Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica

Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica

 

 

 

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Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica

 

Il soggetto e la realtà: per quale conoscenza scientifica?

(Planck, Heisenberg, Einstein)

 

1 - Introduzione

Con il positivismo di Comte il lungo cammino di svincolo della scienza dalla teologia e dalla metafisica, iniziato con Galileo,  si compie radicalizzandosi e addirittura capovolgendosi: la scienza è assolutizzata, resa unico strumento per la conoscenza della realtà, strumento unico per la realizzazione del progetto di cambiamento totale della società. Il metodo induttivo-sperimentale è l’unico, secondo i positivisti,  che permetta una conoscenza certa ed esaustiva della realtà “positiva”: della natura quantitativamente e meccanicisticamente intesa, quindi “ridotta”, non considerata in tutti i suoi fattori. Ambedue i capisaldi del positivismo: la concezione “positiva” della natura e il metodo d’indagine induttivo entrano in crisi tra ‘800 e ‘900, infatti la filosofia e la scienza ( ma anche la letteratura, l’arte, lo sviluppo economico-sociale…)  mostreranno che la realtà è talmente varia, vasta, imprevedibile, inusitata e complessa da non essere totalmente, definitivamente ed ottimisticamente inquadrabile, determinabile e oggettivabile e che il metodo o i metodi di conoscenza si rapportano unicamente a modelli interpretativi, ipotetici e, magari, statisticamente probabili e comunque incessantemente ed inevitabilmente soggetti alla “falsificabilità” (K. Popper), quasi garanzia della loro “scientificità”, come d’altronde sembra essere evidente nella storia della scienza. E, d’altra parte, che il soggetto non è neutro e asettico ma determinante protagonista nell’approccio conoscitivo della realtà, smontando, inoltre,  il “mito”, l’illusione e l’ingenuo ottimismo di un progresso lineare ed infinito. Cadeva la pretesa scientistica del positivismo di presentare la scienza come certezza gnoseologica assoluta e definitiva di fronte ad una realtà ontologicamente molteplice ed eterogenea, la cui conoscenza comportava metodi e approcci molteplici ed eterogenei.

In tale contesto problematico esamineremo dal punto di vista della filosofia della scienza le riflessioni di alcuni scienziati-epistemologi: M. Planck, W. Heisenberg e A. Einstein che hanno gradualmente smontato le certezze positivistiche inserendosi in un contesto culturale già avviato scientificamente (anche se non esplicitamente in funzione anti-positivista) dalla riflessione sulle “geometrie non euclidee” e filosoficamente (in funzione esplicitamente anti-positivista) dal neo-criticismo e dallo spiritualismo di H. Bergson.

2 – La rivoluzione quantistica: l’indeterminismo e la natura della realtà
La teoria quantistica della materia distrusse completamente l’edificio della fisica classica e sostituì il determinismo con l’indeterminismo, la spiegazione causale con la spiegazione probabilistica e introdusse l’osservatore come soggetto non passivo nelle leggi della fisica e di fronte ad una realtà che si impone nella sua imprevedibilità.

 

