Autostima, Obbiettivi e Risultati

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Ragioni e Condizioni

 

R.Martens nella sua “Coaches guide to sport psychology scrive: “Gli allenatori si dovrebbero chiedere come motivare gli atleti e capire perché gli atleti sono motivati”.

La psicologia ci ha da tempo spiegato che esistono due tipi di motivazioni individuali: la motivazione intrinseca, che ha uno stimolo interiore per il raggiungimento degli obiettivi e per il miglioramento, e la motivazione estrinseca, che trova le sue ragioni nell’esterno.

In buona sostanza la motivazione intrinseca non ha bisogno di rinforzi esterni e trova sempre forme di appagamento diretto (intrinsic reward) degli sforzi compiuti, a differenza della motivazione estrinseca che abbisogna di stimoli (positivi o negativi che siano) provenienti dall’esterno e che possono rappresentare solo forme mediate di appagamento (extrinisc reward).

E’ dimostrato che l’appagamento estrinseco ha una durata decisamente minore di quello intrinseco.

Ovviamente è possibile che uno stesso atleta sia mosso da entrambi i tipi di motivazione, pur assegnando con criteri squisitamente individuali più o meno importanza all’un tipo o all’altro, e gradendo di conseguenza più o meno gli appagamenti mediati.

Una importante capacità quindi dell’allenatore è rappresentata dall’attitudine al riconoscimento del tipo di motivazione che muove il singolo atleta.

Ma la motivazione individuale non esaurisce le ragioni della pratica sportiva collettiva, e probabilmente, vista la generalmente forte strutturazione raggiunta dalla pratica sportiva, non riesce nemmeno più a tener in conto delle ragioni della pratica individuale in contesti dalla forte identità collettiva.

Dunque la motivazione di gruppo è un parametro psicosociale altrettanto importante nella definizione della tipologia di coinvolgimento dei propri atleti.

Normalmente la motivazione di gruppo viene associata al concetto di coesione di gruppo.

Cratty B.J descrive i comportamenti e le prestazioni di un gruppo come da fig.

 

 

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Per self-efficay si intende la valutazione che dà un individuo circa le proprie possibilità di disporre delle capacità cognitive, motivazionali e comportamentali necessarie per eseguire con successo un dato compito in un dato contesto.

Prima di scegliere ed iniziare il proprio sforzo le persone soppesano, valutano ed integrano tutte le informazioni di cui dispongono circa le proprie capacità.

Le personali aspettative in termini di efficacia determinano se il compito sarà espletato, con quale sforzo e per quanto tempo quello sforzo sarà sostenuto.

 

Solitamente chi percepisce un basso livello di self-efficacy tende a fallire il compito o a cessare lo sforzo prematuramente.

La Self-Efficacy ha due dimensioni:

  1. La magnitudine; che si riferisce al livello di difficoltà del task che una persona ritiene d’essere capace di eseguire;
  2. Lo sforzo; che determina se la convinzione del giudizio sulla magnitudine del task è forte (nel qual caso gli sforzi saranno perseveranti anche a dispetto di esperienze negative) o debole.

 

Lavorare sulla self-efficacy delle persone permette di:

chiarire le proprie convinzioni circa le possibilità di successo;
affinare il giudizio sulle proprie possibilità;
integrare le informazioni circa la performance;
riconoscere più chiaramente le capacità e abilità che ancora occorre acquisire;
riconoscere se il task è pienamente controllabile o meno.

Occorre peraltro ricordare che:
le esperienze pregresse influenzano le convinzioni di self-efficacy;
la self-efficacy si forma sulla base della percezione soggettiva della realtà più che sulle proprietà oggettive della realtà.

Gli individui con un alto livello di Self-efficacy attivano le risorse cognitive adeguate, lo sforzo sufficiente ed i comportamenti appropriati che, se correttamente eseguiti, producono il successo nel task.

Coloro che percepiscono un basso livello di Self-efficacy sono più portati a non provarci, se ci provano chiudono il tentativo prematuramente , falliscono il compito e rinforzano così aspettative auto-debilitanti circa la propria personale competenza.

La percezione del sé, come tende a dimostrare un recentissimo lavoro di Amorose A. J., non va solo considerata come funzione  delle attività ma  anche come variabile indipendente, le cui fluttuazioni  influenzano le motivazioni dei soggetti, creandosi così una sorta di loop. La variabilità intraindividuale è insomma un indice importante di autopercezione.

