guerriero dello Spazio. La battaglia tra vecchia (West) e nuova frontiera (Spazio) non è che una falsa pista, i due opposti eroi dovranno allearsi per dominare la transazione verso un nuovo mondo, dovuto al trasloco.

     Poniamo l’accento su tre termini utilizzati spesso: cinema digitale, realtà virtuale e convergenza dei media. Probabilmente c’è un vantaggio nel trattare il cinema come un medium ibrido, dato che non è stato inventato nessun neologismo.

     Lev Manovich, uno dei teorici dei media digitali, ha sottolineato come il termine digital cinema abbia trascurato ciò che era nuovo e diverso. Ogni definizione data finora al cinema deve essere storicizzata. Se ‘digitale’ è la conversione di suoni e immagini in impulsi elettrici, esso costituisce una nuova ontologia che inaugura una nuova relazione di potere: cinema è da adesso un attributo del digitale.

     Che implicazioni ci sono sulla relazione tra cinema e corporeità? A prima vista, tragiche. In realtà le mutazioni del cinema digitale, il rendering dei materiali, le manifestazioni re-incarnate di tutto ciò che è sensoriale permettono al digitale di allinearsi più da vicino con i corpi e i sensi.

     I pupazzi di Toy Story hanno punti di vista, sentimenti e affetti umani. Per la già citata Sobchack, il morphing non è solo una nuova tecnica, ma è collegato alle precedenti pratiche di sviluppo, come il montaggio. Il morphing ci ricorda la natura liquida dell’identità, interroga le filosofie dominanti e le fantaie che modulano la nostra persona incarnata.

     Come evento pubblico, il digitale non sembra aver cambiato l’esperienza filmica. Ha dovuto coinvolgere i settori più importanti della realizzazione filmica: produzione (sceneggiatura, story-board, riprese), post-produzione (montaggio, sincronizzazione), distribuzione e proiezioni. Ne risulta uno sviluppo tecnologico e culturale diseguale: dal 2009 la maggioranza dei cinema degli USA utilizza proiettori digitali ma il film viene sempre consegnato come hard drive e non via satellite, per contrastare la pirateria. I cinema europei non hanno ancora investito per la trasformazione. La transizione è insomma lontana dall’essere unidirezionale.

     Se andiamo a vedere l’ultimo blockbuster ci accorgiamo che poco è cambiato: star e generi sono ancora esche, merchandising e concessioni costituiscono il guadagno aggiuntivo per gli esercenti. Sono in atto mutamenti dello spazio: da un lato, il multisala con platee da stadio ed effetti spettacolari, dall’altro l’home theatre è una nuova forma di possesso.

     Il cinema apre diversi percorsi per il futuro, con film di ogni genere e durata e con qualsiasi formato. Le immagini ci avvolgeranno in modi differenti, diventando talmente onnipresenti che non ci faremo più attenzione: non più «una finestra sul mondo» ma un’interfaccia della realtà.

     Si riorganizza anche il rapporto tra pubblico e privato, e grazie a siti specializzati la ricezione collettiva sta diventando la norma.

     «Realtà virtuale» è una delle espressioni che associamo al cinema digitale, ma può essere definita con tre parametri: 1) la rappresentazione di ambienti reali a scopo di simulazione, per addestramento o terapia; 2) può essere utilizzata in sistemi astratti per rendere visibile ciò che accade ai processi invisivibili; 3) impiego nelle opere artistiche. La cornice documentaria di Titanic (James Cameron, 1999) sulla spedizione subacquea, risponde a questa definizione di realtà virtuale in due modi, considerando che l’esplorazione «simulata» del relitto fa nascere la realtà virtuale della fiaba romantica e che allude al potenziale di «realtà amplificata», in cui mondi differenti coesistono nel medesimo spazio insieme allo spettatore, dove però il virtual non è illusione ma una presenza di qualcosa altrove nel tempo o nello spazio.

     Questo dilemma della non definibilità ha portato due risposte: una scuola si è rivolta verso una nuova valutazione dell’illusionismo come valore estetico, altri verso la dimensione enunciativa dell’indice, facendo dell’indicalità un aspetto di deissi. Entrambe rompono con le tradizionali definizioni di realismo cinematografico. Sebbene si dia importanza alle proprietà aptiche della realtà virtuale, le sensazioni fisiche restano distinte dall’illusionismo pittorico. Ciò che vediamo sono informazioni tradotte in un linguaggio visivo, come se diversi sistemi percettivi venissero dispiegati per far emergere l’effetto di realtà virtuale.