Max Planck (1858-1947. Teoria dei quanti 1900)
Planck dimostrò che lo scambio energetico tra materia e radiazione avviene in modo discreto e non in modo continuo come si era fino ad allora supposto. L’energia viene assorbita o irradiata secondo quantità definite e i loro multipli esatti dette quanta. L’energia di un quantum dipende dalla frequenza (v) e da una costante (h) poi detta di Planck (E=hv). La luce, allora, non poteva essere intesa come un’onda continua di energia, ma come una corrente discontinua, la cui struttura e la cui spiegazione,quindi, sono date dal modello corpuscolare e non ondulatorio. Ne deriva che i fenomeni naturali procedono in modo discontinuo non meccanicisticamente continuo ed uniforme in un rapporto naturale di causa-effetto (meccanica di Newton) e secondo una concezione corpuscolare della materia e non ondulatoria come invece nell’ elettromagnetismo di Maxwell. La realtà, allora, non si presenta più secondo quella unitarietà, quella oggettività, quella unilateralità, quella univocità con cui pretendeva il Positivismo. Anche perché come si poteva conciliare l’adozione per la spiegazione di alcuni fenomeni fisici del modello corpuscolare e di altri del modello ondulatorio? (problema affrontato intorno al 1930 da N. H. Bohr con il Principio di complementarietà). Era la realtà fondamentalmente incomprensibile e sfuggente nella sua complessità oppure i nostri metodi e/o i nostri mezzi tecnici  inadatti a comprenderla? L’esito, in Planck,  non è scettico, certo : “Non siamo noi che creiamo il mondo esterno perché ci fa comodo, ma è il mondo esterno che ci si impone con violenza elementare” , ma è un mondo esterno certamente non impenetrabile nei suoi particolari, anche se, visto il suo incessante proporsi e riproporsi e il suo pluralismo realistico, è ingenuo pretendere una rappresentazione esauriente e completa. Tuttavia ciò non impedisce la continua ricerca dal “relativo all’assoluto” contro, appunto, ogni forma di scetticismo gnoseologico: “Concluderò con una domanda assai ovvia ma imbarazzante – afferma Planck – Chi ci garantisce che un concetto, a cui oggi ascriviamo un carattere assoluto, non si rivelerà relativo domani, e non dovrà cedere il posto a un concetto assoluto più alto? La risposta non può essere che una sola: nessuno al mondo può offrire una garanzia di tal genere. Anzi, possiamo essere sicuri che l’assoluto vero e proprio non sarà mai afferrato. L’assoluto è una meta ideale che abbiamo sempre dinanzi a noi senza poterla mai raggiungere. Sarà questo forse un pensiero che ci turba, ma a cui ci dobbiamo adattare […] Spingersi verso questa meta sempre innanzi e sempre più dappresso è il vero sforzo costante di ogni scienza, e possiamo dire con Lessing che non il possesso della verità, ma la lotta vittoriosa per conquistarla fa la felicità dello scienziato; perché ogni sosta stanca e finisce per snervare […] Dal relativo all’assoluto” .

Se Planck mette in crisi soprattutto la pretesa positivistica dell’oggettività e della unitarietà della realtà , Heisenberg ripercorre tale criticità sottoponendo la presunta  oggettività della realtà all’interazione con il soggetto e allo strumento con cui la si misura che diventano parte integrante del fenomeno stesso considerato, in una dimensione ontologicamente diversa della realtà determinata da un approccio gnoseologicamente diverso con la stessa.