Ovviamente l’età, combinata con il grado di autostima, cambiando modifica sia gli obbiettivi personali che le ragioni di conseguimento di quegli obbiettivi che la valutazione sull’efficacia delle specifiche attività ed esercizi in riferimento agli obbiettivi stessi

Gli atleti dispongono tendenzialmente di un’immagine del proprio corpo migliore rispetto ai non-atleti, e questo vale per entrambi i sessi, per pressoché tutti gli sport, per tutte le età e indipendentemente dal peso dell’individuo

Non è possibile peraltro assicurare ricadute positive nei soggetti partecipanti le attività in termini di miglioramento della percezione del proprio sé fisico o dell’immagine del corpo, come è stato dimostrato in una ricerca sugli effetti di otto settimane di attività aerobica.

Possono peraltro bastare dieci minuti di attività per migliorare il proprio senso di efficacia (specificatamente all’esercizio praticato) e migliorare la predisposizione (in termini emotivi) nei confronti di quella stessa attività.

I lavori relativi a self-efficacy e attività fisica nel complesso tendono a dimostrare che se da un lato per modificare in modo stabile e significativamente positivo la percezione complessiva del sé e del sè fisico in generale occorre continuità e tempi lunghi, per ottenere effetti specifici rispetto ad un certo esercizio o tipo di attività bastano pochi minuti.

L’autostima funziona anche da mediatore negativo. E’ stato infatti dimostrato che un basso livello di autostima induce una sorta di self-handicapping, cioè una particolare predisposizione a percepire più impedimenti alla prestazione del normale.

Per  selfefficay si intende la convinzione della persona circa la fattibilità di un compito o di un insieme di essi, e può dunque essere più o meno generale.

La self efficacy percepita influenza le scelte delle attività, gli sforzi profusi nelle stesse, la persistenza nello sforzo e gli stessi risultati raggiunti.

Ognuno inizia una nuova attività con un certo grado di percezione della propria efficacia nell’attività stessa, e tale livello dipende da molti fattori, ma in particolare dallo stile cognitivo del soggetto, dalle sue esperienze pregresse e dal supporto e contesto sociale.

L’autoefficacia non è una percezione statica, non è una fotografia ad uno stato, bensì una misura in costante divenire. Nello sviluppo dell’attività infatti, il soggetto acquisisce un vasto e differenziato corpo di informazioni circa ciò che fa e l’aderenza di ciò che fa con il compito e gli obbiettivi. Queste informazioni influenzano ovviamente la convinzione del soggetto stesso circa la possibilità di centrare il compito, cioè la sua autoefficacia. Si realizza in altre parole nell’autopercezione una sorta di continuo apprendimento in relazione alla performance, ed essendo che la modifica della performance è gioco forza linkata al grado di apprendimento, si coglierà che autopercezione e apprendimento nello sviluppo di un task sono strettamente in relazione. Ancora una volta cioè riflettiamo sulla natura dinamica della relazione percezione-prestazione-apprendimento. E’ inoltre dimostrato che l’autopercezione può aiutare nella comprensione delle motivazioni.

L’autoefficacia appare significativamente correlata con l’intensità della partecipazione alle attività fisiche, ma non con la frequenza alle stesse.

Molti sono i questionari e le scale proposte per la misura della self-esteem e self-efficacy.

Circa la dimensione fisica dell’autostima Sonstroem e Morgan hanno proposto nel 1989 un Exercise and Self-Esteem Model.

Secondo la definizione di Bandura “la self-efficacy è la capacità del singolo di organizzare ed eseguire l’insieme delle azione richieste per gestire le situazioni previste”(bandura, 1986)

Sempre secondo Bandura l’autoefficacia influenza le scelte che facciamo, lo sforzo che impieghiamo in esse. Un certo grado di autoefficacia persiste fino a quando non ci si confronta con nuovi ostacoli o a fronte di un fallimento.

L’autoefficacia è come ci si sente in relazione ad un contesto.

Self-efficay e self-concept non sono esattamente la stessa cosa, essendo che la self-efficacy è positivamente orientata, cioè si confronta con la possibilità del successo, mentre il self-concept è una descrizione libera da riferimenti a obbiettivi.

La funzione dello sport è percepita in modo assolutamente diverso in funzione di molto fattori. In uno studio tra studenti americani si è notato che variava in relazione al sesso, al grado di coinvolgimento nelle attività sportive stesse. Le ragazze intervistate che praticavano attività fisica ricreativa ad esempio ritenevano che lo sport dovesse servire a migliorare la propria capacità di compiere esercizi, la cooperazione tra compagni, a fornire un solido supporto ad abitudini e stili di vita sani ed a promuovere valori positivi nella società. I maschi invece consideravano lo sport come importante occasione professionale e di scalata sociale.

 

Fonte: http://www.dsnm.univr.it/documenti/OccorrenzaIns/matdid/matdid012324.doc

Sito web da visitare: http://www.dsnm.univr.it

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