     Dunque la realtà virtuale può rimandarsi a un terreno dove è possibile trovare un precedente: essa richiede uno spettatore e è comparabile quindi alla realtà immaginaria che uno spettatore attribuisce a qualsiasi finzione.

     Il cinema digitale ravviva con un nuovo significato una delle nostre metafore-chiave, finestra e cornice, prorpio quella più fotografica e realistica.

     La premessa di Monsters & Co. (P. Docter, 2001) – una schiera di porte dà accesso a bambini addormentati e ai loro sogni – offre un esempio calzante riguardo a porta e cornice. I mostri penetrano nell’oscurità per spaventare i bambini e raccogliere l’energia di cui la città dei mostri ha bisogno. L’accesso da portali (internet)  al mondo inconscio dei mostri (specchio) interagisce col lavoro per estrarre emozioni (dal corpo). Hollywood sa gestire i cambiamenti fulminei della cultura dei media.

     L’animazione cha assistito a una nuova aspettativa di vita grazie alla digitalizzazione. Il film narrativo deve essere forse considerato l’attuale valore di default del sistema cinematografico. Il fotografico è solo la manifestazione del grafico, che molto più antico. Quindi l’animazione, figlia del cinema, può essere ormai la madrina del lungometraggio. Non è un caso che i film della Pixar (ad es. Wall-E, 2008) forniscano commento sulle trasformazioni del digitale, pensando al cinema nel suo contesto più ampio. La Pixar sviluppa una teoria delle relazioni d’oggetto che solletica questioni di azione, libertà, natura, ecc. In Toy Story gli umani sono oggetti parziali, ed il mondo degli oggetti guadagna la scena. In Wall-E l’autonomia dell’immagine digitale raggiunge l’apoteosi, in un mondo di oggetti generato da un altro oggeto, in assenza dell’apporto umano.

     Le traiettore intrecciate di cinema, fotografia, radio, ecc, mostrano che queste interazioni multiformi proseguiranno, anche se internet appare sempre più l’ambiente in cui le differenze giocheranno la loro partita.

Quando al cinema, la converenza si dimostra complicata. Da una parte una tendenza rende più mobili le piattaforme delle immagini in movimento. Dall’altra, la proiezione, esperienza tipica, si è trasferiti su schermi ancora più grandi.

     Più pertinente sembra essere il rapporto col fruitore, il modo in cui i sensi e i corpi sono coinvolti. In questo contesto il cinema mantiene i suoi valori di spazio sociale unico. Forse il ritorno del documentario come genere sia douto anche a cambiamenti nella sfera pubblica.

     «Digitale» ci ricorda anche che la mano è il più versatile tra gli strumenti dell’uomo, in un ambito nel quale l’occhio sembrava la parte più importante.

     Il cinema si è sempre preoccupato del corpo, dei sensi, ma anche di questioni di vita che vanno oltre i singoli film. Le immagini in movimenti forse sono la nostra eredità più preziosa.

     Se i capitoli precedenti trattavano il corpo come superficie percettiva, smontando i vari sensi, il passaggio dalle immagini fotografiche a quelle digitali non dovrebbe essere considerato come uno strappo radicale. I criteri scelti non sono fondati sulle proprietà tecnologiche del cinema. Potremo quindi evitare di decidere se un’immagine prodotta digitalmente sia un’immagine fotografica generata con altri mezzi, oppure sia un’immagine grafica che include la fotografia come uno dei casi possibili. Tenendo a mente la stroria dell’antropomorfismo che abbiamo percorso (dal «cine-occhio» di Vertov, all’«uomo visibile» di Béla Balàzs, alla «pelle del film» di Laura Marks e «il cervello è lo schermo» di Gilles Deleuze) possiamo sostenere che l’immagine digitale esce dall’oculocentrismo?

     La teoria del film può rimanere a suo agio dentro un contesto che include tutti i nuovi media o deve cercare una ri-definizione?

     Possiamo affermare che nel prossimo decennio la teoria del film si reinventerà anche se il cinema di questi primi cento anni non esisterà più, sia che sopravviva mettendo al centro il digitale come codice generale, sia che prevalga il metodo grafico, sia che l’antopologia dell’immagine di Belting e Didi-Huberman riceva in eredità la teoria del cinema, sica che la filosofia diventi disciplina guida, come credono i discepoli di Deleuze e i cognitivisti. La nostra tesi è che le connessioni delineate sul corpo, i sensi e le loro interfacce cinematografiche rivestirono un ruolo in molte missioni di salvataggio.

 

Fonte: http://mirkomanetti.it/wp-content/uploads/2015/09/Riassunto-Teoria-del-film.docx

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