Werner Heisenberg (1901-1976). Con il Principio di indeterminazione (1927) viene ribadita l’insufficienza del principio di causalità a spiegare i fenomeni della micro-fisica (come aveva sostenuto Planck), infatti nella fisica atomica l’energia luminosa impiegata per osservare i fenomeni (e che non può mai scendere al di sotto di una quantità minima o quantum) tende a modificare i fenomeni stessi in modo imprevedibile. Ne deriva che è impossibile determinare, nello stesso tempo, la posizione di una particella e la sua velocità, in quanto ogni osservazione volta a determinare la velocità di una particella modifica la posizione di questa e , viceversa, ogni determinazione della posizione modifica la velocità. La posizione e la velocità di una particella sono, quindi, in correlazione inversa. Quanto più si cerca di determinare l’una tanto meno si riesce a determinare l’altra, poichè l’osservatore ( e questo è l’aspetto epistemologicamente nuovo rispetto a Planck) induce modificazioni nell’oggetto osservato. Tutto ciò che si può fare è determinare il campo delle probabilità che la particella si trovi in un luogo anziché in un altro, oppure abbia una velocità invece che un’altra. Perciò sul comportamento futuro di una particella si possono  fare solo delle previsioni probabili in base a calcoli statistici. E ciò non per difficoltà tecnico-metodologiche ma dettate dalla natura stessa della realtà fisica in se stessa e rispetto all’azione gnoseologica del soggetto. Per cui se in Logica stabiliamo che ogni A implica B, nella  Fisica di Heisenberg dato A non è detto si abbia necessariamente B, perché non siamo in grado di determinare A in maniera assoluta e definitiva (come pretendeva il positivismo), ogni A è sempre diverso da tutti gli altri A. E’ probabile statisticamente che dato A si abbia B, ma non necessario: “Nella moderna teoria dei quanti – sottolinea Heisenberg – questo concetto di possibilità assume una nuova veste: è formato quantitativamente come una probabilità e sottomesso a leggi naturali esprimibili matematicamente. Le leggi naturali formulate in termini matematici non determinano più qui i fenomeni stessi, ma la loro possibilità, la probabilità che succeda qualcosa” . Quindi contro ogni causalismo, meccanicismo e determinismo nella natura della scienza positivista: la natura non è un tutto uniforme, omogeneo, certo e quindi definibile una volta per tutte. Anche perché la conoscenza di un dato (e quindi il metodo d’indagine), 1)da un lato  risulta da una “selezione” fra una “quantità di possibilità” del soggetto e le implicazioni di questa data conoscenza A risulteranno anch’esse una “selezione” fra diverse possibilità e non dalla totalità di esse e, inoltre, non può essere escluso che alla determinazione delle conseguenze di un fenomeno A concorrano elementi da noi trascurati e che quindi tali conseguenze siano qualcosa di diverso da B; 2) dall’altro non si tratta più di costruire deterministicamente un’immagine presunta vera ed assoluta della natura, ma di costruire un’immagine del nostro libero rapporto con la natura, anche perché nell’osservazione dei fenomeni interviene un elemento che non è preso in considerazione: l’interazione fra soggetto ed oggetto che fa venir meno il sostegno di un sistema di riferimento assoluto e in questo si nota lo studio critico di Heisenberg sugli “a priori” kantiani, sulle idee platoniche, e soprattutto il rapporto critico con la fisica di Einstein sulla presunta “oggettività” della natura nella sua totalità: “Se si può parlare – afferma Heisenberg - di un’immagine della natura propria della scienza esatta del nostro tempo, non si tratta più propriamente di un’immagine della natura, ma di una immagine del nostro rapporto con la natura. L’antica suddivisione del mondo in un accadimento obiettivo nello spazio e nel tempo da una parte, e l’anima, in cui tale accadimento si rispecchierebbe, dall’altra, la distinzione cartesiana, cioè, tra la res cogitans e la res extensa, non può più servire come punto di partenza della scienza moderna. Obiettivo di questa scienza è piuttosto la rete delle relazioni tra uomo e natura, la rete delle connessioni per cui noi, come esseri viventi dotati di corpo, dipendiamo dalla natura come sue parti, e nello stesso tempo, come uomini, la rendiamo oggetto del nostro pensiero e della nostra azione. La scienza non sta più come spettatrice davanti alla natura, ma riconosce se stessa come parte di quel muto interscambio tra uomo e natura. Il metodo scientifico che procede isolando, spiegando e ordinando i fenomeni diviene consapevole dei limiti che gli derivano dal fatto che il suo intervento modifica e trasforma il suo oggetto, dal fatto cioè che il metodo non può più separarsi dall’oggetto. L’immagine scientifica dell’universo cessa quindi di essere una vera e propria immagine della natura” . E’ il problema stesso della verità e della validità assoluta di un determinato modello di spiegazione ad essere sollevato dalla scienza e dall’epistemologia di Heisenberg. Si tratta allora di individuare leggi sempre più generali che riescano a mettere in relazione fra loro tutti i possibili fenomeni dell’esperienza con la consapevolezza, tuttavia, che la ricerca scientifica, è costretta a delimitare, man mano che procede, il campo della loro validità,  riconoscendo, da un lato,  che non esiste la neutralità del soggetto rispetto alla realtà (indeterminazione gnoseologica), anche perchè è sempre la teoria che precede l’osservazione (contro l’esclusività e le pretese gnoseologiche del metodo induttivo dei positivisti, aspetto quest’ultimo, ma solo quest’ultimo, che avvicina Heisenberg all’epistemologia di Einstein); e, dall’altro,  neppure l’ oggettività assoluta della realtà rispetto al soggetto (come invece vedremo in Einstein) e rispetto a se stessa.

3 – La teoria della relatività e il mistero della comprensibilità del mondo
Albert Einstein (1879-1955. Teoria della relatività ristretta 1905, generale 1916)
Infatti ciò che lega pensiero ed esperienza, soggetto e realtà è un atto di intuizione che si manifesta attraverso la creazione di “sistemi di concetti”, prodotto arbitrario dell’uomo: si tratta di una proposta di interpretazione del mondo, in cui (come rileverà Popper) può non essere estranea la metafisica o, comunque, suggestioni extrascientifiche. La verità di un sistema (o teoria scientifica) non è data dalla necessità-universalità newtoniano-kantiana degli  “a priori” (spazio-tempo-categorie), ma dalla sempre più maggiore completezza con cui il sistema-teoria è possibile coordinarlo con la totalità dell’esperienza. E ciò perché, secondo Einstein, “il mistero più grande è che il mondo sia comprensibile, cioè che il pensiero sia in grado di fornire un ordine alle esperienze sensoriali” . Per questo, allora, nel procedere scientifico: “Tutto ciò che è necessario – afferma Einstein – è l’enunciazione di un gruppo di regole, poiché senza tali regole l’acquisizione della conoscenza nel senso desiderato sarebbe impossibile. Si può paragonare tale situazione a quella di un gioco: se pur le regole sono arbitrarie, solo il loro rigore e la loro inflessibile applicazione rende possibile il gioco. La loro determinazione, tuttavia, non sarà mai definitiva. Essa risulterà valida solo per un particolare campo di applicazione” . E’ quindi necessaria l’enunciazione di un gruppo di regole, un sistema di concetti, ma con la consapevolezza che sono arbitrarie, con la consapevolezza che solo la loro rigorosa applicazione rende possibile il gioco (conoscenza del mondo) e altrettanto con la consapevolezza che la loro arbitrarietà e la loro “rischiosità” gnoseologica ci consente di essere pronti a cambiarle (apre la strada al falsificazionismo per ammissione dello stesso Popper ) quando il “gioco”, (la realtà-mondo da conoscere) sia cambiato o i giocatori siano cambiati o gli stessi giocatori vogliano giocare con nuove più precise e più complesse regole. E ciò non implica la supposizione di un mondo senza regole e l’inutilità di formulare sistemi di regole. Certo è altrettanto evidente che non esistono le forme a priori definitive e universali di Kant: spazio e tempo assumono valore relativo al “gioco” che si sta giocando: il tempo misurato da qualcuno che si muove alla velocità della luce non è uguale a quello misurato da qualcun altro che rimanga fermo sulla terra. Egli respinge ogni definizione di “lunghezza” e di “intervallo temporale” che non sia suscettibile di controllo empirico, tuttavia le lunghezze e gli intervalli temporali non sono grandezze assolute perché dipendenti dall’osservatore che le misura, dipendono dalla sua velocità relativa al corpo su cui si vogliono fare delle misure. Spazio e tempo non sono più due concetti separati, l’uno dipende dall’altro in un continuo fatto da tre dimensioni spaziali e una temporale, e inoltre il tempo diventa relativo al sistema di riferimento.
La “relatività” di Einstein non ha nulla a che fare con il “relativismo” filosofico o con lo scetticismo: è vero che l’aspirazione all’”assoluto”gnoseologico non implica che sia raggiungibile, ma la consapevolezza della irraggiungibilità non deve distogliere dalla ricerca scientifica, che procede secondo modelli interpretativi(sistemi di concetti, gruppo di regole, o selezione di possibilità come in Heisenberg) sempre pronta a modificarli, cambiarli, specificarli secondo la variabilità interpretativa con cui si pone il soggetto verso l’oggetto (aspetto che accomuna sostanzialmente Einstein alla fisica quantistica), ma pure secondo la varietà e l’imprevedibilità con cui si presenta l’oggetto al soggetto. Aspetto quest’ultimo più consono all’epistemologia quantistica che a quella einsteiniana, infatti, secondo Einstein, la varietà della realtà non significa caos, ma semplicità e ordine quasi di stampo neopitagorico: “Senza la convinzione – sottolinea Einstein - che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza. Questa convinzione è, e sempre sarà, il motivo essenziale della ricerca scientifica. In tutti i nostri sforzi, in ogni drammatico contrasto fra vecchie e nuove interpretazioni riconosciamo l’eterno anelo d’intendere, nonché l’irremovibile convinzione nell’armonia del nostro mondo, convinzione ognor più rafforzata dai crescenti ostacoli che si oppongono alla comprensione” . La concezione della natura di Einstein è, quindi, realistica, in quanto considera la natura un insieme di leggi ordinate, omogenee e invarianti indipendenti dall’osservatore, mentre lo sono lo spazio e il tempo dei fenomeni relativi al moto in cui si trova un determinato osservatore, per cui spazio e tempo sono  le variabili di ogni sistema di riferimento ma non la natura. Bisogna quindi scoprire le leggi della natura, anzi per E. un’unica legge che governa la realtà e un’unica legge di lettura di tutta la realtà nella sua oggettività (aspirazione metafisico-positivistica che diventerà il cruccio epistemologico irrisolto della ricerca e di tutta la vita di Einstein): “Io credo – afferma Einstein – che tutto obbedisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che cerco di cogliere per via furiosamente speculativa. Lo credo fermamente, ma spero che qualcuno scopra una strada più realistica di quanto non abbia saputo fare io. Nemmeno il grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi che alla base di tutto vi sia la casualità” . Per cui la relatività di Einstein rimane una teoria deterministica ed Einstein è, per certi aspetti e quasi paradossalmente, uno degli ultimi metafisici del determinismo: “Tutto è determinato[…] da forze sulle quali non abbiamo controllo alcuno. Ciò vale per l’insetto come per le stelle. Uomini, vegetali e polvere cosmica: tutti danziamo alla melodia di una musica misteriosa, suonata in lontananza da un Pifferaio invisibile”. E ciò contro la presunta incompletezza, la probabilità e il procedere statistico della fisica quantistica: “Io sono fermamente convinto – asserisce Einstein – che il carattere essenzialmente statistico della teoria quantistica contemporanea dev’essere attribuito unicamente al fatto che essa opera con una descrizione incompleta dei sistemi fisici. A me sembra più naturale pensare che una formulazione adeguata delle leggi dell’universo comporti l’uso di tutti gli elementi concettuali necessari per una descrizione completa. Inoltre, non può certo meravigliare che, usando una descrizione incompleta, da questa descrizione si possano ottenere (essenzialmente) solo affermazioni di carattere statistico. Se dovesse essere possibile avvicinarsi ad una descrizione completa, le leggi dovrebbero probabilmente rappresentare altrettante relazioni fra tutti gli elementi concettuali di questa descrizione, le quali non avrebbero in sé nulla a che fare con la statistica” . In tale contesto epistemologico si inserisce, allora, anche la specifica critica, di natura metafisica,  di Einstein ad Heisenberg ed in generale alla epistemologia della fisica quantistica: in una lettera a  Max Born conferma di considerare “degna di rispetto” la meccanica quantistica, “ma una voce interiore mi dice che non è la chiave del mistero. La teoria dà grandi frutti, ma non ci avvicina di sicuro ai segreti del Grande Vecchio. In ogni caso sono convinto che Dio non giochi a dadi col mondo” e “Se proprio ci sono costretto posso anche immaginarmi che Dio abbia creato un mondo privo di leggi fisiche rigorose: il caos, insomma. Ma che ci siano leggi statistiche con delle soluzioni determinate, cioè leggi che costringano Dio a lanciare i dadi in ogni singola occasione, questo lo trovo molto sgradevole”.

4 - Conclusioni
La natura è in qualche modo intelligibile, forse senza tale convinzione la scienza non sarebbe possibile, è tuttavia ingenuo voler ritenere che la conoscenza scientifica possa avere un valore in qualche modo esaustivo anche in ambiti limitati. Essa procede per modelli che ci permettono di cogliere qualcosa di reale e di profondo della realtà in cui viviamo e i modelli possono essere resi sempre più gnoseologicamente adeguati rispetto ai nuovi orizzonti che la realtà incessantemente e inusitatamente ci pone di fronte, ma sono appunto modelli ermeneutica e non possono pretendere di raggiungere una conoscenza esauriente che, tra l’altro, potrà anche dirsi definita ma non definitiva.
Per cui la scienza quindi è certezza, ma parziale: la scelta di un punto di vista equivale a scegliere una particolare misura da fare con un apparato, e questo ci dà sempre misure affidabili. Ciò non toglie che la realtà possa essere molto più ricca del singolo punto di vista sia perché l’oggetto è a molte facce ( e un evento può essere letto da versanti diversi già in ambito scientifico, ma, accanto ad una lettura scientifica ci può essere una lettura metafisica, esistenziale, estetica…), sia perché l’oggetto può essere celato in un contesto variabile, la cui variabilità molto a che fare con ciò che è il soggetto e la sua visione della vita, ma: “Se ogni oggetto è così ricco di punti di vista, per caso esso non è una nostra rappresentazione, una nostra costruzione che varia a seconda della misura scelta (cioè della teoria a cui lo assoggettiamo)? […] La migliore risposta mi sembra quella di un biologo evoluzionista: la scimmia che non ha percezione obiettiva di dov’è il ramo dell’albero non lascia eredità genetica, perché sbaglia la presa e si spiaccica al suolo. Allo stesso modo, un essere umano che ritenesse il mondo una propria costruzione, non lascia eredi perché nell’attraversare la strada non valuta aspetti obiettivi come la velocità e la posizione dell’auto. E con questa affermazione di realismo della scienza credo di poter concludere, facendo miei i seguenti versi di T.S.Eliot (Choruses from The Rock):
Where is the wisdom
We have lost in knowlwdge?
Where is the knowledge
We have lost in information?”.
Perciò la realtà che l’uomo incontra come dato gli si presenta di una ricchezza misteriosamente inesauribile (Einstein), che richiede metodi di affronto diversi per evitare pericolosi riduzionismi(Heisenberg). Alla pluralità di aspetti che la realtà naturale presenta possono essere applicate forme diverse di conoscenza per conseguire risultati “veri”, non in modo assoluto, ma relativamente (Planck) appunto a quegli aspetti particolari, rilevati da ogni specifica disciplina, perché : “I limiti di un discorso scientifico non significano che non c’è niente altro da dire, ma che accanto ad un discorso fisico si può collocare legittimamente un discorso metafisico o un discorso sapienziale […] in quanto un evento è sempre più ricco dei simboli concettuali entro cui si tenta di imprigionarlo: c’è posto per diversi modi di lettura perché approcci diversi usano strumenti diversi” . “Ecco perché – rileva Agazzi – le leggi fisiche sono sempre solo ‘approssimativamente vere’ in natura: ciò significa semplicemente che esse sono ‘rigorosamente vere’ soltanto in quel determinato modello ideale che si è costruito ritagliando e diffalcando il concreto nel modo che si è detto, ma ogni situazione concreta è sempre più o meno diversa da quella idealizzazione” , anche perché: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia, Orazio”(W. Shakespeare, Amleto 1, scena 5).


M .PLANCK, La conoscenza del mondo fisico, tr. it., Boringhieri, Torino 1964, p. 172.

Ibidem, p.174.

W. HEISENBERG, Discussione sulla fisica moderna, tr. it., Einaudi, Torino 1959, p. 142.

W. HEISENBERG, Natura e fisica moderna, tr. It., Garzanti, Milano 1985, pp. 54-55.

A. EINSTEIN, Pensieri degli anni difficili, tr. it., Boringhieri, Torino 1974, p.52.

Ibidem, pp.37-38.

K. POPPER, La ricerca non ha fine(Autobiografia intellettuale), tr. it., Armando Editore, Roma 2002, p.51.

EINSTEIN-INFELD, L’evoluzione della fisica, Boringhieri, Torino 1965, p.300.

A.  EINSTEIN, Lettere a Max Born del 4 dicembre 1926, in: A. EINSTEIN-M. BORN, Scienza e vita. Lettere 1916-1955, Einaudi, Torino 1973.

Da una dichiarazione di Einstein al “Saturday Evening Post” del 24 ottobre 1929. Cfr. R.W.Clark, Einstein, Rizzoli, Milano 1976.

Einstein, scienziato e filosofo (a cura di P.A.Schlipp), Einaudi, Torino 1958, p.62.

Ibidem, p.62.

Affermazione rivolta a J.Franck. Cfr. A.P.French (a cura di), Einstein: A Centenary Volume, Harvard University Press, 1979, p. 37.
Pare che Niels Bohr (il principale esponente della scuola di Copenaghen),  una figura particolarmente apprezzata da Einstein,  replicasse con tono irritato: “Lei deve smetterla di dettare a Dio quello che deve fare”

Dov’è la saggezza / che abbiamo perso nella conoscenza? / Dov’è la conoscenza / che abbiamo perso nell’informazione? F.T.ARECCHI, La descrizione scientifica: modello o metafora del reale?, Nuova Secondaria, 15 febbraio 1992, 6.

F.T.ARECCHI-I.ARECCHI, I simboli e la realtà, Jaca Book, Milano 1990, p. 34.

E.AGAZZI, Lo statuto epistemologico delle scienze sperimentali, Nuova Secondaria, 15 febbraio 1989, 6.

Fonte: http://www.giuseppeveronese.it/public/Appunti%20crisi%20del%20sapere%20scientifico.doc

Sito web da visitare: http://www.giuseppeveronese.it

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